Biofeedback

Una convergenza inedita di teorie e modelli di diversa origine e appartenenza, all'inizio degli anni '60 del '900, ha fatto si che si formasse una nuova area di ricerca e di applicazioni cliniche denominata «biofeedback». Nella nozione di «retroazione biologica», per tentarne una traduzione fin dall'inizio priva di successo, sono coinvolte infatti la cibernetica, la psicologia dell'apprendimento e la psicofisiologia. Più in dettaglio, a consentire l'autocontrollo di funzioni fisiologiche volontarie o autonome -possibile definizione di biofeedback - sono: il principio base dei sistemi di controllo a circuito chiuso, cioè il feedback, applicato alla biologia; la dimostrazione che le funzioni dipendenti dal sistema nervoso autonomo possono essere modificate con procedure di condizionamento operante; la possibilità di registrare i segnali bioelettrici in maniera contingente e continua e di renderli facilmente percepibili al soggetto nella modalità sensoriale acustica o visiva. Si è dimostrato così possibile nell'arco di un decennio, essenzialmente negli Stati Uniti, la regolazione volontaria, nel soggetto umano, dell'attività elettrica cerebrale, in particolare della banda α dell'elettroencefalo gramma (Kamiya, 1968); dell'attività elettrodermica, cioè il riflesso psicogalvanico della vecchia denominazione (Kimmel e Hill, 1960); della frequenza cardiaca nelle tre possibili direzioni, cioè rallentamento, accelerazione e stabilizzazione (Lang e Twentyman, 1974); della pressione arteriosa in riduzione e aumento; del tono muscolare, sempre nelle due opposte direzioni; dell'attività gastrica, sia secrezione che motilità; della temperatura cutanea. Sempre negli anni '60 si è sviluppato un parallelo filone di ricerca sul condizionamento operante di funzioni neurovegetative, inedito fino ad allora, nell'animale. Ne sono indiscussi protagonisti, in particolare per l'attività cardiovascolare nel ratto, L. DiCara e N. Miller, quest'ultimo giustamente ritenuto il patriarca di tutta la ricerca sul biofeedback. La modificabilità dei diversi indici fisiologici menzionati, soprattutto di quelli neurovegetativi o autonomi, per definizione ritenuti al di fuori del controllo volontario, rimane il dato fondamentale di tutta la ricerca annoverata nel contesto del biofeedback. L'elemento essenziale e conclusivo è, dunque, che anche le attività fisiologiche possono essere modificate in base ad apprendimento, così come lo sono molti aspetti del comportamento umano. La base teorica su cui poggia tutta la metodica coinvolge il condizionamento operante o strumentale (skinneriano) e l'autoregolazione guidata dal feedback. Che molte funzioni fisiologiche fossero modificabili attraverso il condizionamento, era noto dagli esperimenti di I. Pavlov: il cane, in seguito all'associazione del cibo (stimolo incondizionato) al suono di un campanello (stimolo condizionato), impara a salivare anche alla sola presentazione di quest'ultimo. Ha quindi appreso qualcosa di nuovo nella fisiologia della salivazione. Tale tipo di condizionamento, definito classico o rispondente, può essere applicato a tutte le funzioni autonome (o viscerali, nella terminologia inglese). Il condizionamento operante, che si base sul principio generale della ricompensa, era ritenuto invece inadatto all'«apprendimento di risposte ghiandolari e viscerali». Il biofeedback, in primis con gli esperimenti di Miller (1969), ha dimostrato invece la possibilità di sottoporre a controllo anche quelle funzioni ritenute immodificabili mediante rinforzo.

Compresa la portata rivoluzionaria dell'apprendimento viscerale sia nell'animale che nell'uomo, rimane il fatto di doverne spiegare l'effettuazione tramite un modello teorico convincente. E, come spesso accade, più che a spiegazioni si va incontro a complicazioni. Innanzitutto, come fa il soggetto umano a modificare volontariamente la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa o la stessa attività elettrica cerebrale ? Visto che tutti lo sanno fare, anche se in misura diversa, il metodo più diretto e di disarmante semplicità è quello di chiederglielo. Ma le risposte che si ottengono, sia tramite intervista che questionario strutturato, sono vaghe, personali e quindi non trasmissibili in forma utile agli altri: per accelerare la frequenza cardiaca i soggetti umani si rappresentano scene attivanti, quali fuggire da un incendio o da altra catastrofe, oppure scene a contenuto erotico. Viceversa, per ridurre le stesse funzioni si ricorre a immagini calme e rassicuranti (paesaggi, sonno, ecc.). Ma queste rappresentazioni cognitive, che coinvolgono evidentemente attenzione e memoria, non sono sufficienti a spiegare le modificazioni fisiologiche che si ottengono.

Una relativa chiarificazione è stata ottenuta accostando per analogia l'apprendimento viscerale all'apprendimento motorio, anche complesso, quale andare in bicicletta o guidare un deltaplano. J. Brener ( 1974a e b), in particolare, riprende la teoria ideomotoria di W. James, nella quale si ipotizza che il grado di controllo volontario sia funzione del livello di consapevolezza della risposta da controllare. La nozione di consapevolezza non ha, nella fattispecie, nessuna implicazione mentalistica, ma semplicemente indica la capacità del soggetto di discriminare le conseguenze della propria azione. Il modello presume che l'istruzione iniziale data al soggetto, ad esempio «accelera la frequenza cardiaca», attivi modalità di risposta indifferenziate; se la risposta corrisponde allo schema comportamentale attivato dal soggetto, si determina un feedback esterocettivo indicante che l'azione è corretta. Successivamente, il soggetto impara a discriminare le sensazioni enterocettive legate alla risposta corretta, in modo da essere in grado di attuarla anche in assenza del feedback esterno, di passare cioè dall'autoregolazione all'autocontrollo. Se il biofeedback nasce in ambito sperimentale, e segnatamente in area psicofisiologica, la sua immediata e prorompente espansione avviene in tutte le aree cliniche: psicologica, psichiatrica e medica. È della fine degli anni '60 la costituzione, negli Stati Uniti, di un'associazione professionale specifica diretta alle applicazioni cliniche del biofeedback (Association of Applied Psychophysiology and Biofeedback). Così come le primissime ricerche si sono svolte in ambito cardiovascolare, altrettanto è accaduto per le prime applicazioni cliniche. Gli esempi sono distribuiti nei tre principali parametri cardiovascolari: frequenza cardiaca, pressione arteriosa e vascolarizzazione periferica. La retroazione contingente della frequenza cardiaca, resa possibile dalla registrazione cardiotacometrica, è in grado di presentare al paziente l'andamento della frequenza cardiaca stessa e le sue variazioni battito per battito. Ciò ha subito suggerito di applicare il metodo alla terapia delle aritmie cardiache, in particolare extrasistoli ventricolari e tachicardie si-nusali parossistiche. Il training si avvale di un programma, messo a punto da B. Engel, di alternanza tra accelerazione, rallentamento e stabilizzazione della frequenza cardiaca. Circa la metà dei pazienti trattati riduce sensibilmente l'incidenza delle aritmie e mantiene i risultati anche senza feedback, passa cioè dall'autoregolazione all'autocontrollo.

Per l'autoregolazione della pressione arteriosa sono stati utilizzati feedback indiretti sul tono muscolare onde ottenere un rilassamento generalizzato e, conseguentemente, una riduzione della pressione arteriosa. Più efficace si è dimostrato il feedback diretto della pressione arteriosa mediante sfigmomanometria. Il problema della discontinuità delle misurazioni pressorie con le normali apparecchiature di misurazione impedisce un feedback continuo e quindi dà luogo a una minore capacità di autoregolazione da parte del soggetto/paziente. B. Tursky, D. Shapiro e G. Schwartz (1972) hanno messo a punto un sistema di misurazione e di retroazione della pressione arteriosa media sistolica e diastolica a ogni ciclo cardiaco, e ciò ha garantito un feedback praticamente continuo, migliorando i risultati ottenuti. Lo stesso gruppo di ricercatori, noto come gruppo di Harvard, ha ottenuto dai soggetti normali variazioni della pressione arteriosa di circa 7 mmHg sia in aumento che in diminuzione. In seguito, agendo contemporaneamente anche sulla frequenza cardiaca e dando un feedback integrato risultante dai due indici cardiovascolari, si è raggiunta un'interessante covariazione tra frequenza cardiaca e pressione arteriosa 7 mmHg e 7 battiti/min sia in aumento che in diminuzione. Il trasferimento in ambito clinico delle procedure indicate ha contribuito, inizialmente, a lusinghieri risultati nella terapia dell'ipertensione arteriosa, causa fondamentale, come è noto, dei principali danni vascolari (ictus, infarto e insufficienza renale). Come in altre condizioni di biofeedback-terapia, si è riusciti a mantenere i risultati anche oltre le sedute in laboratorio, con un controllo a distanza (follow-up) che confermava i traguardi raggiunti. I migliori risultati si sono ottenuti, tuttavia, appaiando al controllo della pressione arteriosa via biofeedback una procedura di rilassamento muscolare (training autogeno, ipnosi, meditazione trascendentale, ecc.). Non mancano difficoltà a decidere quale delle due procedure sia effettivamente efficace. Il percorso più diretto per raggiungere la vascolarizzazione periferica è quello della vasocostrizione o vasodilatazione mediante feedback termico. Il meccanismo fisiologico sottostante è molto semplice: vasodilatazione periferica equivale ad aumento della temperatura cutanea, vasocostrizione al suo raffreddamento. Quindi un feedback per aumentare la temperatura altro non fa che produrre vasodilatazione e, viceversa, vasocostrizione per ridurla. Le applicazioni più significative di questa elementare equazione sono sicuramente nella terapia dell'emicrania. L'utilità di ricorrere al biofeedback per un disturbo di tale frequenza e gravità si rende necessaria per i casi in cui i trattamenti farmacologici e/o psicoterapeutici risultino inefficaci o insufficienti, così come avviene per altri settori della biofeedback-terapia.

Il meccanismo fisiopatologico accertato dell'emicrania è la vasodilatazione cerebrale. Si cercherà pertanto di opporre una vasocostrizione di un ampio distretto cerebrale, riducendo il tono dell'arteria temporale (tono vasomotorio). Ciò non è però facile da ottenere direttamente; si preferisce pertanto aggirare l'ostacolo riscaldando la mano attraverso un feedback termico. I risultati di miglioramento dell'emicrania sono piuttosto elevati, anche se il meccanismo sottostante non è altrettanto evidente. Probabilmente, al riscaldamento-vasodilatazione della mano corrisponde una vasocostrizione cerebrale, il che spiegherebbe adeguatamente la cessazione o l'attenuazione delle crisi emicraniche.

Il feedback elettromiografico (Emg) per la regolazione del tono muscolare in aumento, in diminuzione o in riequilibrio, è quanto di meglio abbia prodotto il biofeedback nella sua breve ma intensa storia. Seguendo E. Blanchard e L. Epstein (1978), si possono classificare gli interventi del feedback Emg per la regolazione del tono muscolare in due grandi sottoclassi: quella in cui il tono muscolare è l'obiettivo diretto della terapia (ad esempio rieducazione muscolare nella paralisi periferica) e quella in cui il feedback ha una funzione indiretta (ad esempio per il rilassamento dei muscoli nucali nella cefalea muscolo-tensiva o, più ancora, nel rilassamento generalizzato per la terapia dell'ansia patologica).

Nella prospettiva storica deve essere citato, come traguardo fondamentale di questo settore del biofeedback, il controllo della singola unità motoria, legato principalmente al nome di J. Basmajian. Si tratta di modificare un ristretto numero di fibre, formanti al massimo un singolo muscolo, tramite un feedback acustico collegato alla frequenza di scarica delle fibre innervanti il muscolo medesimo. L'applicazione più immediata di tale tecnica può essere la riabilitazione di un muscolo, ad esempio il tibiale anteriore, nella terapia della paralisi limitata a questo distretto.

Senza dubbio, la mole più consistente di lavori riferiti al feedback Emg è stata dedicata al rilassamento muscolare, sia generalizzato che di singole aree muscolari. Per il rilassamento generalizzato, con diversi gradi di profondità, il biofeedback si accosta alle più classiche procedure di rilassamento già citate. La procedura iniziale utilizza il rilassamento di un unico muscolo, definito focale, che può essere il frontale o il massetere o i flessori dell'avambraccio, supponendo di conseguenza un rilassamento profondo generalizzato. Il criterio consiste nel misurare la differenza tra valori di tensione espressi in micronvolt durante la registrazione di base e le varie fasi di prova. Il training si compone di sedute giornaliere della durata di 30-40 minuti per 2-3 settimane; fondamentale è la prosecuzione degli esercizi a casa con e senza feedback. Sempre per il rilassamento generalizzato, risulta sia concettualmente che tecnicamente molto interessante lo sviluppo di un «feedback integrato», vale a dire che dalla disposizione di elettrodi (sensori) in più sedi muscolari si ricava la media della tensione muscolare utile al rilassamento. Per il rilassamento mirato a un singolo distretto o a un singolo muscolo molto è stato fatto, ad esempio per il torcicollo spastico (muscolo sterno-cleido-mastoideo). In questo caso, al rilassamento del muscolo ipertrofico di un lato può essere associata la rieducazione del medesimo muscolo ipotrofico controlaterale. Nell'ambito complessivo della riabilitazione muscolare o neuromuscolare sono reperibili numerosi contributi estesi ai settori più diversi della patologia: frequenti e ovvii nelle emiplegie e nelle paralisi periferiche; meno ovvii, ma di estrema importanza riabilitativa, nell'incontinenza fecale e urinaria. Esiste infine una gamma di interventi settoriali di notevole interesse teorico e sperimentale, anche se non sempre corroborato da risultati clinici condivisi. Ne sono esempi ormai classici le terapie dell'epilessia e della scoliosi. Nel caso dell'epilessia, si tratta di dare al paziente che non risponde al normale trattamento farmacologico un feedback EEG (neurofeedback) per la produzione di un ritmo lento centrocefalico (ritmo sensomotorio), da contrapporre alle scariche di ipersincronizzazione dell'area motoria tipiche delle crisi dì grande male epilettico. Per la scoliosi, con un feedback acustico sullo spostamento della colonna vertebrale dall'asse verticale, il paziente si rimette nella postura corretta per estinguere il segnale. Nella fase di maggiore espansione del biofeedback, databile all'incirca tra la metà degli anni '60 e la metà dei '70, il numero dei contributi scientifici accumulati aveva superato quella di ogni altro settore della psicofisiologia, sperimentale e clinica. Come sempre accade in queste situazioni, venne creata una società scientifica, una rivista, congressi a cadenza annuale organizzati dalla società scientifica medesima, una raccolta sotto forma di Annali dei contributi più significativi, a partire dal 1969, pubblicati dalla Aldine Atherton di Chicago. Molte ricerche venivano anche pubblicate in accreditate riviste dell'area psicobiologica. A partire dalla metà degli anni '70, rispettando un copione non scritto ma prevedibile, inizia la fase critica. Ne è causa prossima la difficoltà di replicazione degli esperimenti di Miller e DiCara sulla modificazione della frequenza cardiaca nel ratto con procedura operante, precedentemente fiore all'occhiello di tutta la ricerca sul biofeedback. Il dubbio che non fosse possibile ottenere un condizionamento diretto delle funzioni autonome, e che in realtà intervenisse la muscolatura scheletrica, non si era mai sopito. In sintesi, che cosa fa il ratto per aumentare la frequenza cardiaca: contrae i muscoli; che cosa fa per ridurre la frequenza cardiaca: li rilassa (cosiddetta ipotesi della mediazione scheletrica). Miller e Dworkin (1974) trovano la brillante soluzione di applicare le stesse procedure di condizionamento strumentale al ratto curarizzato (il curaro blocca la placca neuromuscolare e si ha paralisi totale) e i risultati si riducono alquanto. Non si escludono, si badi bene, ma non sono più gli stessi. E interessante che i dubbi e le incertezze sulla validità del condizionamento operante per l'autoregolazione di funzioni autonome nell'animale così clamorosamente emersi non siano mai stati definitivamente risolti. Sono rimasti sospesi in una sorta di limbo della verifica sperimentale, che lascia insoddisfatti sia i detrattori che gli entusiasti del metodo. Anche le innumerevoli applicazioni cliniche hanno subito nel tempo, a partire dalla metà degli anni '70, rettifiche e ridimensionamenti. Ne sono esempi prototipici la terapia dell'ansia mediante rilassamento via feedback muscolare, e l'incremento delle onde α per il raggiungimento di uno «stato di benessere» attraverso il feedback eeg. Nel primo caso, è evidente che il rilassamento da solo non basta per curare l'ansia diffusa, ma che deve essere appaiato ad altre tecniche (psico)terapeutiche. Nel secondo, il rationale dell'incremento del ritmo α per arrivare a una condizione di benessere è dovuto al fatto che tale ritmo coincide con uno stato di coscienza attenuata e prossima all'addormentamento. Si è visto però in seguito che non è necessario un feedback per aumentare le a, ma sono sufficienti movimenti oculari di accomodazione e convergenza, o più banalmente disporsi comodamente seduti in una stanza semioscurata. Che cosa rimane di valido del biofeedback a più di quarant'anni dal suo esordio? Molto, si può dire senza tema di smentite. In primo luogo, essendo una metodica che centra perfettamente la relazione mente/corpo, in campo sperimentale da oggetto esso è divenuto un metodo d'indagine. Ha subito cioè una sorta d'inversione di paradigma, per cui viene continuamente utilizzato per indagare processi cognitivi e fisiologici di ogni ordine e grado. Secondariamente, l'autoregolazione di quelle attività fisiologiche che sono direttamente implicate nello stress, prime fra tutte quelle cardiovascolari, ne fanno una procedura adeguata, se non unica, per attenuare l'impatto dello stress sull'individuo. Più ancora, le applicazioni cliniche, nonostante le limitazioni messe in rilievo, hanno avuto nel frattempo una notevole diffusione nel mondo sanitario. Ospedali e ambulatori, privati e pubblici, usano quotidianamente il biofeedback nel trattamento di disturbi organici e psicosomatici.

LUCIANO STEGAGNO