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Delirio (paranoia) Delirio è da sempre sinonimo di follia, indicatore di un disturbo mentale di livello psicotico nel quale il rapporto con la realtà, con gli altri, con se stessi è profondamente alterato. Nella psichiatra a cavallo tra '800 e '900 la definizione classica di delirio fa imancabilmente riferimento alla presenza di idee false ed errori del giudizio e si traduce in classificazioni del delirio strutturate in base ai diversi contenuti, tutti connotati dalla loro falsità. Nel 1883, ad esempio, E. Kraepelin definisce il delirio un'idea morbosamente falsata che perlopiù si riferisce ai rapporti personali dell'individuo. In Italia, E. Tanzi ed E. Lugaro nel loro Trattato (1923) classificano i deliri in: delirio persecutorio, ipocondriaco, di rovina, di rivendicazione, di gelosia, erotico, di querela, di miseria, di colpa, ambizioso o di grandezza, di riforma politica o sociale, religioso in forma profetica o messianica, pseudo-scientifico, di invenzione, umanitario, utopistico, metafisico. Ma la concettualizzazione del delirio come fenomeno va incontro a un'importante evoluzione con il contributo di K. Jaspers (1959). Delirio - argomenta Jaspers - è sinonimo di follia e quindi il delirio è un problema fondamentale della psicopatologia. La risposta che danno a questo problema le definizioni tradizionali di delirio è considerata da Jaspers superficiale oltre che errata. Definire delirio qualsiasi idea errata che viene mantenuta in modo incorreggibile non porta molto lontano. Se volessimo chiamare delirio tutti i giudizi falsi e incorreggibili, chi sarebbe capace di avere una propria convinzione senza delirare ? Il termine delirio è usato in psichiatria per designare fenomeni del tutto eterogenei. Dare valore a un aspetto esteriore, come quello dell'errore, ci permette di dare lo stesso nome a cose che sono molto diverse. Innanzitutto -continua Jaspers - è difficile pensare di poter risolvere il problema con una definizione. Il delirio è un fenomeno primario, la cui essenza si rende evidente a livello del vissuto, dell'esperienza e non tanto sul piano della descrizione. E vero altresì che il delirio si rende evidente e viene comunicato nella forma di un giudizio, ma quando un paziente comunica i contenuti delle sue idee deliranti siamo sempre di fronte a un prodotto secondario. In questo senso possiamo cominciare ad attribuire ai deliri una serie di caratteristiche esteriori che per definizione restano vaghe e imprecise, dato che colgono solo l'esteriorità del delirio: la straordinaria certezza soggettiva con cui vengono mantenuti; il fatto di non essere influenzati dall'esperienza e dalle confutazioni; la maggiore o minore impossibilità del contenuto. Ma se abbandoniamo il piano della descrizione dall'esterno per approfondire la conoscenza del delirio dobbiamo distinguere due livelli: le esperienze vissute originarie e i giudizi che su queste esperienze sono basati, vale a dire i dati di fatto vivi del delirio e i contenuti nei quali questi dati vengono inscatolati. In questo modo Jaspers opera una radicale trasformazione di prospettiva spostando il fuoco dell'attenzione dai contenuti del delirio al «modo» in cui origina l'idea delirante. Lo studio del delirio, per essenza da sempre considerato incomprensibile e alieno, si apre così alla ricerca di senso. Proprio per quanto riguarda l'origine Jaspers introduce la distinzione tra due classi di idee deliranti: idee deliroidi (o «deliri secondari»), che sorgono in maniera comprensibile da affetti, esperienze sconvolgenti o umilianti, percezioni false, e vere idee deliranti («deliri primari»), fondate su esperienze che sono estranee alla persona normale e che quindi non è possibile rappresentarsi chiaramente. La domanda fondamentale è allora: qual è l'esperienza vissuta primaria che sta alle spalle di quel giudizio e che cosa c'è di secondario in quella formulazione che è scaturita in modo comprensibile da quell'esperienza ? Mentre nel caso dei deliri secondari è agevole rintracciare questo filo di comprensibilità, nel caso del vero delirio ci si scontra ben presto con il fatto che le idee deliranti vere hanno all'origine un'esperienza patologica primaria che noi non riusciamo a renderci presente in quanto totalmente estranea alla vita psichica normale. Rimane quindi sempre un grande residuo di incomprensibilità e di inderivabilità. Per dare conto di questo Jaspers approfondisce l'analisi di quella particolare condizione che prelude alla comparsa del vero delirio e che prende nome di umore o stato d'animo delirante. Una condizione atmosferica - il cui studio è stato in seguito sviluppato, da K. Conrad (1957) e da B. Callieri (1982) - nella quale il soggetto avverte la perdita degli abituali punti di riferimento, la sensazione angosciante che qualcosa di importante ma di imprecisato e al tempo stesso minaccioso stia per accadere. Qualcosa che comunque ci concerne e al quale non si può fuggire. Una condizione insopportabile, che non può durare e che lascia spesso il posto a un insight che riporta chiarezza: si affaccia improvvisamente alla mente un'idea (delirante) che dà un senso alle cose e riduce così il livello di angoscia. Comunque sia, il delirio primario è il segnale del fatto che la persona si è creata un mondo nuovo in un contesto di esperienza che è sostanzialmente incomprensibile proprio perché non condivisibile. Su queste basi Jaspers fonda la dicotomia tra vissuti comprensibili e vissuti incomprensibili: la differenza tra la vita psichica comprensibile alla quale possiamo partecipare affettivamente e quella incomprensibile, tipica dei deliri primari e della schizofrenia. I vissuti che sono alla base del delirio primario segnano infatti un limite invalicabile. Ma questa incomprensibilità non riguarda i contenuti del delirio (che possono essere sempre in qualche misura compresi sulla base della storia del soggetto) ma piuttosto la forma, i modi appunto attraverso i quali quel contenuto mentale si è presentato alla coscienza del soggetto. In questo senso le riflessioni di Jaspers sul delirio ne ridefiniscono il metodo di studio e aprono la strada alle analisi sviluppate da K. Schneider (1966) e dalla scuola di Heidelberg sulle due forme fondamentali in cui il delirio si manifesta: la percezione delirante e l'intuizione delirante. Si parla di «percezione delirante» quando a una percezione reale e corretta viene attribuito, senza un motivo comprensibile (di carattere razionale o emozionale), un significato abnorme, generalmente nel senso dell'autoriferimento. L'intuizione delirante invece non ha una base percettiva ma consiste in un venire in mente («mi viene in mente che... »), qualcosa di simile al sentire una vocazione o a intuizioni di carattere religioso. Mentre l'intuizione delirante non ha uno specifico significato per la diagnosi, la percezione delirante è sinonimo di delirio primario. Delirio primario - nell'impostazione della scuola di Heidelberg - è sinonimo di schizofrenia. In Schneider l'analisi formale delle esperienze si salda a una preoccupazione di carattere clinico-nosografico. Attraverso l'analisi del fenomeno delirio, Schneider sviluppa il progetto di fondare la diagnosi di schizofrenia (come di ogni altra psicosi) sul rilievo delle qualità formali della esperienza. La percezione delirante costituisce così per Schneider uno spartiacque o un «rasoio psicopatologico» in grado di separare ciò che pertiene all'ambito delle psicosi e in particolare della schizofrenia e ciò che invece non vi appartiene, riprendendo in questo modo la distinzione jasper-siana tra processo e sviluppo. Mentre Schneider sottolinea la netta discontinuità tra assetti di personalità patologici e vero delirio, la scuola di Tubinga con R. Gaupp ed E. Kretschmer descrive un particolare tipo di psicosi paranoidea che costituirebbe il paradigma di un «delirio comprensibile». A questo riguardo particolare attenzione merita la paranoia, malattia delirante per eccellenza. Il termine paranoia, introdotto nel 1818 da J. Heinroth, assume rapidamente un significato molto ampio e impreciso finendo per indicare una vasta gamma di disturbi. Alla fine dell'8oo J. Séglas considera la paranoia come una follia sistematica con deviazione delle funzioni intellettive, nella quale il soggetto costruisce un'interpretazione globale del mondo che lo circonda, riferendo tutto a se stesso. E assente ogni tendenza al deterioramento mentale. Ai primi del '900 P. Sérieux e J. Capgras descrivono il delirio di interpretazione o folie raisonnante come sviluppo di un delirio che si estende a macchia d'olio, come una rete, attraverso un lavoro di progressiva sistematizzazione. Tocca a Kraepelin, anche in questo caso, ordinare la paranoia all'interno della nosografia delle psicosi. Il fulcro della paranoia è il delirio. Ma un delirio che si sviluppa nella lucidità e nella chiarezza, senza segni di deterioramento, come accade invece nella varietà paranoide della demenza precoce. Per questo motivo la paranoia si aggiunge come terza psicosi alla demenza precoce e alla psicosi maniaco-depressiva a partire dalla quinta edizione del Trattato (1896). La paranoia è quindi una psicosi caratterizzata dallo sviluppo insidioso di un delirio cronico, sistematizzato, coerente, incrollabile, a lenta evoluzione, con perfetta conservazione della lucidità, come dell'ordine nel pensiero, nella volontà, nell'azione. Rare le allucinazioni. Se la schizofrenia era considerata - almeno dalla scuola di Heidelberg - un evento di carattere processuale, la paranoia si configura invece come uno sviluppo psicologico abnorme della personalità, sotto l'impatto di determinati eventi di vita. La contrapposizione tra chi sottolinea gli elementi di discontinuità tra ideazione delirante e vita psichica normale e chi sottolinea invece gli elementi di continuità percorre tutta la storia recente del delirio. A questo secondo ambito appartengono i contributi che S. Freud e la psicoanalisi hanno dato, a partire dall'analisi del Caso del presidente Schreber (Freud, 1910d). In ogni delirio sarebbe presente, a un qualche livello, un nucleo di verità storica. E. Bleuler (1955), fondatore della psichiatria dinamica e tra i primi a cogliere il valore dei concetti psicoanalitici nella comprensione delle psicosi, vedeva nelle idee deliranti non tanto un'alterazione logica quanto piuttosto l'espressione di un bisogno interiore. Il delirio avrebbe insomma un significato e uno scopo latente e - come sosterrà in seguito P. Pao (1979) - rappresenterebbe la migliore soluzione possibile che quel soggetto ha potuto trovare, a dispetto delle leggi logiche, a un suo problema interiore. Ma se sul piano dei contenuti è spesso possibile cogliere una continuità tra delirio, storia ed esperienze di vita del soggetto, resta tuttavia difficile precisare in che cosa consista la discontinuità formale che fonda l'incomprensibilità jaspersiana, ciò che continua a rappresentare il vero e proprio enigma del delirio. La psicopatologia di orientamento cognitivo si è dedicata proprio all'approfondimento di questo problema. In questo ambito di ricerca l'idea guida è stata quella di studiare le esperienze psicopatologiche per trarre dalla conoscenza della patologia delle inferenze sul funzionamento del pensiero normale. Ma ai fini della ricerca cognitiva le categorie nosografiche tradizionali si sono rivelate insufficienti, in quanto troppo vaghe ed eterogenee. Per questo motivo l'attenzione degli psicopatologi cognitivi si è orientata su specifiche forme di delirio, caratterizzate da peculiari esperienze vissute, come ad esempio la sindrome di Cotard o la sindrome di Capgras o «illusione del sosia». In sostanza, l'analisi dei processi cognitivi alla base del delirio si è mossa lungo due direttrici. Da un lato, alcuni autori hanno analizzato la possibilità che i deliri fossero riconducibili a un'anomalia della percezione e si costituissero come tentativo di spiegazione di esperienze percettive anomale o anche di difetti sensoriali di cui non si è consapevoli. In particolare il modello elaborato da B. Maher (1988) sin dalla fine degli anni '70 considera i deliri come ragionamenti e inferenze «normali» che originano da esperienze percettive anomale, come tentativo di dare senso a esperienze percettive incomprensibili. L'origine della patologia non sarebbe quindi da ricercare a livello neuropsicologico in un difetto del ragionamento ma piuttosto in un'alterazione di carattere neuropsicologico dell'esperienza percettiva. Le credenze deliranti sarebbero, come le credenze normali, tentativi di spiegare la propria esperienza. I processi mediante i quali i soggetti arrivano a formulare una credenza delirante non sarebbero quindi differenti dai processi di ragionamento normali. L'intensità dell'esperienza percettiva abnorme sarebbe responsabile dell'adesione del soggetto alla credenza delirante. La ricerca deve quindi spostarsi a livello delle alterazioni neuropsicologiche dell'esperienza percettiva all'origine del delirio (attivazione neuronale endogena del sentimento di significatività, difetti non riconosciuti dei sistemi sensoriali, attivazione o inibizione endogena delle rappresentazioni neuronali centrali degli input sensoriali, ecc.). Sulla stessa linea R. Bentall (1994) ha studiato la possibilità che i deliri di persecuzione siano il frutto di un'errata interpretazione di fenomeni tipici di ogni interazione sociale. In assenza di un'adeguata teoria della mente che consenta di leggere con immediatezza e facilità le intenzioni altrui e le proprie, il soggetto tenderebbe a darsi ragione di eventi banali con «spiegazioni» di carattere delirante. Da un altro lato, ricercatori come D. Hemsley e Ph. Garety (1986) hanno indagato l'ipotesi che il delirio sia basato su uno specifico difetto di ragionamento a carico del pensiero inf erenziale o dei sistemi cognitivi che presiedono al monitoraggio interno dell'esperienza. In particolare è stato messo in evidenza come i soggetti deliranti mostrino una tendenza a «saltare alle conclusioni» di un ragionamento, anche sulla base di pochi elementi. Gli studi di carattere neurocognitivo hanno comunque mostrato che la concezione categoriale del delirio come credenza incorreggibile è da rivedere. Il delirio non è una credenza incrollabile ma va incontro piuttosto a oscillazioni, fluttua nel tempo, diluendosi in un continuum di esperienze. La rigida delimitazione pragmatica schnei-deriana assumeva invece i sintomi di primo rango (e tra questi la percezione delirante, pietra fondatrice del vero delirio) come dati statici, immobili e perciò stesso utili come marker nosografici. Autori come J. Strauss (1969), K. Koehler (1979) e J. Klosterkotter hanno proposto invece di considerare i sintomi di primo rango (e quindi anche del delirio) come punti in un continuum. In questa prospettiva il delirio e altri sintomi psicotici hanno recuperato una dimensione dinamica che prevede il loro formarsi (ma anche il loro possibile dissolversi) lungo un continuum di esperienze che può essere percorso nei due sensi (Klosterkotter, 1988). Sullo sfondo di questo panorama nel quale si intrecciano (e anche si contrappongono) differenti concezioni del delirio, il contributo del più diffuso strumento di classificazione dei disturbi mentali, il DSM-IV-TR (2000) è abbastanza deludente. In quella sede il delirio viene inteso come una falsa convinzione basata su erronee deduzioni riguardanti la realtà esterna, fermamente sostenuta contrariamente a quanto tutti gli altri credono e a quanto costituisce prova ovvia e incontrovertibile della verità del contrario. Dove l'attenzione viene riportata al contenuto dell'esperienza, vale a dire al cuore di una psichiatria kraepeliniana. Per quanto riguarda l'aspetto nosografico, il delirio, da fenomeno clinico patognomonico della schizofrenia, è stato sempre più considerato sintomo transnosografico, relativamente aspecifico, presente in un'ampia serie di patologie mentali. Una sorta di sovrastruttura priva di una sua specificità sul piano nosografico. In particolare, a partire dagli anni '70 i deliri primari, caratterizzati da percezioni deliranti, sono risultati essere meno specifici della schizofrenia, rispetto a quanto si riteneva. Ripetute ricerche empiriche hanno infatti documentato la presenza di sintomi di primo rango nei disturbi dell'umore depressivi e maniacali, rendendo la diagnosi di delirio un indicatore più di un livello di funzionamento psicotico della mente che non di uno specifico quadro nosografico. MARIO ROSSI MONTI |