Campo

Il concetto di «campo» compare in psicologia e in psicoanalisi come importazione del corrispondente concetto sviluppato nell'ambito della fisica, alla fine dell'800, per spiegare il fenomeno dell'interazione a distanza tra i corpi: ogni interazione (elettrica, magnetica, gravitazionale) è descrivibile come «campo», inteso non come regione dello spazio, bensì come insieme di valori che una determinata grandezza fisica può assumere in una determinata sezione dello spazio-tempo. In sintesi, il campo corrisponde a un sistema di trasformazioni, che si organizza secondo leggi proprie e indipendentemente dalla natura delle sorgenti che lo hanno generato. Sebbene non sia direttamente osservabile, la sua esistenza può essere dedotta dai suoi effetti sui corpi; perché un campo si costituisca, devono essere presenti almeno due corpi. Qualsiasi evento perturbatore relativo a un oggetto del campo influenza tutti gli altri oggetti presenti, ai quali si trasmette attraverso le modificazioni del campo e non direttamente. Il campo è un sistema postdittivo, in rapporto di complementarità rispetto agli oggetti e al sistema di riferimento adottato: spazio, tempo, sistema di osservazione e oggetti sono parte di un sistema solidale le cui proprietà non possono essere ricondotte a quelle dei suoi elementi. Per facilitare la comprensione di tale ordine di fenomeni, di veda l'esempio classico della limatura di ferro sparsa su un pezzo di carta posato su una calamita: la limatura si dispone secondo le cosiddette «linee di forza magnetiche». Immaginiamo che le linee di forza rimangano presenti anche in assenza di limatura di ferro: esse costituiscono quello che chiamiamo un «campo magnetico».

Nell'ambito delle discipline psicologiche, il concetto di campo ha mostrato una notevole utilità sia su un piano descrittivo, sia come strumento teorico capace di produrre significative evoluzioni del pensiero, fino a costituire, in certi casi, un modello generale. Non è possibile ricondurre a una visione unitaria i diversi apporti e i differenti significati stratificatisi nel corso degli anni, mentre sembra più utile individuare alcuni principali «nuclei di senso», evidenziando di volta in volta collegamenti e punti di contatto anche con ipotesi e autori che non hanno esplicitamente fatto ricorso a questa nozione.

Cronologicamente, il primo riferimento è legato alla psicologia della Gestalt e in particolare a K. Lewin, che utilizzò il concetto di «campo di forze» nello studio dei rapporti tra l'individuo e il suo ambiente. L'idea fondamentale è che i fenomeni del piccolo gruppo possano essere meglio descritti considerando le forze presenti nell'insieme, anziché basandosi sulle caratteristiche dei singoli componenti. Per Lewin il campo, inteso come nozione sociale e psicologica, funziona come un'area di appartenenza, cioè come una totalità dinamica di investimenti emotivi, ideologici, mentali, che sviluppa uhm forte coesione, un senso di appartenenza ci lesi manifesta mediante l'emergere di un sentimento di gruppo (un sentimento del «noi») e che risponde alla finalità di accrescere la sicurezza personale, sedimentando un senso di fedeltà verso il gruppo (Lewin, 1948). La visione di Lewin è etica e operativa: le forze del campo sono motivazioni e mete comuni, è implicito un livello di stabilità e assestamento, una sorta di identità di gruppo, con cui l'individuo fa corpo. Un aspetto particolarmente interessante è inoltre la definizione del «legame di interdipendenza», secondo cui gli elementi del campo non sono necessariamente simili tra loro, ma una volta che si è stabilito un legame di interdipendenza, questa può essere più forte del legame basato sulla somiglianza, e un cambiamento di stato in una parte degli elementi del campo influenza necessariamente lo stato di tutte le altre parti. C. Neri (1995) utilizza la nozione di interdipendenza di Lewin, in combinazione con quella di sincronicità di C. G. Jung, per caratterizzare i fenomeni relativi al campo. In questo modo ne sottolinea la differenza rispetto all'insieme di processi e movimenti connessi alla creazione di uno spazio comune del gruppo, che sono prevalentemente centrati sulla definizione dei confini e sull'appartenenza. Secondo Jung, la dimensione di sincronicità permette di vedere la coincidenza degli eventi in spazio e tempo come significativa di qualcosa di più di un mero caso, cioè di una peculiare interdipendenza di eventi oggettivi tra di loro, come pure tra essi e le condizioni soggettive (psichiche) dell'osservatore. Il punto di vista sincronico si contrappone alla causalità, perché non tiene conto della sequenza e dei nessi storici tra gli elementi, ma corrisponde piuttosto alla domanda: come accade che A, B, C, D, ecc. compaiono tutti nello stesso momento e nel medesimo posto? Le idee, gli affetti e le azioni che si presentano in una seduta di gruppo possono essere considerati espressione di un significato complessivo, che diventa accessibile se si rinuncia a una modalità di pensiero che separa e classifica. L'assunzione di un vertice sincronico nel gruppo comporta, inoltre, una forte compressione della prospettiva temporale, condensando il tempo nel «qui e ora». Neri ha chiamato «cercare la disposizione a stella» questa modalità di pensiero, che permette all'analista di percepire e rendere significativo un materiale disomogeneo e poco organizzato, individuando la presenza di un «nucleo centrale» o «fuoco», con il quale tutti gli elementi sono in relazione. Possiamo ricondurre a questa prospettiva i primi studi sui gruppi di W. Bion, anche in assenza di un esplicito riferimento a Lewin e alla nozione di campo. Gli articoli raccolti nel volume Esperienze nei gruppi (1961) erano stati originariamente pubblicati sulla rivista «Human Relations», che negli anni immediatamente precedenti aveva ospitato alcuni studi di Lewin sulla psicologia sociale. Le ipotesi su assunti di base, mentalità di gruppo, gruppo di lavoro corrispondono a una visione del piccolo gruppo come un insieme di forze, affetti, rappresentazioni e comportamenti collettivi. Le produzioni individuali, infatti, così come i vissuti emotivi e corporei attivati nel gruppo, prendono distanza dalla fonte individuale che li ha originati e confluiscono in una sorta di agglomerato, in uno scenario comune più o meno distinguibile, ma sempre dotato di un certo grado di autonomia rispetto ai singoli. Per un altro verso, lo stesso Bion contribuisce alla definizione di una particolare accezione del concetto di campo come sistema complesso di fantasie, emozioni e idee collegate tra loro: il campo come stato mentale. Nei Seminari clinici (1987), Bion descrive come alcuni pazienti classificati come borderline possano rilevare variazioni impercettibili dell'attenzione dell'analista, da cui dipendono per mantenere una certa coerenza di sé. Il campo-stato mentale funziona come un medium, eventualmente neutro da un punto di vista affettivo, che fornisce una sorta di sostegno di base; corrisponde, ad esempio, all'esperienza piuttosto comune di parlare in pubblico e sentirsi facilitato dall'attenzione di chi ascolta. In altri casi il campo-stato mentale può assumere una coloritura emotiva forte o fortissima (un «campo di odio») e può mantenersi al di là di limitazioni spaziali o temporali: esso può propagarsi attraverso spazi diversi (ad esempio negli accampamenti di due eserciti nemici) o manifestarsi in momenti distanti nel tempo da quello in cui si è originato il campo, attirando e coinvolgendo persone in passioni travolgenti.

F. Corrao (1986) adotta il paradigma di campo - così come descritto dalla fisica contemporanea - come modello teorico per l'esperienza analitica in senso trasformazionale. Il campo è una funzione il cui valore dipende dalla sua posizione nello spaziotempo, può essere descritto in base alle sue trasformazioni cinetiche (e non cinematiche), non appare confinato da alcun piano di osservazione fattuale di tipo percettivo, bensì si riferisce a movimenti fenomenologici eventuali, casualmente invisibili e tuttavia deducibili e simbolizzabili. Intendendo il modello di campo come una «funzione» del lavoro psicoanalitico, Corrao ricolloca l'esperienza clinica all'interno del panorama epistemologico contemporaneo: l'analisi, come campo di esperienza specifico, è un sistema deputato alla trasformazione delle esperienze sensoriali ed emotive in pensieri e significati. La conseguenza di questa prospettiva è l'abbandono del punto di vista dinamico in favore di un punto di vista cinetico. Il paradigma di campo non comporta tanto i concetti di forza e di potenza, quanto quello di «energie» concepite non in termini di forze vettorializzabili, ma di impulsi che implicano il concetto di propagazione, di espansione; tecnicamente, ciò implica l'abolizione di una distinzione stabile soggetto/oggetto, e una teoria della cura centrata sulle trasformazioni ed evoluzioni del campo psicoanalitico (comprendente l'analista, il paziente e le teorie), piuttosto che sugli individui e sui contenuti. M. e W. Baranger, all'inizio degli anni '60, proposero un ampliamento radicale dell'ottica relazionale della psicoanalisi kleiniana applicando la nozione di campo dinamico, mutuata dalla psicologia della Gestalt e dalla psicologia dell'uomo «in situazione» di M. Merleau-Ponty. Essi sostengono che le caratteristiche strutturali della situazione analitica rendono necessaria una descrizione con l'aiuto del concetto di campo. La situazione analitica ha la sua propria struttura spaziale e temporale, è orientata secondo linee di forza e dinamiche determinate, possiede proprie leggi di sviluppo, obiettivi generali e obiettivi momentanei (Baranger e Baranger, 1961-62). Partendo dalla considerazione che paziente e analista partecipa no allo stesso processo dinamico, i Baranger arrivano a distinguere le personalità impegnate nel rapporto dal campo che essi stessi producono e in cui sono immersi: il campo non è la somma delle situazioni interne dei membri della coppia, né è riconducibile all'uno o all'altro, ma si configura come un elemento, terzo con qualità e dinamiche indipendenti. Esso si articola in tre livelli di strutturazione sovrapposti: il primo livello corrisponde agli aspetti formali e al contratto di base (setting), il secondo agli aspetti dinamici del contenuto manifesto e dell'interazione verbale, il terzo all'aspetto funzionale di integrazione e insight rispetto alla fantasia inconscia bipersonale. Quest'ultima rappresenta l'aspetto più originale della proposta dei Baranger e coniuga i concetti kleiniani con quello di campo: essa è infatti costituita dall'incrocio delle identificazioni proiettive dei due membri della coppia analitica. La fantasia inconscia bipersonale è l'oggetto specifico dell'analisi, il cui scopo diventa, in questo senso, quello di mobilizzare il campo e permettere il riattivarsi dei processi proiettivi e introiettivi, la cui paralisi ha determinato la condizione di sofferenza. La nozione di campo bipersonale può essere utilmente estesa dalla psicoanalisi duale a quella di gruppo (campo multipersonale).

Un ulteriore visione del campo è quella di un pool transpersonale di idee, sentimenti ed emozioni presenti in un gruppo. Gli individui contribuiscono depositandovi emozioni, sensazioni e perfino parti scisse di sé, fino a comporre un amalgama di elementi disparati che non corrisponde più né ai singoli partecipanti né alla loro relazione, ma che condiziona entrambi. A. Correale (1991) ne sottolinea l'aspetto di fluidità e continua evoluzione, che può essere esperito sia come qualcosa di distinto e separato da sé, sia come una sorta di estensione del Sé; egli distingue, inoltre, tra un campo «attuale», cioè gli elementi depositati che sono presenti e attivi in un dato momento, e un campo «storico», che corrisponde al lento deposito di relazioni affettive, di vicende ideative, rappresentative, emozionali che costituisce una memoria del gruppo, in larga inconsapevole, in parte propulsiva, in parte inibitrice e bloccante. Un importante riferimento teorico per questo filone è rappresentato dagli studi di J. Bleger (1966) sul setting come deposito degli aspetti psicotici della personalità: le dimensioni stabili del rapporto analitico (setting-istituzione) fungono da contenitore per gli aspetti not-changing della personalità, mantenendoli in una condizione silente fino a quando una variazione anche minima non determini la rottura di tale setting. Segnaliamo infine le notevoli implicazioni del modello di campo come deposito transpersonale nell'ambito della psicoanalisi delle istituzioni. Un interessante elemento di confronto può essere individuato in alcuni aspetti della teorizzazione di J. Lacan, tanto per le affinità quanto per le divergenze di prospettiva. Ricordiamo in particolare l'affermazione che «l'inconscio è strutturato come un linguaggio» e, più precisamente, è quella parte del discorso concreto in quanto transindividuale, che difetta alla disposizione del soggetto per ristabilire la continuità del suo discorso cosciente. Il pensiero emerge all'interno di un insieme di segni linguistici preesistenti, che - proprio per il loro carattere arbitrario e convenzionale - rappresentano un fenomeno essenzialmente sociale. Il soggetto, proprio in quanto determinato dall'inconscio inteso come linguaggio, è attraversato da un piano transindividuale irriducibile all'Io. Per un altro verso, proprio nella priorità assegnata da Lacan agli aspetti linguistici e nella delimitazione della psicoanalisi come teoria dell'esperienza di parola, si misura la distanza rispetto al modello di campo.

S. Mitchell (1988), che adotta radicalmente una visione della vita mentale basata sulle relazioni piuttosto che sulle pulsioni, propone che l'unità di studio non possa essere I 'individuo, inteso come entità separata i cui desideri si scontrano con una realtà esterna, ma necessariamente un campo interaziona-le all'interno del quale l'individuo nasce e lotta per stabilire contatti ed esprimersi. L'indagine analitica comporta la partecipazione e l'osservazione di questo campo di relazioni e delle sue rappresentazioni interne. Th. Ogden (1997) sviluppa invece una concezione del processo analitico come gioco dialettico di stati di rêverie dell'analista e dell'analizzato, che implica la parziale consegna della propria individualità separata a un terzo soggetto, che non è né l'analista né il paziente, bensì una soggettività generata inconsciamente dalla coppia analitica. Questa costruzione, denominata «terzo analitico intersoggettivo», è creata dallo scambio inconscio, ma allo stesso tempo crea il paziente e l'analista in quanto tali, nel senso che non esistono un analista, un analizzando e un processo analitico al di fuori di esso. Il «terzo» è in tensione dialettica con le soggettività individuali dei partecipanti e corrisponde a un'esperienza in continua evoluzione, che può essere diversa per ciascuno dei membri della coppia e riflettere in questo l'asimmetria della relazione analitica. Il campo è quindi un elemento terzo tra i membri di un gruppo o di una coppia analitica in cui idee, emozioni e sensazioni possono essere depositate, condivise, eventualmente lasciate «riposare» fino a che non sia possibile elaborarle.

Sul piano tecnico, la prospettiva di campo si traduce essenzialmente in un'attenzione centrata sulle evoluzioni di stati mentali, emotivi e affettivi durante la seduta; questa attenzione è considerata importante in se stessa e preliminare rispetto a qualsiasi intervento. Permette cioè di entrare in contatto con aree del Sé e del rapporto analitico molto intense, ma non ancora disponibili per il pensiero e l'elaborazione, con esperienze difficili da cogliere e confinate nel dominio del preverbale. Il compito dell'analista si ridefinisce come una capacità di percepire i segnali delle imprevedibili trasformazioni del campo e guadagnarle alla rappresentabilità grazie a quello che Bion chiamava «linguaggio dell'effettività», con una scelta di apertura alla continua formazione di nuovi sensi e nuovi transiti. In questo senso il «narrativo» assume la consistenza di strumento di esplorazione e il campo può essere visto anche come l'incrocio dei racconti possibili.

Si inseriscono in questa corrente di pensiero, che ha avuto un'evoluzione originale in una parte recente della psicoanalisi italiana, i lavori di E. Gaburri, che considera il modello di campo come un'evoluzione del pensiero psicoanalitico sostanzialmente analoga alla contemporanea «crisi della scienza», quasi un riflesso in ambito psicanalitico di un pensiero scientifico che non è più solo orientato a distinguere, e generalizzare, ma piuttosto a descrivere i fenomeni nella loro contestuale complessità, legata al loro mutare (Gaburri, 1997), e che considera le teorie come descrizioni provvisorie e comunque vincolate alle strutture percettive e cognitive di chi osserva. La nozione di campo costituisce uno strumento teorico adeguato nello studio di fenomeni complessi, che permette un salto qualitativo da un punto di vista epistemologico ed etico, perché supera tanto la rigidità di modelli centrati sulla semplice connessione causa/effetto, quanto il moralismo di modelli basati sul senso di colpa e la dicotomia buono/cattivo. L'impatto della dimensione di campo sul piano della conoscenza rappresenta un tema privilegiato per questo autore, che di tale concetto ha approfondito le connessioni con quello bioniano di «non cosa», inteso come l'ombra inconoscibile che si accompagna all'esperienza conoscitiva della realtà (Gaburri, 1998) e che si traduce, nella mente psicotica o nella parte psicotica della mente, in un assunto di non esistenza. Più specificamente, Gaburri indica come nei gruppi e nelle istituzioni sia proprio una particolare configurazione del campo, che promuove la tolleranza per i limiti della conoscenza e consente alle «ombre dell'essere» di sostare mantenendo la loro oscurità, a rendere possibili pensieri inediti e nuove ricerche di senso, contrastando la tendenza degli assunti di base a consolidare l'aggregazione producendo conoscenze consolidate e criteri di prevedibilità. Analogamente, nell'analisi duale, la concezione dell'incontro come «campo di pensieri senza pensatore» (Bion, 1985) comporta la disponibilità dell'analista a entrare in contatto con aspetti non ancora pensabili, che non possono essere contenuti in un testo interpretativo e che riguardano il registro figurativo della relazione, le personificazioni, le embricazioni dell'identità di ciascun partner con emozioni che scaturiscono dall'incontro stesso. Tollerare la qualità preindividuale degli elementi del campo, che non possono essere attribuiti inequivocabilmente a uno dei membri della coppia, e sono comunque legati ad appartenenze non consapevoli, apre alla trasformazione anche i livelli primitivi e primari dell'esperienza.

Un ulteriore apporto è il modello «narratologico-trasformativo di campo» di A. Ferro (2002), che individua lo scopo della psicoanalisi nel far sviluppare nel paziente le «potenzialità» della mente iscritte come preconcezioni della specie, ma che necessitano dell'adeguata «realizzazione» attraverso l'incontro con la mente dell'altro. L'incontro non avviene solo attraverso un testo verbale: la psicoanalisi può essere il metodo che consente di sciogliere le emozioni in narrazioni e di creare narrazioni che diano corpo e visibilità alle emozioni. Non è dunque importante il singolo racconto, ma cogliere le emozioni che sono a monte del racconto, che è un derivato narrativo delle emozioni stesse. In questo senso l'analista assume un'importanza centrale proprio per tutte le operazioni «non interpretative» che compie: l'interpretazione è solo l'ultimo atto di una serie di processi trasformativi e di ricerca del senso. Il campo si modifica non solo attraverso comunicazioni esplicite, ma anche e soprattutto attraverso i cambiamenti della qualità profonda dell'ascolto e della disponibilità ricettiva dell'analista. In sintesi ne deriva un sovvertimento della tecnica classica: la ricettività dell'analista, le trasformazioni che opera, la tolleranza per il dubbio, diventano la chiave terapeutica assieme alla capacità di modulazione interpretativa. Ferro paragona quest'ultimo aspetto a una sorta di «respiro» del campo, che l'analista ha il compito di regolare passando da momenti di espansione (insaturazione-inspirazione) a momenti in cui il campo collassa (saturazione-espirazione) in un'interpretazione, eventualmente anche univoca e puntuale.

A partire dall'esperienza clinica di gruppo, il modello di campo può essere collegato a quello bioniano dell'evoluzione in «O» introducendo la funzione di mimesi. La nozione di mimesi corrisponde alla definizione di W. Benjamin di un rapporto tra immagine e oggetto rappresentato che non si riduce alla semplice imitazione, ma comporta un processo che rende emozionalmente e quasi sensorialmente presente nella situazione ciò di cui si attua la rappresentazione. Con tale termine non ci si riferisce quindi a un fenomeno di riproduzione, ma alla produzione originale di un'immagine capace di dare forma (e senso) a una realtà, che può essere un oggetto fisico, un'emozione o una «verità psichica». Il gruppo, nella sua attività di pensiero e di parola, opera un rapporto di mimesi con il non detto, con il non espresso, con una costellazione in via di formazione e definizione; la mimesi permette di entrare in contatto con la costellazione emotivo-fantasmatica presente nel campo: nel piccolo gruppo non si parla soltanto del mare, ma anche ci si immerge nel mare. Questa «immersione» è necessaria perché il lavoro psicoanalitico superi il piano meramente conoscitivo del «sapere riguardo a se stessi» (trasformazioni in K secondo Bion), producendo davvero cambiamento e crescita della mente e del mondo interno (evoluzione in «O»).

Ciò significa che per l'analista non è sufficiente cogliere l'atmosfera e il tema della seduta (cioè il nucleo di fantasie più vicino al preconscio, che può essere chiarito ed elaborato in un processo conoscitivo), ma è necessario «intuire» anche un nucleo a un secondo livello, che funziona come un «fuoco» o un «propulsore» e che è composto da fantasie molto potenti, ma ancora prive di forma. Questo nucleo non definito non è direttamente accessibile, tuttavia può evolvere. La funzione dell'analista, in questo caso, non coincide con la funzione interpretativa, ma comporta la capacità di mettersi all'unisono con «O», cioè con una realtà ancora ignota. In questo modo l'analista facilita i membri del gruppo nel porsi a loro volta all'unisono con il nucleo in evoluzione. La partecipazione dei membri del gruppo all'evoluzione in «O», e all'emergere di queste fantasie (in un'area che potrà in seguito essere affrontata in modo conoscitivo), ha un valore terapeutico almeno pari a quello della comprensione promossa attraverso l'interpretazione.

CLAUDIO NERI e LAURA SELVAGGI