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Cultura Cultura, civilizzazione, civiltà sono indicatori di una formazione storico-sociale nella quale le strutture psichiche del vivere umano hanno superato le condizioni naturali più primitive, incolte, incivili e che, nella con-. giunzione con la psicoanalisi, si ripropongono come tramite di una conoscenza «profonda» dei rapporti in forza dei quali l'uomo entra in conflitto con se stesso, con la natura e con l'altro uomo. Valutando l'interdipendenza degli aspetti materiali, morali e tecnici, S. Freud prende le distanze da quelle posizioni del suo tempo nelle quali cultura materiale e cultura dello spirito sono considerate in modo scisso e il concetto «storicistico» di Kultur è contrapposto (come nel dibattito suscitato dall'opera di O. Spengler) a quello «positivistico» di Zivilisation. In base alla documentazione accumulata con le prime osservazioni sul disagio individuale, Kultur designa, nell'opera di Freud, la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la vita dell'uomo da quella dei suoi progenitori animali. L'individuo è considerato un animale culturale. Gli impulsi naturali che lo attraversano trovano un argine, utile e ineluttabile, nei limiti culturali esterni, i quali, in parte interiorizzati, strutturano il mondo interno. Il termine Kultur è adoperato da Freud per la prima volta nella Minuta N di una lettera a W. Fliess del 31 maggio 1897 (Freud, 1892-97). Nello scritto, il «sacro» viene interpretato come una manifestazione del sacrificio di parte della libertà sessuale, operato a vantaggio della comunità. Viene inoltre ipotizzato il divieto dell'incesto come regola dello scambio sociale e rappresentazione del fondamento del processo di civilizzazione: poiché l'incesto possiede un tratto strutturalmente antisociale, la civilizzazione coincide, storicamente, con la rinuncia ad esso. L'ipotesi formulata in questa annotazione, secondo cui i desideri sessuali vengono repressi dalle richieste imposte dal processo di civilizzazione, rappresenta il fulcro stesso del discorso freudiano, che trae origine, prevalentemente, dalle osservazioni raccolte sul tema dell'isteria. La sofferenza delle isteriche, nel suo tratto «profondo», non poteva essere compresa in modi disgiunti da aspetti repressivi interni, strettamente vincolati alla Kultur. Estesa alla comprensione del funzionamento dell'apparato psichico, quest'ipotesi avrebbe motivato, in seguito, il costituirsi di un'area psichica inconscia che determina, tramite dinamiche difensive, una barriera, non facilmente valicabile, nei confronti della coscienza. La Kultur, finalizzata a canalizzare le energie libidiche e aggressive verso mete diverse da quelle originarie, è pensata come l'ambito idoneo al conseguimento di obiettivi utili al benessere generale e, per la sua funzione coercitiva, come fonte di insofferenze e difficoltà che motivano, per ciò stesso, desideri di un ritorno a un primitivo stato naturale, considerato da Freud (1929) illusorio. La composizione della dimensione naturale e le complesse interconnessioni tra natura e cultura sono delineate da Freud in riferimento a due grandi modelli o topiche, che esprimono una visione assai complessa e articolata della natura biologica e culturale dell'uomo. Nel modello di apparato psichico descritto nella prima topica (1915c), la sessualità viene intesa come una forza vitale, dotata di valenze narcisistiche e aggressive, finalizzate a realizzare il proprio piacere e a impossessarsi, a tal fine, dell'oggetto del desiderio. L'opposizione tra natura e cultura (in larga parte coincidente con quella tra inconscio e preconscio/conscio, tra principio di piacere e principio di realtà, tra irrazionale e razionale) è ricondotta, essenzialmente, a conflitti dinamici, dovuti a una sessualità sottesa da pulsioni parziali. Il disagio nella Kultur viene spiegato, soprattutto, tramite un principio economico, secondo il quale l'impiego di energie libidiche, richiesto per realizzare gli scopi dello sviluppo civile, si traduce, inevitabilmente, nella necessità di operare una repressione della sessualità per un suo utilizzo in altre attività. Regolati da tale principio, gli spostamenti di energia consentono di veicolare cariche affettive e spinte pulsionali da una meta (naturale) a un'altra (culturale). La dialettica uomo naturale/ uomo civile, come viene intesa in questo modello, non si limita soltanto a un'opposizione tra natura e cultura. I limiti imposti al principio di piacere sono infatti considerati indispensabili ai fini dello sviluppo del pensiero e dell'acquisizione del principio di realtà: le diverse dimensioni intimamente intrecciate sono vincolate tra loro. Questa visione non verrà mai considerata superata; tuttavia successivamente Freud vi apporterà modifiche sostanziali. Gli sviluppi del discorso vengono correlati all'ipotesi secondo cui le forze pulsionali non possono essere individuate soltanto in spinte sessuali: accanto ad esse agisce una pulsione di morte, opposta e intrecciata, variamente, con le pulsioni di vita (1920a). La linea di demarcazione tra istanze civili e forze pulsionali primitive appare, ora, incerta e sfumata. Su queste basi, il modello teorico dell'apparato psichico viene ripensato e il soggetto legato intimamente alla cultura e ai gruppi di cui fa parte. Freud (1921a) afferma che «la psicologia individuale è anche, fin dall'inizio, psicologia sociale». I processi identificatori, embricati con le forze pulsionali, strutturano l'Io e il Super-io (1922a). Il Super-io stesso, rappresentante di divieti e di ideali culturali, in larga parte inconsci, è vincolato a pulsioni di morte, che esprime, indirizzando atteggiamenti e scelte individuali. Con la seconda topica entrano a comporre il soggetto, in un intrico indissolubile con le spinte interne, le peculiarità culturali e storiche. Alle problematiche edipiche si fanno risalire sia le determinazioni dello sviluppo individuale (perché connesse alla strutturazione del Super-io), sia quelle che improntano il processo di civilizzazione. L'interdizione dell'incesto e dell'uccisione del padre viene considerato un cardine del passaggio da un primitivo stato di natura, caratterizzato dall'orda primordiale, a quello di cultura, ordinato nelle istituzioni (1912-1913; 1921a). Inoltre, l'attività spirituale degli uomini, che permea e consente la creazione delle grandi istituzioni della civiltà (la religione, il diritto, l'etica), appare a Freud come un esito di istanze atte a favorire, nel singolo, il padroneggiamento degli impulsi edipici e il trasferimento della libido dai primitivi legami infantili ad auspicati vincoli sociali. Freud teorizza uno stretto parallelismo tra il soggetto e la più ampia dimensione culturale: gli eventi storici, gli influssi reciproci tra natura umana e sviluppo civile (Kultur-entwicklung) non sono altro che il riflesso di conflitti tra Io, Es e Super-io, ripresi in uno scenario più ampio. Le trasformazioni storiche delle culture trovano il loro sviluppo e il loro limite in aspetti conflittuali, considerati in parte insuperabili. Nell'intento di limitare le spinte egoistiche individuali, le istituzioni assumono la funzione di mezzi coercitivi esterni e interni (il diritto, la religione, ecc.), entrambi indispensabili per la dinamica di un ambito di relazioni collaborative e in vista del perseguimento di scopi umani, indirizzati al benessere comune. Uno degli scopi fondamentali della civiltà viene individuato da Freud nella necessità di combattere contro forze naturali avverse all'uomo, e in tal senso la cultura materiale assume un ruolo preminente. Freud (1929) valorizza profondamente lo sviluppo delle conoscenze tecniche e, palesando un atteggiamento di tipo illuministico, distante dall'irrazionalismo diffuso del suo tempo, rileva che i progressi delle conoscenze scientifiche hanno reso l'uomo «una specie di dio protesi, veramente magnifico quando è equipaggiato di tutti i suoi organi accessori». Egli prevede che nel futuro saranno offerte dalla scienza all'uomo ulteriori possibilità. Questa visione progressiva del processo di civilizzazione non concerne, però, soltanto le acquisizioni tecnico-scientifiche. In alcune «speculazioni», considerate dall'autore prive di fondamenti scientifici, e in effetti più vicine alla prospettiva di una filosofia della cultura, l'origine stessa del processo di civilizzazione è collegata a trasformazioni evolutive. Le modificazioni prese in esame riguardano la struttura biologica dell'uomo e concernono l'acquisizione della stazione eretta, i mutamenti degli impulsi olfattivi e visivi, il cambiamento degli impulsi sessuali da ciclici a continui. Questi mutamenti, nel loro susseguirsi e concatenarsi, avrebbero motivato alcune essenziali trasformazioni dell'organizzazione sociale, gravide di conseguenze, come la necessità per l'uomo di possedere una compagna e costituire una famiglia. Freud traccia uno sviluppo progressivo, anche per quanto concerne i tratti dei processi cognitivi e la spiegazioni delle forze che dominano il mondo. Ricalcando il modello di filosofia positiva della storia, sostiene, come altri pensatori della sua epoca (fra tutti M. Weber), che l'umanità sarebbe passata da una prima fase, caratterizzata da una concezione animistica, a una successiva, nella quale sarebbe prevalsa una visione religiosa, e infine a una terza, nella quale l'incremento di modalità di pensiero razionali avrebbe reso possibile l'acquisizione di una visione scientifica del mondo. Su questo stesso scenario, il processo della civiltà avrebbe portato l'umanità a creare progressivamente unità sociali sempre più grandi: e ciò viene inteso come un processo in parte favorito anche da spinte libidiche presenti all'interno della Kultur, le quali sospingono a costruire legami sempre più numerosi e ampi tra gli uomini. Questi sviluppi, pur incidendo profondamente sulla psiche e sul processo di civilizzazione, non avrebbero, però, trasformato in modi sostanziali la natura violenta dell'uomo. L'uomo civile, secondo Freud, terrebbe celato nel suo inconscio un selvaggio pronto a emergere non appena le spinte repressive da parte della comunità si affievoliscono. Freud sembra condividere la massima di Plauto, riproposta da Th. Hobbes nel descrivere lo stato di natura: homo homini lupus. Lo stato prossimo all'animale spiega perché, in tempo di guerra, gli uomini si abbandonino ad atti di crudeltà, perfidia, tradimento, brutalità, che risultano apparentemente incompatibili con i livelli di civiltà raggiunti. Le restrizioni gradualmente maggiori, imposte dal processo di civilizzazione tramite complesse dinamiche, diventano a loro volta fonti di comportamenti distruttivi, che possono mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell'uomo. La concezione freudiana della cultura è stata discussa e interpretata all'interno di un dibattito, più volte ripreso, al quale hanno partecipato studiosi di diverse discipline: antropologi, filosofi, sociologi. Una critica cruciale e frequente rivolta a Freud concerne il fatto che egli avrebbe lasciato uno spazio esiguo all'incidenza della storia e ai peculiari contesti culturali. W. Reich è stato il primo analista a esprimere una simile critica. Egli, pur condividendo pienamente l'ipotesi del rapporto tra disagio psichico e repressione sociale della sessualità, rileva che Freud non aveva riconosciuto, nelle dinamiche da lui descritte, l'espressione di modelli culturali propri di una società patriarcale, caratterizzata da atteggiamenti sessuorepressivi. In America, la discussione delle tesi di Freud sul rapporto tra cultura e natura e sulle relazioni tra mondo interno e realtà esterna, in ambito psicoanalitico, è stata portata avanti prevalentemente secondo due linee di ricerca: il culturalismo (K. Horney ed E. Fromm sono tra gli esponenti di maggiore rilievo) e la psicologia dell'Io (di cui H. Hartmann rappresenta il caposcuola). I culturalisti criticano aspramente le articolazioni tra aspetti pulsionali e dimensione culturale delineate da Freud. Fromm (1941) sostiene che la civiltà rappresenta una dimensione autonoma nei confronti dei bisogni biologici (fame, sete, sesso, ecc.) e che l'uomo, libero dal determinismo degli istinti, è un prodotto della civiltà e delle peculiari relazioni che stabilisce all'interno di un determinato contesto storico, nel quale è proteso a realizzare un adattamento dinamico, attivo. Lo sviluppo del riconoscimento della propria individualità costituisce la creazione e la conquista più importante compiuta dall'uomo nel percorso la cui narrazione è chiamata storia. Le posizioni culturaliste si articolano con l'ampio dibattito che si è svolto in ambito antropologico negli anni '30, nel quale gli studiosi hanno evidenziato aspetti della personalità determinati da sistemi culturali e confutato l'universalità dell'Edipo nella costituzione delle culture. A. Kardiner (1939), analizzato da Freud, esprime un importante momento di incontro tra psicoanalisi e antropologia, coniugando nelle formulazioni sulla «personalità di base» i suoi interessi antropologici con concetti connessi alla propria professione di psicoanalista. Le ipotesi di Kardiner sono state riprese anche da J.-P. Sartre, nel tentativo di fondare filosoficamente l'antropologia. Le tesi culturaliste si ritrovano oggi in parte, riproposte e criticamente aggiornate, nelle elaborazioni della psicoanalisi relazionale. All'interno dell'altra corrente di pensiero che ha caratterizzato lo sviluppo della psicoanalisi americana, Hartmann, invece, nella sua teorizzazione, accoglie con segno positivo i nessi tra cultura e natura e considera la relazione dell'individuo con il proprio contesto culturale come regolata essenzialmente da meccanismi adattativi. Su questa base, egli privilegia una prospettiva che evoca un modello dell'interazione tra individuo e cultura di tipo biologista e comportamentista, distante dalla visione tragica espressa da Freud. H. Marcuse (1955), da un punto di vista filosofico, solleva critiche al culturalismo e alla psicologia dell'Io; prima di emigrare in America, aveva aderito in Germania (insieme a Fromm, Horkheimer e Adorno, ai quali si è aggiunto in seguito J. Habermas) alla scuola di Francoforte, al cui interno è stata dedicata una particolare attenzione al discorso di Freud sulla cultura. Marcuse considera negativamente il culturalismo, che esprime una concezione spiritualistica dell'uomo, e l'indirizzo neofreudiano, caratterizzato da una visione adattativa e inadeguatamente conflittuale del rapporto tra l'individuo e il mondo esterno. Pur valutando l'incidenza della storia sulla strutturazione delle dinamiche sociali e sulla formazione dei modelli culturali, Marcuse condivide pienamente, nei suoi studi, l'analisi freudiana secondo cui una profonda conflittualità connota la relazione tra l'individuo e la realtà esterna. Anche dal vertice hegelo-marxiano assunto dal filosofo, i meccanismi sociali, introiettati attraverso la partecipazione al contesto culturale, sono considerati come determinanti per la repressione delle spinte pulsionali e quindi per la formazione del disagio psichico. In Francia, tra gli psicoanalisti, J. Lacan, partendo da presupposti ontologici e fenomenologici profondamente diversi da quelli di Marcuse e della scuola di Francoforte, ha egualmente considerato criticamente gli sviluppi della psicoanalisi diffusi in America e ha proposto un suo originale ritorno a Freud. Ricollegandosi alle ricerche antropologiche di C. Lévi-Strauss e agli studi di linguistica di F. de Saussure, ha prospettato una concezione della psicoanalisi nella quale la disciplina, intrinsecamente lontana dalla dimensione biologica dell'uomo, considera il soggetto un prodotto culturale. La cultura, in contrasto con le tesi dei culturalisti, viene pensata, invece che in un'ottica storica, secondo le linee di un orizzonte strutturalista e antiumanista. Lacan afferma che l'inconscio è strutturato come un linguaggio, regolato da leggi astoriche. La possibilità per il piccolo umano di accedere alla cultura e superare così una primitiva posizione di fusionalità primaria con la madre è garantita dalla funzione paterna. Il padre, rappresentante del momento di rottura dell'unione tra madre e bambino, costituisce il terzo, l'Altro, che consente l'ingresso nella cultura, introducendo la legge del sistema linguistico, la cui acquisizione rende possibile un percorso verso la soggettivizzazione, tramite una logica proveniente dall'esterno della coscienza. Le tesi di Lacan hanno suscitato un ampio dibattito nel quale sono intervenuti psicoanalisti (D. Lagache, J. Laplanche e J.-B. Pontalis, A. Green) e filosofi (J.-P. Sartre, L. Althusser, G. Deleuze, J. Derrida). Alle discussioni intorno ai nessi psicoanalisi/cultura, particolarmente accese all'interno dei movimenti politici del 1968, ha partecipato, in Francia, anche l'antipsichiatria militante. In questo clima politico, F. Guattari (1972), allievo di Lacan, ha operato, collaborando con Deleuze, una critica di fondo alla psicoanalisi, accusata di porre un'eccessiva enfasi sulle dinamiche familiari e finendo così con l'occultare, in parte, la centralità della dimensione sociale e politica. In Italia, è doveroso ricordare l'attenzione rivolta al tema psicoanalisi/cultura, negli anni '30, da A. Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere. Più propriamente, però, al dibattito hanno dato contributi di rilievo gli psicoanalisti F. Fornari ed E. Fachinelli e dall'interno dell'antipsichiatria F. Basaglia e F. Ongaro Basaglia. In Inghilterra, in una tradizione culturale del tutto diversa da quella francese e italiana, W. Bion e D. Winnicott, più vicini all'esperienza clinica e alle problematiche psicologiche delle teo- rie dello sviluppo e del pensiero, hanno elaborato altri temi, intrinsecamente connessi al rapporto psicoanalisi/cultura. Bion (1961) ha proposto un modello del funzionamento psichico e dei gruppi, sia spontanei sia istituzionali, nel quale i diversi aspetti della cultura e le varie ideologie (cultura di gruppo) sono considerati intrisi di elementi, di rappresentazioni, di scopi, legati a inconsci bisogni irrazionali (assunti di base), che ostacolano il pensiero e la realizzazione di intenti e di finalità consapevoli (gruppo di lavoro). Gli aspetti irrazionali presenti, anche se in modi non appariscenti, sono motivati da irrisolvibili angosce primitive, verso le quali assumono un ruolo difensivo. I vissuti di appartenenza alla cultura e ai diversi gruppi di cui il singolo fa parte (considerati un elemento fondamentale del mondo interno) traggono origine dall'area emozionale connessa agli assunti di base e sono perciò motivati da spinte fantasmatiche irrealistiche. Winnicott (1971), ricollegandosi all'ipotesi di un'area transizionale, sostiene che il senso di appartenenza a una cultura e la condivisione di esperienze artistiche e culturali si realizzano all'interno di quest'area caratterizzata da «illusori» vissuti di contiguità tra mondo interno ed esterno. In tal senso, egli giunge a sostenere che quando si parla di un uomo si parla di lui insieme con la somma delle sue esperienze culturali. Bion e Winnicott, nell'interpretare la genesi dei vissuti di appartenenza, ipotizzano dinamiche che assumono significati profondamente diversi e, per certi aspetti, contrapposti. Queste differenze non sono però da attribuire soltanto a una diversità di modelli teorici, ma possono, almeno in parte, essere riconducibili agli specifici aspetti fenomenologici da loro analizzati. La congiunzione psicoanalisi/cultura viene anche intesa come «psicoanalisi applicata» nel senso che, come ha evidenziato Freud (1922b) e come testimonia pienamente la sua opera, le conoscenze sul mondo interno e sulla cultura, acquisite tramite gli sviluppi delle conoscenze teoriche e cliniche della disciplina, sono utili per lo studio della storia delle religioni e della civiltà, della mitologia e della letteratura. Nel corso del '900, la psicoanalisi europea e americana ha variamente partecipato all'investigazione di questioni riguardanti il pensiero selvaggio, il mito, la religione, il linguaggio, le arti, le lettere, il sistema sociale e dei media, e così via. P.-L. Assoun (1993a), nel riflettere sulla congiunzione tra psicoanalisi e scienze sociali e correlativamente tra psicoanalisi e cultura, sottolinea che tale congiunzione non costituisce un'appendice, ma rappresenta piuttosto un'espansione necessaria della disciplina. Il dibattito teso ad approfondire le problematiche relative alla cultura si è però negli anni andato gradualmente affievolendo, a causa di diversi fattori, tra i quali è centrale il prevalere tra gli psicoanalisti di un interesse per la dimensione clinica, a cui ha corrisposto uno scarso riconoscimento della necessità della ricerca teorica e della fecon dita del discorso sulla cultura. P. Roazen (1968) ha rilevato in proposito che lo sviluppo della psicoanalisi è stato caratterizzato da una frattura infruttuosa. Gli analisti si sono mostrati, in genere, scarsamente attenti all'indagine rivolta alla cultura nell'opci n di Freud, perseguita, invece, e per alcuni aspetti valorizzata e approfondita su nuove basi, da studiosi di altre discipline, non interessati professionalmente alla clinica. In Italia, negli ultimi anni, la ripresa di studi intorno al tema sembra testimoniare un rinnovato e più generale interesse anche da parte degli analisti verso problemi concernenti la cultura e il disagio della civiltà. CECILIA ALBARELLA e NESTORE PIRILLO |