Ebefrenia, eboidofrenia |
L'ebefrenia è una forma di follia a insorgenza assai precoce ed evoluzione assai rapida verso la demenza. E. Hecker (1871), colui che per primo la descrisse - secondo alcuni condotto per mano dal suo maestro K. Kahlbaum -, riconosce in essa la cifra estetica dello strano, del bizzarro e puerile. Sono i comportamenti di questi giovani strambi, sgangherati e scollegati dal mondo (non di rado, allora come ora, equivocati come simulatori) a impressionare maggiormente l'osservatore, Il primo caso descritto da Hecker, Theodor K., è un giovane di vent'anni il cui comportamento ha il sigillo della stupidità. Anche se non pare allucinato, Theodor parla da solo, sta in disparte, non partecipa alla conversazione. Ride e va in collera senza motivo apparente, si lascia andare ad azioni insensate come mettere la testa sotto i piedi del letto; emette suoni inarticolati, dà risposte di traverso (alla domanda «Come va?» replica enigmaticamente «Eh! Bisogna comunque avere la propria libertà»). È disobbediente, oppositivo, molesto, polemico. Guarda fisso il sole accecante, fa piroette ad occhi chiusi e con la testa gettata all'indietro, poi si strofina gli occhi con l'erba e risponde a tutte le domande con queste parole sibilline: «Ma gli occhi! Ma gli occhi! » La rappresentazione dei gesti della follia messa in scena da Hecker può risultare vuota e meccanica. In realtà, la rappresentazione dell'ebefrenia non è affatto sorda alla voce degli ebefrenici, anche se si tratta per lo più dell'eco di questa voce: della ricostruzione dei prodromi della malattia compiuta sulla base dei racconti di parenti e conoscenti. Hecker quasi pare scusarsi con il lettore della poca scientificità di questa ricostruzione catamnestica, di questo antesignano tentativo di rianimazione della storia vissuta della malattia; eppure per noi oggi è propria questa la cifra più originale della sua monografia, forse ancor più che l'aver intuito il nesso strutturale tra l'eccentricità del comportamento e la stramberia del linguaggio degli ebefrenici. Lo sguardo di Hecker rivela un altro modo di vedere, scavalca il muro del manicomio e si proietta sull'adolescenza vulnerabile dei suoi malati, anzi: sulla «vulnerabilità insita nell'adolescenza». Ebe, che dà il nome alla malattia, figlia di Zeus e di Era e sposa del suo fratellastro adulterino Eracle, è la dea della giovinezza. È uno sguardo leggero e profondo che l'allievo di Kahlbaum posa sull'adolescenza, descrivendo un corpo dinoccolato e maldestro che non sa bene cosa fare con le proprie mani, braccia e gambe, compie tutta una serie di movimenti disattenti, approssimativi, spigolosi e una serie di azioni sgraziate e grossolane preso in una specie di pulsione sfrenata di attività; così anche lo spirito non sa più come prendere le nuove rappresentazioni e sensazioni che si svegliano in lui. Con l'adolescenza affiorano, svegliate da sensazioni fino ad allora sconosciute, una congerie di umbratili rappresentazioni che entrando in contrasto con quelle che tenevano il campo in precedenza generano un conflitto estraniante. Il vecchio Sé, «con le sue scarpe da bambino», non lascia subito spazio a quello nuovo. Nel contesto di questo conflitto sopraggiunge quella perturbazione della coscienza che chiamiamo «ebefrenia» come una specie di congelamento mortifero del conflitto, che ne arresta le potenzialità evolutive e maturative: il combattimento è cessato, ma i combattenti sono in qualche modo inchiodati sul posto, come se continuassero a battersi. Nella microstoria dell'ebefrenia si può, dunque, rintracciare una storia dell'evoluzione dello sguardo psicopatologico dal visibile all'invisibile: uno spostamento progressivo dalla semplice osservazione trasversale (hic et nunc) di comportamenti alienati, alla loro prospettiva longitudinale storico-biografica saltando, mediante un'anamnesi a più voci, il muro del manicomio; dalla descrizione di una serie di comportamenti eccentrici e strambi, alla comprensione del mondo interno che li sottende e a cui essi rimandano; dalla registrazione di tali comportamenti e vissuti all'interno di una dimensione puramente singolare, al loro inquadramento in una condizione umana collettiva, quale la crisi adolescenziale e il tormentato sviluppo di un equilibrato rapporto tra sé e il mondo mediato dal senso comune. È anche seguendo questa strada che si può giungere a costruire un'immagine della schizofrenia centrata sulla nozione di autismo e a interpretare la schizofrenia come «follia dell'essere sociale». Il nostro modo di intendere il concetto di ebefrenia fa infatti riferimento principalmente al modo in cui E. Bleuler (1911) inserì questa forma di follia nell'affresco generale della schizofrenia. Tuttavia, la lettura bleuleriana dell'ebefrenia né coincide perfettamente con la descrizione datane da Hecker, né esaurisce le potenzialità euristiche di questo concetto, per comprendere le quali può essere utile mettere a confronto la concezione bleuleriana con due linee di pensiero alternative, assai meno note. La prima risale all'insegnamento di K. Kleist, il quale considerò il deterioramento dell'affettività come elemento centrale dell'ebefrenia. Questa concezione, è opinione di Kleist e del suo allievo K. Leonhard (1950-51), riprende il pensiero originariamente espresso da Hecker, secondo il quale l'appiattimento affettivo progressivo e il comportamento disorganizzato erano da considerarsi gli aspetti psicopatologicamente caratteristici dell'ebefrenia. Bleuler, viceversa, avrebbe fatto dell'ebefrenia una categoria diagnostica più eterogenea, includendo tra i sintomi la disorganizzazione del pensiero, del linguaggio e del comportamento, oltre all'appiattimento affettivo e all'eventuale presenza di fenomeni allucinatoti e paranoici non preminenti. Sulla base di questa rilettura della nozione originaria formulata da Hecker, e della conseguente critica alla concezione bleuleriana, Leonhard (1950-51) sviluppa la propria idea di ebefrenia come disturbo fondato sulla perdita delle «emozioni indirette» o «mediate» (mittelbare Gefühle). Attraverso queste emozioni, l'uomo viene coinvolto emotivamente nella propria esistenza al di là dei limiti ristretti delle reazioni immediate agli stimoli presenti. Le emozioni indirette, dunque, ci proiettano oltre il presente, cioè oltre l'orizzonte ristretto delle nostre percezioni e dei nostri impulsi. Solo così il futuro acquista una propria tonalità emotiva sotto forma di piacere o sofferenza anticipate (Erwastungsfreude e Erwartungsleiden). Questo disturbo dell'emotività indiretta (e non il disturbo formale del pensiero e del linguaggio) rappresenta il nucleo della sintomatologia ebefrenica, cioè (secondo Leonhard) la mancanza di tensione e di orientamento verso il futuro che dà luogo alle quattro specie principali di ebefrenia - «sciocca», «superficiale», «eccentrica» e «autistica». Per certi versi, questa concezione dell'ebefrenia quale disturbo dell'emotività indiretta, e dunque di un orientamento esistenziale ed etico stabile e proiettato verso il futuro, avvicina l'ebefrenia alla sua parente povera e dimenticata: l'eboidofrenia. Un'altra serie di osservazioni cliniche, che risalgono al maestro di Hecker (Kahlbaum, 1889) e giungono sostanzialmente intatte nella loro enigmaticità fino a tutta la metà del secolo scorso (Guiraud, 1956), rappresentano un autentico sentiero interrotto della psicopatologia della schizofrenia. Si tratta, appunto, della nozione di eboidofrenia, concetto coniato da Kahlbaum per inquadrare una forma di devianza di rango psicotico a insorgenza giovanile, e per questo analoga all'ebefrenia di Hecker, ma da questa distinta dall'assenza di disturbi del pensiero e del linguaggio altrettanto marcati. La condizione eboidofrenica sarebbe caratterizzata dalla presenza di accentuati disturbi del comportamento sottesi da una patologia delle pulsioni e della morale. Questi giovani oscillano tra la perversione, la condizione autistica e quella antisociale. Manca loro la tendenza a darsi a una stabile e produttiva occupazione e sembrano insensibili ai legami affettivi che rappresentano la base della vita familiare e sociale. Vivono di espedienti - piccoli furti, estorsioni, prostituzione -, versano nel vagabondaggio e spesso rappresentano la manovalanza della delinquenza organizzata. Inscenano condotte di opposizione nei confronti della famiglia e della società, a volte ammantate da teorie anarcoidi e individualistiche spesso velleitarie, talora da frammenti di letture filosofiche o scientifiche. Emotivamente appaiono freddi, distaccati, talvolta superbi; e al tempo stesso sono imprevedibili, scattano per futili motivi, possono surriscaldarsi e agitarsi, fino a giungere alla soglia dello stupore; possono cadere in preda di un'impulsività maligna. Forse è a causa di questo enigmatico rapporto con la pura e semplice devianza sociale e con la caratteropatia sociopatica, da un lato, e con la catatonia, l'ebefrenia e i quadri deliranti, dall'altro, che l'eboidofrenia non verrà inclusa nel trittico kraepeliniano della dementia praecox e nei suoi successivi restauri e rielaborazioni: gli eboidofrenici sono troppo simili ai cattivi, troppo diversi dai matti. L'eboidofrenia verrà, invece, tutt'al più considerata (nei trattati della prima parte del '900) una forma d'esordio subdolo o di esito cicatriziale (guarigione con difetto) del gruppo delle schizofrenie. In certi casi la personalità psicopatica non è che la premessa o la superficie di un'evoluzione schizofrenica (Ey, Bernard e Brisset, 1989). Bisogna inquadrare qui ciò che talvolta viene chiamato, in maniera piuttosto vaga, eboidofrenia. Si designano infatti come «eboidi» taluni soggetti preschizofrenici, cupi, negativisti, impulsivi, immersi in una specie di «autismo moroso» (Guiraud, 1956). Eppure, in questa disgraziata esclusione dalle forme sintomatiche conclamate e in questo anomalo posizionamento nosodromico agli inizi e alla fine del percorso psicotico vi è un implicito riconoscimento. L'eboidofrenia è l'esito che precorre la condizione schizofrenica, il combustibile che non brucia e pertanto si ritrova intatto tra le ceneri dopo che gli ultimi fuochi della psicosi si sono spenti. La definizione coniata da P. Guiraud, «autismo moroso», per evocare il radicale psicopatologico dell'eboidofrenia non potrebbe cogliere più icasticamente questa condizione quasi ossimorica caratterizzata da risentimento torpido, ribellione inerte, opposizione indolente che rappresenta una modalità repellente, in quanto non nobilitata dai complessi sintomatologici classici (cioè dal delirio e dalle allucinazioni), della perdita del contatto vitale con la realtà. Una conferma indiretta delle osservazioni condotte da Kahlbaum sugli eboidofrenici sembra giungere da un altro psichiatra tedesco: K. Willmanns, che sarà direttore della Clinica di Heidelberg fino all'avvento dei nazisti, nel 1904 pubblica un libro sui diseredati, che seguiva di notte travestito come uno di loro nella suburbe, accogliendoli non di rado nella propria casa, e prestando loro denaro. Nel suo libro Willmanns vuole dimostrare che molti di questi barboni sono in realtà schizofrenici. Egli aveva presagito, con una sensibilità a dir poco visionaria, in nettissimo anticipo sui tempi dell'antipsichiatria, il sacro connubio tra follia ed emarginazione. Le analogie tra la marginalità osservata e riclassificata come psicosi da Kahlbaum e da Willmanns sono tutt'altro che fortuite. Entrambe sembrano contenere una critica, autentica quanto estemporanea, alla rimozione forzata della follia dal paesaggio urbano e dal mondo della vita, e stabilire l'importanza in sede psicopatologica della sfera dei valori di cui una persona, psicotica o no, è portatrice. L'anomalia eboidofrenica trova, dunque, la sua collocazione nosologica tra le forme della vulnerabilità schizofrenica, e non tra i quadri conclamati di schizofrenia. Il concetto di eboidofrenia potrebbe aver influenzato lo stesso Bleuler, il quale sembra concepire la famosa «schizofrenia latente», cioè la forma per lui essenziale di schizofrenia, sul modello dell'eboidofrenia (Garrabé, 1996). Sarà E. Kretschmer (1921) a dare, nel capitolo dedicato ai «temperamenti schizoidi», una descrizione magistrale del mondo vissuto di questo «idiota morale», diretto discendente dell'eboidofrenico, l'«impuro folle» descritto da Kahlbaum. Gli schizoidi, ammonisce Kretschmer, hanno una superficie e una profondità. Apatia o crudeltà, sarcasmo o timidezza: questa è la loro superficie. Ma cosa si cela sotto questa maschera ? Il temperamento schizoide è un groviglio contorto di ipersensibilità e freddezza e il dramma dello schizoide si compie quando la sua risonanza emotiva si cristallizza in uno di questi due poli - quello iperestesico o quello anestesico. Nel corso della vita, e in particolare nel trascorrere dall'infanzia all'adolescenza all'età adulta, si può assistere a una metamorfosi del carattere del tipo schizoide. Fino alla pubertà e agli inizi dell'adolescenza, ci si trova di fronte a persone docili e malleabili. Ma questa «buona natura» degli schizoidi non va equivocata con la capacità di partecipare affettivamente ed emotivamente alle gioie e ai dolori altrui; piuttosto, si tratta di una animosità inibita dalla timidezza che si impianta su sentimenti di vergogna e su una risonanza affettiva tutta interiore. E con l'incedere della tarda adolescenza e degli avvenimenti dell'età adulta che il carattere si estremizza e l'iperestesia o l'ipoestesia si manifestano. Sulla base di ciò, Kretschmer classifica i temperamenti schizoidi in due gruppi: il primo, con caratteristiche prevalentemente iperestesiche, raccoglie il tipo affettivamente ipersensibile, quello aristocratico freddo ma sensibile e l'idealista patetico. Il secondo gruppo, che include i temperamenti prevalentemente ipoestesici, annovera il tipo freddo dispotico o idiota morale, il tipo insensibile-appassionato e il vagabondo instabile. Ernst Katt, il prototipo del freddo dispotico, è uno studente ventitreenne che perseguita i propri genitori con odio fanatico: suo padre è per lui un cafone disonorato e sua madre una puttana. Era stato un bambino sensibile e socievole, tenero come un agnellino fino all'adolescenza. Da allora, il suo carattere era cambiato catastroficamente, diventando testardo, insensibile, irrequieto. Non ha mai terminato gli studi, si dà a letture velleitarie e disordinate; è pieno di debiti e ruba l'argenteria di casa per pagare i creditori. Quanto si comporta da despota insensibile con i genitori, tanto si atteggia in maniera aristocratica - da maître de plasir -nella buona società che frequenta. Se qualcuno si lamenta della sua amoralità, tossicchia freddamente. Si scalda soltanto se gli si chiede di lavorare. Dice: «Io sono un uomo eccezionale, e il modo di vivere di tutti non fa per me. Il mondo per me è un palcoscenico sul quale interpreto solo me stesso». Ma dal profondo, da sotto questa scorza comportamentale da «idiota morale», sotto questo atteggiamento dispoticamente freddo e blasé, giunge l'eco della disperazione e della miseria, della confusione e del conflitto. Questo Nerone domestico, questo Faust da salotto buono che dice di disprezzare gli uomini e la morale comune, ammette che le sue scorribande'amorali sono solo un «modo per fuggire da me stesso» e piange convulsamente quando, in un conato difficilmente credibile, ma non per questo necessariamente inautentico, di inanità umanitaria afferma: «Io voglio l'umanità, io voglio la società». Kretschmer annota che gli schizoidi del tipo di Katt - il cui centro di gravità emotivo è passato dal polo iperestesico dell'età infantile all'eccesso di quello ipoestesico - sono i più sfortunati, perché resta loro quel tanto di sensibilità residua da poter percepire l'orrore del deserto gelido della propria emotività assiderata. Un'emotività contorta e frastornata, «autistica» nel senso pieno del termine e cioè dolorosamente contratta - l'autismo è per Kretschmer un «crampo doloroso del Sé in se stesso» - rende incapace Katt di empatia e di compassione, di trascendere se stesso e di trovare nell'altro il senso della morale che disprezza. Uno smisurato bisogno di umanità, per vie oscure e tramite eventi che smisuratamente devono averlo sorpreso alle soglie dell'adolescenza, ha fatto di lui un uomo ripiegato su se stesso come un punto interrogativo che dice di sé, perdendo qualsiasi dignità: «Manco di umanità! [...] Sono solo una salsiccia». Tra le ipotesi di lavoro che preconizzano una psicopatologia non amputata dai suoi orizzonti antropologici e sociali, l'ebefrenia di Hecker e l'eboidofrenia di Kahlbaum guadagnano un posto in primo piano, quest'ultima specialmente dopo la lettura datane da Kretschmer. Il grande merito di Hecker è aver mostrato che la «stupidità» di un adulto è il fissarsi nel tempo dell'atopia adolescenziale - dell'eccentricità, dell'inquietudine e della dismetria fisiologiche della coscienza adolescente - e delle stereotipie, dei manierismi, delle stramberie posturali, motorie e linguistiche con le quali ciascun adolescente cerca di risolvere la tragica lotta tra due identità che caratterizza l'«età ingrata». Ma ci vorrà ancora un secolo, e una radicale rivoluzione dello sguardo psicopatologico, prima che si comprenda che l'essenza di questa condizione eccentrica e sospesa consiste nella «crisi del senso comune» (Blankenburg, 1971); prima che si intuisca che dietro a questi comportamenti enigmatici si cela il mancato sviluppo e l'evanescenza di quel corredo implicito di sapere pratico e adattativo tramite il quale ciascuno di noi riesce a metabolizzare le nuove esperienze, assimilandole a quelle passate; a orientarsi rispetto a se stesso, alle persone e alle situazioni che incontra nel proprio mondo tenendo come punti cardinali il tatto, il buon gusto e il buon senso. Oggi si può dire con semplicità che ciò che chiamiamo «schizofrenia» è a pieno titolo una «patologia dello sviluppo» - o se si preferisce, per essere più precisi, della Bildung. Uno stallo, cioè, di quel processo dialettico che vede ogni individuo muoversi tra la propria nuda individualità e i costumi e le istituzioni della società cui appartiene alla ricerca di un'appropriazione personale (e perché no anche originale) di tali costumi e istituzioni. Anche l'impuro folle descritto da Kahlbaum porta in primo piano la follia come scacco dell'essere sociale, mettendo l'accento sul sacro connubio tra follia e marginalità. Qui la follia rivela la propria smorfia di rivolta imprigionata. Ciò che imprigiona, però, a differenza dall'ebefrenia, è anche uno sdegnato e velleitario rifiuto della Bildung. Freddezza emotiva e idiozia morale si coniugano in queste persone. Il distacco dalle proprie emozioni non consente di percepire l'altro come persona; l'apatia sottende la crudeltà. Senza emozioni il mondo perde di realtà, diviene un «palcoscenico» - una rappresentazione, un gioco le cui regole possono essere fatte e disfatte come si vuole. Ma al tempo stesso, questa crosta di ghiaccio insensibile e raggelante rappresenta l'instabile superficie di contatto con l'esterno di una sottostante, magmatica emotività; e il misantropico disprezzo per la morale comune può mascherare una straziante nostalgia di umanità. In questi piccoli antropologi smarriti sulla Terra, l'interesse e il disprezzo per il mondo degli umani trapelano da una maschera scettica, curiosa e distaccata. In questa forma di marginalità, impersonata dall'eboidofrenia, che reca le stigmate, sebbene sbiadite, della follia, si può cominciare a intravedere uno dei volti della condizione umana vulnerabile alla schizofrenia. GIOVANNI STANGHELLINI |