Comportamento e azione |
Il concetto di comportamento è diventato di larghissimo uso in psicologia. Quando i manuali definiscono questa disciplina come «la scienza che studia il comportamento e la mente» si riferiscono a un quadro nel quale il comportamento è costituito da tutte le manifestazioni dell'attività umana che sono «osservabili» (nel senso «pubblico» che la metodologia scientifica dà a questo termine), mentre la «mente» rimanda a tutto il resto che non si vede (né si sente o si tocca), ma che in qualche modo riteniamo esserci: sensazioni, percezioni, conoscenze, pensieri, sogni, emozioni, desideri, paure e così via. Considerato da tale punto di vista, il termine comportamento non sembra necessitare di nessuna definizione ulteriore. Il concetto si è ormai «depurato» di tutte le connotazioni fortemente polemiche che aveva avuto per vari decenni, da quando J. Watson (1913) lo aveva messo al centro della psicologia. Oggi è diventato un semplice indicatore di quella dimensione dell'attività di un organismo che è possibile cogliere come un evento quale si dà all'osservazione dall'esterno. Tuttavia, quando si precisa, come fanno vati manuali, che l'«osservabile» si riferisce all'insieme delle azioni compiute da una persona, e che il termine «mente» comprende in definitiva tutte le esperienze soggettive che caratterizzano un individuo, si dischiude un quadro più problematico. In effetti, un insieme di azioni può essere sicuramente definito come comportamento, se visto dall'esterno come un «evento». Ma il concetto di «azione», altrettanto sicuramente, non si lascia definire solo in tale ottica «esterna», in quanto implica sempre almeno due fattori che lo rendono qualcosa di diverso da un mero avvenimento: per un verso, una fonte attiva da cui trae origine e, per altro verso, la «produzione» di qualcosa di materiale o di simbolico (fosse pure qualcosa di minimo). Due aspetti che non necessariamente il concetto di comportamento contiene. In altri termini, il concetto di azione rinvia comunque non a una semplice giustapposizione tra mondo oggettivo e mondo soggettivo, bensì a una loro articolazione attiva. La stessa articolazione presuppone, del resto, il concetto di «esperienza», la quale non si lascia dividere in «interna ed esterna», come già aveva rilevato W. Wundt, e la cui dimensione soggettiva è sempre intrinsecamente intrisa di quel mondo genuinamente oggettivo che entra nelle azioni e nelle passioni degli uomini. In questo senso, il concetto di comportamento necessita di una definizione che vada al di là del semplice aspetto descrittivo, non tanto per puro interesse speculativo ma per meglio cogliere come possa diversamente collocarsi sul piano teorico-metodologico l'analisi della psicologia e della psicologia sociale a seconda del suo dirigersi verso il comportamento o verso l'azione. Il termine comportamento non apparteneva al lessico concettuale della psicologia rationalis nata nell'ambito della filosofia, e neppure a quello della psicologia «scientifica» (cioè empirica e sperimentale) che si era andata sviluppando in senso psicofisiologico da G. Fechner a H. von Helmholtz e a Wundt. D'altro canto, né l'una né l'altra si erano propriamente occupate dell'agire umano: al loro centro restava, fondamentalmente, l'attività mentale e non l'attività pratica. W. James (1890), che sviluppa l'analisi della mente nel contesto delle sue relazioni concrete (come egli diceva), non utilizza il termine comportamento, bensì quello di azione. E lo stesso faranno quegli studiosi che, tra il 1900 e il 1930, si occuperanno di motivazione e di organizzazione dell'agire, come N. Ach, J. Lindworsky e K. Lewin. Il termine comportamento entra nell'uso soprattutto ad opera degli studiosi di psicologia animale. Questi non avevano altro modo per indagare i fenomeni psichici se non quello di procedere in base ai dati osservabili dell'attività, eventualmente in connessione con i dati ricavati dall'analisi fisiologica. La psicologia animale costituiva un'area indagata e seguita con molto interesse per almeno tre motivi: in primo luogo perché, nella prospettiva aperta da Ch. Darwin sulla contiguità tra mondo animale e mondo umano, la psicologia animale, avvicinando non solo l'animale all'uomo ma l'uomo all'animale, sembrava giustificare la visione «naturalistica» della nostra specie al di là di ogni residuo metafisico e spiritualistico. Essa, inoltre, facendo uso di metodologie che spesso integravano i dati comportamentali con quelli di ordine neurofisiologico, veniva a rinforzare l'ottica psicofisiologica corrente. E infine, sempre in forza della sua metodologia, essa legittimava il richiamo a un'indagine fondata su dati oggettivi secondo i procedimenti delle scienze fisiche e naturali, non sottoposti all'incertezza derivante dall'interrogazione del soggetto e dall'introspezione. Quest'ultimo aspetto fu, forse, quello che maggiormente contribuì ad aprire la strada al concetto di comportamento in quella larga parte della psicologia che si era ancorata all'epistemologia del positivismo, il cui fondatore, A. Comte, aveva bollato l'introspezione come mera illusione della mente che contempla se stessa, escludendo così dal suo sistema delle scienze la psicologia del suo tempo. In questo clima, l'idea di una psicologia oggettiva, come quella che Watson propose nel 1913, non tardò a imporsi. La psicologia, afferma Watson, è un settore delle scienze naturali che deve procedere con la stessa metodologia di queste, ovvero in modo oggettivo e sperimentale. Per far questo, deve abbandonare ogni riferimento alla mente e alla coscienza, avendo il comportamento osservabile come suo specifico oggetto e analizzandolo in un quadro unitario che comprende sia l'animale sia l'uomo, senza alcuna linea di demarcazione tra i due, sulla base delle risposte che l'organismo fornisce agli stimoli provenienti dall'ambiente. Quest'ottica è rigorosamente periferalista, perché elimina ogni mediazione del sistema nervoso centrale tra stimolo e risposta, ed è anche totalmente ambientalista, perché esalta il ruolo determinante dell'ambiente, non attribuendo quasi nessuna rilevanza a competenze psicobiologiche innate. Tutto ciò che di stabile è rilevabile nel comportamento dell'individuo è dovuto ad abitudini che vengono a formarsi nell'ambito del continuo processo di apprendimento che caratterizza l'organismo (umano e animale) nei suoi rapporti con l'ambiente. Anche l'apprendimento è visto in termini rigorosamente periferici, sotto forma di un condizionamento che avviene in maniera del tutto meccanica, sia per associazione, secondo il classico modello di I. Pavlov, sia per rinforzo, secondo la legge dell'effetto di E. Thorndike. Nel primo caso, il condizionamento è prodotto associando, a uno stimolo appropriato che fa emettere la risposta (ad es. lo stimolo cibo che produce la risposta salivazione), uno stimolo di altro genere (ad es. un campanello) che determinerà la medesima risposta. Nel secondo caso, il condizionamento, definito «operante», sarà invece prodotto dai rinforzi che una risposta riceve quando procura un piacere (o un vantaggio o uno stato di benessere) all'organismo, oppure quando evita una situazione dolorosa: tipico esempio è quello dell'animale che «impara» ad abbassare una leva per procurarsi il cibo. Le risposte vengono «rinforzate», e perciò stabilizzate e orientate a ripetersi, dal «premio» che procurano (e viceversa, ovviamente, per le risposte che, procurando dolore o interrompendo stati di benessere, divengono «punizioni»). Il condizionamento operante, soprattutto nell'elaborazione di B. Skinner, ha destato impressione notevole perché evoca un comportamento che viene «appreso» non «dopo» aver subito un condizionamento grazie all'associazione stimolo-risposta, ma piuttosto sulla base delle «conseguenze» che esso stesso produrrà: un'ottica che sembra assai simile a quella che presiede all'azione volontaria, la quale, in effetti, è messa in atto «in previsione» delle sue conseguenze. In realtà, si tratta di una somiglianza puramente apparente: ma l'impressione resta. Il meccanismo premio-punizione, come fattore di quell'apprendimento sociale che sembra scandire l'intero corso dell'esistenza, incidendo soprattutto nell'età dello sviluppo grazie ai molti modelli di azioni premiate o punite che l'educazione e la società in genere presentano, diverrà pervasivo in psicologia e in psicologia sociale per alcuni decenni. Vari lavori in merito hanno goduto di molta notorietà, contribuendo all'allargamento dell'ottica behavioristica classica, che già aveva iniziato a modificarsi in senso neo-behavioristico, a seguito di quegli studiosi che tendevano a rendere più complesso lo schema stimolo-risposta con l'introduzione di elementi di mediazione connessi con l'attività dell'organismo. Queste mediazioni furono intese in senso logico da C. Hull (1943; 1952), il quale costruì un sistema assai rigoroso nell'ambito di una visione essenzialmente adattativa del comportamento: questo è concepito sempre in funzione del soddisfacimento di bisogni, primari o secondari (fisiologici o nati nella vita di relazione), che agiscono come pulsioni (drives), sostenendo sistemi complessi di abitudini. Il drive e l'abitudine divengono così elementi ancora più importanti dello stimolo in sé nel generare le risposte. Un altro tipo di mediazione tra S e R deriva dall'attenzione portata agli sviluppi delle neuroscienze. Da tempo il neurofisiologo Ch. Sherrington aveva evidenziato il ruolo delle funzioni nervose e i loro aspetti di ge-rarchizzazione e di integrazione; la neurochirurgia accumulava reperti, in tal senso, sempre più cospicui non solo sugli animali ma sull'uomo; l'analisi elettroencefalografi-ca offriva un grande strumento per lo studio dinamico dell'attività bioelettrica. Su questa base diveniva non solo antiscientifico, ma quasi contrario allo stesso senso comune, continuare a considerare il cervello umano come una «scatola nera» misteriosa, quando si andavano accumulando tanti dati che dimostrano come l'attività nervosa sia altamente strutturata, organizzata e gerarchizzata, e come il sistema nervoso sia sempre in condizioni di attività. In tale chiave, D. Hebb (1949) indirizza la sua critica a quella concezione del primo behaviorismo che considera l'organismo attivato solo da speciali condizioni di eccitamento dovute a stimoli esterni. L'energia, egli dice, non è nello stimolo ma nell'organismo, nel suo cervello. La concezione complessiva dell'attività psichica che Hebb delinea in chiave associazionistica è ancora meccanicistica, ma il richiamo all'organizzazione mentale e alla sua centralità costituisce uno dei fattori che aprono la strada al cognitivismo: in pochi anni, tra il 1950 e il i960, questa nuova prospettiva porterà alla fine del comportamentismo come paradigma centrale della psicologia. La riscoperta di J. Piaget e del costruttivismo di F. Bartlett da parte della psicologia americana, la nuova attenzione per la teoria della Gestalt, l'analisi psicosociale del pensiero condotta da J. Bruner, J. Goodnow e G. Austin, i lavori di N. Chomsky sulle strutture della sintassi e quelli di A. Newell e H. Simon sull'intelligenza artificiale, contribuiscono a riportare nell'ambito della psicologia tutto l'insieme dell'attività mentale che Watson aveva voluto escludere mezzo secolo prima. Nel nuovo clima cognitivista si profila anche una diversa concezione dell'attività pratica umana: il lavoro di G. Miller, E. Galanter e K. Pribram (1960), pur conservando nel suo titolo il termine «comportamento», presenta quella che può definirsi la prima dettagliata analisi gerarchico-sequenziale dell'azione compiuta dalla psicologia. Quest'opera, che richiama anche l'attenzione sul modello di «livello di aspirazione» di Lewin (ben più ricco dal punto di vista soggettivo), sarà utilizzata dagli psicologi del lavoro tedeschi che analizzavano l'agire nell'ambito della concezione marxiana dell'attività, e poi da alcuni psicologi sociali europei, quali M. Stadler (1980), M. von Cranach (1982) e P. Amerio (1987). Ma resterà marginale rispetto al mainstream dominante della psicologia e della psicologia sociale, che, come già era avvenuto per gli studiosi di fine '800 e inizio '900, si concentrarono sull'attività mentale, trascurando, con pochissime eccezioni, l'attività pratica, e continuando a utilizzare il concetto di comportamento per designare le dimensioni «esterne», osservabili, della condotta. Il concetto di «azione» implica un atto (anche di linguaggio), o un insieme coordinato di atti, che ha alla sua origine una fonte attiva capace di «fare» in senso lato, cioè di produrre modificazioni nella situazione, quale che essa sia. In questo senso molto generale possiamo parlare anche «dell'azione di un acido sul metallo», e di qualsivoglia altra operazione similare. In chiave psicologica e sociale tale fonte è costituita da un soggetto (individuale o collettivo) che è tale perché dotato di identità, di iniziativa, di competenze attive. Un soggetto che è capace di analizzare lo stato esistente delle cose, di fare scelte e prendere decisioni, e di prospettarsi uno stato futuro che la sua azione può produrre. Tale stato futuro costituisce lo scopo dell'azione. A livello psicologico, il processo di azione presenta una struttura gerarchizzata di operazioni mentali (spesso compiute in tempi brevissimi) che vanno dalle fasi iniziali di scelta e di fissaggio della decisione, a quella successiva di pianificazione, a quella di esecuzione: in quest'ultima funzionano costantemente operazioni di monitoraggio e di controllo dei risultati. Questa sequenza di rappresentazioni, valutazioni, giudizi e controlli può essere rappresentata come un'attività cognitiva che avviene sulla base di processi top-down (ossia dall'alto in basso, guidati dalla mente), e di processi bottom-up (dal basso in alto, guidati dai dati). Il primo ordine di processi appare particolarmente importante in sede di pianificazione e il secondo in sede di controllo dell'esecuzione. Ma, in realtà, i due tipi di processi sono costantemente interrelati nell'ambito di un meccanismo retroattivo (o circolare) in cui i dati connessi con il mutamento della situazione in atto «ritornano» ali'indietro e contribuiscono a rettificare, eventualmente, il quadro cognitivo di partenza e a produrre le successive decisioni e operazioni. Lewin (1947) ha ben sintetizzato l'insieme di questi processi circolari nel corso dei quali la percezione individuale è connessa con l'azione in modo tale che i suoi contenuti dipendono dal modo con cui la situazione viene mutata attraverso l'azione. Il risultato della rilevazione dei fatti influenza a sua volta Fazione o la guida. Lo schema di livello di aspirazione (Lewin et al., 1944) ha permesso di analizzare empiricamente questa dinamica, facendo emergere non solo il modo con cui le mete che un soggetto si prefigge vengono rettificate e variate in base sia ai risultati reali che alla loro percezione soggettiva, ma anche le varie componenti di ordine emotivo che entrano in questo quadro: esaltazioni, frustrazioni, esitazioni, timori, aspirazioni a ottenere di più, e così via. L'analisi dettagliata dei processi che presiedono all'azione è stata inizialmente formulata da Miller, Galanter e Pribram (i960) nell'ambito del loro modello TOTE (test-operate-test-exit). Ogni azione è, in generale, composta da più operazioni che si concatenano in un piano. Un piano è un'immagine, cioè una costruzione mentale in cui, sulla base di cognizioni e valorizzazioni, viene formulato un insieme gerarchizzato di istruzioni atte a intervenire sulla situazione. Ogni operazione viene quindi espressa, nel modello, come un'unità costituita dalla sequenza: test, cioè controllo della situazione; se la situazione, come solitamente avviene, non risponde al progetto, viene emessa un'operazione (operate) atta a modificarla; il risultato prodotto viene ricontrollato (test) e, se la situazione è coerente con il progetto, l'operazione viene interrotta (exit). Altre operazioni si concateneranno con questa si no a raggiungere il risultato previsto dal piano. Questo modello, chiaro ma alquanto meccanicistico, è stato ampiamente rielaborato in senso cognitivo da studiosi interessati sia agli aspetti ergonomici dell'attività anche in termini di rapporto uomo/macchina, sia alle procedure della pianificazione mentale, sia ancora al problem solving. Questi studi hanno mostrato che nella pianificazione e nel controllo dell'azione si registra una costante interazione sia tra sapere dichiarativo (la conoscenza concettuale in senso tradizionale) e sapere procedurale (la conoscenza che serve a fare), sia tra processi automatici e processi volontari e consapevoli di controllo. Hanno mostrato inoltre l'importanza dei processi metacognitivi, ossia di quelle conoscenze che vertono sulle operazioni cognitive stesse: un «sapere relativo al proprio sapere» che coinvolge costanti attività di valutazione, non solo dell'ambiente, ma anche di sé, e che implica un'intrinseca competenza a coniugare le conoscenze con le proprie possibilità di autoregolazione. L'azione, dunque, svolge uno spiccato ruolo cognitivo sotto due profili: in primo luogo, perché porta all'interno dei sistemi di conoscenza (schemi e modelli mentali) il senso di quella conoscenza procedurale, che, molto spesso, non è traducibile facilmente in concetti comunicabili (cioè in forme «dichiarative»), ma che costantemente impieghiamo nella nostra vita quotidiana; in secondo luogo, perché attraverso i meccanismi circolari che la regolano consente al soggetto di ottenere una nuova informazione che serve per operazioni di autocorrezione. Tale funzione di autocorrezione è anche di concretizzazione, perché l'azione, pur attivata dalla sfera soggettiva, è poi anche sorretta e controllata dal contesto oggettivo nel quale si danno le risorse che servono a realizzarla (capacità personali e fattori socioambientali). L'azione contribuisce dunque a far entrare nel mondo mentale il senso «duro» del contesto fattuale in cui ciascuno di noi vive. Per scrivere occorre una penna, per comprare qualcosa occorrono i quattrini, per convincere la gente occorre abilità retorica: questi esempi evidenziano come il soggetto, se visto non solo nella dimensione epistemica, ma in quella pratica, si muova costantemente in un ambito di «potere». Il fare, sia quello materiale, sia quello che, mediante l'azione discorsiva, si colloca nel contesto simbolico e sociale proprio dell'esistenza umana, è legato alla possibilità che le situazioni pratiche consentono. L'attività pratica, a differenza dell'attività puramente cognitiva, è quella che può consentire all'essere umano di cambiare lo stato delle cose esistente: ma è vincolata dalle «cose» (cioè dall'ambito oggettivo delle capacità personali e delle risorse ambientali) in modo assai più forte della cognizione. Tale dimensione di «possibilità», che sempre è data dall'articolazione tra valutazione di sé e valutazione del contesto, costituisce un aspetto importante della sfera cognitivo-affettiva: un elemento che partecipa costantemente alla costruzione della personalità e dell'identità. L'azione è originata da scelte e intenzioni, ma sovente, nell'ambito della vita quotidiana, il nostro agire volontario non richiede né deliberate pianificazioni né specifiche intenzioni. Come già aveva rilevato Lewin, queste azioni (nell'insieme delle operazioni di cui sono composte) sono attivate in modo quasi diretto dal campo situazionale in cui ci muoviamo. Questo aspetto è stato più ampiamente chiarito dalla ricerca contemporanea, la quale ha evidenziato come un numero notevole di azioni routinarie siano guidate automaticamente da schemi cognitivi che, costruitisi nel corso dell'esperienza, si sono fissati nella nostra mente. Questi schemi di azione sono denominati scripts, copioni, perché funzionano proprio come delle indicazioni che ci guidano, senza alcun deliberato impegno mentale, nel corso delle operazioni necessarie per partecipare in modo corretto e funzionale alle specifiche situazioni che li hanno attivati. Gli script hanno come specifica caratteristica quella di non essere generali bensì specifici per specifiche situazioni, e di contenere soprattutto indicazioni pratiche. Proprio per questo motivo si può ritenere che tali schemi pratici della conoscenza sì formino, nel bambino, prima di modelli di conoscenza concettuale, perché più direttamente connessi con le concrete esperienze dirette di vita. Quando tali script si sono formati e consolidati è verosimile ritenere che anche in essi sia presente una dimensione che va al di là del mero aspetto informativo (conoscenze dichiarative e performative) e che mette in causa un «sapere di potere». Soprattutto quel potere che è connesso in modo normativo a specifiche situazioni (ci sono cose che si possono fare al ristorante ma non in una mensa scolastica, ad esempio; azioni normali in un corridoio di università ma non in quello di un ospedale, ecc.) che valgono in generale per tutti in una certa cultura. Ma vi entra verosimilmente anche un senso del potere più particolarmente personale, che contribuisce agli script personali che sono specifici di ogni persona. È evidente che, in questi ultimi, anche la dimensione del potere acquista caratteri più personali, mettendo in gioco nella situazione presente il più ampio insieme di valutazioni di sé e delle cose che derivano dall'intera personalità e dalla storia dell'individuo quale si è formata non solo nelle dinamiche cognitivo-affettive del conoscere, ma nel contesto pratico della sua vita. In modo similare, il problema del potere entra in quel modo di agire che è più particolarmente tipico (specie-specifico) dell'essere umano: il linguaggio. Il titolo del volume in cui J. Austin (1962) ha racchiuso i suoi saggi sugli atti linguistici, How to Do Things with Words, è ben indicativo di un'ottica che, particolarmente approfondita da J. Searle (1969), si è diffusa anche nella psicologia e nella psicologia sociale. Quando noi parliamo, esprimiamo non solo una enunciazione dotata di senso (un atto locutorio) ma anche l'intenzione di realizzare qualcosa (l'aspetto illocutorio dell'atto). Possiamo esprimere un atto che adegua la nostra parola allo stato del mondo («sta piovendo», «questo articolo è noioso»), oppure un atto che tende ad adeguare lo stato del mondo alla nostra parola: «chiudi la finestra», «ti prometto che verrò». Naturalmente esistono delle condizioni affinché questi atti abbiano successo: se do un ordine, occorre che io abbia una reale autorità per farlo, cioè un potere adeguato; occorre che il mio interlocutore sia in grado di compierlo, e che io esprima con la forza necessaria la mia intenzione. L'analisi degli atti linguistici permette di analizzare le dinamiche dell'azione, soprattutto sotto il profilo del ruolo che essa svolge nel costruire e regolare i rapporti sociali. In effetti il linguaggio è intrinsecamente legato alla dimensione sociale dell'uomo: il parlare presuppone sempre un interlocutore, sia esso reale o simbolico, cioè presente nella nostra mente e nella nostra stessa parola. Parlare è agire, ma un agire in comune; perciò l'azione discorsiva assume fondamentalmente il carattere di un'interazione, in modo ancora più marcato ed evidente di quanto non si noti per altri tipi di azione. In realtà, nel contesto pratico-sociale che costituisce il mondo concreto in cui viviamo, l'azione ha in generale questo carattere interazionale. Come già aveva messo in luce G. Mead (1934), è questa interazione, simbolicamente mediata, ad aver costituito la società e, trasferendo nella mente il sistema di relazioni pratiche della vita sociale, ad aver contribuito a costituire il Sé. Il ruolo costruttivo dell'azione contribuisce a rendere più evidente la differente prospettiva che essa apre in psicologia e in psicologia sociale rispetto al concetto di comportamento, anche quando quest'ultimo è utilizzato (come oggi avviene in larga misura) in senso puramente descrittivo, presupponendo alla sua origine un soggetto mentalmente attivo. Tale differente prospettiva è dovuta al fatto che, anche in un'ottica cognitiva, il comportamento conserva il suo fondamentale carattere di «evento» e non di attività. E qualcosa che avviene e non un'attività prodotta dal soggetto. Il fatto di non tradurre, nell'ambito teorico-metodologico, l'attività anche pratica dell'essere umano, impedisce di considerare sia in termini concettuali che empirici il ruolo cognitivo di tale attività: quindi il soggetto conoscente, ma non specificamente «agente», non riesce a rappresentare nella sua interezza (anche cognitivo-affettiva) l'individuo concreto che è sempre un «individuo in situazione» (Amerio, 1995). Ma il trascurare l'attività pratica nel suo insieme implica anche di tenere in scarsa considerazione il fatto che il mondo umano nel quale concretamente viviamo è stato prodotto da tale attività: un'attività che, ancora oggi, continua a produrlo (cambiandolo e trasformandolo) attraverso l'agire quotidiano dei soggetti individuali e collettivi. Solo il concetto di azione consente di tradurre sul piano dell'analisi questo aspetto attivo e costruttivo della relazione tra l'uomo e l'ambiente. Nell'epistemologia implicita che il concetto di comportamento porta con sé, il contesto sociale e il soggetto sono considerati come due entità diverse e separate, e non come funzionalmente connesse. Così, sul versante individualistico-cognitivo l'essere umano finisce col divenire un eremita sociale, mentre sul versante sociocostruzionista, essendo visto come plasmato e determinato dal contesto, rischia di perdere la sua capacità cognitiva di base e di divenire un artefatto sociale. PIERO AMERIO |