Etnopsicoanalisi

Il confronto della psichiatria e della psicoanalisi con soggetti e fatti sociali di culture diverse da quelle europee (comportamenti individuali e collettivi, credenze e miti, riti, istituzioni, ecc.) ha generato un nuovo e composito ambito di ricerca. G. Devereux, considerato il fondatore della disciplina, usava il termine «etnopsicoanalisi» come sinonimo di «etnopsichiatria», termini che anche T. Nathan, il suo allievo più noto, ha mantenuto, ma che hanno contribuito a creare una certa ambiguità nella definizione del campo di ricerca. M. R. Moro (2003) ritiene che il termine etnopsicoanalisi fornisca un'idea chiara degli elementi originari che hanno portato alla sua invenzione, mentre quello di etnopsichiatria permette di prospettare l'apertura su altri campi della psichiatria, come la farmacoterapia o altre psicoterapie non psicoanalitiche. Una distinzione va comunque fatta, per quanto non da tutti condivisa, con la psichiatria transculturale, affermatasi maggiormente nel mondo anglosassone: una «psichiatria culturalmente illuminata», ma pur sempre una psichiatria, che ha l'intento di rendere esportabili e applicabili approcci clinici presso popolazioni le cui tradizioni non predispongono favorevolmente verso le nostre pratiche terapeutiche. Una psichiatria, dunque, di marca occidentale, non scevra di implicazioni neocolonialistiche, timorosa di mettersi in discussione e che rischia di limitarsi a tradurre i comportamenti, le parole e i sintomi dei pazienti (allogeni e autoctoni) «nei propri irrinunciabili codici nosografia» (Inglese, 2002). Una certa indeterminatezza terminologica deriva comunque dalla condizione in evoluzione teorico-applicativa dell'etnopsicoanalisi/etnopsichiatria, «ancora attestata nella fase matriciale e creativa della ricerca» (Inglese, 2005). L'uso a volte ha riservato il termine di etnopsicoanalisi alla teoria e alla metodologia e il termine di etnopsichiatria alle osservazioni sia etnologiche sia cliniche. Talvolta si parla di etnopsicoterapia, termine più conforme alla realtà operativa di questa pratica. Moro la concepisce decisamente come una psicoterapia a orientamento psicoanalitico.

Disciplina conflittuale e contrastata, l'etnopsicoanalisi si confronta con le scienze che costituiscono le sue «frontiere naturali», la psicoanalisi e l'antropologia, spesso tra di loro in rapporti di aperta polemica, di diffidenza reciproca, generatrici a volte di malintesi a volte di scambi fecondi. Sebbene tributaria di queste, l'etnopsicoanalisi si va configurando come disciplina a sé stante, delimitando la vasta area di problemi suscitati da studi, osservazioni empiriche e ricerche sul campo, che hanno posto al centro del loro interesse la diversità etnica e culturale. Questo confronto ha richiesto l'elaborazione e lo sviluppo di una specifica attenzione metodologica: un'area di problemi da indagare e riformulare, dunque, più che una prassi nella quale si applicano tout court la teoria e la metodologia clinica della psicoanalisi.

Nell'etnopsichiatria ispirata alla psicoanalisi non si tratta quindi di ricercare la presenza di forme cliniche e quadri nosologia al di fuori della nostra cultura, facendo, ad esempio, bilanci su quanto è biologicamente determinato e quanto culturalmente dipendente. Questo tipo di ricerche «transculturali» furono iniziate da E. Kraepelin, che si trasferì a Giava nel 1904-905, con l'intento di verificare la consistenza «naturale» delle malattie mentali da lui individuate. Tuttavia nell'area etnopsicoanalitica ed etnopsichiatrica hanno finito per confluire contributi più che eterogenei: indagini psicopatologiche ed epidemiologiche su popolazioni di interesse etnologico, la ricerca dell'antropologia culturale e sociale sulle pratiche diagnostiche e terapeutiche indigene circa la malattia mentale, gli studi sul folklore, sulla psicologia dei gruppi e dei sottogruppi sociali in funzione della sofferenza psichica. Questo insieme di ricerche, che richiede il concorso convergente di più discipline e competenze specifiche, mostra che la psicoanalisi, come del resto anche l'antropologia culturale e la stessa psichiatria, possiedono una vocazione pluridisciplinare intrinseca, legata alla complessità della realtà umana indagata. Si deve inoltre considerare che una disciplina come la psicoanalisi, nata nella Vienna di fine '800, in una specifica temperie culturale locale ed europea, ha a sua volta conosciuto trasformazioni e interpretazioni legate non solo ai suoi sviluppi scientifici, ma anche alla sua esportazione in altri paesi europei e d'oltreoceano. Il carattere ibrido e complesso di questa materia è ben rispecchiato dalla personalità di alcuni dei suoi principali cultori. Va subito ricordata la figura atipica e isolata del primo grande antropologo culturale italiano con spiccati interessi verso la psicopatologia: E. De Martino. Le sue ricerche su fenomeni legati al mondo magico, il tarantismo, il pianto rituale, ecc. non riguardarono società geograficamente remote, ma la realtà contadina del nostro Mezzogiorno, vicina e tuttavia assai distante, negletta dalla cultura ufficiale e in genere dalla cultura egemone. De Martino coltivava un profondo interesse per la psicopatologia e la psicoanalisi, delle quali discusse le impostazioni metodologiche e i concetti, alla luce della sua esperienza sul campo. Egli si avvalse, in alcune sue ricerche, della collaborazione di un'equipe multidisciplinare composta da uno psichiatra, uno psicologo e un etnomusicologo. Costante e serrato fu anche il suo dialogo con le principali correnti del pensiero antropologico culturale tedesco, francese e anglosassone.

G. Róheim, di formazione filosofica, fu uno dei primi antropologi psicoanalisti. Nato a Budapest da una facoltosa famiglia di commercianti ebrei, divenne antropologo sul campo durante una spedizione in Australia e in più brevi soggiorni in Somalia e Arizona. Allievo di S. Ferenczi, in contrapposizione alle teorie culturaliste di R. Benedict e B. Malinowski ritenne che l'antropologia psicoanalitica dovesse andare oltre le interpretazioni culturaliste, per affermare la validità universale del simbolismo dell'inconscio e dell'interpretazione che la psicoanalisi di derivazione kleiniana ne dava. Egli era infatti orientato a sostenere la fondamentale unità psichica del genere umano. G. Devereux, ungherese di nascita ma dall'identità cosmopolita, fu personaggio complesso e poliedrico. Diventò romeno, parigino, statunitense e indoamericano. Ebreo convertito al cristianesimo, fu pianista, compositore e poeta, fisico, matematico, etnologo e antropologo, psichiatra, psicoanalista ed etnopsicoanalista, infine grecista. Vero maestro «che non fornisce risposte, ma instilla domande», «troppo freudiano per gli antropologi, troppo etnologo per gli psicoanalisti, troppo poco psichiatra per i clinici», come fu definito, Devereux fu segnato dal drammatico destino dei pensatori indipendenti. Esperto conoscitore dell'identità nomade, soggiornò a lungo presso i nativi americani Hopi e Mohave e quindi i Sedang-moï in Vietnam. In queste composite esperienze sta una prima chiave di comprensione del suo lavoro: come attraversare le culture esplorandole a fondo, costruendo un'identità personale sufficientemente forte «da essere in grado di giocare con le sue rappresentazioni formali senza perdersi» (Coppo, 2003). Devereux fece dell'interdisciplinarità un suo cavallo di battaglia, auspicando un'alleanza, una fecondazione reciproca tra psicoanalisi ed etnologia, pur lasciando a ciascuna la propria specificità. Il metodo complementarista da lui caldeggiato esige la coesistenza di diverse spiegazioni, ciascuna delle quali è quasi esaustiva all'interno del proprio quadro di riferimento, ma è estremamente parziale in uno diverso. L'etnopsicoanalisi non ha condotto, al momento, a un'organizzazione sistematica delle conoscenze acquisite. Del resto, un vero «sistema» non esiste al presente neppure per la psicoanalisi, caratterizzata da una molteplicità di orientamenti, rispetto ai quali è divenuta problematica l'individuazione di un terreno comune, condiviso con sicurezza dagli psicoanalisti stessi. L'etnopsicoanalisi ha contribuito, piuttosto, a raccogliere e coordinare una ingente mole di osservazioni e di elaborazioni comparative, e a sollevare una serie di questioni importanti o addirittura fondamentali per la psicoanalisi e la psichiatria, discipline costrette dal loro oggetto di indagine a ripensare i fondamenti da cui prendono le mosse: il concetto di cultura e quello di malattia mentale. Chi opera con intenzioni psicoterapeutiche all'interno della propria cultura, solidalmente al quadro sociale e istituzionale di cui fa parte, è tenuto a porsi questioni di metodo fondamentali, circa l'individuazione del suo oggetto, le forme di comprensione attivate nei suoi confronti e il come atteggiarsi verso di esso: aspetti che un impegno professionale ordinario rischia di occultare individuando false «evidenze» naturali, generate in realtà dal contesto esterno. Oltre a ciò, e in senso generale, il riferimento antropologico culturale è uno strumento indispensabile per comprendere che in questa realtà, nella quale le esperienze culturali sembrano appiattirsi sullo sfondo omogeneizzante delle stesse logiche di mercato, di consumo, di produzione materiale e simbolica, l'analisi delle culture svela le profonde differenze che caratterizzano la vita all'interno del «villaggio globale»: un teatro non di accordi, ma di divergenze, di interpretazioni diverse di quello che possono o devono essere la vita, la morale e la stessa idea di ciò che ci attende dopo la morte (Fabietti et al., 2002). Sin dai suoi esordi, la psicoanalisi manifestò un'attenzione scientifica sia per i processi che conducono alla costruzione della personalità individuale sia per i meccanismi ontogenetici e collettivi mediante i quali si genera la socialità e il dispositivo della cultura. Si è venuta così edificando gradualmente una vera antropologia psicoanalitica, fornita di strumenti concettuali, clinici e teorici propri, maturati nel contatto prolungato con i soggetti «devianti» che si sottoponevano alla cura analitica. Solo successivamente, un ristretto numero di autori si mise in contatto diretto con realtà culturali remote e eterologhe. La psicoanalisi, pur valorizzando sul piano esplicativo l'importanza dei bisogni umani, considerati entro un orizzonte biologico-naturalistico, è tuttavia da considerarsi per più ragioni anche una disciplina essenzialmente antropologica. Al punto che M. Foucault (1966) potè addirittura accomunare la psicoanalisi e l'etnologia, affini per il fatto di occupare una postazione osservativa privilegiata ed eccentrica rispetto alle altre scienze umane. Esse, trovandosi entrambe sul confine del rappresentabile, possono guardare sia nella direzione di ciò che circoscrive e definisce verso l'esterno i limiti della cultura, sia verso i saperi che si organizzano all'interno del regime della rappresentazione costruito e delimitato dalla cultura stessa. Alcuni punti salienti degli interessi della psicoanalisi incontrano in modo specifico gli interessi dell'antropologia culturale. 1) La psicoanalisi ha posto al centro della sua metodologia la relazione interumana. Il rapporto interumano è insieme l'oggetto e lo strumento delle sue indagini. Benché rivolta allo studio del funzionamento mentale individuale, Freud ha sempre pensato l'individuo nella relazione con l'altro e la collettività: la psicologia individuale è al tempo stesso, sin dall’inizio, psicologia sociale (Freud, 19210). È l'impotenza basale dell'essere umano alla nascita, la sua Hilflosigkeit, a vincolarlo all'altro essere umano (la madre, il soccorritore) e a determinare il legame funzionale e sociale indispensabile alla sopravvivenza del bambino.

2) Freud formula, in numerosi suoi scritti, ipotesi circa le origini della socialità umana e dei divieti sociali; circa le funzioni delle istituzioni sociali e del rito, o i rapporti fra repressione della vita pulsionale e civilizzazione. Sono da considerarsi opere più specificamente antropologico-culturali Totem e tabù (1912-13), Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921), L'avvenire di un'illusione (1927), Il disagio della civiltà (1929), Mosè e il monoteismo (1938). Ma anche alcuni scritti brevi, come Azioni ossessive e pratiche religiose (1907), sono espressione di un'attitudine comparativista, che istituisce nessi e analogie tra la manifestazione nevrotica più idiosincrasica e fenomeni appartenenti a una sfera culturale più ampia, con effetti di reciproca illuminazione.

3) Freud stesso ha paragonato la sua interpretazione dei sogni alla divinazione antica e all'interesse popolare per i sogni documentato dal folklore. Il nesso fra mito, storia e psicologia individuale fa del resto parte integrante della concezione psicoanalitica dello psichico, della sua metapsicologia.

4) Un confronto fra sintomo nevrotico e certe manifestazioni «selvagge» che gli corrispondono, l'opposizione fra pensiero magico e pensiero volto alla «realtà», fra processi primari e secondari presenti in tutti gli uomini, attestano l'operare di un'istanza «funzionale» e comparativa che abbiamo visto caratterizzare intrinsecamente anche l'antropologia culturale.

5) Ma è soprattutto la visione della socialità umana come sviluppo ed estensione di una socialità originaria costituita dalla coppia madre/bambino, nonché la concezione complessiva delle formazioni psichiche che ne deriva, ad aver aperto uno spazio illimitato alla ricerca psicologica e insieme alla conoscenza antropologica. La scoperta dei processi di interiorizzazione e di identificazione con i genitori, in quanto portatori di cultura provvisti di funzioni insieme biologiche e sociali per il bambino, è stata posta a fondamento della costituzione dell'Io e insieme della socialità. Dinamica psichica e dinamica culturale tendono in psicoanalisi a spiegarsi vicendevolmente. Occorrerebbe tuttavia distinguere, con Devereux (1973), la Cultura in sé, come acquisizione che fa parte del processo di umanizzazione universale (in virtù del quale «uno specimen immaturo di genus homo», il cucciolo d'uomo, diventa un essere umano) dall'appartenenza a culture particolari, che implica processi di etnizzazione.

6) La macchina teorico-clinica della psicoanalisi è congegnata in modo da ammettere transizioni dal biologico allo psicologico, dallo psicologico al sociale, consentendo il superamento, almeno sul piano della rappresentazione modellistica e della correlazione, degli steccati disciplinari di ciascuna scienza particolare, e permettendo infine quell'accostamento alla totalità dell'esperienza umana che l'antropologia ha sempre auspicato. Le spinte del desiderio e dei bisogni di base possono essere così individuate, come pure le strutture psichiche fondamentali che procedono dalle spinte pulsionali e dalle necessità organisrniche in funzione delle reali possibilità di appagamento attuabili in una realtà esterna che include la natura, ma anche la complessità della vita in società. Gli effetti della psicoanalisi sull'antropologia culturale non potevano che essere ingenti, ispirando variamente la ricerca di molti studiosi. Ma al tempo stesso la psicoanalisi ha anche suscitato numerose reazioni critiche, del massimo interesse, rivolte dall'antropologia culturale ai suoi aspetti più diversi. Esemplare da questo punto di vista il dibattito antropologico, in autori così differenti come B. Malinowski, C. Lévi-Strauss, M. Fortes e V. Propp, sull'universalità del complesso edipico e il suo effettivo significato antropologico. Interessante è anche la prosecuzione di questo dibattito in lavori più recenti come la ricerca dell'antropologo A. Johnson e dello psichiatra D. Price-Williams (1996) in cui vengono rintracciati miti edipici nelle leggende popolari e nei miti di svariate culture. Ricordiamo inoltre l'opera di G. Obeyesekere (1990), antropologo dello Sri Lanka, esponente di una nuova antropologia psicoanalitica, che descrive le caratteristiche dell'Edipo indiano sulla base della diversa struttura della famiglia in India. Non sono mancate del resto neppure le critiche rivolte dalla psicoanalisi all'annessione delle sue concezioni, operata dalla sociologia e dall'antropologia culturale, particolarmente da quell'indirizzo che va sotto il nome di «cultura e personalità» o culturalismo, sviluppatosi in America (da autori come A. Kardiner e M. Mead).

Molti altri psicoanalisti dopo Freud hanno dato contributi essenziali, talora solo indiretti, alla ricerca antropologica culturale. Si pensi solo all'interesse dei fenomeni transi-zionali scoperti da D. Winnicott (1953) nel bambino, e alla sua tesi che l'uomo costruisce la sua cultura, ogni cultura, in quell'area dell'illusione che deriva dalla cura materna e che concorre alla demarcazione fra sé e l'oggetto. Vi sono stati inoltre psicoanalisti che si sono votati specificatamente alla ricerca etnoantropologica: da Róheim a Devereux, a P. Parin e F. Morgenthaler, a E. e M. Ortiguez. Il loro lavoro è derivato direttamente dall'elaborazione antropologica e psicoanalitica di esperienze esotiche sul campo. Antropologia e psicoanalisi sono state indubbiamente arricchite da questa reciproca fecondazione, come dimostra per esempio l'opera di E. Erikson, di O. Mannoni e di altri. Questa ingente mole di studi ha notevolmente contribuito ad articolare l'etno-psicoanalisi con l'etnopsichiatria. L'incrocio tra visione etnoantropologica, esperienza psichiatrica e clinica psicoanalitica ha prodotto effetti notevoli su vaste aree della prassi psichiatrica occidentale e sulla psicopatologia. Basti qui nominare l'estensione del metodo analitico allo studio del piccolo gruppo e delle istituzioni psichiatriche, divenute oggetto di ricerca e di riflessione per chi vi lavora all'interno; oppure la possibilità di prendere le distanze dall'ottica oggettivante della psichiatria, per studiare le interazioni fra istituzione, personale curante e psicopatologia dei degenti, arricchendo così di una dimensione in profondità le osservazioni sociologiche su questi insiemi e le loro dinamiche culturali. Si prospetta infine un importante rinnovamento tematico della psicopatologia e delle valutazioni cliniche della psichiatria. Alla luce di un'«antropologia medica» in via di costruzione, sensibile anche all'esperienza etnopsichiatrica, i fenomeni clinici che la psichiatria vedeva d'abitudine in una prospettiva puramente mentalista o solo biologistica, e comunque tendenzialmente isolata dall'ambiente sociale, acquistano una significatività nuova. Temi emergenti da questo orientamento sono la trasmissione transgenerazionale delle patologie per una via culturale che mette in gioco il rapporto di parentela; una revisione della patologia che si manifesta in occasione degli eventi cruciali della vita, come nascita, puerperio, lutto; una riformulazione in una prospettiva antropologica dell'azione terapeutica e della sua efficacia.

Se all'inizio del '900 l'interesse transculturale della psichiatria muoveva da esigenze soprattutto teoriche, l'attuale rimescolamento culturale e razziale, divenuto un fenomeno planetario, rende questi temi indifferibili, sollevando difficoltà ed esigenze che non sono remote, ma si impongono allo sguardo del clinico «civilizzato» con sempre maggiore frequenza. Etnopsichiatria ed etnopsicoanalisi non dovrebbero essere soltanto una componente di quell'esigenza di formazione personale e culturale, che K. Jaspers auspicava per lo psicopatologo, ma dovrebbero incidere profondamente sulla posizione dello psichiatra nella sua cultura, sulla visione di ciò che osserva e valuta nei suoi giudizi e nelle sue prescrizioni, infine sul senso stesso del suo operato. H. Bhabha e G. Spivak, professori rispettivamente a Harvard e alla Columbia University, sono tra gli esponenti di maggior spicco della teoria postcoloniale, che raccoglie eterogenei contributi filosofici, letterari, storici, sociologici e antropologici intorno ad alcuni concetti chiave: la critica all'eurocentrismo, l'imprescindibilità dell'analisi delle dinamiche coloniali per la comprensione della postmodernità,un approccio storico e culturale globale e non eurocentrico, centrato sullo sguardo delle classi subalterne, rimaste, proprio in quanto tali, sempre silenziose, anziché su quello delle classi dominanti. Il loro pensiero è di derivazione marxista e poststrutturalista, ed è debitore di autori come Foucault, Derrida, Deleuze, Barthes, Lyotard; in particolare Bhabha ha subito l'influenza della teoria psicanalitica di J. Lacan. Altre fonti della critica postcoloniale sono: a) i cultural studies sviluppatisi in ambito anglosassone intorno al Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, istituito nel 1964, e poi diffusi in altre parti del mondo; b) gli studi culturali del subcontinente indiano, che hanno una tradizione autonoma risalente al 1963; elaborati in vari centri di ricerca, animano un vivace dibattito: il rapporto tra culture occidentali e non occidentali viene rimesso in tensione ribaltando gli Stereotipi del colonialismo. Negli anni '80 il collettivo Subaltern studies diventa una delle principali scuole di studi culturali, nota anche fuori dall'India. Il temine «subalterno», di derivazione gramsciana, viene inserito nel contesto del Sudest asiatico, dove i neocolonialisti si scontrano con i sostenitori delle classi subalterne che hanno favorito il processo di decolonizzazione.

Infine, l'etnopsicoanalisi ha fornito una prospettiva clinico-applicativa originale grazie al contributo di Nathan, psicologo e psicoanalista di origine egiziana. Profondo conoscitore dell'esperienza migratoria, Nathan ha fatto propria un'importante eredità teorica antropologica e psicologica, riplasmandola inventivamente per aprire lo spazio terapeutico a tutti i «saper fare» in cui si è imbattuto nell'incontro con altri mondi culturali. Nel Centro Devereux da lui istituito all'Università Parigi Vili, dedicato all'assistenza psicologica alle famiglie migranti, Nathan, rivoluzionando il setting psicoterapeutico classico, ha costruito uno strumento interattivo capace di innescare il processo terapeutico in modo teoricamente compatibile con il patrimonio culturale dei pazienti non occidentali. Nel suo dispositivo il terapeuta non è il singolo individuo, ma un collettivo di lavoro etnicamente eterogeneo, non limitato numericamente e poliglotta. Nathan ha intuito che la diversità culturale può essere interrogata solo partendo dalla pluralità e dall'eterogeneità strutturale del dispositivo destinato ad accogliere la domanda di guarigione. La sua proposta teorica prende le mosse da nuovi presupposti teorici che non squalificano le «psicopatologie» locali, valorizzando anzi i sottintesi teorici delle pratiche altre e le soluzioni che anch'esse possono fornire ai pazienti. L'etnopsichiatria/etnopsicoanalisi così intesa non è in alcun modo «nostalgia di sistemi tradizionali in via di sparizione»; è al contrario «una metodologia della modernità in atto di costruirsi una metodologia solidale con la pratica degli attori». È la presenza dei migranti tra noi che costringe la psicopatologia occidentale a modificarsi e a inventare nuovi dispositivi, senza la pretesa di detenere verità assolute, ma incoraggiando a percepire il mondo come molteplice, a non lasciarsi prendere dai miraggi di un'astratta universalità, a non cedere alle pressioni dei potenti (Nathan, 2001). Il suo pensiero, per la sua eterodossia e provocatorietà, ha suscitato spesso un vivace dibattito con punte di accesa polemica. Da quando ha lasciato la direzione del Centro Devereux e la Francia per altri paesi, i suoi insegnamenti sono stati portati avanti da altri in modo personale: tra questi ricordiamo F. Sironi e i suoi studi sulle vittime della tortura e M. R. Moro che dedica la sua attività al disagio delle famiglie e dei bambini immigrati. Moro sottolinea il merito di Nathan di aver riabilitato i sistemi di cura tradizionali e costretto gli psichiatri a pensare alla molteplicità, ma dissente sul fatto che egli abbia eluso la specificità della psicoanalisi senza cercare di rinnovarla e di tener conto della sua creatività intrinseca. Questi autori hanno fornito un fondamentale contributo anche all'etnopsichiatria italiana, contribuendo a quel fermento di idee, di sperimentazioni e di attività a cui stiamo partecipando nella realtà attuale non solo clinica, ma anche sociale e politica, del nostro paese.

VANNA BERLINCIONI PETRELLA