Empatia |
Empatia (1) Il termine empathy («empatia») venne coniato da E. Titchener nel 1909 come traduzione del termine tedesco Einfühlung (sentire dentro), utilizzato nella seconda metà dell'800 a proposito dell'esperienza psicologica di godimento estetico. Con questo termine Th. Lipps (1905) aveva voluto sottolineare il fatto che gli oggetti dell'esperienza estetica non sono solo osservati, ma emotivamente compartecipati. Tale partecipazione emotiva dà luogo alla tendenza mimetica ad assumere in modo inconsapevole una postura corrispondente, come avviene, ad esempio, nel caso di chi osserva una colonna gravata dal peso di un architrave. Più in generale, Einfühlung comporta che chi osserva un certo gesto in un'altra persona si identifichi a tal punto da provare ciò che l'altro sta provando, manifestando la tendenza a imitare il suo stesso gesto. Anche se la definizione di Lipps si applica a ciò che oggi si preferisce definire con il termine «contagio emotivo», è significativa l'enfasi che fin dai primi studi è stata posta sull'aspetto affettivo dell'empatia. Questo carattere dell'esperienza empatica è stato sottolineato dagli studi successivi di psicologia sociale e di personalità; G. Allport (1937), in particolare, ha contribuito a evidenziare la tendenza all'imitazione motoria delle posture e delle espressioni facciali. Negli stessi anni, e nei decenni successivi, sono stati soprattutto gli psicoterapeuti a utilizzare questo costrutto, sottolineando il ruolo fondamentale dell'empatia, nella relazione tra paziente e terapeuta, come esperienza indispensabile per comprendere il significato psicologico che un'azione ha per un'altra persona. A partire dagli anni '60 del secolo scorso, lo sforzo di comprendere i processi che mediano l'adesione empatica, così come l'esigenza di trovare valide scale di misurazione, portò a spostare l'attenzione sugli aspetti cognitivi dell'esperienza empatica, quali la capacità di assumere la prospettiva e il ruolo di un'altra persona e il riconoscimento delle emozioni. Si affermò così una concezione prevalentemente cognitiva, che spesso ha confuso l'empatia con i processi cognitivi di mediazione in essa implicati e con alcuni prerequisiti cognitivi che la rendono possibile, come negli studi di H. Borke, che identificano l'empatia con la capacità di riconoscimento delle emozioni altrui e con la capacità di role-taking. Sono stati così introdotti termini come «cognizione empatica» e «empatia cognitiva», che sono stati in seguito criticati e giudicati impropri, dal momento che confondono i processi implicati nell'empatia con l'empatia stessa. Dagli anni '80, è stata rivalutata la natura sostanzialmente affettiva dell'empatia e si è studiato il suo sviluppo nel corso dell'età evolutiva, nella quale si manifestano diverse forme di empatia, caratterizzate da differente mediazione cognitiva. L'analisi evolutiva ha permesso di comprendere i processi coinvolti nell'empatia e di fare luce sulla sua struttura complessiva. A partire da M. Hoffman (1982; 1984; 1987), uno dei più importanti studiosi dell'argomento, l'empatia è stata definita come un processo di attivazione emotiva appropriato e consonante con quello di un'altra persona. La mediazione cognitiva si collega a una progressiva differenziazione tra sé e l'altro, che si traduce nella capacità di esperire forme di empatia sempre più differenziate, sempre meno egocentriche, sempre più basate sulla capacità di prendere in considerazione il punto di vista altrui, anche quando è differente dal proprio. L'empatia è però sempre definita non dai processi cognitivi che permettono la differenziazione e l'assunzione del punto di vista dell'altro, bensì dalla capacità di condivisione affettiva. Una concezione dell'empatia come esperienza primariamente affettiva si ritrova anche in N. Feshbach (1978; 1982), secondo la quale essa può essere definita come la capacità di condividere l'esperienza affettiva di un'altra persona; l'autrice sottolinea che questa definizione integra le componenti emotive con le capacità di comprensione sociale, anche se essa è in realtà meno chiara nel distinguere i processi cognitivi che mediano l'empatia dall'empatia stessa. J. Strayer (1987a; 1989; 1993) ha analizzato con puntualità lo sviluppo dell'empatia, ritenuta una risposta affettiva concordante con le emozioni di un'altra persona e con la situazione da essa vissuta, che comporta differenti mediatori cognitivi che configurano diversi tipi di esperienza empatica. La teorizzazione recente, saldandosi con i primi studi sull'argomento, è concorde nel considerare l'empatia un'esperienza sostanzialmente affettiva di condivisione, mediata da processi cognitivi di diversa complessità; ne deriva che l'empatia è considerata un fenomeno multidimensionale e non unitario (Bonino, Lo Coco e Tani, 1998). La condivisione emotiva può infatti presentare diversi livelli di attivazione e di mediazione cognitiva, che rimandano a diversi gradi di differenziazione tra sé e l'altro. Si è giunti quindi a comprendere che non esiste l'empatia in sé, ma che esistono diversi tipi di empatia che si collocano lungo un continuum che va dalle forme più indifferenziate e meno mediate (vale a dire dal contagio, automatico e privo di mediazione cognitiva) a quelle più differenziate e cognitivamente controllate e mediate. Al livello più primitivo, il contagio emotivo, grazie all'assenza di una differenziazione tra sé e l'altro, realizza una condivisione affettiva automatica e involontaria, priva di mediazione cognitiva, che si traduce in un'immediata imitazione motoria. Il contagio non implica la discriminazione degli stati emotivi altrui e non comporta la consapevolezza della natura vicaria della propria condivisione. Per l'assenza di mediazione cognitiva, di separazione tra sé e l'altro e di volontarietà, si preferisce oggi non usare più il termine «empatia globale», proposto in passato da Hoffman (1987), riservando il termine «empatia» alle forme differenziate e non automatiche di condivisione. Nell'ontogenesi, il contagio rappresenta la prima forma di attivazione della condivisione emotiva, e può perciò essere considerato un precursore necessario delle forme più evolute di empatia; esso non è limitato alla prima infanzia, pur essendo in essa maggiormente presente, ma può comparire anche nell'età adulta, sia accanto ad altre forme più evolute, sia al posto di queste ultime. Una conferma degli studi psicologici sul contagio è venuta dai più recenti studi neurofisiologici sui «neuroni specchio»; questi neuroni, presenti anche nella nostra specie, si attivano quando un animale osserva un altro animale compiere un movimento e sono alla base dei comportamenti imitativi automatici. A differenza del contagio, l'empatia vera e propria richiede la capacità di riconoscere che gli altri vivono degli stati emotivi differenziati dai propri, che sono discriminati in modo corretto e appropriato, sulla base degli indici trasmessi dai diversi canali espressivi (facciali, gestuali, posturali, ed eventualmente anche verbali). La capacità di riconoscimento delle emozioni è oggi ritenuta un prerequisito indispensabile per l'assunzione della prospettiva dell'altro e per la condivisione empatica. Essa però, pur costituendo un importante prerequisito per l'empatia, non definisce e non implica di per sé la condivisione empatica, né nei bambini, né negli adulti. Accanto agli stimoli espressivi, ma più tardivamente nel corso dell'età evolutiva, svolgono un ruolo importante anche quelli situazionali, vale a dire le concrete situazioni che si associano a particolari stati emotivi. Queste ultime possono suscitare una risposta emotiva solo grazie a un processamento cognitivo, in quanto vengono collegate dal soggetto a una situazione emotivamente significativa. I processi che mediano la risposta agli stimoli situazionali sono stati identificati nel condizionamento classico, e soprattutto nell'associazione diretta (Hoffman, 1984; Strayer, 1987; 1993). Sono coinvolte anche la capacità di attribuire correttamente a un evento una causa e quella di generalizzare ad altre persone una certa condizione emotiva, sulla base della propria personale esperienza. L'empatia che risulta da questi semplici processi di mediazione cognitiva è stata definita in vario modo, anche se vi è un sostanziale consenso sul tipo di processi cognitivi implicati. Hoffman parla di empatia egocentrica, nella quale gli stati interni dell'altro restano di fatto oscuri, e il soggetto tende ad attribuire agli altri lo stato emotivo che egli stesso ha sperimentato in situazioni simili. Strayer (1989) parla di una risposta parallela all'emozione dell'altro, sollecitata dalla situazione osservata, e dall'associazione tra quest'ultima e la propria esperienza. Anche questo tipo di empatia è presente negli adulti. L'empatia più evoluta richiede la massima differenziazione tra l'emozione propria e quella altrui, ed è caratterizzata dal saper condividere, in modo vicario, le emozioni di un altro, separate e nettamente distinte dalle proprie; diventa così possibile comprendere che il vissuto di un'altra persona può essere molto diverso dal proprio in una situazione simile. Sono essenziali il decentramento da sé, la capacità di assumere la prospettiva dell'altro e la rappresentazione del vissuto dell'altro. L'analisi di quest'ultimo aspetto è stata stimolata, in particolare, dai recenti studi sulla teoria della mente, i quali hanno indagato la capacità di rappresentarsi che cosa un'altra persona si sta rappresentando, di «pensare che cosa l'altro pensa» (metarappresentazione o rappresentazione di secondo livello). L'analisi più approfondita dell'evoluzione dell'empatia basata sulla capacità di rappresentarsi gli stati interni dell'altra persona è stata effettuata da Strayer (1993), le cui ricerche hanno evidenziato un aumento della capacità di esperire questo tipo di empatia solo a partire dalla fanciullezza, intorno ai sei-sette anni, e non dai tre anni, come Hoffman aveva ritenuto; anche nell'adulto essa si manifesta con maggiore difficoltà in situazioni di forte coinvolgimento. La capacità di assumere la prospettiva e il ruolo dell'altro è considerata un mediatore cognitivo che rende possibile una condivisione altamente differenziata, ma non si identifica con essa. L'empatia evoluta mediata dalla rappresentazione cognitiva del vissuto altrui è stata definita da Strayer «empatia per risposta partecipatoria», e da Hoffman «empatia per i sentimenti di un altro». Al livello massimo di mediazione cognitiva Hoffman pone l'empatia per le condizioni generali di vita di un'altra persona, basata sulla capacità di immaginare situazioni non direttamente osservabili, e l'empatia per interi gruppi sociali; tali capacità diventano possibili solo a partire dall'adolescenza. Il dibattito attuale sull'empatia riguarda soprattutto le sue relazioni con il comportamento prosociale e d'aiuto, sul quale le indicazioni non sono univoche, ma che sembra essere positivamente legato solo alle forme più evolute di condivisione empatica; questo dibattito si collega a quello che riguarda le difficoltà metodologiche nella rilevazione dell'empatia, dal momento che il comportamento prosociale è stato talvolta utilizzato come misura dell'empatia. Allo stesso tempo, la discussione riguarda l'educazione all'empatia (Feshbach, 1996), inserita dall'Organizzazione mondiale della sanità tra le competenze vitali ritenute indispensabili per un migliore adattamento nella vita quotidiana e un maggiore benessere psicofisico. Poiché in alcune situazioni la condivisione empatica, soprattutto se primitiva, può anche comportare dei rischi, rimane aperta la questione di una migliore comprensione delle condizioni che possono correlare l'empatia con il disagio psichico anziché con il benessere. SILVIA BONINO Empatia (2) Il termine «empatia», nella sua versione tedesca originaria (Einfühlung), sembra comparire nel 1798, nel testo sui Discepoli a Sais di Novalis, nell'ambito della stagione romantica. E certo che l'accezione dell'epoca non corrispondeva affatto a quella odierna: per i Romantici, l'empatia comportava una coincidenza fusionale dell'animo dell'uomo con l'ambiente naturale, che veniva quindi rappresentato di volta in volta, nei dipinti come in musica o in letteratura, in maniera fortemente connotata, a specchio delle passioni e degli stati emotivi proiettati all'esterno. E Novalis stesso, nell'opera citata, a fornire una sorta di «cartello» programmatico di questa concezione: la natura è comprensibile solo a chi possiede un «organo della natura», uno strumento interiore che consente di mescolarsi per mezzo della sensazione con tutti gli esseri naturali. Tempeste, struggimenti, languidezze, albe speranzose e tramonti infuocati dovevano così fornire rappresentazione visiva o poetica del sich-einfühlen, del sentirsi all'unisono col cosmo da parte di un'umanità che, per una sorta di contrappunto filosofico-letterario rispetto al razionalismo del «secolo dei lumi», anelava il recupero di un grandioso bacino rimosso di fantasie ed emozioni. Una caratteristica ricorrente e significativa in questo senso fu la natura fortemente gruppale di molti sodalizi culturali dell'epoca: soprattutto nella Germania di Goethe, Schiller, Hölderlin, Fichte, Schelling e dei fratelli Schlegel, il «movimento» romantico si manifestò attraverso la condivisione cenacolare del syn-poetisieren (poetare insieme) e del syn-philosophieren (pensare filosoficamente insieme), in un clima «empatico» in cui l'immersione comune e compartecipata rafforzava l'idea di portare avanti in modo consonante una comune visione del mondo e dell'arte. Proiezione all'esterno dei vissuti interni, fusionalità con la natura e con i compagni di avventura e di tendenza furono dunque i capisaldi della Einfühlung del primo '800. La tendenza all'indifferenziazione tra sé e l'altro e tra il dentro e il fuori, vero e proprio artificio psicoculturale generalizzato dell'epoca, è lontanissima dal significato oggi attribuito al concetto di empatia, che presuppone un certo grado di coscienza della separatezza del soggetto dall'oggetto, e di differenza tra mondo interno e mondo esterno. Si attagliano perfettamente a quella dimensione psichica le osservazioni di S. Freud sulla mente presumibile dell'uomo primitivo, che dislocava nel mondo esterno rapporti inerenti alla propria struttura psichica, rapporti di cui egli si rendeva conto mediante la cosiddetta «percezione endopsichica» (Freud, 1912-13). Più concettualizzato, ma sostanzialmente non troppo dissimile nella sostanza, era il punto di vista espresso dal movimento filosofico dell'estetica dell'Einfühlung, portato avanti soprattutto da Th. Lipps, che nel 1905 aveva ravvisato il nucleo dell'empatia nell'immedesimarsi del soggetto con l'oggetto a fini artistici, proiettandovi deliberatamente emozioni umane a fini estetici. Ciò che differenzia il punto di vista di Lipps dai Romantici è il livello di programmatica consapevolezza di questa operazione, ma il punto di arrivo non sembra ugualmente essere la comprensione dell'oggetto in quanto tale: l'oggetto viene piuttosto concepito come supporto proiettivo da utilizzare, questa volta scientemente. Un po' più «oggettuale», diremmo oggi, fu W. Dilthey, che si occupò della comunicabilità dell'esperienza soggettiva e dell'espressione dell'altro come fonte di comprensione dell'esperienza altrui. Guidato dall'espressione di un'altra persona, «io rivivo la sua esperienza nel mio conscio», e questa è l'essenza del comprendere: riprodurre equivale a rivivere. Il corpo e la percezione del comportamento dell'altro vengono a svolgere un ruolo di primo piano, aprendo la via di accesso a uno stato empatico per simulazione. Pure rimarchevole, in campo filosofico, il contributo di E. Stein, basato soprattutto sull'attivazione reciproca di forze vitali affettive tra soggetto e oggetto, che viene percepita come bellezza da parte del soggetto stesso. Siamo ormai in pieno '900, ed è Freud a comparire potentemente sulla scena in tema di empatia, più di quanto molti suoi esegeti non abbiano annotato fino al 1995, quando compare il dettagliatissimo saggio di G. Pigman, il quale nota che il mondo psicoanalitico anglosassone è stato molto condizionato dalla scelta arbitraria di J. Strachey, nella Standard Edition delle Gesammelte Werke freudiane, di tradurre Einfühlung come empathy solo in tre delle dodici occasioni in cui Freud parla di empatia, e di non tradurre mai il verbo einfühlen - che compare otto volte - come «empatizzare». In realtà Freud, che conosceva bene l'opera di Lipps e ne stimava l'autore, diede un certo spazio al concetto. Nel 1905, infatti, lo menziona nel Motto di spirito con lo stesso significato con cui lo userà in seguito: cioè come processo con cui il soggetto si mette nella posizione di un altro essere umano, consciamente o inconsciamente. Egli non lo userà mai alla maniera di Lipps, vale a dire nel senso della Aesthetische Einfühlung («empatia estetica») proiettiva verso gli oggetti. Nel 1913 Freud raccomanda di non interpretare fino a che non si sia stabilito un saldo legame positivo tra medico e paziente, poiché ci si può giocare questo primo successo se dall'inizio non si adotta un punto di vista che non sia quello dell'empatia (Freud, 1913b). Ma il passo più noto è quello del capitolo sull'identificazione in Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921a), in cui Freud afferma che i membri di un gruppo si identificano l'un l'altro attraverso l'empatia, che ci permette di intendere «l'Io estraneo» (das lchfremde) di altre persone: dove «das lchfremde» riguarda quella parte di altre persone che risulta estranea (letteralmente: straniera), ignota al loro stesso Io. Freud conservò in realtà una certa ambivalenza verso la disposizione empatica degli analisti nell'attività clinica, pur considerandola indispensabile per il loro lavoro, perché preoccupato per le possibilità di un deragliamento controtransferale dell'acting, a causa della modesta dotazione formativa degli analisti dell'epoca. Il contributo teorico più rilevante, tra quelli dei pionieri della psicoanalisi, lo dobbiamo a H. Deutsch, che nel 1926 evidenziò come l'empatia dell'analista consista spesso in una parziale identificazione - da lei chiamata «complementare» - con un oggetto infantile del paziente; ciò avviene attraverso il processo di riattualizzaziòne del passato nel transfert e nel controtransfert, e può in parte essere riconosciuto nell'autoanalisi del controtransfert quando l'analista inizia a percepire ciò che avviene emotivamente in se stesso nel rapporto con il paziente. La psicoanalisi nordamericana cominciò a fornire importanti contributi in tema di empatia sull'onda della nascente psicoanalisi dell'Io, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. W. Fliess (1942) sostenne il prodursi nell'analista di «identificazioni di prova» atte a produrre empatia, affermando che chi usa l'empatia verso un oggetto lo introietta transitoriamente, e proietta di nuovo sull'oggetto quanto ha introiettato. Solo ciò lo mette in grado alla fine di «comporre una percezione "dal di fuori" con una "dal di dentro"». Sono gli anni '50 a segnare il decollo delle fortune del concetto di empatia; in particolare saranno gli storici contributi di R. Greenson, R. Schafer e H. Kohut (più quello meno noto, ma altrettanto significativo, di Ch. Olden) ad alzare improvvisamente l'interesse per esso. La Olden (1958) afferma che la sensibilità di una persona per a un'altra può essere chiamata empatia solo quando non è al servizio di bisogni narcisistici, ma di relazioni oggettuali mature: il che implica consapevolezza di separatezza e assenza di confusioni. La Olden pose in rilievo anche l'importanza della sublimazione degli impulsi sessuali materni, ai fini dello sviluppo dell'empatia verso il bambino. Per questa autrice, l'empatia è una fruttuosa immedesimazione con la persona che cresce, per comprenderne le esigenze evolutive; ciò è possibile, però, solo al prezzo dell'elaborazione di un lutto: quello relativo alla perdita della prima, fisiologica fase fusionale, che per la madre è una fase intensamente sessualizzata e sensuale, appagante, e il cui superamento corrisponde anche a una rinuncia dolorosa. Senza tale rinuncia, e senza sublimazione, non può esserci vera empatia. Schafer (1959) definì l’«empatia generativa» come l'esperienza interna di condivisione e di comprensione della condizione psicologica di un'altra persona nella sua organizzazione gerarchica di desideri, sentimenti, pensieri, difese, controlli, pressioni superegoiche, capacità, rappresentazioni di sé e rappresentazione delle relazioni reali e fantastiche. Per Schafer, l'empatia è relativamente a-conflittuale, si basa su meccanismi introiettivi e proiettivi, e avviene a livello conscio e preconscio; ha inoltre una qualità intuitiva, e utilizza in modo flessibile il processo primario di pensiero. Schafer pone l'accento sulla separatezza come precondizione necessaria per l'empatia; ma mentre nel lavoro della Olden possiamo rappresentarci l'empatia come il frutto della rinuncia materna alla gratificazione simbiotica sensuale e concreta, con Schafer l'accento cade su un procedere opposto, data per scontata una separatezza precedentemente acquisita: la relazione interna è inaugurata da un'efficace introiezione, ed è ospitata così anche nella mente dell'analista. Nel 1960 scende in campo Greenson: l'empatia, egli afferma, è una conoscenza emotiva, la condivisione e l'esperienza dei sentimenti di un altro. Tale condivisione è temporanea, essenzialmente preconscia (a differenza dell'imitazione, che è conscia, e dell'identificazione, che è inconscia, permanente e finalizzata all'evitamento difensivo di angosce, sensi di colpa o perdite oggettuali). Greenson osserva inoltre che l'empatia richiede una capacità di regressione controllata e reversibile sia nel campo dei livelli funzionali dell'Io che in quello delle relazioni oggettuali. Empatia e conoscenza teorica si completano vicendevolmente; l'esperienza personale del terapeuta è importante per consentire immedesimazioni col vissuto del paziente. Attraverso l'empatia, la parte incompresa del paziente viene ricercata e ricontattata come un equivalente dell'oggetto d'amore perduto del terapeuta. L'analista deve accettare con umiltà l'idea di non essere radicalmente diverso dal paziente, e di avere in comune aspetti e processi interni di cui deve essere consapevole; deve inoltre mantenersi ricettivo, al punto da preferire correre il rischio di lasciarsi ingannare dalle produzioni del paziente, piuttosto che da quello opposto di rifiutarle prematuramente e indebitamente come false. In un certo senso, Greenson raccomanda una sorta di scetticismo benevolo, volto a comprendere i significati profondi delle deformazioni della realtà operate mentalmente dai pazienti. A partire dal 1959, Kohut inizia la costruzione di una formidabile concettualizzazione delle vicissitudini del narcisismo originario e delle sue implicazioni teorico-cliniche in psicoanalisi, e attribuisce un'importanza fondamentale all'empatia non solo nell'ambito del processo terapeutico, ma anche nell'arco dello sviluppo della relazione madre/bambino e della formazione della mente nel suo insieme. Secondo Kohut, la tragicità della condizione umana è legata al rischio di un fallimento empatico primario da parte dei genitori nella prima infanzia, responsabile di una precoce mancanza di coesione del Sé. Ciò origina un bisogno insopprimibile, spesso contrastato conflittualmente dall'interno, di ricreare transfert narcisistici con oggetti a significato e funzione di conferma del Sé, a carattere speculare o a immagine di equivalenti genitoriali idealizzati. Se questa ricerca non avrà successo, potrà verificarsi una regressione massiccia con iperinvestimento autoerotico del Sé corporeo o con un iperinvestimento di stadi arcaici del Sé grandioso. L'analista eredita dunque la funzione genitoriale nei confronti dei bisogni costitutivi del Sé. Per Kohut, l'empatia è una modalità conoscitiva adatta «alla percezione di configurazioni psicologiche complesse», ed è imprescindibile per l'attività analitica, ma non sufficiente: bisogna essere in grado di costruire anche ipotesi e teorie, e sostituire periodicamente l'attitudine empatica con il processo secondario, per una valutazione più oggettivante dei dati osservati. Sul piano clinico, Kohut è attento al fatto che l'analista abbia potuto far emergere ed elaborare in analisi le sue residue formazioni grandiose, per non incorrere in rigidità dovute a difese di tipo reattivo-ossessivo nel tenere a bada componenti proprie del tipo sunnominato, a base magico-animistica. Per Kohut, l'analista deve essere cauto nell'interpretare troppo presto l'idealizzazione dell'oggetto, idealizzazione a volte necessaria al soggetto per trarre dal rapporto con esso conferme autorevoli circa la propria accettabilità narcisistica. Così pure, fasi precoci di assimilazione narcisistica gemellare o speculare, in cui soggetto e oggetto sembrano considerati dal paziente come similari, consonanti e in mutuo accordo al di là di ogni ragionevolezza, possono contenere il senso di un bisogno arcaico molto forte di conferma empatica avvalorante il Sé. Kohut insegna dunque a rispettare il decorso transferale primitivo, assecondandolo con empatia e con fiducia, accettandone le incongruenze ipocritiche e le apparenti assurdità, e contando sugli effetti integrativi producibili con questo procedere. Una interessante ripresa del tema ad opera di Schafer (1983) apre un nuovo periodo di contributi nordamericani. Schafer si occupa dell'orientamento positivo del «Secondo Sé» (o Sé di lavoro) dell'analista, che consiste nel fatto che, empatizzando, l'analista presuppone che qualunque cosa l'analizzando fa o prova è quella che è essenziale che faccia «nelle circostanze estremamente avverse che prevalgono nell'inconscio o nella realtà psichica» (per «circostanze avverse» si intendono i pericoli descritti da Freud, 1925c: perdita totale dell'oggetto d'amore; perdita totale dell'amore; castrazione; punizioni arcaiche del Super-io; ad esse Schafer aggiunge il terrore paranoide, l'impotenza depressiva, la frammentazione del Sé, la perdita del Sé nella de-differenziazione Sé-oggetto). Per comprendere empatica-mente questi timori del paziente, l'analista deve essere in contatto con una visione tragica dello sviluppo e della vita umana. Altre componenti dell'«orientamento em-patico positivo» sono: il presupporre una certa coerenza profonda di quanto l'analizzando produce; l'anticipazione (cioè il poter prevedere alcuni sviluppi in base alla progressiva conoscenza del paziente); il saper riconoscere gli attacchi all'attività empatica; il mantenere una visione lungimirante dell'analisi nel suo complesso. Schafer accenna poi agli aspetti cognitivi creativi dell'empatia, contrapposti a quelli imitativi, e ne sostiene una visione trasformazionale, per la quale «nell'empatizzare riflettiamo o imitiamo qualcosa che abbiamo già forgiato, e nel farlo lo forgiamo ulteriormente». P.-N. Pao (1984) sostiene con convinzione che la capacità empatica è potenzialmente presente in ogni essere umano, e viene poi facilitata o inibita dalle interazioni iniziali madre/bambino. Secondo Pao, l'empatizzare non è attività di uno solo, bensì di una coppia, ed è il risultato di una progressiva rete di comunicazioni connesse tra loro composta da un continuo scambio da- a-, e da interazioni ulteriori intrasoggettive. In analisi, lo scambio è prevalentemente verbale con pazienti nevrotici, e prevalentemente non verbale con quelli psicotici. Con gli schizofrenici, costruire questo processo è più difficile, e la rottura della connessione può avere conseguenze gravi, distruggendo la speranza (molto flebile in questi pazienti) di poter essere compresi. Nell'opinione di Pao esiste una predisposizione innata all'empatizzare, ed è comunque più facile imparare, in questo campo, che insegnare. Un apporto particolarmente ricco e caratterizzato è quello della scuola kleiniana, svolto storicamente in parallelo rispetto quelli della psicoanalisi dell'Io e della psicologia del Sé. Per M. Klein (1955), l'empatia era il prodotto di una «identificazione proiettiva normale», non patologica. Questo punto di vista fu ripreso da H. Rosenfeld (1987), che distinse opportunamente le identificazioni proiettive «comunicative» da quelle «evacuative»; nelle prime l'oggetto in cui è avvenuta la proiezione non viene troppo modificato dal processo proiettivo; nelle seconde, invece, l'oggetto è invaso, occupato, controllato, traumatizzato, dalle intrusioni evacuative. Nella clinica, Rosenfeld è attento soprattutto al fatto che l'analista sia capace di percepire e di riconoscere le intrusioni, e che sia poi in grado di restituire interpretazioni che abbiano un significato emotivo comprensibile per il paziente. Anche per questo autore una condizione essenziale del trattamento psicoanalitico consiste nell'entrare sufficientemente in contatto con i sentimenti e i pensieri del paziente, così da poter sentire e sperimentare personalmente quel che gli succede. Anche R. Money-Kyrie (1956) si pose sulla stessa linea, aggiungendo l'idea che l'empatia in seduta presuppone un'integrazione dei processi introiettivi e proiettivi (un po' come sostenuto da Schafer tre anni dopo), e postulando l'ipotesi un po' idealizzante di un controtransfert «normale» caratterizzato da «quel senso di empatia su cui si basa la sua intuizione». Il contributo postkleiniano è stato poi alimentato prevalentemente da W. Bion con il concetto di rêverie, che designa la funzione materna di ricevere, contenere, elaborare, modificare e restituire trasformate le proiezioni e le identificazioni proiettive del bambino. Questa complessa attività funzionale, che è istintiva, permette alle madri (e agli analisti) di sintonizzarsi con gli elementi sensoriali e protomentali dei bambini (e, rispettivamente, dei pazienti) favorendone la mentalizzazione, e favorendo l'instaurarsi progressivo di una funzione autonoma dell'altro in tal senso. Secondo Bion, l'ascolto empatico può essere disturbato o impedito in seduta soprattutto dalla paura dell'analista per i propri sentimenti o per le proprie emozioni, con l'aggiunta delle difese erette allo scopo di eluderla. Mentre in Freud e nella Klein la mente è intesa come prevalentemente intrapsichica, in Bion essa è estesa, relazionale e interpsichica; la réverie è un evento interpersonale, prima che intrapsichico e personale. Il contributo postbioniano più specifico in tema di empatia è venuto da J. Grotstein (1981; 2005), il quale descrive un processo in cui il soggetto effettua un'identificazione proiettiva parziale e molto limitata che l'oggetto riceve e assume al suo interno con un'introiezione. Se l'emissione proiettiva è molto forte, l'oggetto viene invece occupato dal controtransfert. L'analista, tramite le interpretazioni, deve aiutare il paziente a sperimentare empatia verso quegli aspetti scissi di sé dai quali si è ritirato, e che rifugge, non riconoscendoli come propri; perché ciò avvenga, bisogna far diminuire in qualche modo l'ostilità contenuta negli oggetti e nelle parti scisse, ostilità che è stata a suo tempo decisiva nel determinare la scissione. In fondo - dice Grotstein - l'esistenza dell'identificazione proiettiva dipende da chi la riceve. Quanto più l'oggetto terapeutico è empatico verso le identificazioni proiettive del paziente, e quanto meno queste ultime sono proiettive e identificatone, tanto più esse diventano comunicazioni che possono avere per il paziente un significato di arricchimento. Sarà A. Di Benedetto (1998) a completare il percorso ipotizzato da Grotstein, formulando il concetto di «proidentificazione proiettiva»: una disposizione naturale dell'essere umano (e degli analisti in particolare) ad accogliere le identificazioni proiettive, con la propensione a trasformarle. In Italia l'interesse per l'empatia si era evidenziato a partire dalla metà degli anni '80. S. Spazàl (1990) rilegge le due principali distinzioni tra i due concetti, formulate da D. Berger (1987), che definiva «empatia» lo stato emotivo vissuto dal terapeuta a contatto con il paziente come soggetto. Essa scaturisce da un settore non conflittuale della personalità dell'analista, mentre il controtransfert, lo stato emotivo vissuto dal terapeuta a contatto con l'oggetto del mondo interno del paziente, scaturisce, invece, da un settore conflittuale. Spazal individua nella letteratura psicoanalitica due orientamenti epistemico-metodologici: un «orientamento controtransferale» e un «orientamento empatico». Convinto che gli analisti siano in realtà aperti, nel loro lavoro, verso entrambi tali orientamenti, egli sosteneva che la difficoltà di capire se stia prevalendo, in un dato momento, l'una o l'altra posizione mentale nell'analista dipende da una momentanea disfunzione della sua capacità introspettiva, dovuta all'intensità della reazione emotiva. L'antinomia, o la sovrapposizione, dei due concetti di empatia e controtransfert è stata oggetto di valutazioni diverse da parte di autori che hanno rispettivamente esteso o limitato il secondo concetto: per i primi, l'esperienza di controtransfert si realizzerebbe prevalentemente a livello conscio-preconscio, e sarebbe utilizzabile in seduta come fonte diretta e preziosa di empatia; per i secondi, convinti che l'esperienza di controtransfert sia prevalentemente inconscia, essa costituirebbe tradizionalmente un potenziale ostacolo alle funzioni dell'analista. L'empatia richiede una serie di contatti incrociati tra l'Io e il Sé dell'analista e del paziente; l'esperienza del controtransfert, pur se temporaneamente confondente, è necessaria (anche se non sufficiente) per arrivare a sintonizzarsi con le parti interne egodi-stoniche del paziente. Per tale motivo, è fuorviarne far coincidere l'empatia con la sola sintonizzazione concordante, che va invece integrata con quella complementare, in un'ottica di articolazione e di complessità della rappresentazione del mondo interno del paziente. La condivisione è una fase necessaria, nel processo analitico, con tutti quei pazienti che vivono un disturbo nel contatto con se stessi. Essa non coincide con l'empatia, ma ne è una precorritrice, nell'ambito di un processo che prevede, sf, la co-esperienza, ma che non ne garantisce a priori l'elaborazione e la mentalizzazione. Tanto gli affetti positivi quanto quelli negativi possono essere presenti nell'empatia; limitare ai primi la connotazione dell'empatia è un rischio già segnalato da Schafer (1983), che porta a negare la complessità e la conflittualità intrinseche a ogni relazione tra esseri umani. La pretesa di empatizzare «a comando», in un'ottica intenzionale e volontaristica di «atteggiamento empatico», produce il rischio di «empatismo» (Bolognini, 1997), basato su un'illusione onnipotente residua dell'analista, che allontana dalla percezione complessa della realtà dell'altro e della relazione. L'empatia è una condizione di contatto conscio e preconscio caratterizzata da separatezza, complessità e articolazione; uno spettro percettivo ampio in cui sono comprese tutte le tonalità di colore emotivo, dalle più chiare alle più scure; e soprattutto un progressivo, condiviso e profondo contatto con la complementarità oggettuale, con l'Io difensivo e con le parti scisse dell'altro, non meno che con la sua soggettività egosintonica. L'empatia richiede la capacità di alternare momenti di separatezza ad altri di fusionalità; a differenza dell'identificazione proiettiva comunicativa, la proiezione impedisce l'empatia. L'empatia naturale è possibile a persone che abbiano sviluppato un buon senso di individuazione e di separatezza tra sé e l'altro, ma che abbiano conservato la capacità di passare da regressioni «al servizio dell'Io» a progressione verso funzionamenti più maturi; che sappiano frequentare aree transizionali comuni senza invadere l'altro, e che dispongano di un ambiente interno sufficientemente bonificato. L'empatia psicoanalitica è un livello ulteriore, che presuppone un atteggiamento di ricerca, l'accesso all'articolazione, all'ulteriorità e alla lettura su più piani della situazione analitica. L'empatia, in sintesi, viene descritta dagli psicoanalisti sempre più come un processo interpsichico collaborativo, la cui complessità richiede di solito un impegnativo lavoro di reciproca conoscenza esperienziale tra analista e paziente. Va segnalato, infine, come il recente interesse degli psicoanalisti per le interconnessioni della loro disciplina con le neuroscienze abbia ricevuto impulso anche dalle scoperte riguardanti il ruolo giocato dai «neuroni specchio» dei circuiti che consentono processi immedesimativi basati su un rispecchiamento imitativo interno, e dall'amigdala, che è connessa ad altre aree della corteccia prefrontale capaci di attivarsi quando il soggetto cerca di intuire pensieri, emozioni e intenzioni altrui. STEFANO BOLOGNINI |