Bruner, Jerome Seymour

L'apporto che J. S. Bruner (1915) ha fornito alla comprensione della mente umana si innesta nel processo storico che ha percorso il cognitivismo, portando questo orientamento teorico dall'iniziale focalizzazione su strutture di conoscenza e processi di pensiero interni al soggetto, concepito in maniera individualistica, al riconoscimento del ruolo rivestito dall'interazione sociale e dalla partecipazione alla cultura nello sviluppo della psiche.

Nato a New York, Bruner prese contatto con le scienze del comportamento verso la metà degli anni '30 alla Duke University, dove era vivo il dibattito accesosi tra la concezione associazionista stretta e coloro che tendevano a interpretare l'apprendimento non attraverso meccanismi di prove ed errori, ma in termini di ipotesi autogenerate dal soggetto. Era verso questa seconda interpretazione che Bruner propendeva. L'idea che lo sosteneva nella ricerca era che il comportamento degli animali fosse determinato non dai rinforzi e dalle punizioni, ma dagli «atteggiamenti» nei confronti degli stimoli. Già in quel primo apprendistato sperimentale Bruner aveva imboccato la strada della «teoria dell'ipotesi percettiva». L'idea base di Bruner era che il mondo appare diverso a seconda di come lo si pensa. È tuttavia solamente negli anni '40, a Harvard, che Bruner si avvia allo studio della percezione. In quel periodo, E. Boring e S. Stevens difendevano le ragioni della psicofisica «classica». Entro tale paradigma, gli errori nella stima delle caratteristiche degli stimoli costituivano un elemento di disturbo, non essendone state proposte convincenti spiegazioni. Su tali errori si appuntò l'interesse di Bruner che, insieme a L. Postman e E. McGinnies, giunse a dar vita a un movimento che assunse il nome di New Look. Bruner metteva in discussione l'accento sulle proprietà strutturali degli stimoli e sottolineava la rilevanza degli aspetti funzionali e dei processi. In sostanza il New Look era teso a mostrare che la struttura del dato percettivo era formata dall'interno del soggetto anziché dall'esterno; noi non siamo mai indifferenti agli stimoli, ma siamo più sintonizzati su una gamma di essi rispetto alle altre. In un secondo momento traiamo informazioni dal mondo esterno, informazioni che possono uniformarsi o non uniformarsi alle nostre ipotesi prepercettive. Nel primo caso, l'ipotesi viene confermata e noi percepiamo; nel secondo l'ipotesi deve essere corretta e ciò ritarda la percezione. Oltre alla portata teorica di queste ricerche va ricordata l'innovazione metodologica. I soggetti degli esperimenti bruneriani non erano ricercatori addestrati, ma ragazzi di vari quartieri e sobborghi di Boston, e ciò che veniva loro presentato non erano asettici stimoli elementari, ma oggetti quotidiani dotati di significato. Fu così che si rilevò, per esempio, che, mentre la lunghezza del diametro di semplici cerchi tendeva ad essere valutata correttamente, la valutazione del diametro di monete in corso era soggetta a distorsioni sistematiche: quanto maggiore era il valore della moneta, tanto maggiore era l'errore di sovrastima delle sue dimensioni che veniva compiuto, e ragazzi di status socioeconomico basso sopravvalutavano la grandezza delle monete più di quelli di status alto. Adottando un approccio di questo genere, Bruner si segnalò per alcune serie di esperimenti in cui mostrò che la soglia di riconoscimento di parole presentate tachistoscopicamente assumeva andamenti particolari se il significato di tali parole era di natura conflittuale. Più precisamente, in occasione della presentazione di tali stimoli linguistici, i soggetti mettevano in atto una di due modalità di risposta: o quella «vigilante», consistente in un rapido riconoscimento, o quella «difensiva», consistente in un riconoscimento ritardato in cui, nel corso dei tentativi di risposta, il soggetto era indotto a trasformare gli stimoli in non-parole. Ciò condusse a proporre l'idea di «difesa percettiva». Bruner e Postman interpretarono questo tipo di difesa in termini di interessi e di valori. Questa scelta esplicativa permise di rilevare che la soglia di riconoscimento si abbassava per le parole associate a valori ai quali l'individuo era interessato. In questo caso si parlò di «ipotesi prericognitive»: nella mente del soggetto qualche significato si faceva largo, nel compito di riconoscimento, prima che il soggetto riuscisse a «vedere» lo stimolo. Su queste basi Bruner elaborò la concezione secondo la quale la percezione nasce dall'incontro tra le nostre aspettative e i nostri valori e il mondo esterno. Passato dal campo della percezione a quello del pensiero, Bruner nel 1952 potè dare avvio al Cognition Project, nel cui ambito l'indagine si orientò sul tema della categorizzazione. Il primo tipo di contributo che Bruner diede allo studio dei processi di ragionamento fu di tipo metodologico. Innanzitutto i soggetti venivano informati circa gli scopi del compito che si sarebbero accinti a eseguire ed esplicitamente invitati a mettere in atto dei ragionamenti. In secondo luogo, l'attenzione fu rivolta non alle risposte finali fornite dai soggetti, ma alle sequenze di passaggi da essi compiuti. In terzo luogo, erano tenuti in debito conto i commenti spontanei e le introspezioni compiuti dai soggetti. Il risultato principale delle ricerche (Bruner, 1956) risiede nel riconoscimento del fatto che i soggetti non svolgono la propria attività intellettiva associando meccanicamente stimoli e risposte, bensì inferendo regole o principi dalle informazioni loro presentate. Bruner mise in luce l'esistenza di specifiche strategie che i soggetti impiegavano per risolvere i problemi loro sottoposti. In questo modo forni una base sperimentale all'idea che noi codifichiamo la realtà imponendole una grammatica e che è questo ciò che ci permette di andare al di là dell'informazione data. Un significato di più vasta portata dell'opera fu quello di riportare nella psicologia uno strumentario concettuale di tipo mentalista. Proseguendo su questa linea Bruner e G. Miller diedero vita al Center for Cognitive Studies. Nel 1956 Bruner si recò la prima volta a Ginevra; da allora tra Harvard e la città elvetica si stabili un incessante scambio scientifico che portò dieci anni più tardi al volume Studi sullo sviluppo cognitivo (Bruner, 1966). Dedicata a J. Piaget, l'opera illustra la teoria delle tre forme di rappresentazione: esecutiva, iconica e simbolica. La modalità conoscitiva di tipo esecutivo permette al bambino di padroneggiare la realtà grazie a strutture strumentali centrate sull'azione, come potrebbero essere gli schemi mezzo/fine. La rappresentazione iconica offre invece l'opportunità di ritrarre le situazioni attraverso immagini mentali. Infine, nella modalità simbolica il pensiero opera attraverso segni convenzionali, come per esempio le parole. Bruner trovò però adeguatamente riconosciuto il ruolo del contesto ambientale e sociale nello sviluppo dell'intelligenza nell'opera di L. Vygotskij. Ciò che rimproverava a Piaget è lo scarso peso assegnato alla cultura e alle trasformazioni tecnologiche nel modulare lo sviluppo della mente. Inoltre, la distinzione fra i tre stadi postulati da Bruner è meno rigida di quanto compiuto dal maestro ginevrino: se è vero che in ogni fascia di età vi è una modalità di funzionamento cognitivo dominante, Bruner pensa che anche in momenti successivi dello sviluppo possano ripresentarsi caratterizzazioni cognitive proprie degli stadi precedenti, qualora il tipo di compito o di esigenze che il soggetto ha di fronte rendano in quel caso più idonee strategie di pensiero meno evolute. Questa attenzione per gli influssi culturali indusse Bruner a promuovere ricerche comparative in cui classiche prove piagetiane erano proposte a bambini del Senegal o a eschimesi dell'Alaska. L'avventura di Bruner nel mondo della psicologia infantile proseguì con una ricerca-intervento nell'ambito dei blocchi di apprendimento e, soprattutto, con indagini sui primi mesi di vita del bambino. Fu in questo campo che potè mettere in luce la presenza di strategie già nelle prime settimane di vita. Il comportamento del neonato appariva fortemente specializzato e intenzionale: anche nel bambino molto piccolo si poteva quindi parlare di un attivo generatore di ipotesi. Da tutto ciò nasceva un'immagine di bambino più competente, attivo e organizzato di quella sino ad allora elaborata dalla psicologia (Bruner, 1968). Negli ultimi tempi le posizioni di Bruner sullo sviluppo mentale del bambino si sono ampiamente avvicinate alle tesi della scuola storico-culturale sovietica, avendo egli riconosciuto gli aspetti importanti che caratterizzano questa prospettiva teorica, come ad esempio: l'intreccio di biologico e culturale, l'importanza del contesto ambientale, il ruolo strutturante del linguaggio, dei sistemi simbolici e degli strumenti, la zona di sviluppo prossimale, la funzione «tutoriale» dell'adulto e dell'insegnante.

L’insistenza sulla concezione dell'uomo generatore di ipotesi doveva inevitabilmente condurre Bruner a confrontarsi con la teoria di N. Chomsky. Inizialmente accolto con entusiasmo, l'approccio sintattico si rivelerà ben presto insufficiente. Il linguaggio deve infatti essere sostenuto da una conoscenza del mondo e da un desiderio di comunicare, l’essenziale era quindi per Bruner prendere in considerazione le intenzioni sottese all'atto comunicativo e gli aspetti pragmatici del linguaggio. Poiché a Harvard, ove Bruner rimase fino al 1972, gli studi linguistici erano ancora centrati sull'asse sintassi-semantica, Bruner decise di trasferirsi a Oxford, dove J. Austin aveva inaugurato un filone di ricerca nella direzione da lui auspicata e dove rimase fino agli ultimi anni '70, per poi ritornare a New York. Durante il periodo oxoniense iniziarono gli studi sull'interazione madre/bambino (Bruner, 1983). La prospettiva è quella di un'interpretazione del linguaggio come strumento che il bambino usa per partecipare a un mondo culturale complesso. Il concetto di format è stato proposto da Bruner per indicare l'insieme delle procedure comunicative che consentono al bambino e ai suoi partner di stabilire scambi finalizzati e intenzionali, da attivarsi in un preciso contesto interattivo. E in tale contesto che, nella prospettiva aperta da Bruner, si sviluppa l'apprendimento, da intendersi non tanto come trasmissione (da parte dell'adulto) e acquisizione (da parte del bambino) di competenze, ma come costruzione congiunta di conoscenza e progressiva condivisione del mondo fisico e sociale. Lo studio delle prime forme di comunicazione infantile ha così portato Bruner a delineare un nuovo aspetto della «precocità» del bambino, considerato un individuo socialmente competente, da subito impegnato ad attivare e mantenere relazioni e coinvolto in un gioco di negoziazioni con il proprio ambiente familiare. Questa competenza infantile risulta determinante, in quanto Bruner sottolinea il fondamentale ruolo di organizzazione cognitiva esercitato dall'interazione sociale, la quale consentirebbe al soggetto di segmentare, categorizzare e ordinare un flusso di esperienze altrimenti privo di significato. L'interesse per il linguaggio e il suo sviluppo si ricollega a temi cui Bruner ha da sempre prestato attenzione: la metafora, il simbolo, il mito, il romanzo. In questo ambito, il concetto portante è quello di frame, inteso come struttura narrativa che ordina, dà significato e permette la memorizzazione dell'esperienza. Il frame permette inoltre all'individuo di inserire la propria personale esperienza in un contesto culturale che ne garantisce la condivisione sociale. I frames aiutano il bambino innanzitutto a elaborare in modo significativo e comunicabile il suo rapporto con la realtà e ad assimilare un insieme organico di convenzioni per mezzo delle quali può costruire la rappresentazione di se stesso e del proprio mondo. Anche l'adulto fa uso di frames allorché cerca di dare un senso alla propria storia personale e, a partire da questo senso, tenta di interpretare ciò che lo circonda e di regolare, di conseguenza, il proprio comportamento. A questo riguardo più recentemente Bruner ha messo a fuoco la narratività del pensiero (Bruner, 1986). L'idea centrale risiede nella possibilità di organizzare, interpretare e utilizzare la propria esperienza della realtà entro schemi che configurino tale esperienza come una successione di eventi, ordinata nel tempo e orientata verso uno scopo. In una narrazione vi sono elementi universali, in quanto ricorrono in tempi e culture diversi. Una storia impone, inoltre, una serie di vincoli sia a chi la produce sia a colui che la recepisce. Una narrazione, tuttavia, è sempre un testo «indeterminato», poiché lascia aperta una pluralità di interpretazioni. Infatti, in genere una narrazione, anziché fornire un significato, guida alla ricerca di significati all'interno di una gamma di significati possibili. Pur all'interno di una cornice comune di presupposti e di «leggi» narrative, al soggetto è sempre lasciata la libertà di adottare una particolare prospettiva ermeneutica e di filtrare i dati testuali attraverso la personale sensibilità, cultura, ecc. Le narrazioni non assolvono soprattutto lo scopo di informarci su com'è la realtà, ma di farci immaginare come essa potrebbe essere, suggerendoci prospettive adottando le quali potremmo rendere comprensibile il mondo che ci circonda e le condotte delle persone, sempre contraddistinte da un'intrinseca ambiguità.

A quest'ultimo riguardo Bruner è giunto, negli ultimi tempi, a parlare di un Io o Sé «transazionale» (Bruner, 1990). Dna transazione è un complesso di rapporti che costituisce le premesse affinché si giunga a condividere assunti o credenze circa la natura di qualcosa. Nel nostro caso, si tratta di giungere a condividere un'immagine di se stessi, e questo risultato sarebbe acquisito attraverso il rapporto, soprattutto linguistico, con i nostri simili e con l'utilizzo dei modelli culturali disponibili nel nostro ambiente. Il Sé sarebbe quindi una sorta di costruzione sociale cui l'individuo perviene interagendo con altri attori che si muovono all'interno del medesimo clima storico-culturale, e che pertanto ne condividono assunti, valori, interpretazioni e forme espressive. Anziché pensare all'individuo come contraddistinto da una sua «essenza» unica e irripetibile, la proposta è quella di immaginare, in relazione a una singola persona, una serie di Sé possibili, i quali trovano realizzazione in contesti e tempi diversi. Si potrebbe così parlare di un «Sé distribuito », le cui componenti sono prodotte delle varie situazioni in cui l'individuo si viene a trovare. Aiutare a comprendere la realtà è uno dei compiti della scuola. Alle tematiche dell'istruzione Bruner ha dedicato attenzione a più riprese. Negli anni '60, collaborando a una nuova impostazione del sistema educativo statunitense e alla riforma dei programmi scolastici, era stato tra i propugnatori dell'apprendimento attraverso la scoperta. Anche in tempi recenti Bruner ha proposto che la conoscenza sia più utile all'individuo se questi la acquisisce attraverso personali esplorazioni e sforzi euristici. Scopo dell'istruzione, infatti, non è per lui quello di sviluppare nei discenti delle performance, ma piuttosto quello di dare la possibilità di collocare un fatto o un concetto entro una più generale struttura di conoscenza. L'istruzione, in altre parole, dovrebbe essere finalizzata all'approfondimento piuttosto che all'estensione delle nozioni possedute. Per Bruner (1996) l'educazione dovrebbe soprattutto essere un forum in cui si costruisce cultura e si impara a costruirla. Nei luoghi e nelle iniziative in cui ci si propone di preparare le nuove generazioni occorrerebbe impegnare i discenti nella negoziazione e ricostruzione di significati e rendere loro chiaro che dietro alla realtà e alle discipline che la studiano c'è sempre un punto di vista, una presa di posizione teorica ispirata da una precisa cultura. Bruner non tende più a pensare allo studente come a una mente isolata, ma come a un individuo inserito in un ambiente culturale e in un gruppo sociale. L'intelligenza, infatti, non è qualcosa che sta nelle teste dei singoli individui, ma risulta distribuita nel contesto (nei libri che uno può consultare, nelle persone cui si può chiedere aiuto, negli strumenti che possono essere impiegati per migliorare la nostra comprensione, ecc.), in una sorta di microcultura di tipo pratico. La scuola, inoltre, deve stimolare la riflessione sul pensiero; il bambino deve essere aiutato a costruirsi una teoria della mente; lo studente deve imparare le modalità con le quali si può usare la mente per imparare a costruire cultura. Ciò può essere favorito attraverso l'esternaliz-zazione dei processi mentali che hanno condotto a certi prodotti. E anche importante tenere presenti le convinzioni che studenti e insegnanti sviluppano circa il senso dell'imparare, ossia la «pedagogia popolare» degli attori del processo scolastico. A questo riguardo Bruner identifica quattro modelli ingenui delle finalità dell'istruzione e del modo con cui questa si sviluppa: l'imitazione (imparare come fare le cose, cioè assimilare competenze procedurali), l'esposizione didattica (acquisire conoscenze dichiarative), lo scambio intersoggettivo (imparare a pensare grazie alla riflessione metacognitiva e lo scambio comunicativo), l'accesso alla conoscenza oggettiva (raggiungere concetti generali).

La produzione scientifica di Bruner nell'ambito dello studio della psiche ha toccato i temi della percezione, del ragionamento, dello sviluppo cognitivo, del linguaggio, dell'arte e dell'apprendimento. In questi settori egli ha fornito contributi non soltanto elaborando copiose e acute riflessioni e ricerche, ma anche aprendo nuove prospettive da cui si sono originati importanti filoni di indagine. Dal punto di vista teorico, possiamo dire che Bruner parte dal cognitivismo e approda alla psicologia culturale, producendo in entrambi i quadri teorici rilevanti contributi che ne fanno, rispettivamente, un cognitivista e uno psicologo culturale sui generis. Bruner è stato un cognitivista particolare, in quanto non ha mai condiviso la metafora dell'uomo elaboratore di informazioni, e ha sempre diffidato della proliferazione e dell'artificiosità di certe concettualizzazioni cognitiviste, lamentando l'eccessiva preoccupazione metodologica sviluppatasi nel cognitivismo e la scarsa validità ecologica dei compiti sperimentali impiegati nella ricerca. Inoltre, egli rimprovera al cognitivismo di aver frammentato la mente umana e di aver prodotto modelli esplicativi parziali, ristretti a circoscritti aspetti del funzionamento psichico. L'ultima critica di Bruner riguarda la «disumanizzazione» del concetto di mente perpetrata dal cognitivismo e dalla scienza cognitiva. Originariamente l'interesse che muoveva gli psicologi del Center for Cognitive Studies di Harvard era rivolto ai sistemi simbolici utilizzati dall'uomo per costruire significato; in seguito, i sistemi simbolici sarebbero stati sempre più frequentemente intesi come sistemi di elaborazione dell'informazione e l'attività costruttiva delle mente sarebbe stata sempre più definita come insieme di procedure computazionali. Bruner ritiene invece che l'attività mentale non possa essere ritrascritta attraverso algoritmi computazionali; al contrario, risulta più adeguato un approccio interpretativo, ermeneutico, di cui è esempio paradigmatico la decodificazione dei testi, operazione in cui il senso di un elemento è ricostruito avanzando ipotesi sul senso complessivo dell'insieme in cui tale elemento è inserito. Per questo, negli ultimi decenni, Bruner si è definito uno psicologo culturalista, ma in un'accezione particolare, in quanto ritiene che un approccio interpretativo non sia in conflitto con principi o metodi rigorosi di ricerca. La psicologia culturale individua le regole che gli esseri umani applicano nel creare significati all'interno di contesti culturali: per individuare tali regole, secondo Bruner, è proficuo, oltre che tenere conto delle suggestioni che provengono dalle discipline filosofiche, storiche e artistiche, applicare piani sperimentali e procedure di quantificazione. Bruner, inoltre, sembra non condividere le conclusioni radicalmente relativiste di certi culturalisti e pare continuare ad assegnare un ruolo all'elaborazione personale, senza risolvere totalmente quest'ultima nell'assimilazione dei copioni e delle chiavi di lettura offerti dall'ambiente.

ALESSANDRO ANTONIETTI