Complesso

Alla fine dell'800, a partire da studi psicologici sperimentali sulle associazioni verbali, si era costituito, nell'ambito della psicologia, uno specifico e preciso campo di studio. Tra gli altri W. Wundt, proseguendo e sistematizzando le ricerche sperimentali di E. Weber, G. Fechner e H. von Helmholtz (presso cui Wundt si era formato), aveva fondato a Lipsia, nel 1879, uno dei primi laboratori di psicologia sperimentale in cui furono appunto sviluppati gli esperimenti di associazione verbale elaborati da F. Galton. Il test associativo verbale consisteva, in sintesi, nel chiedere all'esaminato di rispondere il più rapidamente possibile, con una parola, alle varie parole che l'esaminatore pronunciava. Veniva misurato il tempo di reazione. Questi esperimenti permisero interessanti osservazioni e fu pertanto inevitabile che questo tipo di ricerca si estendesse anche in campo psichiatrico. Il concetto di «complesso» nacque così, in questo ambito, proprio a partire dagli esperimenti di associazione verbale effettuati all'ospedale Burghölzli di Zurigo, a partire dal 1901, sotto la guida di E. Bleuler. Bleuler aveva conosciuto l'applicazione clinica degli esperimenti di associazione verbale compiuti da E. Kraepelin, direttore della Clinica psichiatrica dell'Università di Monaco e allievo di Wundt. All'inizio, gli esperimenti furono prevalentemente volti a esaminare i vari tipi di associazione (ad esempio le associazioni interne, semantiche, e quelle esterne, verbali), le loro regole e i fattori psicologici disturbanti il normale processo associativo (se ciò che interferiva fosse cioè dovuto, ad esempio, all'affaticamento o alla presenza di deficit attentivi). C. G. Jung si interessò inizialmente alle possibilità diagnostiche del test di associazione, e ritenne che questo potesse essere usato anche per scopi medico-legali. Le associazioni compiute da una persona sospettata di un qualche reato avrebbero potuto consentire di provarne o meno la colpevolezza. Jung si rese però rapidamente conto del fatto che le associazioni indicanti colpevolezza avrebbero potuto essere determinate, oltre che da colpe oggettive, anche da soggettivi sentimenti di colpa. Ciò che Jung, a differenza di altri, comunque comprese, fu il potenziale teorico implicito nel fatto che le caratteristiche delle risposte al test associativo erano indicative dell'esistenza di contenuti della vita psichica più o meno nascosti, e nella considerazione che la personalità aveva una parte decisiva nella determinazione del come e del perché delle associazioni. I soggetti esaminati associavano a seconda di come erano (Jung, 1906), a seconda cioè dei loro «complessi».

Non è chiaro chi abbia introdotto per primo il concetto di «complesso di rappresentazioni a tonalità emotiva». Jung parla sia di Th. Ziehen, sia di se stesso e di F. Riklin; H. Christoffel fa riferimento a Bleulerv(che lo avrebbe introdotto solo oralmente). È comunque certo che fu Jung a comprenderne l'importanza clinica e teorica. Nell'esistenza di complessi Jung si era del resto già imbattuto assistendo alle sedute medianiche della cugina Hélène, esperienza che fu l'oggetto della sua tesi di laurea, Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti (1902), in cui i termini «complesso» e «complesso dell'Io», pur non avendo ancora assunto un particolare rilievo, erano già stati utilizzati. Ciò che aveva interessato Jung era stata la constatazione dell'esistenza, nella psiche della medium, di personalità parziali. La consapevolezza della possibilità di una frammentazione della personalità e le problematiche relative all'ipnosi facevano parte, del resto, della cultura psichiatrica del tempo. Jung conosceva, in particolare, l'opera di Th. Flournoy, il quale aveva studiato il caso di una medium il cui esame dimostrava l'esistenza di « subpersonalità inconsce ». Jung frequentò anche, a Parigi, nell'inverno 1902-903, P. Janet, il quale sosteneva che le serie di rappresentazioni potessero scindersi, liberarsi dalla gerarchia dell'Io-coscienza, e iniziare un'esistenza più o meno autonoma. Per «complesso di rappresentazioni a tonalità affettiva» Jung intese sia l'insieme delle rappresentazioni che si riferiscono a un determinato avvenimento a tonalità emotiva, sia una massa di rappresentazioni tenute insieme da un determinato affetto o da un particolare tono emotivo, cioè da un affetto. Tra le due definizioni è percepibile un interessante slittamento di significato: nella seconda manca infatti ogni accenno alle relazioni tra i complessi e gli avvenimenti. Il complesso di rappresentazioni a tonalità affettiva è divenuto cioè un dato strutturale della vita psichica. Non si tratta tanto di una vita psichica disturbata da complessi, quanto di una vita psichica concepita strutturalmente come complessuale. Il complesso possiede una forte compattezza interna e una relativa autonomia. Può essere represso con uno sforzo di volontà, ma non del tutto eliminato; quando si presenta l'occasione opportuna riemerge con tutta la sua forza immaginaria. L'Io, pur detto istanza psichica suprema (Jung, 1907), viene ad essere considerato anch'esso come un complesso. Con complesso dell'Io viene cioè intesa la massa di rappresentazioni dell'Io che possiamo immaginare accompagnata da un potente tono affettivo del proprio corpo. L'Io sarebbe l'espressione psicologica dell'insieme strettamente associato di tutte le sensazioni somatiche.

Jung distinse complessi normali, accidentali e permanenti. I complessi normali riguardavano per le donne la sfera erotica, la famiglia, la situazione coniugale e la gravidanza, per gli uomini il denaro, l'ambizione e il successo. I complessi accidentali erano quelli legati ad avvenimenti reali della vita. I complessi permanenti erano appunto tali, ed erano particolarmente evidenziabili nell'isteria e nella demenza precoce. Le differenze esistenti tra normalità, isteria e demenza precoce furono considerate da Jung, dal punto di vista della teoria dei complessi, di tipo quantitativo. Egli ritenne, cioè, che i complessi che caratterizzano la vita psichica delle persone normali fossero gli stessi che caratterizzavano la vita psichica degli isterici e dei dementi precoci. Tra un abituale lapsus e le imprecazioni blasfeme di un malato mentale, in linea di principio, esisterebbe solo una differenza di grado (Jung, 1934-1948). Tra i complessi presenti nell'isteria e quelli presenti nella demenza precoce esisterebbe comunque una differenza: nella prima i complessi potrebbero essere assimilati (conosciuti, elaborati, integrati all'Io), mentre nella seconda ciò non potrebbe avvenire. I complessi sarebbero conoscibili ma non assimilabili, e questa differenza potrebbe essere dovuta all'esistenza, nella demenza precoce, di una tossina, prodotta magari dagli effetti somatici degli stessi complessi, che fissa e rende impossibile la loro integrazione. Quando Freud e Jung vennero a conoscenza delle loro rispettive ricerche e si conobbero personalmente, non poterono non ritenere di condividere un modo di pensare comune. Il lavoro che veniva svolto al Burghölzli confermava infatti, per Freud, da un punto di vista sperimentale, quanto stava autonomamente scoprendo nel lavoro con i pazienti e con il metodo della libera associazione. Per quanto riguarda Jung, le osservazioni e le esperienze di Freud confermavano l'importanza, nella vita psichica, dei contenuti inconsci.

Occorre dire che l'uso del termine «complesso» precedette in Freud la conoscenza di Jung. Lo aveva usato sia negli Abbozzi per la «Comunicazione preliminare» del 1892, in cui aveva parlato di distacco di alcuni complessi rappresentativi, sia negli Studi sull'isteria (1892-95). In questi anche Breuer aveva parlato di complessi di rappresentazione esclusi dai rapporti associativi, di complessi di rappresentazioni, di ricordi di fatti esterni o di sequenze ideative del soggetto in cui ogni singola rappresentazione poteva essere pensata coscientemente mentre era la loro specifica combinazione a essere bandita dalla coscienza. Secondo Breuer le rappresentazioni destate, ma non entrate nella coscienza, si spegnevano talora senza ulteriori conseguenze; talora invece si aggregavano, formando complessi, strati psichici sottratti alla coscienza e costituenti il subconscio.

Freud e Jung vissero un periodo di grande e feconda collaborazione pensando che le loro posizioni teoriche potessero coincidere. Dovettero ben presto ricredersi e, poco dopo la pubblicazione di La libido. Simboli e trasformazioni, i loro percorsi si separarono definitivamente. Per quanto riguarda i complessi, Freud si era molto avvicinato al modo di pensare di Jung, ma aveva poi compreso che le sue ricerche lo conducevano altrove. Nelle Cinque conferenze (Freud, 1909) era arrivato a scrivere che l'inconscio, specie per la rappresentazione di complessi sessuali, si serve di un simbolismo, in parte individualmente variabile e in parte tipicamente fisso, coincidente comunque con il simbolismo dei miti e delle favole. Mentre le riflessioni di Jung si svilupparono prevalentemente intorno al tipicamente fisso, Freud continuò ad esplorare le vicende delle pulsioni in relazione alle esigenze dalla convivenza sociale. L'inconscio di Freud era un inconscio prodotto dalla rimozione, i cui contenuti erano pensati come causalmente legati alla storia del singolo; l'inconscio di Jung era invece un inconscio fondamentalmente creativo e produttore, di per sé, di simboli e miti.

Nella Storia del movimento psicoanalitico (1914) Freud, a proposito di complesso e di dottrina dei complessi, formulò due diversi giudizi di valore. Il termine complesso, a suo avviso, aveva conquistato, nella psicoanalisi, un pieno diritto di cittadinanza; si trattava di un termine adeguato e spesso indispensabile per la descrizione riassuntiva di uno stato di fatto psicologico. Nessun altro, fra i nomi e le designazioni coniati per le esigenze della psicoanalisi, aveva del resto raggiunto una così grande popolarità, anche se questa era stata spesso ottenuta a detrimento di formulazioni concettuali più precise. Nel gergo degli psicoanalisti si parlava, ad esempio, di ritorno del complesso, invece che di ritorno del rimosso e si era presa l'abitudine di dire: ho un complesso contro di lui, mentre l'unica espressione corretta avrebbe dovuto riferirsi al termine di resistenza. La dottrina dei complessi non avrebbe dato origine, invece, a una teoria psicologica indipendente né avrebbe dimostrato di potersi iscrivere senza sforzo nel contesto della teoria psicoanalitica. Freud intendeva dire che la teoria psicologica dei complessi proposta da Jung non era una teoria psicoanalitica, e non faceva che ripetere teorizzazioni superate. Parlò anche, a questo proposito, di una mitologia complessuale: la dottrina dei complessi non poteva essere il centro della psicoanalisi. La storia della psicoanalisi dimostra che il termine complesso, nonostante la riserva nei confronti della dottrina dei complessi, è in effetti entrato nel linguaggio psicoanalitico. Nel linguaggio psicoanalitico sono pure entrati alcuni dei complessi che sono stati man mano descritti. Occorre dire che due di essi, il complesso di castrazione e il complesso edipico, possono essere considerati consustanziali alla teorizzazione generale di Freud; altri, più periferici, hanno avuto invece minore o più locale fortuna. Tra questi il complesso di inferiorità (che la scuola della psicologia individuale di A. Adler considera come il complesso fondamentale della vita psichica), il complesso d'Elettra (proposto da Jung come simmetrico al complesso di Edipo maschile e contestato da Freud, che considera invece il complesso edipico femminile asimmetrico rispetto a quello del maschio) e i complessi materno e paterno. Tra gli ancora meno fortunati, il complesso di Giona (secondo H. Dieckmann, 1991, il complesso fondamentale della fase preedipica), il complesso del capro espiatorio, il complesso di autorità, quello di Salomone, del messia, ecc.

Le concettualizzazioni relative al complesso hanno comunque avuto uno sviluppo molto diverso nelle teorizzazioni freudiane e junghiane. Nella psicoanalisi, il complesso di Edipo e il complesso di castrazione hanno continuato ad essere considerati come «i complessi» fondanti della vita psichica; essi designano infatti la struttura fondamentale delle relazioni interpersonali e il modo in cui la persona vi trova il suo posto e lo fa proprio (Laplanche e Pontalis, 1967). La centralità di questi due complessi è stata talora messa in discussione (in particolare in relazione alla loro ubiquità nelle varie culture) ma fino ad oggi non è mai stata superata. Per la vita psichica sarebbe infatti importante che un bambino si costituisse come un soggetto, e questa possibilità si verificherebbe qualora il bambino si situasse (e venisse situato) nei confronti dei propri genitori all'interno di una struttura triangolare. Il bambino sperimenta pulsioni, bisogni, emozioni, sentimenti e desideri molto intensi nei confronti dei propri genitori e, nel corso del suo sviluppo, deve imparare a soddisfare e a limitare questi vissuti. Deve accettare di essere figlio e di appartenere a un determinato sesso e deve inserirsi nella serie delle generazioni, sia, inizialmente, come piccolo tra grandi, sia, poi, come maschio o femmina. Il fantasma della castrazione risponderebbe ai quesiti relativi alla differenza sessuale, alla presenza o assenza del pene e sarebbe connesso con le funzioni normative del complesso di Edipo. Nel 1938, precorrendo il suo successivo sviluppo teorico verso i concetti di reale, simbolico e immaginario, J. Lacan sostenne che la riflessione psicoanalitica non permette di evidenziare tanto degli istinti quanto delle forme legate a fattori culturali, che possono appunto essere chiamate complessi; questi possono essere pensati, cioè, come strutture di comportamento e di rappresentazione trasmesse dalla società e dalla famiglia. I vari complessi (di svezzamento, di intrusione

e di Edipo) sarebbero così strettamente legati alla struttura familiare. Lacan operò un rovesciamento teorico: non si chiarirebbe tanto il complesso tramite l'istinto quanto l'istinto tramite il complesso. Va poi citata l'antedatazione del complesso di Edipo proposta da M. Klein, la quale ha sostenuto la presenza del complesso edipico in fasi molto precoci dello sviluppo psichico. Diversa da quella freudiana è stata pure la descrizione kleiniana dello sviluppo psichico in relazione al sesso di appartenenza (Klein, 1926).

Diverso, rispetto alle concezioni freudiane, è stato il destino del termine nella psicologia analitica. Occorre innanzitutto dire che, con il passare degli anni e con il progredire dell'esperienza, lo slittamento di significato esistente tra le due definizioni di complesso cui abbiamo prima accennato si è andato man mano rafforzando, e Jung giunse a pensare che i complessi rappresentassero gli elementi basali della vita psichica. Non avremmo soltanto dei complessi, poiché si potrebbe anche dire che i complessi hanno noi. L'ingenua premessa dell'unità della coscienza (identificata con la psiche) e della supremazia della volontà verrebbe pertanto posta seriamente in dubbio dall'esistenza dei complessi (Jung, 1934-1948). Elaborando le osservazioni relative al fatto che i complessi dei diversi pazienti erano molto simili gli uni agli altri, Jung giunse anche a ipotizzare l'esistenza di complessi collettivi inconsci. I complessi dell'inconscio personale si costituiscono durante la particolare storia di ogni individuo e riguardano contenuti che dominano spesso la vita psichica anche a insaputa dello stesso soggetto; i complessi collettivi inconsci nascono invece dall'inconscio collettivo e vengono vissuti in modo simile a quello in cui i primitivi vivono la presenza di spiriti estranei. L'attivazione di questi complessi collettivi avviene o quando esperienze esterne provocano emozioni così forti che la precedente visione della vita crolla, o quando i contenuti dell'inconscio collettivo possiedono essi stessi, autonomamente, un'energia particolarmente intensa. Occorre anche dire che que-sti complessi apparirebbero spesso in forma personificata, in veste di figure archetipiche (Jung, 1937).

Jung non mantenne sempre chiaramente la distinzione tra questi due tipi di complessi. Secondo Dieckmann, egli riteneva ad esempio che fosse l'involucro del complesso, con le sue peculiari associazioni e amplificazioni, ad appartenere all'inconscio personale e che il vero e proprio nucleo complessuale si trovasse invece nell'inconscio collettivo. Tra il nucleo collettivo dei complessi e la periferia costituita dall'inconscio personale potrebbe esistere così un continuo intreccio e un continuo reciproco influenzamento. Mentre nello sviluppo della psicoanalisi sono rimasti centrali i complessi strutturanti la vita psichica, nella psicologia analitica ciò che è rimasto centrale è stata la natura complessuale della vita psichica stessa. Nella psicoanalisi è la situazione in cui si viene a trovare il bambino (ivi compresa la presenza delle proprie pulsioni) a determinarne lo sviluppo e la crescita. Nella sua concezione più classica, l'inconscio è costituito infatti da contenuti psichici rimossi dalla coscienza. Nella psicologia analitica è invece l'inconscio a svilupparsi in coscienza: verso lo sviluppo della coscienza esiste cioè una spinta autonoma. I complessi sono le forme che i contenuti inconsci assumono. L'esistenza di un intreccio, evidenziato dalla psicologia analitica, tra sfera personale e collettiva è oggi particolarmente interessante per quanto riguarda le primissime esperienze neonatali di cui non può esistere memoria esplicita, e in cui si può ipotizzare che livello collettivo e personale costituiscano una sorta di unità.

Jung ha parlato dell'esistenza di una luminosità della coscienza a livello primitivo e animale. La luce della coscienza avrebbe cioè molti gradi di intensità. A livello primitivo e animale regnerebbe una semplice luminosità, quasi indistinguibile dalla chiarezza di frammenti dissociati dell'Io. A livello infantile la coscienza, non essendo ancora fondata su un complesso dell'Io consolidato, non sarebbe un'unità, ma divamperebbe ora qui ora là, destata da eventi, istinti e affetti. All'inizio avrebbe un carattere insulare. I complessi a tonalità affettiva costituirebbero così strutture cognitive secondarie dotate di coerenza interna e di relativa autonomia rispetto alla struttura cognitiva centrale costituita dal complesso dell'Io (De Gennaro, 1986). Il complesso dell'Io è il complesso più importante, più centrale, ma intorno ad esso esisterebbero «piccole luminosità». Come la psicoanalisi è fondata sulla centralità dell'Edipo, la psicologia analitica è invece fondata su una concezione policentrica. J. Hillman è giunto a parlare a questo proposito, per quanto riguarda la psicologia analitica, contrapposta alla psicoanalisi freudiana centrata prevalentemente sulla figura .del padre, di una psicologia «politeistica».

GIUSEPPE MAFFEI