Binswanger, Ludwig |
L. Binswanger (1881-1966) nacque a Kreuzlingen, in Svizzera, da una famiglia di psichiatri. Dopo la laurea in medicina divenne assistente di E. Bleuler presso la clinica psichiatrica universitaria di Zurigo. Qui svolse la sua tesi di specializzazione con la guida di C. G. Jung, a sua volta collaboratore di Bleuler, lavorando all'interpretazione dei risultati di esperimenti associativi svolti attraverso la misurazione di riflessi psicogalvanici. Bleuler, che conduce in questi anni gli studi che confluiranno nel 1911 nella Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, destinata a rivoluzionare il paradigma kraepeliniano della dementia praecox, resterà un punto di riferimento indelebile nel suo percorso clinico. L'altra figura di riferimento che Binswanger avvicina per la prima volta negli anni zurighesi è quella di S. Freud, che conosce nel 1907 accompagnando Jung a rendergli visita a Vienna. In quell'occasione, forse propiziata dall'attenzione con cui Freud guarda alla possibilità di accreditare la psicoanalisi presso gli ambienti universitari cui appartiene la famiglia Binswanger, nasce tra i due un sincero rapporto di stima, destinato a durare per la vita nonostante divergenze teoriche anche profonde (Binswanger, 1956b). Terminati gli studi e trascorso un periodo di praticantato a Jena, Binswanger torna a Kreuzlingen per lavorare al fianco del padre, direttore della casa di cura privata Bellevue, fondata dal nonno e celebre da almeno un ventennio in tutta Europa. Ne assume la direzione nel 1910, alla morte del padre. Passerà a sua volta la mano al figlio soltanto nel 1956, quando si ritirerà dalla professione per dedicarsi esclusivamente agli studi di psicopatologia e di antropologia fenomenologica che, a partire dagli anni '20, lo hanno visto emergere come una delle figure più originali e innovative della psichiatria della prima metà del '900. Si chiama Daseins-analyse termine variamente tradotto con «analisi dell'esistenza», «analisi dell'esserci», «analisi della presenza» - la disciplina entro cui lo psichiatra svizzero fece via via convergere i risultati delle proprie ricerche, insieme alle infinite suggestioni filosofiche e culturali con cui ha posto in dialogo la psichiatria: si pensi alle figure già ricordate di Bleuler, Jung, Freud; a quelle di E. Minkowski, E. Straus, V. von Gebsattel, suoi coetanei e compagni di cammino; a G. Bachelard e alla sua «psicoanalisi degli elementi»; infine a E. Husserl e M. Heidegger, dai quali viene a Binswanger l'impulso filosofico decisivo, talvolta rimeditato attraverso la lettura di W. Szilasi e di K. Lowith. Solo in questo quadro, complesso e sfaccettato, diventa pienamente intelligibile il senso d'insieme di un'interrogazione come quella binswangeriana, che investe contemporaneamente lo statuto della follia come originaria possibilità dell'umano essere nel mondo e lo statuto della psichiatria stessa come scienza di confine, come sapere problematicamente diviso tra le istanze delle Naturwissenschaften e le rivendicazioni delle Geisteswissenschaften (secondo una partizione che la filosofia tedesca dei primi del '900 consacra, e che ancora circoscrive, per quanto problematicamente, l'orizzonte binswangeriano). Obiettivo polemico di tutta la riflessione di Binswanger è infatti quello di una psichiatria ritenuta incapace di cogliere la follia come fenomeno di senso, come esperienza irriducibile a sintomo o costellazione sintomatica, come espressione esistenziale unitaria, per quanto enigmatica, dell'uomo. La posta in gioco della battaglia dello psichiatra svizzero è, dunque, la ricostruzione della psichiatria stessa - della psicopatologia in primo luogo - su basi metodologicamente, epistemologicamente, ontogicamente rinnovate. Rinnovate in senso fenomenologico husserliano, in un primo momento; in senso ontologico-fenomenologico heideggeriano, in un secondo (che, del resto, non fa che declinare e radicalizzare le motivazioni essenziali del primo); e in senso nuovamente husserliano in un terzo momento. L'inizio della sua parabola creativa coincide con la relazione Sulla fenomenologia, tenuta nel 1922 all'assemblea annuale della Società svizzera di psichiatria cui partecipa anche Minkowski (Binswanger, 1955). L'altro testo inaugurale del percorso binswangeriano è il saggio Sogno ed esistenza, pubblicato nel 1930 (ibid) in un'atmosfera di pensiero che non è più quella rigorosamente husserliana di Sulla fenomenologia e che, d'altra parte, non è ancora quella, radicalmente heideggeriana, degli anni successivi (un'impronta che è possibile scorgere nella trama di Sogno ed esistenza è, invece, quella bachelardiana). È chiara l'intenzione di fondo di queste prime mosse: ricomprendere le figure enigmatiche della follia o del sogno riportandole alle loro strutture essenziali, al loro eidos in senso husserliano, alla loro genesi e struttura trascendentale. È il lavoro del soggetto, la pulsazione della coscienza, ad alimentare l'incessante donazione di senso in cui consiste, per il primo Husserl, l'esperienza fenomenologicamente considerata. Il trascendentale, la coscienza pura, il soggetto come fonte originaria di certezza sono l'istanza ultima di senso a cui questo Husserl, questa fenomenologia, rinviano la domanda circa l'esperienza: e a cui la psichiatria stessa, fenomenologicamente rifondata, deve rinviare la questione del significato di quel non senso apparente, che abita ogni espressione psicopatologica. Proprio qui, tuttavia, si radicano i motivi di insoddisfazione di Heidegger per la posizione del suo maestro Husserl, e proprio qui nasce la rivendicazione di Binswanger che, nella scia heideggeriana, intende a sua volta rintracciare, dietro l'esangue figura del soggetto trascendentale, la concretezza di un esserci e di un senso vissuto che è originariamente, da sempre, corpo, mondo, sto- ria individuale di vita. Non mondanizzazione seconda, non incarnazione tardiva di un a priori, ma primordiale essere nel mondo, inaugurale essere presso le cose e fra le cose, essere corpo fra i corpi. Se già Sogno ed esistenza si avvia a esprimere, in forma ancora piuttosto libera, questo genere di esigenza metodologica, tutti gli anni '30 si dispiegano per Binswanger in un ininterrotto confronto con l'analitica esistenziale di Heidegger in Essere e tempo, e in un'impressionante traduzione di quel lessico, di quelle movenze, entro i termini, la problematica, il domandare proprio della psichiatria. Nasce così ciò che lo psichiatra definisce, nella scia dell'analitica esistenziale heideggeriana, «analisi dell'esserci». Il termine stesso porta d'altra parte in sé, insieme al riferimento heideggeriano - declinato tuttavia nel senso di un'esplicita attenzione alla singolarità di una storia di vita, di una biografia, di un'esistenza - un rinvio negativo alla freudiana «psicoanalisi». Nei confronti della creazione di Freud, infatti, Binswanger nutre una duplice insoddisfazione: per la marginalità in cui la psicoanalisi confina dimensioni destinate a guadagnare via via il centro della sua attenzione, come quelle del corpo, della mimica, dell'espressività; e per quello che, a torto o a ragione, egli giudica come l'indebito riduzionismo freudiano (La concezione freudiana dell'uomo, in Binswanger, 1955). È significativo della complessità della posizione di Binswanger, del suo carattere per più versi filosoficamente eteroclito, il fatto che tanto Freud quanto Heidegger guardino all'analisi dell'esserci con sostanziale sospetto. In essa entrambi vedono, ciascuno nella propria prospettiva, un rischio inindagato e persistente di coscienzialismo, di spiritualismo, di soggettivismo. Si pensi a un celebre passo (Binswanger, 1956b) in cui il padre della psicoanalisi rileva una distanza, tra sé e il giovane collega svizzero, destinata a rimanere invalicabile. Lo spirito è tutto, avrebbe detto in quell'occasione Freud a Binswanger, l'umanità ha sempre saputo di essere un'umanità «spirituale», alla psicoanalisi è dunque spettato il compito di mostrare all'umanità il suo volto in ombra, il fondo pulsionale a cui anche le creazioni più elevate e astratte dello spirito appartengono. In questo senso, concludeva Freud, la psicoanalisi non è in grado di rispondere a un bisogno di trascendenza che sembra invece persistere al fondo della visione binswangeriana. Si pensi, ancora, alla presa di posizione di Heidegger, che dall'attenzione e dal rispetto manifestati a Binswanger nelle lettere degli anni '40 giunge, vent'anni più tardi, alle asprezze dei Seminari di Zollikon. Qui Heidegger sostiene che Binswanger crede di poter oltrepassare il «male insanabile della psichiatria», come egli lo chiama, riferendosi alla moderna scissione dell'esperienza in un'architettura oppositiva di soggetto e oggetto, facendo «trascendere una soggettività fuori da se stessa» verso il mondo. In ciò resta del tutto inavvertito il fatto che una soggettività concepita nella forma di una simile primaria immanenza possa poi avvertire il mondo e calarsi in esso: la trascendenza, conclude Heidegger, o è un essere da sempre presso le cose e nel mondo, e non la proprietà tra altre proprietà di un soggetto in sé e per sé costituito, o non è nulla, vuota illusione incapace di illustrare la concreta dinamica dell'esperienza. In ogni caso, emblematico di questa duplice tensione, che abbraccia la posizione di Heidegger, la gioca contro l'iniziale spunto freudiano e husserliano, e via via reintegra le istanze più vitali di Freud e di Husserl entro il progetto di una loro rifondazione fenomenologico-ontologica, è il volume che Binswanger pubblica nel 1933, Sulla fuga delle idee. Come già nel lungo saggio sul sogno, a fare da banco di prova del nuovo orientamento teorico è una figura clinica di radicale pregnanza storica, antropologica, filosofica: quella della «mania», in cui il discorso clinico e quello filologico, la tradizione psicopatologica e quella letteraria intrecciano con la prosa di Binswanger un vertiginoso gioco di rimandi. Ecco dispiegarsi nelle analisi binswangeriane il paesaggio dell'esistenza maniacale, il panorama privo di resistenza in cui prospera la «fuga delle idee», questo discorso rapido e torrenziale, variopinto, estemporaneo e scucito, accompagnato da un'altrettanto caratteristica gestualità e mimica, teatralmente accentuata, inafferrabile, mobilissima. Quale mondo, quale essere-nel-mondo, sorregge un discorso e un'espressività di quel genere? Quale mondo si dispiega in essi, e insieme li nutre, li sostanzia ? Sono queste le domande decisive di Binswanger, che si avvia a portare alla luce un modo di essere nel mondo in cui spazio e tempo si assottigliano sino a coincidere con una presenza in cui ogni cosa è accanto a ogni cosa, in un contatto tanto immediato quanto cangiante, instabile, malleabile. La posta dell'operazione di Binswanger, di nuovo, è presto detta. Si tratta ora, per lui, di ricollocare i significati dell'esperienza maniacale entro lo spazio di senso di un'archeologia di carne e di sangue, intessuta del concreto essere nel mondo del paziente, del suo quotidiano abitare lo spazio e il tempo, del suo ininterrotto commercio con il proprio corpo e con i corpi degli altri, delle cose, del mondo. Ma la cifra incomparabile dell'analisi dell'esserci esplode con la stagione ancora successiva, quella dei grandi studi sulla schizofrenia degli anni '40, in cui si dispiega, nel solco della Fuga delle idee, la fine capacità binswangeriana di ricostruire e raccontare storie cliniche facendone riemergere ombre e dimensioni di significato di inaudita chiarezza e necessità, di fronte alle quali raramente la psichiatria aveva rinunciato a indietreggiare. Due sono i testi emblematici di questa fase, la raccolta Schizophrenie (1957) e Tre forme di esistenza mancata (19565), in cui permane netta la prospettiva analitico-esistenziale heideggeriana, ma in cui emerge, d'altra parte, un pensiero narrativo pari, per intensità e rigore, solo a quello della psicoanalisi di Freud. Si pensi al Caso Suzanne Urban, raccolto in Schizophrenie. Chi legge quelle pagine si trova immerso anzitutto in un romanzo di radicale tensione narrativa, dove gli eventi si concatenano gli uni agli altri in una progressione di inarrestabile rigore geometrico, dal perturbamento, dall'incrinatura inattesa, che lacera la tranquillità di un'esistenza borghese racchiusa nella propria asettica, astratta perfezione, al dilagare di quella scossa iniziale, al franare che trascina l'intera architettura di un'esistenza nel teatro del delirio. Mondo, spazio, tempo sono le grandi coordinate, le cui metamorfosi Binswanger insegue a partire da quel singolare intreccio mondano-spaziale-temporale, che con suggestione freudiana chiama « scena originaria». Suzanne Urban accompagna un giorno dal medico il marito da tempo sofferente. Ne segue la visita, ne indovina a distanza i lamenti. Terminata la visita, il medico le fa un cenno, attento a che il marito non veda, e Suzanne veda che il marito non deve vedere. Quel cenno, quella «scena», nella sua teatralità improvvisa, dicono a Suzanne, insieme, il male che ha colpito il marito, la sua morte imminente, ma anche mille altre sofferenze, mille altre paure, in un orizzonte che prende a dilagare rovinoso, riverberando ovunque la cifra di quel destino di morte. L'esistenza di Suzanne sprofonda. La vivente mobilità del suo essere nel mondo si irrigidisce nell'unica figura, nell'unica fisionomia di quella smorfia dolorosa, di quello straniamento inaggirabile, di quella minaccia ormai irrevocabile. Gli ultimi anni di Binswanger vedono una rinnovata inflessione husserliana del suo discorso psicopatologico, che torna insistentemente sulla rigorosa disciplina della fenomenologia genetica, scavando a fondo le figure della temporalità maniacale e melanconica (Binswanger, 1960) e del delirio (1965) nelle loro dinamiche trascendentali, nelle loro costitutive strutturazioni soggettive. Ma al di là della ricca messe di sviluppi che questo estremo lascito binswangeriano ha via via prodotto in campo propriamente psicopatologico, altri sviluppi meritano di essere ricordati, conclusivamente, come altrettanti punti di svolta che l'analisi dell'esserci ha sollecitato nelle più diverse direzioni, a partire da un comune corpo a corpo con la domanda inesauribile della follia. Si pensi, in Italia, al percorso di F. Basaglia, che cita ampiamente Binswanger e che vede nell'epoche della sua fenomenologia uno strumento impareggiabile di critica a una psichiatria che considera la malattia psichica incomprensibile, la dimensione umana del paziente irrilevante, la violenza del manicomio scontata. E forse sul terreno di questo confronto ultimo tra ragione e sragione (déraison), di questa indagine intorno alla figura metafisica del soggetto e al teatro della sua istituzione-destituzione nella follia, di questa inchiesta circa le strategie di potere e di sapere che governano la costituzione della normalità attraverso l'espulsione della devianza, che si giocano oggi il senso e l'apertura culturale di un'eredità viva, multiforme, come quella della psichiatria di Binswanger. FEDERICO LEONI |