Etnopsichiatria

L'etnopsichiatria, in quanto area disciplinare, ha definito il proprio ambito specifico e la conseguente affermazione a partire dalla metà del XX secolo. Il termine raccoglie un insieme, variegato e composito, di settori di ricerca a cui corrisponde una diversificazione rilevante di orientamenti teorici e tecnici. Vari termini sono stati proposti (per es. psichiatria comparativa, transculturale, crossculturale, culturale, multiculturale e altri ancora), ognuno con uno specifico alone semantico, ma con una comune questione di fondo: occuparsi dell'incontro tra le discipline psicologico-psichiatriche occidentali e ciò che gli altri mondi, le altre culture fanno del disagio psichico (pratiche, saperi, terapie e terapeutiche).

Ciò si è verificato per una serie complessa di ragioni che si possono ricondurre al fatto di aver riconosciuto, da parte dei clinici, l'importanza e la peculiarità del ruolo svolto dalla cultura e dai suoi infiniti modi di declinarsi nella vita psichica degli individui. Iniziò E. Kraepelin andando a Giava, coniando l'espressione Vergleichende Psichiatrie (1904) e concludendo il suo lavoro con la previsione che la «psichiatria comparativa» poteva divenire una scienza che aiutasse lo «studio psicologico delle nazioni». Se al posto di «nazione» mettiamo «cultura», la previsione di Kraepelin si dimostra avverata, come, tra l'altro, l'attuale sviluppo dell'etnopsichiatria dell'Occidente dimostra, correlando, per esempio, depressione, disturbi dell'alimentazione, ansia, panico e disturbi della personalità alla personalità narcisistica, che sarebbe la norma nella postmodernità. A questo proposito Kraepelin non ha dubbi: a Giava le forme depressive sono rare, quasi assenti; e comunque prive del connotato che le accompagnava regolarmente nella sua Germania: il senso di peccato e di colpa. Dopo questa prima fondativa esperienza fu la volta dei medici militari che, al seguito degli eserciti coloniali, continuarono descrivendo le realtà che incontravano con ogni tipo di pregiudizi e attribuzioni di valore. Poi furono psichiatri e antropologi a dedicarsi all'incontro con l'altro in maniera nuova, considerandolo un'occasione utile per un ripensamento sulla disciplina psichiatrica e la cultura di appartenenza. Nel secondo dopoguerra, per esempio, H. Murphy, psichiatra di origini canadesi, si trovò a riflettere nei campi di prigionia presenti in Europa, sulla variabilità e la modalità di presentazione dei disturbi psichici in persone provenienti da diverse culture. Murphy ha lavorato in diversi contesti culturali, studiando l'andamento dei più importanti disturbi mentali, in particolare le schizofrenie e le psicosi affettive; nel corso della sua lunga e prolifica carriera di ricercatore ha collaborato e, poi diretto, la «Transcultural Psychiatry Research Review», che è diventata la più importante rivista di psichiatra transculturale. Oggi questa rivista, diretta dallo psichiatra L. Kirmayer, viene pubblicata con il nome di «Transcultural Psychiatry» sempre a cura della Divisione di psichiatria sociale e transculturale della McGill University di Montreal e raccoglie i contributi più aggiornati e scientificamente più avanzati della letteratura internazionale in tema di psichiatria transculturale. Il termine «etnopsichiatria» è stato utilizzato per la prima volta dallo psichiatra haitiano L. Mars e ripreso, subito dopo, da G. Devereux per descrivere quella specifica interazione in cui terapeuta e paziente non appartengono alla stessa cultura. In particolare Devereux, antropologo e psicoanalista ebreo di Transilvania, è certamente la personalità di studioso e ricercatore a cui è unanimamente ricondotta la paternità di quest'area disciplinare. Alla sua figura è legata una originale riflessione sulla metodologia, facilitata dalla sua pratica di ambiti disciplinari differenti (antropologico e psicoanalitico). Le sue proposte metodologiche, dopo qualche decennio, saranno utilizzate da un suo allievo, T. Nathan, per la realizzazione di concreti dispositivi di interazione clinica. Dopo queste prime vicende, la storia dell'etnopsichiatria è stata costellata di incontri e ricerche, oltre che di esperienze originali e foriere di nuovi approcci ai disagi e ai disturbi mentali. Vanno ricordati, tra gli altri, lo psichiatra francese H. Collomb e il nigeriano Th. Lambo. Collomb per primo, a Dakar, ha introdotto i guaritori nell'ospedale psichiatrico di Fann, da lui diretto: per la modernità e l'originalità di tale approccio, Fann diventò luogo privilegiato di incontro tra clinici e studiosi di varie nazionalità e discipline. Si costituì, in tal modo, un affiatato gruppo di lavoro, denominato «scuola di Dakar», dalla sede ove avveniva il lavoro clinico e di ricerca, cui partecipavano psichiatri, psicologi, psicoanalisti, antropologi, etnologi e altre figure che animarono la rivista «Psychopathologie Africane», che viene ancora oggi pubblicata e rappresenta un importante punto di riferimento internazionale per il dibattito sui temi dell'etnopsichiatria contemporanea. L'esperienza della scuola di Dakar si concluse con il verificarsi contemporaneo di altri due eventi ad essa facilmente riconducibili e cioè la fine dell'epoca coloniale e la decisione dello stesso Collomb di ritornare in Europa negli ultimi anni della sua vita professionale. A Ibadan, invece, Lambo ha condotto una singolare esperienza di lavoro clinico applicando gli strumenti concettuali e operativi della psichiatria comunitaria più avanzata in una cultura africana; in particolare, organizzò l'accoglienza e la cura di persone con gravi problemi di salute mentale in «villaggi terapeutici», ambienti capaci di contenere elementi terapeutici sia di tipo occidentale (come l'esperienza di Gheel in Belgio o le comunità terapeutiche di M. Jones) sia caratteristici della medicina tradizionale locale (il valore comunitario di culti e riti yoruba e la particolare coesione della struttura sociale).

Lungo questo percorso, i contenuti dei problemi in gioco avevano obbligato le discipline psicologico-psichiatriche a instaurare un confronto con l'antropologia, l'etnologia, la sociologia e a tentare di portarlo avanti misurandosi su specifici terreni. Il primo effetto di un tentativo meno grossolano di capire l'altro aveva in effetti prodotto in Occidente la rottura di clausure disciplinari: oggi la psichiatria culturale, l'antropologia medica, l'etnomedicina mettono in tensione i rispettivi strumentari concettuali e operativi nel tentativo di cogliere fenomeni complessi e in continua trasformazione. Le grandi aree di interesse sono riconducibili a tre: quantità e qualità delle forme psicopatologiche, trattamenti in setting transculturali e modelli di spiegazione della malattia da parte delle persone che le sperimentano (sia a livello soggettivo che gruppale e comunitario). Nel concreto, l'etnopsichiatria come disciplina ha richiamato l'attenzione e lo sguardo dei clinici sui sistemi di cura, sulle strategie organizzative e sulle varie tecniche terapeutiche messe in atto, presso gruppi umani diversi, per rispondere alla sofferenza cosiddetta psichica. La sostanziale messa in discussione delle categorie nosologiche, utilizzate dalla psichiatra occidentale, e l'ineludibile evidenza della dimensione culturale hanno determinato un forte impulso alla ricerca e alla riflessione etnopsichiatriche e hanno posto il problema di come approntare strumenti culturalmente sensibili capaci di rilevare la manifestazioni psicopatologiche in contesti culturali differenti.

Partendo dall'etimologia del termine, esso risulta composto da tre parole: etnós-psyché-iatréia. La composizione è stata analizzata nel dettaglio da vari autori e, tra le varie letture, quella che appare più convincente (Coppo, 1996) mette l'accento sul fatto che

etnós in greco significa razza, popolo, ma rimanda anche alla nozione di provincia, di area geografica, di luogo ben delimitato, di territorio. Sta a indicare, in fondo, l'aspetto localmente definito di un fenomeno, di un fatto, indica, insomma, la territorialità (per esempio nella medicina ippocratica è utilizzato per designare una parte del corpo). Si tratta, quindi, della disciplina che pratica (e approfondisce in termini teorici) l'arte del prendersi cura della «psiche» in zone geografiche e umane definite. Entrando in un ambito descrittivo più denso e specifico, l'etnopsichiatria si occupa sia della configurazione fenomenica assunta da specifici funzionamenti emotivi, cognitivi, comportamentali e corporei nelle varie culture locali che delle strategie culturali di individuazione, denominazione e lettura di tali fenomeni. Inoltre è attenta alla descrizione e alla comprensione di tutte quelle concrete operazioni, culturalmente strutturate e codificate, di adattamento e manipolazione dei fenomeni stessi, ovvero specifiche tecniche terapeutiche sperimentate e tramandate. Da questo punto di vista, le sindromi legate alla cultura (culture-bound syndromes, cioè sindromi che si manifestano soltanto in determinati contesti culturali, e non altrove) restano al centro della riflessione etnopsichiatrica, in quanto permettono di esemplificare il valore ordinante e performativo della cultura. Infatti, molte sindromi legate alla cultura sono state segnalate, descritte e approfonditamente studiate e a tutt'oggi pongono cimentosi problemi di inquadramento e comprensione alla più agguerrita attitudine classificatoria della psichiatria occidentale. Per poter svolgere i compiti sopra descritti, l'etnopsichiatria deve potersi mettere all'ascolto, alla comprensione e alla messa in forma del dialogo tra mondi; di questo dialogo l'etnopsichiatria ricerca gli elementi costitutivi e si pone l'obiettivo di individuare quelle specifiche strategie operatorie indispensabili affinché un simile dialogo possa realizzarsi. Ciò richiede, pertanto, all'etno-psichiatria di dotarsi di una peculiare metodologia (complementarismo) per incontrare il proprio oggetto di studio, metodologia capace di controllare due specifici ordini discorsivi: quello antropologico e quello psicopatologico. Il primo potrebbe garantire la conoscenza di una teoria generale della cultura e una approfondita conoscenza dello specifico campo culturale in cui il fenomeno clinico riceve una definizione; il secondo permetterebbe di considerare una teoria generale della fenomenologia psichica lungo l'asse normalità/patologia e una certa conoscenza delle sue oscillazioni nei differenti campi culturali (Devereux, 1973). Infatti ogni cultura - intesa come l'insieme dei prodotti materiali e simbolici che ogni specifico gruppo umano sviluppa nel suo rapporto con il contesto territoriale circostante - ha fabbricato e fabbrica un sapere e un saper fare relativamente alla distinzione tra normale e anormale e, all'interno di questo ambito, nello spettro delle diverse forme morbose.

Nelle aree non occidentali gli assunti ideologici su natura ed essenza della malattia riguardano, al contempo, i multiformi elementi costitutivi della persona (corpo, «spirito», lignaggio, oggetti, antenati mitici) e il suo collocarsi all'interno di una cosmologia fondamentale in cui essa intrattiene relazioni complesse con entità infranaturali e sovrannaturali. In tante culture colui che pratica la cura e il prendersi cura non sceglie di propria iniziativa tale ruolo terapeutico, ma deve poter essere prescelto o individuato da altri guaritori per poterlo esercitare. Nelle società tradizionali la capacità terapeutica non si dà come una qualità o un attributo personale di colui che cura, derivante direttamente da una disciplina trasmissibile e codificata. Questa capacità è definibile come un potere e anche come una funzione derivata da un operatore immateriale che agisce all'interno di un determinato interprete umano o di un vettore non umano (Inglese e Cardamone, 1996).

Dalla fine degli anni '80 del '900, grazie all'ingegno e alle esperienze cliniche di Nathan, abbiamo a disposizione alcuni elementi di consenso attraverso i quali il dialogo tra mondi può essere istituito e mantenuto. Riconosciuto Devereux come maestro, Nathan lo segui, lavorando prima sotto la sua direzione, poi con lui in un clima di particolare intesa; insieme fondarono la rivista «Etnopsy-chiatrica». Poi Nathan prese a occuparsi sempre più di psicopatologia e psicoterapia dei migranti in Francia: nel 1979 costituì il primo centro di consultazione etnopsichiatrica presso il Servizio di psicopatologia dell'ospedale Avicenne di Bobigny, nei pressi diParigi. Nel 1987 continua quella attività presso il Servizio di protezione mater-no-infantile della Seine-Saint-Denis e nel 1993 fonda il Centro «Georges Devereux». Nato con il compito di portare un particolare aiuto psicologico alle famiglie immigrate, il Centro si impone ben presto all'attenzione internazionale per essere il laboratorio dove Nathan e i suoi più stretti collaboratori sviluppano la metodologia fondativa dell'etnopsichiatria clinica. L'invenzione, da parte di Nathan, nel corso di oltre un ventennio di lavoro clinico e di ricerca teorica, di un dispositivo multiculturale, multilinguistico, multiprofessionale attraverso il quale la messa in forma di questo dialogo tra mondi potesse diventare infine possibile fa sì che l'etnopsichiatria, a cui va quindi aggiunto l'aggettivo clinica, possa oggi declinarsi come una vera e propria tecnica psicoterapeutica in via di sperimentazione, costruita sulla contaminazione tra psicoterapie occidentali modificate e terapeutiche tradizionali a cui sia riconosciuta una razionalità tecnica specifica (farmacopea tradizionale, mediatori terapeutici attivi, feticci, per esempio). Tra gli obiettivi, perseguiti e raggiunti da Nathan, c'è quello di aver individuato i principi di funzionamento delle eziologie tradizionali e averne utilizzato, nella pratica clinica, alcuni degli strumenti interattivi e terapeutici più significativi (Nathan, 1993). L'opera di Nathan nasce, pertanto, da un solido sapere intorno ai sistemi tradizionali di cura e da una inesausta critica alle «verità» scientifiche delle discipline psicologico-psichiatriche occidentali. La metodologia etnopsichiatrica è stata utilizzata, sin dalle prime esperienze, nelle situazioni tipiche della migrazione; oggi viene ad essere applicata alle aree cliniche in cui i fattori culturali risultano particolarmente significativi, quali ad esempio i disturbi da ideologie, da dipendenza da sostanze, da disorientamento e sradicamento culturale, le vittime della tratta e delle violenze più estreme, i fuoriusciti dalle sette. Ciò rende obbligatorio che sia presente nelle esperienze cliniche di tipo etnopsichiatrico la conoscenza approfondita e la relativa padronanza di una teoria generale del funzionamento dei dispositivi terapeutici sia tradizionali che occidentali. Va sottolineato che questo dialogo tra mondi non può che essere fatalmente conflittuale, nel senso che la massa di concezioni, di pratiche, di saperi che viene messa in moto è tale che i partecipanti al dialogo sperimentano la sensazione del disagio; questa fatica nel dialogo si sente soprattutto sul piano esperenziaìe e rappresenta comunque una premessa fondamentale per evitare estraneità e distanziamento, sempre possibili in questa complessa dinamica interculturale. Ogni cultura, infatti, fabbrica degli esseri umani altamente specifici e li fabbrica secondo procedure non solo di generazione e filiazione, bensì di «affiliazione», vale a dire obbligandoli a sopportare i percorsi accidentati di una seconda nascita e quindi riaffiliandoli a luoghi (si noti come torna la nozione territoriale di quell'etnos che rimanda a una specifica dimensione locale) e oggetti specifici.

In Italia esiste un variegato arcipelago di situazioni sia di riflessione teorica sia di intervento operativo, che non è ancora coordinato da una rete efficiente di collegamento. Tale situazione va correlata allo scarso interesse assegnato dall'Università e dal Servizio sanitario nazionale all'insegnamento, alla ricerca e alla pratica assistenziale etnopsichiatrica. Le esperienze più significative degli etnopsichiatri italiani si sono compiute all'interno di specifici programmi di cooperazione sociosanitaria con paesi in via di sviluppo, senza alcuna ricaduta concreta sul nostro territorio nazionale (Cardamone, Inglese e Zorzetto, 1999).

Va però rammentata nella storia degli studi italiani, in quanto rappresenta una pagina di riconosciuto rilievo scientifico e, al contempo, una feconda sorgente d'ispirazione, l'esperienza che negli anni '50, a Berna, fu condotta da M. Risso. Questo psichiatra affrontava i deliri di affatturamento degli italiani emigrati in Svizzera utilizzando competenze culturalmente sensibili acquisite grazie al particolare rapporto con l'opera scientifica dell'etnologo napoletano E. De Martino, che rivolgendosi in maniera originale all'evento psicopatologico lo ha studiato significativamente come modello complesso e paradigmatico (De Martino, 1977). L'approfondito studio etnografico, la raffinata meditazione antropologica, il serrato ragionamento clinico e la problematizzazione psicopatologica di Risso rappresentano alcuni spunti di ripensamento storico-critico sulle controverse vicende che hanno provocato la dissoluzione di questo originale nucleo etnopsichiatrico italiano. L'etnopsichiatria, in fondo, rappresenta un'opportunità, quasi una precondizione per poter ragionare in termini di cura, di prendersi cura, di terapeutiche e di conoscenza dei mondi morbosi. Infatti l'uso consapevole del termine implica la critica delle metodologie di certa psichiatria transculturale che ritiene la malattia mentale, naturalisticamente e universalmente, invariante e che si impegna nella ricerca delle declinazioni della stessa configurazione clinica nei differenti contesti culturali. In questa prospettiva va marcata la cifra operativa ed esperenziale di questa disciplina senza spegnere o sottovalutare la sua aura di critica metodologica, culturale e scientifica; entrambe queste caratteristiche rendono l'etnopsichiatria, sia quella teorica sia quella clinica, lucida sul fatto che ogni sapere è storicamente situato. Per cui si può affermare che ogni cultura è riuscita a costruire una propria etnopsichiatria e consente, a chi ne ha competenze e saper fare, di promuovere esperienze di tipo etnopsichiatrico riconoscendosi in quanto esistenza culturalmente determinata e mantenendo viva la tensione alla conoscenza dell'altro. Questo apre al contributo che oggi può venire dall'etnopsichiatria di lavorare, in collaborazione con le altre competenze attivabili in ambito sociale e comunitario (Cardamone e Zorzetto, 2000), per un sistema di cura pluralista, il più possibile aperto, disponibile ad adattarsi trasformandosi per meglio interagire con i flussi sempre più incessanti della multiculturalità e della creolizzazione sociale.

GIUSEPPE CARDAMONE