Emozioni |
Emozioni (1) Le emozioni sono state da sempre centrali nella storia dell'esperienza e del pensiero, poiché sono implicate inestricabilmente in ogni evento umano. Un incontro amoroso, un successo sul lavoro, la morte della madre, una lite con un amico, sono tutte circostanze che hanno un forte rilievo nella nostra vita e suscitano uno stato emotivo. Con il nome di «passioni», cioè cose che ci accadono, le emozioni (termine recente, non registrato prima dell'800) sono considerate essenziali nella filosofia greca classica. Il loro stesso nome suggerisce l'idea che siano eventi in qualche modo fuori dal nostro controllo, un dato culturale confermato dalla storia letteraria di eros, la più potente delle passioni. In Sofocle le passioni sono chiamate «forze aliene», in Euripide «forze incontrollabili», nel Fedro di Platone «un tipo di follia». Ma già Aristotele appare più disposto ad accettarne la natura intrinsecamente umana. Questo tema continua a essere presente in tutta la storia del pensiero occidentale. La psicologia sperimentale, dai suoi esordi negli ultimi decenni dell'800 fino agli anni '60 del '900, ha mostrato una grande resistenza a prendere in considerazione questo tema e a sottoporlo a studi rigorosi. Anzi, si potrebbe pensare che lo studio delle emozioni abbia subito una qualche sorta di censura, ispirata al clima del positivismo e del comportamentismo. D'altra parte, S. Freud e il movimento psicoanalitico, che incentravano la teoria e la pratica clinica sulla vita affettiva, non solo hanno usato una terminologia diversa, ma hanno inserito l'emotività in un sistema teorico che ha tenuto alla larga gli psicologi di altro orientamento. Solo fra gli anni '60 e '70 qualche voce fra gli psicologi sperimentali inizia a reclamare per le emozioni un posto adeguato. Ma, in generale, lo studio delle emozioni è stato stranamente trascurato in favore di altri argomenti come la percezione, la memoria, la motivazione. Le definizioni di «emozione» che si trovano nella letteratura psicologica sono numerose perché a ciascuna definizione corrisponde un diverso modo di considerare l'emozione, spesso una diversa teoria, più o meno sviluppata e coerente. Su alcuni punti comunque vi è accordo, e cioè che l'emozione è un insieme complesso di interazioni tra fattori soggettivi e oggettivi, mediati dai sistemi neurali e ormonali. L'emozione è in genere indotta da un evento nel mondo esterno (chiamato talvolta antecedente emozionale o evento emotigeno), suscita un'esperienza consapevole di piacere o dispiacere, uno stato più o meno accentuato di attivazione fisiologica (o arousal), ha un contenuto specifico che dà il suo colore a ogni diversa esperienza emotiva, si presenta con un volto caratteristico e con una specifica tendenza all'azione. L'emozione influenza profondamente i processi cognitivi, in particolare la memoria, la percezione e le decisioni. L'emozione attiva adattamenti fisiologici diffusi e specifici che sono congrui rispetto ai comportamenti indotti dall'emozione in questione; in linea di massima, e certamente a livello filogenetico, questi comportamenti sono diretti a uno scopo e hanno una funzione adattiva. Le emozioni si distinguono dagli stati d'animo, perché questi ultimi non conseguono a eventi precisi, sono stati affettivi dei quali si ha una consapevolezza più sfocata e imprecisa, generalmente non si accompagnano a modificazioni fisiologiche o a specifiche tendenze all'azione. Le diverse teorie delle emozioni hanno posto in primo piano l'uno o l'altro degli aspetti costitutivi, a partire dal famoso studio di Ch. Darwin L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali (1872), che sostiene che l'espressione delle emozioni fondamentali è universale e che le emozioni servono alla sopravvivenza dell'individuo e della specie. Questa posizione è stata ripresa da P. Ekman (1984) e dai suoi collaboratori nel laboratorio di San Francisco. Altri teorici hanno messo invece l'accento sull'aspetto cognitivo del processo emotivo, che si svilupperebbe attraverso diversi livelli di valutazione della realtà (appraisal); il più autorevole sostenitore di questa posizione è lo statunitense R. Lazarus. Un altro importante studioso contemporaneo, l'olandese N. Frijda (1986), ha approfondito il ruolo delle tendenze all'azione che si accompagnano a ogni emozione, mentre K. Scherer, che lavora a Ginevra con la sua équipe, studia da tempo l'aspetto interculturale delle emozioni. Le tradizionali ricerche psicologiche sulle emozioni si sono concentrate sugli antecedenti emozionali, sulla funzione delle emozioni, sulle loro manifestazioni espressive e comportamentali, sullo sviluppo emotivo nelle diverse età della vita, sugli aspetti linguistici, sul profondo influsso che le emozioni hanno sui vari processi cognitivi. Queste ricerche riguardano sia le emozioni considerate fondamentali, sia l'infinita gamma delle emozioni complesse, che possono variare nel tempo e da cultura a cultura. Le emozioni fondamentali riconosciute dagli studiosi sono: gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto. Altri studiosi aggiungono la sorpresa o l'accettazione o l'aspettativa. Fra le emozioni complesse ve ne sono alcune circoscritte a una particolare cultura, come ad esempio la giapponese amae, cioè il sentimento rasserenante di essere affidato e protetto; e ve ne sono altre oggi praticamente scomparse dal sentire comune, come l'accidia, definita in passato come tiepidezza nell'amare Dio. Le principali domande alle quali la psicologia sperimentale ha cercato di dare una risposta sono le seguenti: 1) quali sono gli antecedenti tipici di una data emozione in una data cultura? Oppure, quali sono gli antecedenti universali, nel caso si concepisca l'emozione come fondamentale e primaria per la specie umana? Le ricerche in questo ambito comprendono una raccolta ragionata di eventi, di pensieri, di valutazioni, di reazioni fisiologiche, ecc., che generalmente precedono la risposta emotiva e ne vengono considerati la causa. 2) Qual è la ragione per cui esistono le emozioni? Hanno una funzione adattiva per l'individuo e per la specie? Tendono sempre a migliorare l'interazione fra individui e il rapporto del singolo con l'ambiente, oppure a volte sono elementi di disturbo? In particolare, le reazioni fisiologiche, le espressioni emotive e le tendenze all'azione che si accompagnano a un particolare vissuto emotivo sono utili o dannose? In sintesi, le ricerche confermano la tesi che le emozioni siano essenzialmente delle reazioni funzionali, cioè risposte che esistono nella specie umana perché tendono a migliorare l'interazione dell'individuo con l'ambiente, aumentando le sue possibilità di sopravvivenza e di riproduzione. 3) I processi cognitivi superiori, e specialmente le capacità di valutazione, giudizio, pensiero e ragionamento, sono ostacolate o facilitate da fattori emotivi? Ovvero, quando e in che modo l'attivazione emozionale, e le emozioni specifiche, influenzano i processi cognitivi ? E quali sono le conseguenze di queste eventuali «pressioni» dell'emozione sulla ragione? In genere, il rapporto fra processi cognitivi e processi emotivi viene considerato un rapporto fra principi diversi per motivi essenzialmente culturali, sia perché il nostro modo di pensare predilige la contrapposizione di principi opposti, sia perché si tende a denominare in modo peculiare fasi diverse di un unico processo di elaborazione mentale. In altre parole, è vero che gli stati emotivi guidano decisamente la nostra attenzione, le nostre preferenze, i nostri giudizi e i nostri processi inferenziali, ma non si tratta di errori o di «servizi deviati» del pensiero. Al contrario, poiché l'emozione ha come fine immediato quello di segnalare dov'è il nostro interesse e quali sono gli scopi per noi prevalenti, ne consegue che anche l'elaborazione cognitiva è determinata in tal senso. Vediamo come questi punti si concretizzano in un breve quadro delle cinque emozioni fondamentali. L'esperienza di gioia è stata definita come una somma di attivazione e di piacere. La sua manifestazione, inconfondibile e universale, è il sorriso. La precocità del sorriso e i suoi effetti seduttivi sulla persona a cui è diretto sarebbero geneticamente programmati per assicurare al neonato un'interazione positiva con la madre, e in genere con le persone da cui esso dipende per la sopravvivenza. La gioia si prova e si manifesta in seguito alla gratificazione dei bisogni essenziali, in primis l'apparizione della persona amata, e in seguito al soddisfacimento di una richiesta o alla realizzazione di un desiderio. Al primo posto fra tutte le esperienze di gioia pura c'è l'innamoramento ricambiato. La funzione della gioia sarebbe quella di favorire l'attività; quando la gioia si concretizza in un desiderio erotico, le modificazioni dell'organismo sia nell'uomo che nella donna preparano al rapporto sessuale. La gioia e l'allegria hanno inoltre un ottimo effetto sulla memoria. Tutte o quasi le ricerche sperimentali confermano che il buon umore ha degli effetti positivi sulle capacità di apprendimento, specialmente se si è allegri durante la fase di presentazione o di studio del materiale da ricordare. Questo fenomeno è stato spiegato con la maggiore attivazione generale che si accompagna agli stati euforici. Ancora più marcato dell'effetto quantitativo è l'effetto qualitativo: la gioia e l'allegria fanno venire in mente dei contenuti a tonalità positiva e sono questi contenuti specifici che vengono ricordati meglio nei compiti di memoria. Inoltre, gli effetti di un sentimento di gioia rilevati in modo costante e attendibile sono: a) valutazione positiva di se stessi; b) valutazione positiva delle proprie azioni passate; c) migliore valutazione degli altri. Un fenomeno socialmente molto rilevante riguarda l'associazione fra il buonumore e il comportamento altruistico. Sembra infatti che le persone, quando sono allegre, siano più inclini del solito a rendersi utili, a prestare denaro, a rispondere ai sondaggi, a lavorare con gli altri e per gli altri, a dare dei consigli e così via. Gli antecedenti della tristezza e del dolore umano sono essenzialmente di tre tipi: 1) le sofferenze che hanno origine e sede nel corpo, dal più banale urto contro una punta aguzza ai dolori continui e laceranti di un malato terminale; 2) la perdita o le ansie legate ai rapporti interpersonali, che iniziano con l'angoscia di abbandono del bambino piccolo per accompagnare tutta la vita affettiva, quando ogni legame soddisfacente può riserbare le sofferenze della separazione o della morte; 3) le frustrazioni e le delusioni causate dalla discrepanza fra aspirazioni e conquiste, fra le nostre ambizioni e i risultati effettivamente raggiunti. L'espressione del viso, le modificazioni fisiologiche e il comportamento generale sono abbastanza simili: gli occhi si socchiudono o si chiudono, gli angoli esterni di occhi e di sopracciglia si abbassano, la bocca si apre e si piega all'ingiù. Dal punto di vista cognitivo il fenomeno più rilevante è una massiccia concentrazione dell'attenzione su stimoli interni e/o esterni, senza peraltro che tale attenzione porti necessariamente a ulteriori elaborazioni dello stimolo. Al contrario, nelle fasi di tristezza acuta le attività cognitive risultano danneggiate. La funzione della tristezza non è immediatamente apparente, anzi essa sembra talvolta un'emozione del tutto disfunzionale. Si sostiene però che questo stato emotivo, caratterizzato da un basso livello di attivazione, abbia lo scopo di indurre un risparmio energetico, tanto più opportuno quanto più grave è stata la perdita subita. I segnali esterni della sofferenza inoltre suscitano la solidarietà degli altri membri del gruppo e sostengono l'individuo in una fase di debolezza sociale. La rabbia è una delle più precoci fra le emozioni, insieme alla gioia e al dolore. Le due cause prototipiche sono la presenza di un ostacolo al soddisfacimento di un desiderio e l'imposizione di un danno. La rabbia, anche nelle sue forme più nette, sembra essere abbastanza frequente. Se si considerano emozioni meno intense, come l'irritazione, tutti dicono di aver provato questo sentimento almeno una volta durante la settimana, e la grande maggioranza almeno una volta al giorno. Uno dei punti salienti ed espliciti dell'educazione dei bambini nella nostra cultura punta alla repressione della collera manifesta. I movimenti sintomatici del viso sono l'aggrottare violento delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, oppure lo stringere fortemente le labbra, mentre gli occhi appaiono lampeggianti. Le sensazioni soggettive più comuni sono: calore, irrigidimento della muscolatura, irrequietezza estrema, paura di perdere il controllo. La voce molto spesso si alza di volume e di intensità, il tono può essere minaccioso o stridulo o sibilante. Nell'organismo intervengono tutte quelle modificazioni che sono tipiche di una forte attivazione del sistema nervoso autonomo, cioè accelerazione del battito cardiaco, aumento della tensione muscolare e della sudorazione, aumento della pressione arteriosa e irrorazione dei vasi sanguigni periferici. Queste modificazioni sono funzionali al vissuto, che è di grande impulsività e di forte propensione ad agire, con modalità aggressive o di difesa, poco importa. La rabbia è certamente uno stato emotivo che crea nell'organismo un propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni o, come accade più spesso, solo espressioni verbali. Circola nel senso comune occidentale l'idea che controllare o soffocare la rabbia faccia male alla salute, o comunque che sfogare la rabbia equivalga a liberarsi dalla rabbia, come se si trattasse di una specie di catarsi. La maggior parte degli studi empirici, al contrario, testimonia che le persone che esprimono immediatamente e più energicamente la propria rabbia la vivono per un tempo più lungo. Inoltre vi sono numerosissime ricerche che mostrano come le persone più ostili e aggressive - maschi e femmine di varie età - siano più colpite da disturbi alle coronarie. Dagli studi condotti in molte culture, sembra che almeno la metà delle persone con cui ci si arrabbia siano persone a cui si vuole bene: innamorati, amici, parenti. Qual è il motivo? Le persone a cui siamo affettivamente legate sono quelle che più facilmente possono infliggerci delle sofferenze e inoltre sono quelle con cui passiamo molto tempo. In campo lavorativo, ci si arrabbia più spesso con i superiori, con i sottoposti o con i nostri pari grado? La risposta cambia a seconda che ci si riferisca ai sentimenti di collera o alle manifestazioni di collera. Le persone che hanno autorità e potere su di noi sono più spesso oggetto della nostra ostilità, che però viene poco manifestata o solo in forme distorte e indirette. Le persone che dipendono da noi sono oggetto di irritazione frequente, che in questo caso viene facilmente manifestata, se non addirittura amplificata a scopo implicitamente pedagogico. Il vissuto soggettivo della paura, invece, è segnato da forte spiacevolezza, allarme e tentativo di evitare qualcosa o qualcuno che appare minaccioso o pericoloso. Nei casi in cui l'emozione venga accentuata dall’insorgere improvviso dello stimolo pauroso, si hanno fra gli «ingredienti» alcuni sintomi caratteristici della sorpresa. D'altra parte può capitare che un evento inaspettato, in sé non pauroso, susciti però un sobbalzo di paura, come il riflesso di evitamento che segue in modo automatico qualunque stimolo intenso e inatteso (un forte rumore, un lampo di luce, la perdita di un punto di appoggio). Altri elementi costanti dell'esperienza di paura sono la tensione, che può giungere fino a una sorta di immobilità («essere paralizzati dalla paura») e il restringimento dell'attenzione a una parte limitata dell'esperienza. La funzione della paura è chiarissima: è un segnale di allarme che attiva nella coscienza e nell'organismo delle risposte rapidissime che inducono a evitare il pericolo. La paura ha una faccia caratteristica: bocca semiaperta con gli angoli verso il basso, occhi sbarrati, cioè aperti e fissi, sopracciglia avvicinate con la parte interna spesso all'ingiù, fronte aggrottata, cioè solcata da rughe sia orizzontali che verticali in corrispondenza con il corrugamento delle sopracciglia. I muscoli dell'intero viso sono in tensione e l'espressione può restare statica per qualche istante. Le cause esterne e interne della paura dipendono in grande misura dalla percezione e valutazione dello stimolo, che può variare da un individuo all'altro. Il disgusto è un'emozione connessa essenzialmente con il cibo e con il rifiuto della contaminazione. Il termine «disgusto», essendo morfologicamente derivato e opposto a «gusto», trasmette il suo significato originario di sgradevolezza connessa con l'ingerimento del cibo. Ciò nonostante, l'emozione del disgusto insorge anche in assenza di stimolazioni delle papille gustative - sono anzi i casi più frequenti -, in risposta ad altri stimoli visivi, olfattivi e tattili che fanno parte dell'esperienza complessa di piacere/dispiacere associata al cibo. Ma anche certi animali, o parti di esseri animati, ispirano delle emozioni di forte disgusto. Vedere, toccare o essere colpiti dall'odore di qualcosa che ispira repulsione spinge - come ci dice anche l'etimologia di quest'ultimo termine - ad allontanare dal proprio campo percettivo l'oggetto disgustoso, distogliendo lo sguardo, scuotendo le dita, o sputando se lo si era già messo in bocca. E interessante notare che vista, olfatto e tatto, i veicoli privilegiati dell'esperienza di disgusto, sono anche i sensi che tipicamente trasmettono le esperienze estetiche. La persona che prova disgusto ha un'espressione facciale assai caratteristica e poco controllabile. Essa consiste principalmente nell'arricciare le narici, rovesciare le labbra e allargare la bocca come per spingere fuori il suo contenuto. Nei casi più intensi di disgusto si prova nausea e può esservi anche la reazione di vomito, che ottiene letteralmente l'effetto di espellere dal corpo l'oggetto che si rifiuta. Il corpo intero si allontana e si contrae, mentre si emettono delle vocalizzazioni riconoscibili come segnali di ribrezzo. Il disgusto è considerato un'emozione primaria o fondamentale non solo per la presenza fissa e universale dell'espressione facciale, ma per il valore adattativo che alcuni vi riconoscono. L'esperienza di disgusto protegge dal rischio di entrare in contatto e specialmente di ingerire sostanze potenzialmente dannose; è quindi decisamente connesso all'alimentazione e agli oggetti considerati quali possibili cibi. Il concetto di «competenza emotiva» è stato introdotto stabilmente da C. Saarni (1990). Secondo la sua definizione, si tratta della capacità di regolare la propria esperienza emotiva e di gestire in modo ottimale i propri rapporti interpersonali. Altri psicologi (Goleman, 1995) preferiscono usare il termine «intelligenza emotiva», con significato molto simile. La competenza emotiva è una capacità che si sviluppa con l'età e che può essere ampliata e perfezionata attraverso l'apprendimento intenzionale quando si diventa consapevoli della sua rilevanza. Possedere un buon grado di competenza emotiva equivale all'essere socialmente integrati e personalmente equilibrati. Una buona competenza emotiva, inoltre, rafforza l'autostima, e questa sicurezza personale permette di affrontare situazioni emotivamente nuove e difficili, perfezionando così ulteriormente le proprie capacità. La competenza emotiva riguarda sia il livello intrapsichico, cioè si esercita nel rapporto interno con le proprie emozioni, sentimenti e stati d'animo, sia il livello interpersonale, quando la comprensione del quadro emotivo degli altri facilita il raggiungimento degli obiettivi sociali. La competenza emotiva si articola in diverse capacità specifiche, come la comprensione delle emozioni proprie e altrui, la capacità di esprimere le emozioni anche a parole, l'empatia, la percezione delle emozioni negli altri. Queste capacità possono essere più o meno sviluppate in ogni singolo individuo. E piuttosto raro incontrare una persona che eccella in un ambito mentre è molto carente in un altro, ma è possibile che nella stessa persona vi sia un diverso grado di abilità in ambiti diversi. VALENTINA D'URSO
Emozioni (2) Con la parola «emozione» definiamo un aspetto multidimensionale della nostra esperienza di vita. Nell'accezione di senso comune, quando parliamo di emozioni ci riferiamo infatti a un ampio spettro di condizioni affettivo-emotive. Queste comprendono stati spesso prolungati caratterizzati da un particolare umore - le cosiddette emozioni di sfondo -, passioni tipicamente sociali quali l'amore, l'invidia, la gelosia o l'odio per qualcuno, così come improvvise brevi e intense esperienze reattive a stimoli esterni. R. Adolphs (2002) ha sottolineato come sia contemporaneamente possibile concepire singole emozioni, percepite come entità distinte, e considerarle altresì come spazi temporanei di intersezione all'interno di un continuum di stati definibili, ad esempio, in termini di motivazione e allertamento. Il carattere complesso e polimorfo dei fenomeni sottesi alla pluralità di significati attribuibili alla parola «emozione» ha fatto recentemente mettere in discussione l'utilità di utilizzare questo termine per denotare un fenomeno unitario (Griffiths, 1997). Nel più freddo linguaggio delle neuroscienze delle emozioni, vivere un'emozione può essere definito come esperire soggettivamente una serie di risposte fisiologiche interne al corpo (quali la modificazione della frequenza cardiaca e respiratoria, della pressione arteriosa, della sudorazione), dotate di un variabile grado d'intensità, che possono accompagnarsi o meno a comportamenti espliciti, spesso manifestati in specifici distretti corporei, quali la muscolatura del volto e del corpo o l'emissione vocale. Vivere un'emozione si configura quindi come uno stato complesso, volto ad attribuire un valore per l'organismo che l'esprime a un evento o situazione, accompagnato da gradi variabili di consapevolezza di quello stesso stato. E’ esperienza comune sentirsi chiedere conto, con nostra sorpresa, di un apparente stato emozionale di cui eravamo assolutamente inconsapevoli fino al momento in cui ci è stata rivolta la domanda. Possiamo trovarci in un dato stato emozionale ed esprimerlo col nostro corpo in maniera manifesta agli altri senza esperirne pienamente il contenuto, in quanto contenuto di una specifica emozione. Ma che cos'è esattamente un'emozione? E da dove si deve partire per fornirne una caratterizzazione biologica, o più specificamente neuroscientifica? Una descrizione per certi versi accurata di alcuni aspetti fisiologici delle emozioni viene fornita da Cartesio nel suo trattato sulle Passioni dell'anima (1649), dove all'interno di una visione dualistica della natura umana le emozioni vengono da un lato caratterizzate come sensazioni, da un altro ne viene fornita una descrizione che oggi chiameremmo mentalistica. E interessante notare come Cartesio rilevi il carattere di disposizione all'azione delle passioni degli uomini che dispongono l'anima a «volere le cose cui predispongono il loro corpo». Nell'opera di Cartesio si può già intravedere anche sul tema delle emozioni la tensione fra due tendenze contrapposte, che non cesseranno mai di informare il dibattito teorico-scientifico sul problema mente/corpo. La prospettiva monista di Spinoza si concretizza nell'Etica (1677) in una teoria delle emozioni viste come modificazione corporea che può aumentare o diminuire la nostra capacità di influenzare in modo fisico la realtà. Le emozioni secondo Spinoza possono essere distinte in emozioni passive, originate dal mondo esterno, e attive, risultato della nostra propria natura. La teoria delle emozioni di Spinoza presenta aspetti di grande modernità nell’asserire l'intima incarnazione del pensiero nel corpo che lo esprime rappresentadovisi. Spinoza attribuisce infatti al corpo vivente un ruolo determinante nella generazione dell'attività mentale, considerata come l'idea pensata del corpo, secondo un'impostazione ripresa da A. Damasio (2003). Un moderno approccio biologico alle emozioni si può fare iniziare dalla pubblicazione nel 1872 del libro Sull'espressione delle emozioni negli animali e nell'uomo, dove Ch. Darwin fece ampio ricorso al lavoro sperimentale pionieristico del neurologo francese G.-B. Duchenne, che stimolando elettricamente i muscoli facciali di soggetti volontari, e fotografandone le corrispondenti espressioni prodotte, forni per la prima volta una descrizione scientifica dell'anatomia funzionale dell'espressione facciale delle emozioni cosiddette di base (Duchenne, 1869). Nel suo libro Darwin confutò le tesi proposte qualche anno prima da Sir Ch. Bell sulla supposta unicità dell'espressione delle emozioni umane, secondo Bell espressamente modellate dall'intervento del Creatore. A questa teoria Darwin contrappose la tesi della continuità evolutiva tra l'espressione delle emozioni nell'uomo e nel mondo animale. Egli sosteneva che le risposte emozionali sono il risultato di un processo evolutivo che ha trasformato comportamenti funzionali utilitaristici, originariamente parte di un bagaglio ereditario di espressioni istintive, in espressioni cariche di valenza comunicativa. Un altro straordinario aspetto del contributo di Darwin è rappresentato dalla tesi dell'universalità dell'espressione delle emozioni di base quali gioia, rabbia, paura e disgusto, espresse in maniera simile dai membri di tutte le comunità umane viventi sul pianeta. La teoria darwiniana dell'universalità delle emozioni sarà oggetto di aspre critiche negli anni seguenti, mossegli soprattutto dai sostenitori della tesi secondo cui l'espressione delle emozioni è il prodotto di influenze socioculturali di tipo locale. Tra i vari sostenitori del relativismo socioculturale delle emozioni vanno ricordati gli antropologi M. Mead e G. Bateson. Nella seconda metà del '900 i lavori di P. Ekman fornirono sostegno empirico all'originale intuizione di Darwin. Va aggiunto però che l'universalità dell'espressione delle emozioni di base non implica necessariamente l'universalità degli stimoli atti a produrle. L'originale approccio biologico alle emozioni di Darwin si riverberò, pochi anni più tardi, nella teoria delle emozioni proposta contemporaneamente e indipendentemente da W. James (1884) e dallo psicologo danese C. Lange, nota anche come teoria di James-Lange delle emozioni (James e Lange, 1885). Secondo questa teoria, l'esperienza cosciente di un evento esterno o interno che chiamiamo emozione deriverebbe dalla percezione delle modificazioni corporee associate all'evento scatenante, mediate dall'attivazione del sistema nervoso autonomo. Secondo la famosa formulazione di James, non piangiamo perché siamo tristi, ma piuttosto siamo tristi perché piangiamo, cioè la percezione delle modificazioni corporee è l'emozione. Questa teoria suscitò grandi controversie, ma esercitò anche una fortissima funzione di stimolo allo studio dei meccanismi neurofisiologici alla base del comportamento emozionale. Nel 1892 il fisiologo F. Goltz, con una serie di esperimenti di lesione sul cane, dimostrò che la corteccia cerebrale non era necessaria per l'espressione di risposte integrate di rabbia. L'evocazione di risposte caratterizzate da forte aggressività in risposta a stimoli del tutto innocui venne definita da W. Cannon e S. Britton (1925) come «falsa rabbia», una reazione caratterizzata da un'intensa attivazione del sistema autonomo simpatico, accompagnata da aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della sudorazione, e da fenomeni di piloerezione. Una lesione del tronco dell'encefalo a livello del mesencefalo riduceva grandemente la capacità di emettere risposte emozionali integrate (Woodworth e Sherrington, 1904). Tutti questi studi suggerivano che il comportamento emozionale potesse in larga misura dipendere da strutture nervose localizzate tra mesencefalo e corteccia cerebrale. Questa ipotesi venne verificata sperimentalmente da Ph. Bard, che nel 1928 dimostrò il ruolo dell'ipotalamo e del talamo ventrale nel mediare le reazioni di falsa rabbia, attraverso l'attivazione del sistema simpatico e la conseguente manifestazione di comportamenti aggressivi. Cannon (1929) suggerì che la rimozione delle influenze inibitorie normalmente esercitate dalla corteccia cerebrale liberava i centri diencefalici talamo-ipotalamici, attivando i meccanismi neurovegetativi caratteristici delle abnormi reazioni emotive della «falsa rabbia». Secondo Cannon e Bard, i centri talamo-ipotalamici mediavano, da un lato, l'attivazione dei meccanismi responsabili delle reazioni emotive comportamentali e, dall'altro, l'attivazione dei centri corticali superiori, responsabili dell'esperienza cosciente del contenuto emozionale. Cannon e Bard ribaltarono così la tesi proposta da James e Lange. Sostennero che l'esperienza emotiva può sussistere anche in assenza dei correlati neurovegetativi, come dimostrato dal permanere di reazioni emozionali in animali deafferentati, cioè privi delle sensazioni corporee, centrali per James nell’evocare l'esperienza dell'emozione. Secondo Cannon, l'aspecificità delle reazioni neurovegetative (si può rabbrividire per il freddo oltre che per la paura) sarebbe inconciliabile con lo specifico contenuto fenomenico delle emozioni. Oggi sappiamo come le reazioni emozionali neurovegetative siano in realtà seppur parzialmente differenziate, cioè specifiche di alcune emozioni di base come gioia, dolore o paura. La contrapposizione tra queste due teorie esemplifica il contrasto sempre presente all'interno del dibattito scientifico sulle emozioni, tra concezioni che privilegiano la priorità dei fattori cognitivi nel determinare i contenuti fenomenici dell'esperienza emozionale, e concezioni che invece fanno derivare questi ultimi dal corpo e dalle sue azioni. Nel 1937 l'anatomico J. Papez propose un modello delle emozioni che, pur seguendo Cannon e Bard nell'attribuire un ruolo fondamentale all'ipotalamo e alla corteccia, cercava per la prima volta di definirlo in termini di specifici circuiti nervosi. Papez delineò la struttura di un circuito neurale specifico per le esperienze affettivo-emotive, che da lui prese il nome. L'importanza del modello di Papez consiste - al di là degli aspetti confutati da ricerche più recenti -nell'avere proposto per la prima volta un modello neurofisiologico integrato delle emozioni che attribuiva a parti diverse del cervello funzioni diverse. Questo circuito comprende l'ipotalamo, i nuclei talamici anteriori, la corteccia cingolata (nota anche come «lobo limbico», secondo la definizione originariamente datane da P. Broca) e l'ippocampo. Secondo Papez la corteccia cingolata sarebbe l'area corticale responsabile dell'esperienza emotiva, ricevendo le informazioni sensoriali afferenti dal talamo ventrale e dalla neocorteccia cerebrale, attraverso le connessioni, rispettivamente dirette, e indirette attraverso l'ippocampo, di queste due strutture con l'ipotalamo. Nel modello di Papez l'ipotalamo svolge il ruolo centrale di assegnare un significato emozionale ai dati sensoriali provenienti dal mondo esterno, generando le corrispondenti risposte neurovegetative e comportamentali. Il ruolo della corteccia cingolata sarebbe invece quello di elaborare i contenuti coscienti dell'esperienza emozionale. Questo modello ricevette un'apparente conferma empirica dalla pubblicazione nello stesso anno, da parte di H. Klüver e P. Bucy (1937), dei risultati di un esperimento condotto nella scimmia di ablazione della corteccia del lobo temporale e delle sottostanti regioni dell'ippocampo e dell'amigdala. Nelle scimmie prive del lobo temporale mancavano completamente i segni comportamentali dell'aggressività o della paura. In seguito alla lesione, gli animali divenivano abnormemente docili e mostravano l'incapacità di riconoscere gli oggetti («cecità psichica»), associata ad abnormi comportamenti alimentari e sessuali. Secondo Kluver e Bucy la distruzione dell'ippocampo era responsabile dell'incapacità di questi animali di attribuire una valenza emotiva agli stimoli sensoriali. In realtà oggi noi sappiamo che l'ippocampo rientra tra le strutture coinvolte in funzioni di tipo mnesico, e attribuiamo la multiforme sintomatologia prodotta dall'ablazione temporale all'associazione di disturbi di agnosia visiva (dipendenti dalla lesione della corteccia inferotemporale) a disturbi della sfera emotivo-affettiva (legati alla lesione dell'amigdala e delle sue connessioni). Il fisiologo statunitense P. MacLean, formulando la teoria del cervello tripartito (1970), introdusse la nozione di «sistema limbico», definito come un sistema integrato deputato al controllo delle emozioni. Secondo Maclean l'attuale struttura del cervello umano sarebbe il risultato della stratificazione evolutiva di tre sistemi, indicati rispettivamente con il nome di: 1) «cervello rettile», comprendente i gangli della base e le strutture del tronco dell'encefalo; 2) «cervello viscerale», corrispondente al circuito di Papez, indicato con il nome di «sistema limbico»; 3) neocorteccia. Il modello di Maclean e la correlata introduzione del concetto di «sistema limbico» domineranno il campo per molti anni. Di questo modello verranno progressivamente abbandonati sia l'eccessivo schematismo che il ruolo centrale per le emozioni assegnato da MacLean all'ippocampo. La ricerca neuroscientifica nel corso degli ultimi trent'anni ha approfondito lo studio dei meccanismi alla base dei nostri comportamenti emotivi. Tale approccio, fondato sullo studio di modelli animali, sullo studio clinico dei pazienti e quello sperimentale di soggetti volontari sani, ha aumentato le nostre conoscenze relativamente ai meccanismi neurochimici e all'anatomia funzionale dei circuiti cerebrali che presiedono ad aspetti importanti della sfera affettivo-emotiva. Questi studi hanno messo in crisi il concetto di «sistema limbico», inteso come circuito cerebrale integrato che presiede al controllo e all'espressione delle emozioni, mettendo piuttosto in luce la multistratificazione funzionale e la complessità dei meccanismi nervosi sottesi alla sfera emozionale del comportamento. Nell'attuale panorama della ricerca neuroscientifica sulle emozioni si distinguono posizioni come quella di J. Panksepp (1998) che, basandosi su un'attività di ricerca condotta quasi esclusivamente sui ratti, propone un modello evolutivo delle emozioni privilegiandone gli aspetti sottocorticali. Secondo Panksepp le emozioni di base come la paura, la rabbia, la gioia, le motivazioni primarie e gli affetti sensoriali come il dolore sarebbero determinati dall'attività di una serie di circuiti sottocorticali comuni a tutti i mammiferi, comprendenti strutture del tronco dell'encefalo, come la sostanza grigia periacqueduttale mesencefalica, connesse con regioni diencefaliche del vecchio «lobo limbico», come ipotalamo e amigdala. Questi circuiti controllano il comportamento appetitivo e la ricerca di ricompense, la rabbia/collera, l'ansia e la paura, e il cosiddetto «sistema del panico», concernente situazioni sociali di attaccamento/distacco. Partendo da un modello in apparenza di taglio radicalmente riduzionista, Panksepp dialoga con la psicoanalisi giungendo fino a suggerire una possibile omologia tra i sistemi sottocorticali dell'istintività emozionale da lui studiati e il freudiano mondo dell'Es. Fondamentali sono anche i contributi di J. LeDoux (1996), incentrati soprattutto sullo studio dei circuiti nervosi e dei meccanismi neurofisiologici alla base della paura, e delle reazioni comportamentali e del condizionamento ad essa connessi. Queste ricerche hanno evidenziato il ruolo chiave dell'amigdala nell'orchestrazione di una serie di complessi meccanismi caratterizzanti vari aspetti della vita di relazione, e in particolare delle emozioni. L'amigdala, un complesso di nuclei localizzati nella porzione mediale del lobo temporale, dalla vaga forma di mandorla che le dà il nome, è coinvolta nei mammiferi in generale, e nell'uomo in particolare, nell'apprendimento e nei processi di memorizzazione implicita, nell'influenza emozionale dei processi attentivi e percettivi, nella regolazione del comportamento emotivo e sociale (Phelps e Le Doux, 2005). L'amigdala riceve afferenze viscerali dal corpo attraverso la proiezione vagale dal Nucleo del Tratto Solitario. Riceve inoltre connessioni sensoriali attraverso due vie principali. Una, rapida, convoglia informazioni di tipo più «elementare», provenienti dal talamo. L'altra, più lenta, connette l'amigdala con cortecce sensoriali e multi-modali che restituiscono un modello degli stimoli molto più elaborato e complesso. L'amigdala proietta al nucleo basale di Meynert, che a sua volta controlla l'eccitabilità di molteplici regioni della neocorteccia, attraverso la diffusa innervazione colinergica di questa via di proiezione. Questo circuito nervoso è alla base della facilitazione attentiva evocata da molti degli stimoli che percepiamo quotidianamente. Tra questi, in particolare, dagli stimoli che evocano paura o avversione. Non è necessario che questi siano percepiti coscientemente per evocare attraverso l'amigdala una congruente reazione emotiva. Lo stimolo o l'evento evoca prima di essere percepito coscientemente l'attivazione del circuito nervoso che modula la risposta dell'organismo, che può anche essere protratta nel tempo. Le implicazioni cliniche di questi risultati sono evidenti. Soggetti con lesione dell'amigdala manifestano problemi sociali, consistenti soprattutto nell'incapacità di valutare l'affidabilità del prossimo e riconoscerne le emozioni dall'osservazione della mimica facciale. Questa sintomatologia diviene ancora più evidente quando una lesione interessa la corteccia orbitofrontale, situata nella parte ventrale e mediale del lobo frontale e connessa con l'amigdala. Da tutte queste ricerche emerge la continuità evolutiva dei meccanismi che regolano il comportamento emozionale. A questo livello di indagine e formalizzazione teorica, il sistema delle emozioni è interpretato come un meccanismo implicito e molto efficace di validazione del significato degli stimoli con cui l'organismo normalmente interagisce. Il «valore» positivo o negativo per l'organismo di alcune modalità d'interazione con il mondo viene attribuito, consolidato o estinto dall'attivazione di tali arcaici meccanismi, in gran parte sottocorticali. Un altro contributo molto importante, sia per i risultati conseguiti sul campo che per l'influente teoria dei «programmi d'affetti» da essi generato, è quello di P. Ekman (1972; 1992). Ai suoi lavori di studio crossculturale dell'espressione e comprensione delle emozioni si deve la definitiva affermazione su base scientifica del concetto darwiniano dell'universalità dell'espressione delle emozioni cosiddette «di base». Secondo Ekman i «programmi d'affetti» sono meccanismi coordinati di risposta automatici, stereotipati e a breve latenza (per molti aspetti simili a riflessi), che si configurano come espressioni facciali particolari e variazioni dei parametri neurovegetativi dell'organismo, controllati da vari centri limbici come ipotalamo e amigdala. Questi meccanismi, pur presentando un polimorfismo interindividuale, sono universali, comuni a tutte le culture del pianeta. Il vantaggio adattativo per un organismo vivente in possesso di tali programmi consisterebbe nella capacità di apprendere il significato degli eventi dell'ambiente circostante semplicemente decodificando lo stato emozionale indotto da simili eventi negli altri. Ekman ha anche sottolineato l'indipendenza delle risposte emozionali dalla valutazione cognitiva consapevole. Un limite di questo modello sta forse nella sua limitatissima applicabilità a emozioni cognitive di ordine superiore, come invidia, senso di colpa, imbarazzo, gelosia, ecc. Alcune di queste emozioni complesse sono inoltre espresse solo da alcune culture, come ad esempio ciò che i giapponesi definiscono amae, una sorta di senso di gratificazione derivante dal dover dipendere da altri. Le basi neurofisiologiche di tali emozioni rimangono quasi del tutto inesplorate. I circuiti nervosi responsabili dell'elaborazione delle informazioni emotivo-affettive sono almeno in parte lateralizzati. Studi condotti su soggetti sani e su pazienti neurologici hanno mostrato una prevalenza dell'emisfero di destra nella percezione delle emozioni negative, mentre più controversa è l'attribuzione di una specializzazione funzionale dell'emisfero di destra per le emozioni in generale. Uno dei contributi neuroscientifici più influenti e stimolanti alla comprensione delle emozioni e del ruolo da esse svolto in ambito cognitivo è senza dubbio quello di Damasio e della sua scuola. Damasio, forse più di altri, ha saputo fornire un modello integrato delle emozioni che abbraccia non solo gli aspetti istintuali, ma si spinge anche al mondo dei sentimenti, vale a dire alla dimensione cosciente dell'esperienza emotiva. Le emozioni sono inoltre viste come un ingrediente essenziale e ineliminabile per comprendere la reale natura dei processi decisionali umani, per lungo tempo ritenuti l'esclusivo prodotto logico-deduttivo di una supposta mente razionale. Per Damasio le nostre decisioni sono sempre influenzate dalle passate esperienze, registrate dal sistema emozionale in termini di valenza affettiva. Queste esperienze lasciano delle tracce e vengono rievocate da «marcatori somatici», cioè da particolari stati del corpo. Attraverso uno studio prevalentemente clinico condotto su pazienti neurologici (1995; 2000; 2003), Damasio ha distinto tre differenti livelli di esperienza emozionale. Il primo livello è quello dell'emozione vera e propria, la risposta biologica comportamentale e del mezzo interno a una particolare tipologia di stimoli. Il secondo livello, quello dei «sentimenti» dell'emozione, può o meno affiorare al livello di coscienza. Infine, il terzo livello è occupato dalla consapevolezza cosciente dell'esperienza del sentimento dell'emozione. Mentre il primo livello anche per Damasio coincide essenzialmente con i programmi d'affetto, gli altri due sarebbero il prodotto di meccanismi corticali superiori. Uno dei meccanismi che permettono di provare emozioni consisterebbe nell'attivazione di un circuito nervoso di tipo «come se», cioè un circuito di simulazione. In particolare, l'attivazione di un circuito costituito dalle aree corticali sensorimotorie, dall'amigdala, dalla corteccia insulare frontale e da quella orbito-frontale consentirebbe l'esperienza cosciente dell'emozione. Un recente studio condotto dal gruppo di Damasio su oltre cento pazienti neurologici che avevano sofferto danni cerebrali di vario tipo ha dimostrato che i pazienti con lesioni alle cortecce fronto-parietali mostravano i deficit più gravi nel riconoscimento e denominazione delle emozioni di base (Adolphs et al., 2000). L'integrità del sistema sensori-motorio appare quindi cruciale per il riconoscimento delle emozioni altrui. Il sistema sensori-motorio media infatti il processo di ricostruzione di come ci sentiremmo se fossimo noi a provare quelle stesse emozioni. Riconosciamo cioè le emozioni degli altri mediante la simulazione incarnata degli stati corporei ad esse correlati. Il meccanismo di simulazione può interessare livelli diversi, come l'attivazione delle muscolatura facciale e corporea o modificazioni di tipo neurovegetativo. Questi ultimi sembrano dipendere dall'attivazione dell'insula anteriore. Una conferma empirica al ruolo della simulazione nella comprensione degli stati emotivi altrui e dal ruolo in essi giocato dall'insula viene da recenti studi di brain imaging, i quali dimostrano che l'insula anteriore si attiva sia durante l'esperienza soggettiva di un'emozione di base come il disgusto che durante l'osservazione della stessa emozione espressa dalla mimica facciale altrui. Altri studi mostrano il coinvolgimento dell'insula sia nell'esperienza soggettiva del dolore che nell'esperìenza del dolore altrui (Gallese, Keysers e Rizzolatti, 2004). Il settore anteriore deE'insula, la cui stimolazione elettrica evoca senso di nausea o vomito, riceve ricche connessioni dalle strutture gustative e olfattive e dai settori anteriori della corteccia del solco temporale superiore, dove sono stati descritti neuroni che rispondono all'osservazione dei volti. L'insula anteriore associa quindi stimoli olfattivi, gustativi e visivi alle correlate risposte autonomiche e viscero-motorie e alle sensazioni viscerali da esse generate. Questi recenti sviluppi della ricerca neuroscientifica suggeriscono che il senso delle emozioni altrui è costruito e compreso anche grazie a un meccanismo di simulazione che produce nell'osservatore uno stato corporeo condiviso con l'attore di quella espressione (Gallese, 2005). E la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire «empatica» (Gallese, 2003). A. Goldman e Ch. Sripada (2005) hanno definito questo meccanismo di simulazione come «risonanza diretta». VITTORIO GALLESE |