Ferenczi, Sàndor |
S. Ferenczi (1873-1933) nacque a Miskolc, in Ungheria, ottavo di dodici figli. Il padre, B. Fraenkel, originario della Galizia (magiarizzato in Ferenczi), immigrato dopo aver preso parte nel 1848 all'insurrezione contro il dominio austriaco, diverrà proprietario di una libreria-tipografia, nota per le sue pubblicazioni e manifestazioni d'avanguardia. Un'attività che, alla sua precoce morte, verrà estesa dalla moglie Roza Eibenschütz, donna forte ma dura. Ferenczi crebbe quindi in un'atmosfera agiata e culturalmente stimolante, ma gli mancò, in quanto orfano di padre e figlio di una madre difficile, l'ascolto che avrebbe voluto-dovuto ricevere, tanto che occupò in famiglia, in specie nei confronti della madre, quella posizione di wise baby da lui descritta a proposito dei bambini non ben accolti e trascurati, evidenziandone l'esito di immaturità affettiva dietro la facciata di rapido sviluppo intellettivo accompagnata dalla tendenza a prendersi cura degli altri e dei loro problemi. E, questo, il fatto esistenziale alla base della sua vivacità di liceale «autodidatta» e della sua vocazione medica, volta sin dall'inizio ad aiutare i pazienti più svantaggiati e a denunciare le insufficienze nella gestione della malattia. Medico neurologo, laureatosi a Vienna nel 1894, Ferenczi come scrittore esordi in ambito psicoanalitico solo nel 1908, anno in cui conobbe S. Freud grazie alla sua curiosità per gli esperimenti associativi di C. G. Jung. Ciononostante, gli articoli giovanili, sorti dal suo impegno di psichiatra con i diseredati (prostitute, omosessuali, poveri) e dalla sua appartenenza all'elite scientifico-letteraria di Budapest (l'amicizia con il medico «illuminato» M. Schächter fu per lui palestra di carattere), ben preannunciano i temi e lo spirito della sua futura esplorazione, attenta al dialogo fra gli inconsci e a ciò che si trasfonde, per via ipnotica, al di là delle parole (Ferenczi è un pragmatico ante litteram della comunicazione umana), all'aspetto turbolento-catastrofico implicito nelle relazioni d'amore, al rispetto del soggetto e del suo dolore che soltanto il paziente può dischiudere a partire dalle proprie vicissitudini esistenziali, giacché è a lui, prima che al proprio sapere e potere specialistici, che ci si deve rivolgere per curarlo. Un taglio discorsivo, quello della produzione preanalitica, che si paleserà vieppiù nel suo ulteriore lavoro terapeutico teso a combattere gli aspetti di sfruttamento, omissione di soccorso e pedagogia nera in esso subdolamente intrinseci, e a ricercare ritmi e tempi dell'incontro clinico adeguati ai bisogni del paziente al fine di evitare quel che genera dolore addizionale all'interno della cura. Fungono da biglietto di visita di questi orizzonti di valore, teorici e tecnici, indirizzati sin dapprincipio sui dettagli dell'hic et nunc per visualizzare le radici interpsichiche del disagio mentale, due dei suoi primi scritti psicoanalitici. Nel primo, sull'eiaculazione precoce (Ferenczi, 1908), stella polare della sua ricerca, il problema non lo interessa di per sé, in quanto sintomo (come avveniva nella letteratura del tempo), ma per quello che metacomunicativamente induce nella partner a livello emozionale e somatico. Nel secondo, di pochi anni posteriore (Ferenczi, 1912b), egli sostiene che i sintomi che transitoriamente compaiono in seduta - l'alterazione della respirazione o del tono della voce, un improvviso impulso a urinare o defecare, una sensazione di vertigine o di freddo durante o dopo la seduta, il mal di pancia e il mal di stomaco, un sapore amaro in bocca, la sonnolenza, un repentino cambiamento percettivo e così via - se letti come risposta affettiva inconscia, spesso corporea, all'azione dell'analista (sia, questa, interpretazione, gesto o silenzio) manifesterebbero al suo ascolto l'origine in miniatura della patologia del paziente. Per il Ferenczi degli inizi, dunque, per comprendere l'instaurarsi del disturbo psichico si dovrebbe preliminarmente osservare la ricaduta sull'altro del profondo atteggiamento relazionale veicolato dal proprio comportamento verbale/ non verbale, poiché i sintomi sono freudianamente via regia all'inconscio solo se l'analista valorizza, nello studiarli, la congiuntura intersoggettiva entro cui si formano e scompaiono, o per improntitudine e sofferenza trasmesse non consapevolmente, o per solerte accoglimento e riconoscimento della domanda libidica e dei segnali di piacere e dispiacere che punteggiano lo scambio dialogico. Uno stile analitico, quello adombrato dai primi scritti, che va apprezzato alla luce di altri due contributi di quegli anni, parimenti innovativi, l'uno sul processo di introiezione e l'altro sullo sviluppo dell'esame dì realtà (temi su cui ritornerà). Due saggi, Introiezione e transfert del 1909 e Fasi evolutive del senso di realtà del 1913 che, se dal punto di vista metapsicologico correggono il tiro di Freud rispetto alla costituzione dell'apparato psichico, indicando il ruolo primario degli adulti nella costruzione del Sé, da quello operativo segnalano l'enorme bramosia di oggetti e affetti nel bambino e nel paziente, la loro estrema sensibilità verso gli stati d'animo sovente dissociati e rimossi dei loro interlocutori e, in ultima istanza, mostrano quanta responsabilità occorra all'analista per convocare il soggetto là dove si trova con modi d'essere e di relazionarsi introiettivi-contenitivi e non eiaculativi-proiettivi. Quest'ultimo suggerimento, ribadito nella rivisitazione del materiale clinico proposto in Il sogno del pessario (1915), vagliato insieme alle lettere di quel periodo, delinea nel dettaglio i movimenti transferali infantili reattivi a un analista renitente a farsi carico di una pressante richiesta di soccorso (leggasi Freud) e, per più versi, interferente e occlusivo. Una finzione letteraria che in quegli stessi anni, fra il 1914 e il 1916, si va facendo realtà nelle sue tre brevissime tranche di analisi personale: esperienze insoddisfacenti, visto che Freud, per il timore di un'eccessiva regressione e per il desiderio che egli si comportasse da figlio grande e non da bambino, non capirà il suo cospicuo bisogno affettivo, giungendo a interferire nel suo conflitto amoroso fra la collega Gizella, più vecchia di otto anni, ch'egli otterrà alla fine che Ferenczi sposi, e la figlia di lei Elma, che invece osteggerà perché fonte di instabilità per l'allievo, senza così curarsi del suo progetto di paternità (si radica qui il risentimento verso il mentore-amico). Ferenczi divenne così progressivamente l’«analista dei casi difficili»: per non aver adattato i pazienti al setting psicoanalitico classico ma, all'opposto, cercato la strategia terapeutica più consona alle loro singolari difficoltà, attivandone la vigile partecipazione nella trasformazione proficua della loro sintomatologia. Questa finalità ostetrica (favorire la nascita psichica e convocare l'Io del paziente nella seduta) è per l'appunto l'intimo senso della sua passione tecnica che, se negli scritti sulla sperimentazione attiva intendeva verificare empiricamente sul campo i postulati teorici, in La tecnica psicoanalitica (1919) e in Entwicklungsziele der Psychoanalyse, redatto nel 1923 con O. Rank, domandava essenzialmente ai colleghi di rinunciare al narcisismo, anche concettuale, a favore degli esiti del trattamento, e di non attribuire tout court alle resistenze e alla coazione a ripetere le impasse della cura, non di rado causate da loro carenze e riserve emozionali nell'affrontare le inevitabili tensioni-frustrazioni connesse all'esplorazione di soluzioni di vita alternative. Ferenczi, in pratica, per rivivificare un processo analitico stagnante, si chiedeva con i pazienti assenti a se stessi (che non si vedono, non si sentono e non si rappresentano i propri sintomi) che cosa potesse rimobilitare una libido apparentemente scomparsa, e in tale ottica, allargando il raggio di osservazione per capire i fenomeni clinici intrapsichici e interpersonali operanti in quelle circostanze (raccomandava, soprattutto, più attenzione per gli elementi formali ed espressivi del comportamento dei pazienti e l'umore diffuso delle loro associazioni libere, in quanto specchio della relazione in atto e, talvolta, scaturiti da tratti controtransferali e personali dello psicoanalista), perveniva a introdurre varianti tecniche che consistevano nel suggerire - a seconda delle volte - o di abbandonare la soddisfazione libidica cripticamente realizzata (in condotte masturbatone o in tic e abitudini caratteriali), o di goderne liberamente, allo scopo di intercettare il tipo di pulsione rimossa e far affiorare così l'emozione e il conflitto transferali sottostanti, rendendoli analizzabili. Procedendo in tal modo, Ferenczi si rese conto tuttavia che le prescrizioni analitiche di fare / non fare qualcosa disturbavano l'emergere spontaneo del transfert, determinando non la rapida remissione della nevrosi ma la riattivazione delle costellazioni relazionali originarie che ne avrebbero presieduto la formazione; e che lo stesso accadeva se alle ingiunzioni prescrittive si sostituiva un clima di indulgenza o di assenza di consiglio e direzione (Ferenczi, 1926*?). Ne dedusse che non era questa la via terapeutica ottimale, e che si trattava piuttosto di aumentare la pazienza, il tatto, l'umiltà autoanalitica nel?assistere e bonificare la fisiologica (dal suo punto di vista) regressione del paziente, che comporta pur sempre intense reazioni emotive non rubricabili quali elementi del metodo o componenti dell'astinenza richiesta all'analista, giacché in verità possono celare crudeltà e sadismo, indifferenza e mancanza di sincerità, abbandono affettivo e abuso di autorità, come incomincerà a dichiarare in L'adattamento della famiglia al bambino (1927) e in L'elasticità della tecnica psicoanalitica (19286), esortando gli analisti a non dimenticare la propria infanzia e a sorvegliare i propri processi psichici a contatto con i pazienti, tanto più con quelli «difficili» (narcisistici, borderline, personalità «come se», ecc.). Considerato retrospettivamente, tutto questo suo ripensamento-revisione della tecnica in rapporto alla teoria - a cui vanno affiancati gli scritti sull'analisi infantile negli adulti e sulla ricreazione, negli scambi terapeutici, dì quell'atmosfera fiduciosa e giocosa che permette al cuore e alla lingua di sciogliersi (Ferenczi, 1929a; 1931), ma anche articoli anteriori, come la sua brillante messa in discussione della perentorietà di Rank nell'interpretare i sogni (Ferenczi, 1926b) - non può non mettere in risalto il suo essere stato, come Freud sottolineò a più riprese, un caposaldo della psicoanalisi. In netto contrasto con le critiche, durate più di mezzo secolo, che si sono prevalentemente soffermate sugli aspetti non ortodossi del suo procedere, senza inquadrarli nel globale percorso da lui attuato, egli ha di fatto anticipato l'odierno know-how sia perché ha posto in primo piano il transfert quale combinazione tra il fatto di rivivere il passato e il fatto di reagire agli stimoli dell'attualità; sia perché lo ha letto in termini di ripresentificazione, nella lunga onda delle sedute, dei prototipi relazionali infantili (per lui attinenti al legame con là madre), e di passo obbligato che, se vissuto e verbalizzato in quel diverso contesto ambientale che è l'analisi, può consentire di accedere con convinzione al ricordo degli eventi patogeni, motivo di sofferenze e conflitti, e promuovere un nuovo inizio; sia, infine, perché ha mostrato con lungimiranza le linee guida, con i rispettivi pericoli, di ciò che necessita al risanamento di un dolore mentale sperimentato, ma non sofferto, sia dal paziente che dallo psicoanalista. Ferenczi rilancia, in particolare, la portata del trauma nell'economia libidica del soggetto, quando Freud e la più parte dei suoi allievi l'hanno ormai abbandonato come concetto sostanziale. Questa riscoperta, epilogo dell'investigazione tecnica, è il filo rosso che congiunge sul piano teorico le sue antecedenti note cliniche sui bambini violati (basti per tutte il piccolo Arpàd che, beccato sul pene da un gallo, si fa lui stesso gallo identificandosi con l'aggressore: Ferenczi, 19136), sui nevrotici di guerra mortificati nell'amore di sé e nella dignità umana, sulle perturbazioni ambientali che la specie e l'individuo, nel progredire filoontogenetico, mirano a liquidare restaurando, almeno simbolicamente, un pregresso equilibrio adat-tativo. Il trauma, non più meramente sessuale, verrebbe così a includere ogni forma di deprivazione, cumulativa o improvvisa, dovuta a eccesso-difetto di sollecitudine circa la crescita dei bambini, ricoprendo in sintesi le operazioni di intrusione e di estrazione psichica che generano dissociazione, frammentazione e alienazione fondata sul rovesciamento dei ruoli (Borgogno, 1999). Traumatici - è questa la sua originalità (Ferenczi, 1920-32; 1932a e b) - non sarebbero tanto gli eventi iatrogeni nel loro ripetersi, quanto il diniego e il disconoscimento, da parte dei genitori, del loro essersi verificati, e il conseguente stato di abbandono psicologico e di solitudine in cui di solito versa il bambino che li ha subiti. Un trauma, quello ferencziano, assai più sfaccettato, dunque, di quello immaginato da Freud, che sorge non a partenza intrapsichica ma da un clima familiare e da una logica affettivo-cognitiva segnate da doppio legame e da confusione dì lingue. Quest'ultima, scambiando la tenerezza con la sessualità, imporrebbe al bambino - a scopi di sopravvivenza - il ripudio della propria natura infantile e l'inconscia identificazione nell'insensibilità, nella povertà emozionale, nella mistificazione dell'adulto, nonché nei suoi sentimenti passionali-incestuosi non governati, odio e senso di colpa rinnegato compresi. Ammalatosi di anemia perniciosa nel 1930-1931, Ferenczi si mantenne lucido sino alla morte: il veloce decadimento fisico non gli impedì infatti di proseguire con lena la ricerca sugli effetti catastrofici del trauma e sul funzionamento mentale dello psicoanalista a confronto con i margini dell'analizzabile (estremo rimedio fu, in tali frangenti, l'analisi reciproca con il paziente, a cui egli a tratti ricorse in assenza del sostegno dei colleghi). Contro le insinuazioni di E. Jones su un suo deterioramento mentale, oggi destituite di fondamento, Ferenczi continuò in realtà a contribuire con immutata immaginazione etica e onestà scientifica al futuro della psicoanalisi sceverando, anche perché toccatone da vicino, la fenomenologia del dolore non sopportabile e le possibilità di ricovero e rianimazione di una soggettività annichilita. L'area del ricovero e della rianimazione dal trauma fu coltivata in seguito dall'allievo M. Balint, che, oltre a inaugurare con la moglie Alice un modello di neonato non narcisista in amorosa interazione con la madre, ha ampliato la visione di Ferenczi di un trauma che deve riaccadere in analisi affinché si possa aprire un'effettiva via d'uscita tramite l'accoglimento della regressione egoica (da distinguersi da quella maligna) e la successiva simbolizzazione-ritrascrizione di eventi registrati ma mai prima pensati e resi pensabili. Una prospettiva, quella dell'amore primario e del difetto fondamentale (Balint, 1952; 1959; 1968), che con l'emigrazione dei Balint a Manchester ha diffuso i semi ideativi di Ferenczi in Inghilterra, irradiando in profondità le concezioni di D. Win-nicott e degli «indipendenti» britannici, già familiarizzati col suo pensiero attraverso J. Rickman, I. e J. Suttie. Si ricordi però che la stessa M. Klein fu paziente di Ferenczi e da lui spronata alla psicoanalisi dei bambini e ai legami precoci fra emozione, simbolo e pensiero, e che E. Bick ed E. Joseph, allieve a Manchester di Balint, prima che kleiniane, non possono non aver assorbito qualcosa dello stile osservativo ungherese nel loro studio dell'identificazione primitiva (la Bick scrisse sulle funzioni della pelle e sulle modalità adesive di rapporto, anticipate dalle intuizioni di Ferenczi sulla spinta ad aggrapparsi che I. Hermann, un altro suo discepolo, teorizzerà in quegli anni come istinto filiale, precorrendo J. Bowlby), e a proposito del dispiegarsi delle relazioni oggettuali nelle dinamiche di transfert-controtransfert (cavallo di battaglia della Joseph). È ormai luogo comune affermare che, se Freud ha scoperto la psicoanalisi, Ferenczi l'ha incarnata traghettandola dall'orizzonte epistemico di fine '800 a sensibilità e valori moderni e postmoderni: la teoria e la pratica psicoanalitiche non vengono più da lui incentrate sul gioco delle pulsioni e dei conflitti, ma sull'incidenza del contesto intersoggettivo passato e presente. Questa peculiarità dell'opera di Ferenczi - assegnare valore preminente all'intrecciarsi e al modificarsi dei fenomeni di transfert-controtransfert attribuendovi un carattere di mutualità per principio escluso da Freud - spiega peraltro quel movimento di opinione che lo riconosce oggi come autore tra i più significativi nella storia della psicoanalisi, per aver precorso molti sviluppi concettuali e tecnici operati dalle successive generazioni. Fra le direzioni investigative da lui inaugurate troviamo l'enfasi della dimensione clinico-terapeutica piuttosto che teorico-metapsicologica; la rilevanza delle qualità emotivo-cognitive dei caregivers più che della fantasia inconscia; il focus nella cura sugli elementi soggettivi e sulle capacità elaborative dell'analista anziché sulla psicopatologia del paziente; l'indispensabilità di immedesimazione-sintonizzazione accanto a introspezione-interpretazione; l'esperienza affettivo-relazionale e non l’insight-confronto verbale quale precipuo fattore mutativo. Ferenczi, dissimilmente da altri pionieri (Jung, Adler, Rank), non fu mai sentito da Freud come ribelle fuori dal solco ma come «alter ego complementare» che - non dando per acquisiti e owii diversi aspetti delle «realtà» appena indagate - li ha coraggiosamente reinterrogati (ne è prova la comunanza di scelte scientifiche, d'anima e di vita presente nella corrispondenza con Freud). Egli non ebbe mai intenzione, d'altronde, di fondare una scuola di pensiero, pur sostenendo l'importanza di essere se stessi nel concepire la psicoanalisi e nel portarne avanti lo spirito nobile del metodo. E pertanto improprio parlare di «scuola ungherese», a meno che non si voglia rimandare al fatto che Budapest con Vienna, Zurigo e Berlino fu nei primi decenni del '900 uno dei laboratori dell'esperienza psicoanalitica o, più in generale, riferirsi all'innovativo orientamento di interessi sorti attorno alla riflessione di Ferenczi: l'interesse per il rapporto bambino/madre e per la relativa immediata capacità del neonato di orientarsi alla realtà e al legame, se ben vicariato da una madre responsiva e, per traslato, quello per l'apporto percettivo-relazionale sano del paziente al processo analitico, se coadiuvato da un terapeuta autenticamente partecipe alle vicende che questi gli richiede di vivere per essere capito nella sua specificità. Ferenczi, infine, non va visto quale «esotico ungherese»: sebbene la sua apertura mentale rappresenti un indubbio simbolo di alterità interna alla psicoanalisi, egli non è - come del resto Freud - che un prototipo dell’intellighenzia ebraica cosmopolita dell'Europa orientale sotto l'Impero austroungarico. Per fare il punto sull'eredità di Ferenczi è utile tracciare una mappa dei luoghi e degli autori più conosciuti di questo orientamento, pur segnalando come le sue tesi siano un po' ovunque disseminate senza che gliene sia stata riconosciuta - se non, in alcuni casi, di recente - la paternità. Partendo dagli Stati Uniti, dove Ferenczi insegnò tra il 1926 e il 1927 (alla New School for Social Research e alla Society for Clinical Psychiatry di New York, alla Psychopathological Society di Washington e nei locali istituti psicoanalitici), sarà C. Thompson, inviatagli in analisi da H. Sullivan, a portarne in America, con I. de Forest, il taglio psicoanalitico imperniato sul controtransfert e sul ruolo dell'analista come persona reale. Ugualmente significativa è la funzione avuta da F. Fromm-Reichmann che, incontratolo alla clinica di G. Groddeck (con il quale Ferenczi condivise l'attenzione al corpo, alle emozioni infantili e alla madre), ne convogliò la tecnica terapeutica e gli assunti teorici a Chestnut Lodge, influenzando il pionieristico lavoro di H. Searles con schizofrenici e borderline. Si deve a questi personaggi chiave, a cui va aggiunto E. Fromm, altro suo paladino-difensore, l'averne introdotto le idee alla Washington School of Psychiatry, al William Alanson White Institute e all'American Academy of Psychoanalysis e, per questo tramite, nei contemporanei interpersonalisti, intersoggettivisti e relazionalisti. Se si rimane invece nell'ambito della psicologia dell'Io, emissari di Ferenczi furono - per la psicoanalisi infantile - M. Mahler, R. Spitz e Th. Benedek, con le loro ricerche sull'unità duale e sui danni del non amore, mentre nel campo medico-psichiatrico e della psicoterapia degli adulti sono stati suoi continuatori, accanto al Balint della psicoterapia focale e dell'addestramento psicologico individuale e in gruppo dei medici generici (Balint, 1957), F. Alexander e S. Rado (il primo per la medicina psicosomatica e per il concetto di esperienza emozionale correttiva; il secondo per la psicoterapia breve adattativa e per il riesame della procedura standard) e - sul versante più classico - S. Lorand, R. Bak, J. Gedo, P. Ornstein (collegamento tra Ferenczi, Balint e H. Kohut) e lo stesso D. Rapaport. Ritornando all'influenza di Ferenczi in Europa, fra gli inglesi vanno ancora ricordati P. Ffeimann e W. Bion, che, quantunque non abbiano avuto un legame diretto con lui, hanno tuttavia maturato problematiche simili: la Heimann (1942-80) assegnando al controtransfert e alla metapsicologia dei processi psichici dello psicoanalista uno statuto fondante, nonostante si fosse in precedenza distanziata dall'uso troppo idiomatico e audace che Ferenczi e M. Little (a lei coeva) facevano dei propri sentimenti verso i pazienti; Bion raggiungendo in Cogitations (1958-79) un livello di autocritica dei suoi pensieri-interventi interpretativi comparabile alle crude affermazioni di Ferenczi su se stesso-terapeuta, per non parlare della loro condivisa preoccupazione per i fenomeni primitivi dell'identificazione proiettiva. Diversamente dalla Gran Bretagna, dove la diffusione di Ferenczi fu ostacolata dall'ostracismo di Jones, la Francia -amandone l'anelito a inseguire al di là delle illusioni identificatorie la verità del soggetto - ha sin dal 1950 contribuito a reinserire Ferenczi e l'ottica ungherese nel maìmtream freudiano, sia commentandone gli scritti, sia dedicandosi (grazie all'impegno di J. Dupont) alla loro traduzione-documentazione, con la scoperta di vari inediti e la valorizzazione di talune espansioni teoriche come, per esempio, la trasmissione tra generazioni della vita psichica a opera di M. Torok e N. Abraham. In Italia sono stati G. Carloni e l'ungherese E. Molinari a curare e farne conoscere il pensiero prima che in altri paesi europei, mentre in Spagna -che Ferenczi visitò nel T928 - si deve a L. Martin Cabré il rinnovato interesse per la sua opera. Non vanno, in chiusura, dimenticati gli psicoanalisti che hanno ripreso la dimensione critico-sociale della ricerca di Ferenczi, precursore della scuola di Francoforte e del movimento di liberalizzazione dei manicomi: in primis l'I. Hollòs di I miei addii alla Casa Gialla (1927), successore di Ferenczi alla presidenza della società psicoanalitica di Budapest fondata nel 1913, ma altresì Th. Szàsz, leader dell'antipsichiatria, e A. Miller, ideale sua allieva per i pamphlet sulla violenza contro l'infanzia; e naturalmente l'antropologo G. Röheim (anch'egli come Ferenczi professore all'Università di Budapest nel 1919), famoso per aver elaborato psicoanaliticamente una teoria ontogenetica della cultura come risultato di traumi ed esperienze infantili, e - per finire - G. Devereux (1967) che ci ricorda, ferenczianamente, come ogni Edipo si radichi nell'alveo gruppale in cui cresce e come questo assunto di base valga per ogni conoscenza, per forza di cose legata sia alla personalità del ricercatore che l’humus culturale-affettivo da cui prende l'avvio. A ciò non sfuggono Ferenczi e la cosiddetta scuola ungherese, una delle molte psicoanalisi che discendono da Freud. FRANCO BORGOGNO |