Desiderio |
Il termine italiano «desiderio» è stato adottato nell'edizione italiana delle opere di S. Freud per la traduzione del tedesco Wunsch. Già nella loro ormai classica Enciclopedia della psicanalisi (1967), J. Laplanche e J.-B. Pontalis avevano evidenziato, per l'analoga scelta lessicale in lingua francese (désir), una certa scollatura semantica: Wunsch, reso in precedenza da J. Strachey con l'omologo wish nella Standard Edition, troverebbe una più adeguata corrispondenza in lemmi come «voto» o «augurio», mentre ai termini neolatini derivanti dal desiderare andrebbe piuttosto avvicinato il tedesco Begierde; oppure quel Lust che, nel riferimento corrente al lessico freudiano, di regola, equivale invece a «piacere». Al termine Wunsch va riconosciuto un ruolo assolutamente fondamentale - sia nel senso di fondante che in quello di centrale - in tutta la costruzione dell'edificio teorico-clinico della psicoanalisi freudiana. Esso risulta rintracciabile nella sua già ricordata connessione con il piacere - con il suo principio ma anche con il suo «aldilà» - ma ancora in quella con la pulsione, con il fantasma, con l'oggetto, con il sogno, con l'Edipo, per raggiungere infine, con il transfert, il cuore stesso della relazione analitica. Nella lettura di Freud successivamente proposta da J, Lacan, il désir ha assunto un'importanza ancora più esplicita e tematizzata, tanto da provocare simmetrici problemi di traduzione che, proprio in ragione della rinnovata peculiarità teorica nell'uso lacaniano del termine, sono stati risolti con l'introduzione, nell'edizione inglese delle sue opere, del corrispettivo desire, costruito sul calco neolatino. Quanto e in che modo sia fondamentale, nella concezione freudiana della psiche umana, il ruolo del desiderio può essere confermato da una serie innumerevole di riferimenti; ma forse nessuno ha una capacità altrettanto esauriente, nella sua decisa perentorietà, dell'osservazione freudiana secondo cui nulla, all'infuori di un desiderio, è in grado di mettere in moto il nostro apparato psichico (Freud, 1899a). Il desiderio rappresenta dunque per Freud, innanzitutto, l'attivatore, ciò attraverso cui si «mette in moto», si produce la psiche umana. Ma esso non esaurisce la sua funzione in questo pur fondamentale compito. Resterà per sempre, più immediatamente nello spazio inconscio, altrimenti e in innumerevoli modi tradotto sul piano conscio, fin nei livelli più alti delle produzioni sublimate dell'arte e della cultura umana, il vero «attore» (agente) della vita psichica, l'unico effettivo autore e depositario del suo senso. È nota la posizione di Freud, secondo cui il pensiero non è altro che il surrogato del desiderio allucinatorie Seguendo più da vicino la riflessione freudiana su «questi desideri sempre desti, per così dire immortali», del nostro inconscio, che ricordano i leggendari Titani, notiamo che Freud innanzitutto (1899a, capitolo VII) affronta un quesito: perché l'inconscio nel sonno non sa offrire altro che la forza motrice per l'appagamento di un desiderio ? La risposta deve far luce sulla natura psichica dell'atto di desiderio. Per far ciò Freud ripropone lo schema dell'apparato psichico, teso all'inizio a mantenersi il più possibile esente da stimoli, ma poi costretto dall'in-sorgere del bisogno a rinunciare alla inefficace soluzione dello sfogo nella motilità. L'eccitamento prodotto da quelli che Freud chiama «i grandi bisogni fisici» non può in realtà essere risolto che attraverso l'esperienza di soddisfacimento, mediata dall'intervento dell'adulto soccorritore. Di questa esperienza è componente essenziale la percezione dell'oggetto soddisfacente offerto dall'azione specifica, la cui immagine mnestica rimane d'ora in poi associata alla traccia mnestica dell'eccitamento di bisogno. Appena questo bisogno ricompare una seconda volta, si ha un moto psichico che reinveste l'immagine mnestica corrispondente a quella percezione, e riprovoca la percezione stessa, con l'intenzione di ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. Il desiderio è un movimento di questo tipo; la ricomparsa della percezione ne è l'appagamento, e l'investimento pieno della percezione, a partire dall'eccitamento del bisogno, è la via più breve verso l'appagamento del desiderio. Opportunamente, Laplanche e Pontalis evidenziano come in questa provenienza del desiderio dal bisogno vadano notati gli elementi di differenziazione e di autonomizzazione piuttosto che quelli di continuità: mentre il bisogno raggiunge, con la cosiddetta «azione specifica» consentita dall'oggetto adeguato attraverso l'intervento adulto, la propria soddisfazione (o acquietamento), il desiderio si articola all'interno dell'apparato psichico, mediante il reinvestimento delle immagini mnestiche associate alle tracce mnestiche dell'eccitamento, trovando appagamento nella riproduzione allucinatoria della percezione. Questa sorta di introversione non sarà, peraltro, senza conseguenze nei confronti della stessa ricerca dell'oggetto nel reale, perché, a partire da questa psichicizzazione inaugurale, la sua ricerca sarà guidata inevitabilmente dalla sua relazione con queste tracce, dalla cui combinazione origina il «fantasma». E ancora in virtù di questo processo che l'oggetto, da mero indice della «pulsione», si traduce in «segno» dell'«altro». Va infine notato come in questa originaria articolazione, più propriamente dialettica che derivativa, tra bisogno e desiderio (tra realtà e fantasia, tra adeguatezza senza resti dell'azione specifica e insaturazione costitutiva del soddisfacimento allucinatorio) possa essere rintracciato un criterio più profondo e al contempo più sottile per comprendere quella stessa necessità di revisione che costrinse Freud, nella famosa lettera a W. Fliess del 21 settembre 1897, all'abbandono della cosiddetta «teoria traumatica» (Freud, 1887^904). Nella scoperta delle fantasie sessuali infantili si offriva infatti, agli occhi di Freud, un vero e proprio nuovo fondamento per la comprensione della vita psichica e dei suoi costitutivi «disagi», capace di sostituire a una causalità seduttivo-traumatica, inevitabilmente accidentale, una necessità intrinseca, al contempo del tutto soggettiva eppure assolutamente universale. E noto come questa svolta sia poi risultata, di fatto, e più volte, revocata in dubbio dallo stesso Freud; nonché quanto la questione continui a essere attuale e controversa. In ogni caso, la peculiarità, teoricamente preziosa, di questi fantasmi (qualunque fosse la loro «origine») consisteva nel loro essere depositari sia di una potenzialità energetica sia di un'organizzazione significante. Di più, queste due caratteristiche sono, per meglio dire, modi espressivi diversamente enunciati di una stessa capacità: la forza motrice, il senso tracciato del vettore è tale perché esso ha una direzionalità, orientata significativamente da una traccia dotata di senso, da un oggetto che è tale perché è allo stesso tempo un «progetto». Il fantasma, si potrebbe concludere, «produce senso». Non è difficile riconoscere come in questa formula si dica, in fondo, null'altro che la potenza stessa del desiderio. Nell'Interpretazione dei sogni il significato e l'importanza del desiderio trovano la loro più compiuta e articolata descrizione; tuttavia la questione aveva già ricevuto, fin dagli albori della riflessione freudiana, un'attenzione significativa. Ad esempio la riproposizione dello «schema di apparato psichico», cui Freud fa riferimento a proposito del concetto di «identità di percezione», si riconduce sostanzialmente a ipotesi formulate nel Progetto (1895), dove si sosteneva che l'esperienza di soddisfacimento porta a una facilitazione tra due immagini mnestiche e i neuroni nucleari investiti durante lo stato di tensione, e che l'attivazione operata dal desiderio produrrà in prima istanza qualcosa di uguale a una percezione, ovvero un'allucinazione. In uno scritto sostanzialmente coevo (l'ultimo capitolo degli Studi sull'isteria, 1892-95), il tema del desiderio viene non solo seguito nelle sue espressività sintomatiche, ma anche indicato per la prima volta come direttamente operante nella relazione terapeutica, facendole carico, intrusivamente, di quell'investimento di senso, di quella affezione - qui detta per la prima volta «traslazione» - che conterrà al contempo la ragione della potenza risolutrice del lavoro analitico. E fin troppo nota la formula dell'Interpretazione dei sogni secondo la quale «il sogno è l'appagamento di un desiderio». Si tratta della ripresa fedele del titolo del terzo capitolo, nelle prime pagine del quale però, a più riprese, Freud ripete che il sogno raffigura il desiderio come appagato. Una scelta espressiva in certo senso più prudente o attenta, che attenua in senso funzionale un'asserzione che, nella sua stringatezza, può forse apparire sbilanciata a favore di un'opzione «essenzialista». Bisognerà però attendere la conclusione del capitolo successivo per ritrovare la stessa formula in quella versione emendata in cui universalmente viene citata e che Freud stesso indica come una correzione, un completamento, necessari per esprimere più adeguatamente «l'essenza del sogno»: esso è infine, in questa sistematizzazione ormai canonica, «l'appagamento (mascherato) di un desiderio (represso, rimosso)». In questa seconda formulazione vengono proposti, nel contenimento protettivo di una doppia iscrizione parentetica, due specificazioni fondamentali: nella prima si afferma che, per la natura stessa del funzionamento onirico, il desiderio viene elaborato in forme e articolazioni espressive molto differenti da quelle delle procedure e della sintassi del pensiero cosciente. Una tale elaborazione determinata dal lavoro onirico rende il contenuto manifesto irriconoscibile nella sua provenienza ed effettiva significatività latente. Di una simile opera si giovano i meccanismi censori, che, per quanto allentati, permangono attivi nel sognatore, consentendo il transito e infine l'approdo dei pensieri latenti nel contenuto manifesto proprio in virtù di quelle deformazioni che per i suoi fini possono appunto essere tradotti come «mascheramento». Quest'ultima considerazione trova la sua ragion d'essere nella delimitazione introdotta da Freud nella seconda parentesi, che indica le caratteristiche del tipo di desiderio che, propriamente, trova nel sogno la sua travagliata elaborazione: si tratta di un desiderio «represso, rimosso». Questa specificazione illustra, esplicitamente, la condizione previa di quel desiderio che chiederà accesso al sogno, giacché esso ha già conosciuto lo scontro con la rimozione e ne ha pagato le spese; e, implicitamente, un'indicazione circala sua natura, perché sappiamo contro che cosa, infine, si erge la rimozione. A distanza di molti anni, riaffermando l'ormai nota definizione nella sua versione più perentoria e concisa, Freud ne propose un'ulteriore variante: il sogno è un «tentativo» di appagamento del desiderio (1932, lezione 29). Queste osservazioni consentono di riconoscere, nell'esigenza sintetica di definire il desiderio attraverso la sua implicazione nella definizione del sogno, un'inevitabile insaturazione: se il desiderio deve essere inteso come un moto diretto alla propria soddisfazione, resta uno scarto, nel dispiegarsi del complesso movimento argomentativo freudiano, che la fluenza discorsiva tende a saturare, fino a rischiarne l'elusione, tra una definizione decisa che spiega il sogno come appagamento di desiderio e quelle per così dire «concessive» che riconoscono, nello svolgersi del sogno stesso, la presenza di istanze che si contrappongono all'appagamento (e dunque, ancor prima, al riconoscimento) proprio di quel desiderio che, inibito già dalla rimozione all'accettazione cosciente, aveva atteso la facilitazione del sogno per potersi consentire una via di espressione. Queste seconde, che meglio sembrano corrispondere alla definizione più tipica e concisa del desiderio come uno dei poli del conflitto, conseguentemente si collocano su di un piano più neutralmente descrittivo, come nella frequente variante secondo la quale il sogno rappresenta (o raffigura) un desiderio come (se fosse) appagato; oppure confermano che esso è si un appagamento di desiderio, ma non può manifestarsi se non in forma mascherata; o infine accettano che, se non proprio come un appagamento tout court, il sogno possa essere considerato in ogni caso come un tentativo in tal senso. Insomma, se il desiderio, all'interno stesso dell'elaborazione onirica, non solo dopo (per la coscienza vigile del sognatore ormai risvegliatosi), è al tempo stesso appagato e mascherato (vale a dire non riconosciuto come appagato, essendo questa la condizione censoria che ne ha consentito l'appagamento), chi, nel sognatore, quale sua istanza o porzione psichica, fruisce di un simile appagamento ? La domanda era già stata posta da Laplanche (1969): «per chi vi è piacere-dispiacere?» La risposta è altrettanto attenta nell'indicare i due tentativi di soluzione, diversi e non facilmente riconducibili a unità, seguiti da Freud: attenersi a un minimo di rispetto per una psicologia descrittiva o fenomenologica, conservando ai termini piacere e dispiacere il loro senso qualitativo, il che presuppone che siano percepiti dal sistema percezione-coscienza almeno a titolo di affetto emergente, di segnale (Freud, 1925c); oppure percorrere l'altra traccia, quella di tipo «economico», seguendo la quale si tratta di interpretare il piacere-dispiacere in termini di processi puramente oggettivi che consentono di enunciare il principio di piacere in termini validi sia per le istanze inconsce che per le istanze coscienti della persona. Se consideriamo l'esito del processo elaborativo del sogno (di quello che Freud definisce il «lavoro onirico»), seppur impegnato nella composizione compromissoria di forze contrapposte, infine come sinteticamente unitario, allora il desiderio dovrebbe pur venire, in qualche forma e in qualche misura, riconosciuto, per quanto il mascheramento si sia ingegnato a renderlo irriconoscibile. A questo primato dell'innegoziabilità dell'appagamento del desiderio fa riferimento l'inizio della lezione 9 (1915-17), in cui Freud definisce il sogno privilegiando ancora un'altra prospettiva: i sogni sono eliminazioni, mediante soddisfacimento allu-cinatorio, di stimoli (psichici) che lo disturbano. Seguendo questa definizione, l'accento è posto sull'efficacia della soddisfazione allucinatoria, invece che su quella del mascheramento: l'importante è l'eliminazione del desiderio (gli stimoli psichici); ed è notevole che essa coincida con il soddisfacimento (in quelle circostanze possibile ed esauribile come allucinatorio), non quindi fine in sé, contrastabile e contrattabile in uno scontro di finalità, ma, appunto in quanto unico mezzo adeguato, necessariamente perseguito per ottenere la neutralizzazione dello stimolo. A questa «difficoltà della psicoanalisi» fanno riferimento J. e A. Sandler (1998) quando notano che il soddisfacimento del desiderio, implicito in ogni sua emersione in superficie, non può consistere soltanto in un'irruzione del desiderio soddisfatto in forma mascherata, senza una contemporanea presenza del sognatore come osservatore del proprio sogno, giacché esso risulterebbe altrimenti inutile per il sognatore. Se l'appagamento di desiderio si realizza attraverso il raggiungimento, in forma mascherata e simbolica, di un'identità di percezione, ci troviamo di fronte al problema di come tale identità, mascherata e simbolica, possa portare al soddisfacimento. Come mai, sognare che una strana persona regala a un'altra persona un mazzo di fiori, mentre il sognatore sta in disparte e osserva, può fornire gratificazione asun desiderio sessuale durante il sogno ? E’ probabile che la risposta stia nella capacità dell'individuo di comprendere inconsciamente il significato simbolico del proprio sogno (o di ogni altro derivato). Questa capacità ritraduttiva, centripeta per così dire, che recupera il significato inconscio del desiderio sarebbe all'opera non solo rispetto al sogno, ma anche per il sintomo, nella creazione artistica e presumibilmente nella comprensione inconscia del significato latente del comportamento altrui. Da tutt'altra prospettiva teorica si muove la riflessione critica di Laplanche, che torna a più riprese sulla questione, indicando con chiarezza quello che considera, nell'interpretazione classica del desiderio, un approccio sviante. In essa il desiderio viene definito come uno dei poli del conflitto difensivo. Di modo che, lasciato a se stesso, esso non troverebbe alcun ostacolo per il suo pieno appagamento; invece, incalza Laplanche, il desiderio è per definizione inquietante, è un vero e proprio «guastafeste» perché c'è una contraddizione interna al desiderio, in quanto, nella sua costituzione, è legato all' interdetto. Un interdetto alla radice stessa del desiderio umano, che non può essere ridotto a residuo anacronistico di paure infantili, dato che il movimento verso l'appagamento del desiderio si rivela pericoloso per l'equilibrio, per la sua incontenibile circolazione dell'eccitamento da una rappresentazione all'altra, per il disordine che introduce e infine per la tendenza allo zero. Una tendenza che consente a Laplanche di reinterrogare il freudiano Al di là del principio di piacere (1920a), per rimettere in discussione il desiderio nel suo rapporto con la soddisfazione e con il sogno: la morte è presente nel desiderio stesso come tendenza radicale al livello più basso dell'eccitamento, ossia come quella morte raffigurata dal godimento sessuale e come quella circolazione estenuante del senso che caratterizza i fantasmi inconsci, ultima incarnazione di ciò che era già stato designato, meno drammaticamente, dai termini di energia libera e processo primario. E, in fondo, la stessa contraddizione che in Problematiche IV (Laplanche, 1981) viene denunciata tra principio di piacere come rimozione dell'eccitamento e principio di piacere come movimento del desiderio nell'inconscio. Questo rapporto autocontraddittorio con l'interdetto autonomizza inoltre il desiderio rispetto al bisogno in un senso più radicale, per così dire originario, rispetto a quanto lo consentisse quel movimento di slegamento che pure è presente nella teorizzazione freudiana. Laplanche ricorre a questo proposito alle riflessioni di G. Bachelard, appoggiando sulla Psicoanalisi del fuoco di quest'ultimo (1938) la sua critica contro il Freud dell'Acquisizione del fuoco (19313), perché ciò che è primario in ogni caso nella relazione del bambino con il fuoco è l'interdetto. È il desiderio e non il bisogno il motore di tutta l'evoluzione della civiltà. Ancora diverso il contributo di Lacan, per il quale il desiderio emerge come inappagabile. Nella ponderosa opera curata da P. Kaufmann (1993), alla voce «desiderio», si può trovare nel sottotitolo un'indicazione secondo la quale il desiderio si definisce, relativamente a Freud, nella «realizzazione allucinatoria della sua meta»; mentre per Lacan esso significa «la mancanza del suo oggetto». È vero che Lacan radicalizza l'opposizione tra bisogno e desiderio, introducendo inoltre tra i due termini quello di «domanda», nella formula secondo cui il desiderio si abbozza nel margine in cui la domanda si strappa dal bisogno, margine che la domanda apre sotto forma del possibile difetto che il bisogno le può apportare per il fatto di non avere soddisfazione universale (Lacan, 1966c), perché in se stessa verte su altro che non sulla soddisfazione che chiede. Essa è infatti, per Lacan, domanda di una presenza o di un'assenza, come è manifestato nella relazione primordiale con la madre, in quanto «gravida di quell'Altro che va situato al di qua dei bisogni che può colmare». Essa lo costituisce già come avente il «privilegio» di soddisfare i bisogni, cioè il potere di privarli della sola cosa da cui sono soddisfatti. Questo privilegio dell'Altro disegna così la forma radicale del dono di ciò che non ha, cioè quel che si chiama il suo amore. Vi è dunque una necessità che la particolarità così abolita riappaia al di là della domanda, e vi riappare infatti, ma conservando la struttura celata dal carattere incondizionato della domanda d'amore. All'incondizionato della domanda, il desiderio sostituisce la condizione «assoluta»; ecco com'è che il desiderio propriamente consiste nella differenza che risulta dalla sottrazione dell'appetito della soddisfazione alla domanda d'amore, è il fenomeno stesso della loro scissione (Lacan, 1966c). Cosicché, mentre si può dire di una pulsione che ha un oggetto, il desiderio ha come riferimento solo la sua costitutiva inappagabile mancanza, precisamente quell'objet petit a, che deve dunque essere inteso come causa del desiderio, non certo luogo della sua impossibile soddisfazione. Il desiderio dunque è metonimia, perché la mancanza che lo causa lo sposta continuamente, da un oggetto all'altro. Questo spostamento incessante segue la logica dell'inconscio e così il desiderio è la sua interpretazione, che si muove lungo la catena dei significanti inconsci. Poiché, come abbiamo visto, la soddisfazione dei bisogni è soggetta alla domanda, il soggetto è posto da subito nella dipendenza dalla parola e dal linguaggio. C'è tuttavia una fondamentale incompatibilità tra desiderio e parola, anche se è in essa che si sposta il desiderio. Infatti nel linguaggio il nome che nomina l'oggetto mancante lascia apparire la mancanza stessa. Secondo Lacan, il desiderio è ciò che si manifesta nell'intervallo scavato dalla domanda al di qua di se stessa in quanto il soggetto, articolando la catena significante, porta alla luce la mancanza a essere insieme all'invocazione a riceverne il complemento dall'Altro, posto che l'Altro, luogo della parola, è anche il luogo di questa mancanza. L'essere del linguaggio è il non-essere degli oggetti (Lacan, 1961a). Soltanto da una parola che levasse il marchio che il soggetto riceve dalle proprie parole, potrebbe essere ricevuta quell'assoluzione che lo renderebbe al suo desiderio; ma il desiderio non è che l'impossibilità di questa parola. La riflessione di Lacan sul desiderio prosegue articolandosi in molte altre ramificazioni, in particolare due: 1) il rapporto tra il desiderio e la legge riguardo al godimento, all'imperativo del Super-io e alla sua prescrizione mortifera; 2) la sua declinazione come «desiderio dell'analista» che infine deve essere inteso, riconoscendosi egli come occupante una posizione di puro sembiante, come desiderio di una «assoluta differenza», unico modo per consentire all'analizzante l'accesso al proprio stesso desiderio. Queste ultime indicazioni possono far intravedere quanto il pensiero di Lacan fosse intimamente guidato da un'intenzione etica; quell'Etica non a caso esplicitamente nominata come titolo di uno dei suoi più significativi Seminari, che per la centralità dell'attenzione dedicatagli avrebbe potuto chiamarsi Desiderio. GIOVANNI DE RENZIS |