Bion, Wilfred Ruprecht

W. R. Bion (1897-1979) nacque in India, sede di lavoro del padre ingegnere, e all'età di otto anni venne inviato a Londra al Bishop Stortford College. Dieci anni più tardi si arruolò nei carristi e prese parte attiva alla Prima guerra mondiale, vivendo episodi traumatici e guadagnandosi importanti decorazioni. Dopo alcune esitazioni e non poche traversie, nel 1929 divenne dottore in Medicina. Fece una prima analisi con J. Rickman e una seconda con M. Klein. Dal 1962 al 1965 è Presidente della British Society; in seguito, non intendendo lasciarsi fagocitare da incarichi istituzionali, si trasferirà a Los Angeles, dove rimarrà dal 1968 al 1979, quando rientrerà in patria per morire a Oxford. Gli anni americani, non facili dal punto di vista professionale, testimoniano una straordinaria fertilità creativa; basti ricordare i diversi seminari, in specie quelli brasiliani.

Bion può essere a ragione considerato uno dei pilastri principali su cui poggia l'edificio teorico della psicoanalisi, dopo S. Freud e la Klein. E' un autore complesso, difficile, a tratti ermetico, che ripaga generosamente chi si cimenta nel compito di studiarlo per le enormi conseguenze cliniche del suo pensiero. Bion non è mai autore ortodosso, anzi: semmai un mistico, consapevole che la verità è irraggiungibile, ma che il cammino verso essa è irrinunciabile, anche se doloroso e talvolta impossibile. Se il pensiero di Bion muove da una matrice fortemente kleiniana, almeno all'inizio, presto acquista caratteristiche fortemente innovative, riuscendo a coniugare la tradizione freudiana con punti di vista inediti e radicali, operando una vera e propria cesura.

Il primo campo di interesse scientifico di Bion è relativo ai gruppi, che si trova a condurre presso l'ospedale militare di Northfield, nel corso della Seconda guerra mondiale; questa esperienza, descritta in Esperienze nei gruppi (1961), riaffiorerà in numerose concettualizzazioni successive. Recentemente M. Baranger ha riconosciuto nelle riflessioni di Bion sui gruppi una delle matrici originarie del concetto di «campo analitico». La creatività di Bion conosce quindi un fecondissimo periodo (anni '60), in cui egli mette a punto una serie di strumenti concettuali, che consentono di pensare nuovi e sconosciuti pensieri.

Fa quindi seguito il periodo (anni '70 e '80) dei Seminari, in cui egli mette alla prova il suo strumento psicoanalitico in forma via via più originale e creativa, dando preziose e continue indicazioni di tecnica. Nel corso dell'ultima stagione creativa, Bion rinarra la propria teoria non più secondo modalità astratte, nelle file più alte della Griglia (1977&), ma lungo la fila C di questa (luogo dei pensieri onirici, dei sogni, dei miti), attraverso le meravigliose e visionarie narrazioni contenute in Memoria del futuro (1975; 197712, 1979): in esso ci propone, sotto forma di film o di tragedia, il suo pensiero in modo altamente figurato. Sono pagine in cui è possibile leggere in controluce il dialogo con la mente di Freud, che fa apparire Bion come il più profondo continuatore del suo pensiero.

Pur non desiderando creare nuovi apparati concettuali, Bion fornisce una serie di strumenti inediti, che non solo rappresentano un miglioramento formale o quantitativo, ma consentono nuove operazioni, o meglio una nuova consapevolezza rispetto alle operazioni che si compiono nella stanza di analisi. Il concetto più importante, dalle ricadute più significative anche dal punto di vista clinico, è quello di «pensiero onirico della veglia»: la nostra mente sogna di continuo anche nello stato di veglia. La funzione che svolge tale attività viene «provvisoriamente» denominata da Bion funzione α (proprio per indicare che ne conosciamo alcuni costituenti, come l'attenzione e la disponibilità mentale, ma non sappiamo ancora da che cosa sia costituita e come funzioni). Alla funzione α pervengono dunque afferenze sensoriali, protoemotive (gli elementi β), che verranno trasformati in elementi α. Specifici e peculiari per ogni mente (a differenza dei fantasmi originari, che appartengono alla specie, e delle fantasie inconsce kleiniane), gli elementi α vengono «pittografati» da ogni mente in modo diverso e assemblati in sequenze che costituiscono per l'appunto «il pensiero onirico della veglia». Nella seduta analitica l'attività di pensiero sarà dunque un'attività profondamente trasformativa: gli elementi β saranno metabolizzati in elementi α dalle funzioni α della coppia analitica. Vi sarà dunque un pensiero onirico della veglia del paziente e uno dell'analista, entrambi in perenne formazione; da qui, secondo le modalità di interazione dei pensieri onirici, prendono corpo le varie teorie del campo, che hanno nei Baranger i loro precursori (Baranger e Baranger, 1961-62), e radici di concetti come quello di «terzo analitico».

Non sempre le cose vanno così lisce, però. Può accadere che, per un eccesso di contenuto (elementi β), o per un difetto di contenitore (funzione α), la mente dell'analista venga cimentata da quote di elementi β evacuate dal paziente; a loro volta questi potranno essere trasformati, grazie alla funzione α dell'analista, in elementi α. Questa operazione, continuamente in gioco tra la mente del paziente e quella dell'analista, consente non solo la trasformazione in «mattoncini di base» del pensiero, ma una progressiva introiezione del metodo (la funzione α), fondamentale nei casi in cui questo sia carente, come nelle patologie gravi. Nelle patologie gravi, dunque, il lavoro nella stanza di analisi permette lo sviluppo dell'apparato per tessere i pensieri (la funzione α), più e prima che un lavoro sui significati. Le sequenze di elementi α rimangono non direttamente attingibili e danno luogo all'inconscio (la rappresentazione del quale, in Bion, è assai più dinamica che in passato, perché in perenne costruzione/trasformazione).

Altri concetti-utensili intervengono a questo punto, al fine di tessere le sequenze di elementi α in immagini più compiute e consentire lo sviluppo della mente del paziente.

Primo, l'oscillazione PS-D. Nell'elaborazione della Klein (1946), la posizione depressiva (D) rappresenta una tappa evolutiva rispetto alla posizione schizoparanoide (PS). Secondo Bion, invece, esiste un'oscillazione continuamente operante fra i due momenti, indipendente dalla maturità individuale; anzi, è proprio questo movimento che consente crescita e maturazione.

Secondo, il rapporto ♀♂ (contenitore/contenuto). Questo concetto ha avuto enorme espansione per la sua applicabilità a situazioni molto differenti, in un ventaglio che va dal somatico al mentale. Oggi tendiamo a pensare all'uso in seduta di questo concetto: un contenitore formato da «fili emotivi» che consente l'ingresso in scena a contenuti connotati da alta intensità emotiva, come fossero trapezisti, che entrano in scena se sanno che c'è una rete in grado di contenerli.

Terzo, l'oscillazione tra capacità negativa (CN, capacità di permanere nel dubbio senza persecuzione) e il fatto prescelto (FP, opzione per una scelta interpretativa dell'analista che fa rinunciare a tutte le altre possibili, organizzando una particolare Gestalt).

Altri concetti-strumenti di grande rilievo nell'elaborazione bioniana sono quelli di:

a) rêveries, momenti di contatto profondo dell'analista con il suo pensiero onirico della veglia (che, ricordiamo, è costantemente attivo): stimoli preverbali vengono sincretizzati in un'immagine con la quale l'analista entra in contatto, dando testimonianza di aver accolto, metabolizzato e trasformato quanto proveniva dal paziente, e che potrà essere usato, dopo opportuna elaborazione e contestualizzazione, nel formulare un'interpretazione;

b) identificazioni proiettive (cioè quel viaggio di stati mentali primitivi da una mente all'altra), che in Bion divengono un fenomeno normale della specie umana, atto a comunicare contenuti drammatici a una mente non sufficientemente recettiva. A monte c'è il primo rapporto della mente (o forse preconcezione di una mente) del neonato, che evacua massicciamente sensorialità che non sa/può metabolizzare (il «terrore senza nome») nella mente della madre, la quale, se è accogliente e disponibile, non solo trasforma elementi β in elementi α, ma trasmette progressivamente il metodo per fare ciò. Modello di base è dunque quello dell'identificazione proiettiva/rêverie rappresentabile anche nel continuo gioco ♀♂.

Tutto quanto abbiamo fin qui passato in rassegna produce una serie di effetti a cascata nella stanza d'analisi (e nella tecnica analitica). Il paziente è considerato «miglior collega» perché è l'unico che con quanto dirà (o non dirà, farà o non farà, sognerà, disegnerà...), dopo un'interpretazione, consentirà di sapere come la stessa interpretazione è stata vissuta, e come può essere modulata tutta l'attività interpretativa perché divenga fattore di crescita e non di persecuzione. Bion afferma più volte che non è in gioco la capacità di comprensione dell'analista, ma che si tratta di sapere se quel determinato paziente, quel giorno, sia in grado di capire quella determinata interpretazione, poiché il paziente è talvolta come un lattante con il quale non avrebbe senso lanciarsi in una lunga spiegazione di come funzioni il suo apparato digerente (Bion, 1987). L'autentico stato mentale dell'analista e la qualità del suo funzionamento mentale («senza memoria e desiderio») diventano una delle variabili fondamentali del campo (Bion, 1970).

Non conta quindi, per Bion, solamente il modo di funzionare/disfunzionare del paziente, poiché ciò è sempre in relazione con il modo di funzionare/disfunzionare della mente dell'analista. L'unico che può valutare la qualità di questo funzionamento/disfunzionamento è il paziente stesso, e al riguardo Bion afferma che l'analista può diventare mentalmente assente quando non tollera emotivamente quello che sta dicendo il paziente, e inoltre che il paziente grave si accorge sempre quando l'analista è divenuto mentalmente assente. Ciò pone anche il problema della quantità di verità sul paziente e su se stesso che lo psicoanalista è in grado di tollerare mentalmente. Il paziente funziona così da specchio dell'allontanamento dell'analista, cui consente non solo recuperi nella relazione, ma anche di osservare quali sono le emozioni che non è stato in grado di tollerare, in questo non dissimile da un sogno di controtransfert dell'analista; ma funziona anche da specchio dell'avvicinamento eccessivo dell'analista alla verità quando questa è ancora intollerabile per il paziente (Barale e Ferro, 1987). C'è così sempre un vertice dal quale la storia narrata dal paziente è anche il racconto dell'effettivo funzionamento mentale di coppia: ritrovare ed esplicitare il quale (attraverso l'interpretazione? attraverso un riassetto mentale? interpretativo?) è un'opzione tecnica del momento.

Cade così, con Bion, l'illusione kleiniana che sia possibile trovare di continuo il punto di emergenza dell'angoscia e che sia utile esplicitarlo, e diventano invece necessari tempi lunghi per progressivi transiti mentali. L'interpretazione diventa così qualcosa che viene dopo il gioco delle identificazioni proiettive e che deve essere commisurata non alla verità assoluta, ma alla capacità del paziente di assumerla. Nel suo lavoro quotidiano, l'analista deve sentire che cosa il paziente è in grado di sopportare, e ciò comporta il decidere se fornire un'interpretazione subito, oppure sei sedute più tardi, sei mesi più tardi, sei anni più tardi (Bion, 1987).

Ridimensionare la verità dell'interpretazione alla contingenza clinica significa conferirle uno statuto di insaturazione e di poli-semicità; e ciò consente una costruzione dialogica del senso, e non l'imporre una supposta verità all'altro. Forse ci sarebbe bisogno di dare un'interpretazione ancora più vaga di quanto non lo siano le affermazioni che sta facendo il paziente stesso. Bion (1987) sostiene che solo nel caso in cui fosse molto stanco e non sapesse che cosa dire potrebbe utilizzare un'interpretazione freudiana, o kleiniana.

L'interpretazione, invece, deve avere tre caratteristiche: estensione del campo del senso, del mito, della passione. Può essere data, cioè, quando non è un gioco di prestigio agli occhi del paziente, ma deve riguardare almeno in piccola parte qualcosa che cade sotto i sensi; deve inoltre essere calda, «cucinata» lì, sul momento, a seconda degli ingredienti portati dal paziente e di quelli a disposizione dell'analista; in ultimo, deve poter esser estensibile in forma narrativo-visiva come una sorta di costruzione mitica nella coppia.

Bion (1977b) ha inventato uno strumento per esercitarsi sui fatti clinici: la cosiddetta Griglia, una sorta di nuova tavola pitagorica della mente, una matrice fatta di colonne e file che si incrociano e che può essere usata per cercare, nel dopo seduta, di inquadrare ogni fatto della seduta di analisi, e ciò da vertici continuamente diversi. La Griglia procede da sinistra verso destra con le categorie di: Ipotesi definitoria, Bugia, Notazione, Attenzione, Investigazione, Azione, mentre dall'alto verso il basso, con un crescente grado di astrazione, abbiamo: elementi β, elementi α, pensieri del sogno, sogno e miti, preconcezione, concezione, concetto, sistema scientifico deduttivo, calcolo algebrico. Ad esempio, un'interpretazione affrettata, caratterizzata dal bisogno di «chiudere», può spesso rientrare nella colonna due (quella delle bugie dette dall'analista per pacificare se stesso e rinunciare ad andare verso mete sconosciute che mettono troppa ansia e angoscia). Questo discorso conduce a un altro aspetto fondamentale del pensiero di Bion: essere capaci di non sapere, di aspettare che un senso si sviluppi. L'analisi è una sonda che espande di continuo il campo che esplora (Bion, 1970), è un'affermazione che ci mette al riparo da ogni supposto e precostituito sapere dell'analista che deve sempre «osare» andare verso l'ignoto. L'inconscio stesso non è dato come formato una volta per tutte, ma, dal momento che gli elementi α che lo costituiscono nascono in origine nella relazione con l'altro, diviene un inconscio molto più dinamico e trasformabile.

Per Bion l'analista e il paziente, in fondo, cogenerano un campo che deve «ammalarsi» della malattia del paziente per essere trasformato. Inoltre lo strumentario di Bion permette, in un'evoluzione lineare (per semplice aggiunta), di aprire le porte verso la possibilità di un continuo monitoraggio del campo, verso i più precoci funzionamenti mentali, verso quelle madri (e quei padri) incapaci di rêverie che, anziché aprire le porte della mente alle identificazioni proiettive del bambino, hanno tali porte solamente disegnate, come un trompe-l'œil, senza profondità. Il concetto di inversione del flusso delle identificazioni proiettive e di rêverie invertita ne è una logica conseguenza ed è un fenomeno che può essere osservato in seduta. Esiste inoltre, a questo punto, la possibilità di ripensare le patologie mentali in un'ottica bioniana, ad esempio patologie da carenze di funzione a (in cui la mente del paziente non riesce a metabolizzare la maggior parte degli aspetti di realtà), oppure quadri in cui una mente, integra nei suoi funzionamenti, si trova sommersa da un eccesso di elementi β indigeriti provenienti dalla realtà esterna, o ancora quadri caratterizzati da rigidità nella naturale oscillazione fra ♀♂, PS-D, CN-FP.

A nostro giudizio, tre sono i rischi principali che il pensiero di Bion corre. Quello di una deriva «mistica», in cui si usi un linguaggio da iniziati anziché rendere espliciti concetti in fondo semplici e utili e in cui si parli, anche col paziente, in un idioletto che non comunica nulla di trasformativo, ma celebra un rito di appartenenza. Una deriva «ipersoggettivistica», in cui alla creatività dell'analista (frutto di un autentico incontro tra la mente del paziente e quella dell'analista all'interno della seduta) si sostituisce pericolosamente una bizzarria esoterica in cui tutto è permesso. Una deriva «formalistica», in cui è l'uso dello slang bioniano a prendere il posto di un reale e profondo cambiamento della tecnica e dell'assetto mentale dell'analista.

Gli apporti di Bion che abbiamo delineato appaiono di gran lunga superare questi rischi. Con Bion l'analista entra in scena in modo totalmente inedito, con tutto lo spessore e il peso della propria vita mentale e con la consapevolezza di quanto primitivo e abbozzato sia anche per lui l'apparato per pensare. Si tratta di un analista che sa che in seduta si ha a che fare con due animali feroci e pericolosi, e che è necessario non addomesticarli subito. Un analista in grado di sostare in PS alla ricerca di pensieri imprevedibili, come l'ufficiale è assieme ai suoi soldati nel campo di battaglia. Un analista in cui non prevale l'ancoraggio teleologico a una guarigione, considerata come punto di arrivo, ma la consapevolezza che egli stesso rappresenta un brutto affare, per il fatto di non poter essere completamente analizzato, e che quando l'analisi finirà dovrà fare il meglio che può con quello che è. Questo conduce alla consapevolezza, piena e modesta, che è proprio l'analista lo strumento molto delicato che consente l'analisi, aprendo la strada alle moderne tematiche sulla soggettività dell'analista (Renik, 1998), in oscillazione costante con il limite delle derive interpretative possibili.

Il considerare l'onirico in seduta come un livello continuamente operante consente di lavorare all'interno di uno spazio virtuale, un campo che prende vita dall'incontro di un paziente, un analista e un setting senza sovrapprezzo da pagare alla cosiddetta «realtà esterna». Nella visione bioniana, l'uomo non è afflitto da una pulsionalità straripante, né è come un campo di battaglia tra istinto di morte e modalità per bonificarlo, ma esattamente il contrario. Il problema della specie Homo sapiens è quello di avere una mente, che necessita di cure per svilupparsi armonicamente e i cui fallimenti di sviluppo portano alle varie modalità di evacuazione degli elementi β non trasformati in α. Il passo è breve per dire che la nostra specie ha un apparato per pensare assolutamente arcaico, un abbozzo di ciò che potrebbe diventare.

Questo apparato, così rudimentale e delicato al tempo stesso, è comunque inadeguato al livello complessivo della specie, per cui ciò che viene abitualmente considerato pulsione o istinto di morte potrebbe essere solamente il risultato dell'attuale inadeguatezza della capacità della specie a trasformare le afferenze sensoriali: ciò che non riesce ad essere alfabetizzato verrà evacuato in allucinazioni, malattie psicosomatiche, agiti senza spessore di pensiero. E questa la fonte della «follia» della specie. Fattore di evoluzione e di trasformazione è, invece, la capacità dell'analista di essere all'unisono con il proprio paziente: tutte le volte che l'analista si accoppia mentalmente con la propria teoria dà luogo, di fatto, a una scena primaria con essa, escludendo il contatto vivo tra le menti, unico fattore di crescita. Nel mondo, è in Brasile e in Italia che il pensiero di Bion ha trovato la possibilità di svilupparsi ed espandersi. In Inghilterra c'era forse il problema del forte lascito kleiniano che ha favorito l'approfondimento e la valorizzazione del primo Bion, sicuramente più in linea con l'ortodossia kleiniana. In Francia, grazie ad A. Green, il Bion non kleiniano sta conoscendo una felice stagione, e recentemente negli Stati Uniti vi è un crescente interesse per il suo pensiero rivitalizzato da autori come Th. Ogden e J. Grotstein.

ANTONINO FERRO e PIERLUIGI POLITI