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Dissonanza cognitiva La teoria della dissonanza cognitiva, presentata nel 1957 da L. Festinger, ha costituito per circa un ventennio uno degli argomenti privilegiati sui quali ha lavorato la psicologia sociale, soprattutto americana, producendo centinaia di contributi sia di ordine teorico che sperimentale. Festinger, allievo di K. Lewin, aveva già prodotto nel 1950 e nel 1954 due importanti lavori sulla comunicazione sociale informale e sul confronto sociale, unendo alle esigenze di formalizzazione nella nuova psicologia sociale l'attenzione per i modi di pensare e di sentire concreti delle persone che era stata tipica della ricerca lewiniana. Anche la teoria della dissonanza cognitiva prende le mosse da un assunto largamente presente nel senso comune e nell'esperienza quotidiana, che essa cerca di inserire in un quadro teorico-metodologico suscettibile di analisi sperimentale. L'essere umano, recita tale assunto, tende a essere coerente nel suo modo di pensare: quando nell'individuo tale coerenza viene a mancare, si produce una spinta a ripristinarla. Ad esempio, se l'individuo sa che il fumo fa male e se, pur essendosi posto il problema di smettere di fumare, continua a farlo, potrà nascere una dissonanza tra i due elementi cognitivi rappresentati rispettivamente dal sapere che il fumo fa male e dal sapere di continuare a fumare. In tal caso, il nostro individuo tenderà a risolvere lo stato di dissonanza mediante un'operazione che Festinger definisce di «ristrutturazione cognitiva». Egli potrà cercare nuove informazioni sul fumo che si dimostrino meno gravi di quelle che già possiede; potrà cercare un appoggio nella constatazione che vari medici di sua fiducia sono fumatori; potrà aggiungere delle nuove conoscenze sul fumo che ne dimostrino anche gli effetti positivi. In pratica, cercherà informazioni che lo confortino nella sua decisione di fumare, in modo da ridurre il senso di disagio psicologico che si è creato, ed eviterà informazioni capaci di aumentare il disagio stesso. Il bisogno di coerenza mentale e di equilibrio cognitivo era già stato variamente puntualizzato dalla psicologia sociale dell'epoca. La novità della teoria di Festinger sta nell'ottica funzionale e motivazionale con cui egli affronta il problema. Funzionale: perché l'insorgenza della dissonanza cognitiva è collegata a una presa di decisione che immette la sfera mentale nel contesto pratico dell'esperienza; motivazionale: perché l'insorgenza dello stato di dissonanza comporta una tendenza che spinge a ridurlo. Perché due «cognizioni» siano dissonanti, dice Festinger, occorre che esse siano pertinenti tra loro, e che l'opposto dell'una consegua solitamente dall'altra. Questa definizione ha dato luogo a discussioni e polemiche, già a partire dallo stesso concetto di cognizione. Con questo termine Festinger intende ogni elemento mentale relativo non solo a conoscenze in senso stretto, ma anche a opinioni, credenze, valutazioni, atteggiamenti e così via. «Modi di pensare», egli dice, che possono riguardare noi stessi (ciò che siamo, facciamo, sentiamo, desideriamo) e l'ambiente in senso lato (rilevanza, piacevolezza, importanza e i loro contrari). Date due cognizioni, la loro pertinenza è talvolta meno agevole da stabilire di quanto appaia al senso comune. Ad esempio, il sapere che «il fumo fa male» e che «la neve è bianca» sembrano chiaramente due elementi cognitivi senza collegamento. Potrebbero invece divenire pertinenti se il soggetto sta progettando un'escursione alpina particolarmente faticosa, che sarà resa più dura dallo stato della neve, richiedendo quindi perfette condizioni fisiche che possono essere subordinate alla drastica riduzione di fumo. Anche il carattere di opposizione tra i due elementi cognitivi non è sempre molto perspicuo. La dissonanza, dice Festinger, può dipendere da motivi di logica interna, dal contesto delle norme culturali in cui viviamo o dalla nostra esperienza personale. Ad esempio, per una persona che usi il sistema mei metrico decimale, il sapere che un metro è composto di 100 centimetri e il pensare che un 1 centimetro sia più lungo di un metro sono due elementi cognitivi chiaramente in contrasto. Così come lo è il sapere di essere allergico ai frutti di mare e il pensare di mangiare a cena un bel piatto di pastasciutta alle vongole. Ma non sempre le cose sono così nette. In realtà, l'unico vero standard per valutare i due elementi è la logicità che essi possiedono nell'ambito del sistema di cononoscenze che l’individuo utilizza comunemente nel corso della sua vita concreta: un ambito, cioè, che rimanda essenzialmente a quel sapere soggettivo, che, messo in luce da W. James (1890) e ripreso da F. Heider (1958) nella sua cosiddetta «psicologia ingenua», restava in larga misura ignorato dall'ottica oggettivistica che ormai guidava tutta la psicologia sociale dopo Lewin. Per questo la definizione stessa di dissonanza ha costituito un problema per molti studiosi. In ogni caso, la discordanza tra due cognizioni pertinenti non è sufficiente, di per sé, a produrre il fenomeno della dissonanza; occorre che esse siano messe in azione nel mondo concreto dell'esperienza personale, attraverso una decisione. Il momento in cui si concretizza l'interrelazione tra il mondo interno e il mondo esterno è quello in cui si prende una decisione: la dissonanza per Festinger è un'inevitabile conseguenza della decisione. In effetti, vi è sempre un momento decisionale non soltanto nell'ambito classico della scelta libera tra due o più alternative, ma anche in altre occasioni che sono diventate i principali paradigmi sperimentali della dissonanza cognitiva: quando una persona è costretta, attraverso incentivi positivi o negativi di vario ordine, a un accordo forzato che la impegna a un comportamento contrastante con le proprie opinioni o atteggiamenti; quando ci si trova di fronte a un fatto compiuto; quando non vengono confermate le aspettative sulle quali si era finalizzata una azione; quando si viene esposti a informazioni discordanti con le proprie; e così via. Una esemplificazione di questa dinamica, abbastanza realistica perché rilevata non in laboratorio ma nell'ambito della vita quotidiana, era già stata delineata nd volume che Festinger, insieme con H. Rieken e S. Schachter (1956), aveva dedicato alle vicende di un gruppo millenaristico che si era costituito. all'epoca intorno a una presunta veggente. Questa signora, che affermava di essere in contatto con i «Guardiani» dello spazio da cui riceveva messaggi, diede un giorno la notizia che dopo due mesi, e precisamente il 21 dicembre di quell'anno, la città (che Festinger e colleglli chiamarono Lake City) sarebbe stata distrutta da un'enorme alluvione. Annunciò anche ai suoi adepti che un'astronave sarebbe stata inviata per metterli in salvo: un gruppo di questi membri si radunò e i ricercatori fecero in modo di infiltrarsi in mezzo a loro nel fatidico giorno e in quelli successivi. Ovviamente nulla successe. Ci si poteva aspettare che il fallimento della profezia portasse allo scioglimento del gruppo e alla sconfessione della profetessa: invece avvenne l'opposto. Il gruppo si compattò, interpretò lo scampato pericolo come una grazia ricevuta per aver costituito il movimento, e iniziò a promuovere un'intensa azione di propaganda e proselitismo. L'aspettativa non confermata provocò dunque un effetto di dissonanza (almeno in senso lato), inducendo le persone a cercare nuovi elementi cognitivi per rinforzare una credenza rivelatasi chiaramente falsa. Il proselitismo, in effetti, è un accertato strumento di costruzione sociale della realtà: in questo caso, per fondare la realtà della credenza sulla condivisione del più largo numero di persone possibile. Una convincente dimostrazione dell'effetto dissonanza realizzata su base sperimentale si ebbe da un esperimento realizzato da Festinger e J. Carlsmith (1959). In tale ricerca 71 studenti universitari vennero sottoposti a prove lunghe, molto noiose e monotone. Dopodiché, chiacchierando con ognuno dei soggetti singolarmente, lo sperimentatore affermò di stare conducendo degli esperimenti per vedere se il fatto di dire alla gente che il lavoro che devono eseguire è bello, divertente e interessante può provocare delle differenze nel rendimento; disse anche che il lavoro in questione era proprio costituito dalle prove in precedenza eseguite dal soggetto stesso. Fingendo di essere privo di aiutante, chiese a ogni soggetto di fargli da «compare» nell'introdurre la persona che doveva sostenere la prova e nel convincerla che la prova stessa era piacevole e interessante. In realtà questa persona era un collaboratore vero dello sperimentatore, ed era proprio lui che valutava il comportamento dello studente. Per questo compito a una parte degli studenti fu proposta la ricompensa di 20 dollari e all'altra di un dollaro. Alla fine delle prove, inoltre, ogni studente veniva intervistato da un altro ricercatore apparentemente del tutto estraneo all'esperimento, e nel corso dell'intervista, ufficialmente indirizzata a tutt'altri fini, veniva sondato il suo reale atteggiamento di fronte alle prove stesse. Si disponeva perciò di un doppio controllo abbastanza abilmente mascherato. Conformemente all'ipotesi, si rilevò che i soggetti meno pagati furono molto più convincenti nel proclamare la novità e l'interesse delle prove, e all'intervista risultarono essi stessi abbastanza convinti di questo, in palese contrasto con la loro opinione precedente. Questi risultati, commenta Festinger, mostrano che quando un individuo accetta di assumere posizioni contrarie alle proprie convinzioni per un guadagno pressoché nullo, viene a trovarsi in dissonanza perché la ricompensa modesta lo costringe a mettere in causa il suo mondo mentale. Per ridurla, egli non potrà fare altro che operare su questo mondo, e cioè cambiare le proprie convinzioni. Se, invece, la ricompensa è molto alta, la dissonanza non insorge perché l'individuo ha avuto, nella ricompensa stessa, una motivazione sufficiente a giustificare il suo comportamento, senza bisogno di impegnare più a fondo le proprie convinzioni. Molte situazioni di questo tipo (definite di «accordo forzato» perché le decisioni dei soggetti, pur essendo libere, erano prese in condizioni quasi obbligate) furono replicate nel corso di vari esperimenti realizzati in contesti differenti, più o meno naturali. Tra queste ricerche, particolarmente accurate furono quelle condotte su gruppi di bambini nell'ambito di scuole materne utilizzando situazioni di gioco: note col nome di «giocattolo proibito» (Aronson, Turner e Carlsmith, 1963; Amerio, Bosotti e Arnione, 1978a e b), esse confermarono in modo abbastanza convincente la tesi centrale di Festinger. Altri esperimenti furono condotti mettendo in gioco la possibilità di scegliere senza più alcuna forzatura (libera scelta) e altri ancora creando ingegnose situazioni di esposizione a informazioni contrarie agli atteggiamenti personali (il cosiddetto counter-attitudinal effect), e altri ancora relativi alla disconferma di aspettative. Questo gran numero di ricerche fu dovuto non solo alla difficoltà di creare situazioni sperimentali capaci di cogliere un effetto non facile da formalizzare a livello di variabili controllabili e manipolabili, ma anche a un motivo più profondo sul piano concettuale. I fenomeni di dissonanza, infatti, mostrando che il cambiamento era conseguenza non di un premio, ma di una situazione soggettiva che andava proprio in direzione opposta, veniva a disconfermare quel presupposto fondamentale del rinforzo legato all'antica «legge dell'effetto» di Thorndike, che era ancora operante nella ricerca della psicologia sociale. Non è un premio elevato (un alto rinforzo) che agisce nel produrre modifiche di opinioni e atteggiamenti, ma il bisogno della coerenza mentale, la necessità di trovare una consistenza tra ciò che si fa e ciò che si pensa. Quella che agisce non è, quindi, una motivazione collegata a bisogni primari o secondari che cercano dall'esterno un soddisfacimento, ma una motivazione intrinseca ai processi mentali stessi, connessa con la struttura e il funzionamento dell'organizzazione mentale. Anche per tale motivo era fortemente sentita, da un lato, la necessità di schemi metodologici «forti» e, dall'altro, la spinta a chiarire in termini più sottili di quanto non avesse fatto Festinger il tipo di fattori personali e sociali che intervengono nella produzione del fenomeno. In questa direzione, J. Brehm e A. Cohen (1962) hanno sottolineato il ruolo essenziale della libertà di scelta. Il sentimento personale di poter liberamente scegliere diviene il fattore essenziale in grado di suscitare l'insorgenza della dissonanza, perché è l'unico che consente una forte implicazione personale nella situazione. In effetti, anche nell'ambito dell'esperienza comune, se si è «costretti» ad assumere posizioni e decisioni contro la propria volontà, potranno prodursi sensi di disagio anche gravi, ma non necessariamente tali da mettere in dissonanza i propri quadri cognitivi. Persone che sotto una dittatura, in regime di violenza, di aggressione e di tortura, sono costrette a comportarsi in modo contrario alle proprie idee, non provano certamente una dissonanza, ma semmai maturano forme di reazione, di opposizione e di lotta che tendono a cambiare la situazione reale e non il mondo interno delle idee. Solo la possibilità di scegliere - o, almeno, il sentimento personale di poterlo fare - può attribuire al soggetto quel senso di impegno personale che lo mette realmente in gioco. L'idea dell'impegno, che il termine inglese commitment rende ancor meglio nel senso di appropriazione a sé della situazione, sarà oggetto di molte ricerche che tenderanno a sottolineare sempre più la messa in gioco del concetto di sé e della responsabilità personale. Secondo J. Cooper (1971), soltanto quando il soggetto abbia ben chiare le possibili conseguenze implicate dalla sua decisione si potrà creare in lui uno stato di dissonanza suscettibile di condurre a una ristrutturazione dei suoi atteggiamenti e delle sue opinioni. Altri esperimenti hanno confermato queste risultanze, sottolineando in maniera ancora più marcata il senso di responsabilità che deriva al soggetto dal percepirsi come «causa» dell'evento in cui è coinvolto. Brehm e Cohen vedevano il commitment come espressione del senso di libertà che presiede alla decisione. In tal senso, successivamente anche Festinger (1964) condivise, almeno in parte, questa tesi. Ma una più specifica concezione dell'impegno, inteso come «il tenersi legato dell'individuo alla sua azione», è stata elaborata da C. Kiesler (1971). Solamente l'azione determina l'impegno, non la semplice decisione di impegnarsi: è il fatto di aver intrapreso una condotta concreta a impegnare realmente una persona. Solo quando in seguito a pressioni esterne si impegna in un'azione, un individuo sarà portato a modificare le sue credenze e atteggiamenti precedenti, se questi non erano coerenti con l'azione intrapresa, per renderli a questa sintonici (consonanti). D'altro canto, se l'azione in cui l'individuo viene portato a impegnarsi è già coerente con le sue credenze, queste saranno rese più solide, stabili e resistenti a eventuali attacchi diretti a farle cambiare. Ammesso che un individuo sia pagato per agire in un certo modo, quanto meno sarà pagato tanto più sentirà il suo comportamento come personale e libero: tale sentimento lo spingerà a modificare le sue credenze per renderle sintoniche con le sue azioni; se questa sintonia già esiste, egli si rafforzerà nelle sue credenze, e si attaccherà ancor più all'azione stessa. Tale modo di agire diverrà così più stabile nel tempo, e quanto più questa stabilità sarà accresciuta dal ripetersi di nuove azioni similari, tanto più alta diverrà la probabilità di altre azioni del medesimo tipo. Basandosi sugli effetti circolari di un simile rafforzamento cognitivo e comportamentale, J.-L. Beauvois e R.-V. Joule (1981) hanno elaborato una versione radicale di questa concezione che, attraverso lunghi anni di ricerca sperimentale, è divenuta una vera e propria teoria della «sottomissione ottenuta mediante il libero consenso». In generale, essi affermano, gli individui sono visti come esseri motivati, ragionevoli, bisognosi di coerenza cognitiva: quindi si pensa di portarli a fare ciò che noi desideriamo mediante la convinzione. Ma, in realtà, il mezzo più efficace è quello di impegnarli in un'azione (modesta agli inizi) e poi di lasciare che questo impegno funzioni via via con i suoi trascinamenti. L'individuo sarà convinto di agire liberamente, ma in realtà non farà che seguire la corrente a cui il suo impegno lo ha legato. E il classico «piede nella porta» utilizzato dai venditori a domicilio (oggi anche per via mediatica): strumento antico di manipolazione. Siamo tutti un po' manipolati e un po' manipolatori. Il padre che manda il ragazzino a comprare le sigarette dal tabaccaio sotto casa e poi, «mentre sei givi», lo spedisce via via più lontano a comprare il pane, lo manda fino alla posta e poi magari dalla zia dall'altra parte della città; i nipoti manipolano la zia, i nonni i nipoti, i capi ufficio i dipendenti, e così via. Noi siamo convinti di essere liberi nelle nostre scelte e decisioni, ma, dicono Joule e Beauvois, questa è solo un'illusione perché l'intera nostra società viaggia su binari manipolatori, anche non voluti, anche utilizzati in apparente buona fede. Tipico è il caso di quella che viene presentata come una «pedagogia della libertà»: essa sembra portare il soggetto a costruirsi valori e norme personali ma, in realtà, spinge piuttosto ad appropriarsi dei valori e delle norme dominanti in un certo contesto sociale. Poiché tutti siamo stati dominati (da bambini) e dominanti (come padri), e poiché tutti siamo inseriti in contesti gerarchici ed educativi, e in rapporti di potere, si determina un processo circolare di riproduzione sociale, tanto più cogente perché un padre (un educatore, un capo, ecc.), proprio in quanto tale, mette in azione sui figli (sugli allievi, sui sottoposti) un meccanismo attraverso cui la nostra sfera cognitiva finisce col legittimare le prescrizioni normative sociali e le strutture che le generano (Joule e Beauvois, 1987). Su questa concezione complessiva si possono, ovviamente, avanzare riserve proprio partendo dalla stessa teoria dell'azione. Tuttavia, al di là dello specifico interesse che ha suscitato e delle applicazioni cui ha dato luogo, essa ha comunque mostrato come la teoria della dissonanza possa essere ricca di suggestioni euristiche soprattutto quando, tolta fuori dalle discussioni un po' sterili nelle quali si è spento il tema della consistenza cognitiva, venga decisamente riportata al suo legame con l'azione pratica. In effetti, quello che la teoria di Festinger ha mostrato in modo abbastanza evidente è il ruolo di strutturazione che l'agire pratico può avere sul mondo mentale, e questo soprattutto laddove la persona si trovi in situazioni di accordo forzato nelle quali le decisioni sono vincolate alle circostanze esterne. Questo aspetto appare particolarmente interessante per una psicologia sociale rivolta al rapporto concreto individuo/società: tale cioè da tener conto che, nella vita quotidiana, la libertà e l'autonomia del soggetto agente sono spesso largamente limitate dalle richieste della situazione e dai sistemi di potere che si intrecciano nel mondo relazionale. Si potrebbe quindi vedere nella dissonanza cognitiva un'occasione per analizzare in modo empirico, su un terreno delimitato e nell'ambito di un modello definito, un aspetto specifico della costrizione ideologica che il sociale può esercitare sullo psichico. PIERO AMERIO |