Autorità/autoritarismo |
Il termine «autorità» deriva dal latino auctoritas, che a sua volta discende dal verbo augere, che significa aumentare, ampliare, far crescere e anche autorizzare, consentire. Nel diritto romano Yauctoritas tutoris era l'autorizzazione ad agire in un negozio giuridico fornita al pupillo dal suo tutore, che se ne faceva garante. In senso lato, auctoritas venne a designare le relazioni in cui uno dei partecipanti offre all'altro un aiuto e un sostegno caratterizzati per essere meno di un comando e più di un consiglio. Attualmente per autorità si intende l'esito di una relazione in cui: a) a causa di certe sue caratteristiche o della posizione occupata, i partecipanti considerano, anche tacitamente, uno dei membri legittimamente superiore all'altro almeno per certe caratteristiche, non necessariamente tangibili; b) chi è subordinato si sente vincolato, obbligato o comunque indotto ad adattare volontariamente le proprie condotte e/o i propri atteggiamenti alle indicazioni dell'altro, anche in assenza di misure coercitive e addirittura di controllo; e) tale adattamento è consensualmente considerato utile, giusto o necessario dai partecipanti; d) la superiorità dell'uno può essere finalizzata alla riduzione delle differenze fra i partecipanti: l'esempio classico è quello della relazione fra insegnante e allievo, in contrapposizione a quella fra padrone e schiavo, che rappresenta la tipica relazione fondata sul potere. Cionondimeno, anche le relazioni di autorità possono essere fonte di ambivalenza in chi è subordinato, che spesso prova, assieme alla gratitudine, alla stima e al rispetto per l'altro, anche invidia, risentimento e rabbia nei suoi confronti. Questa ambivalenza spesso si ripercuote sulle sue condotte, che possono oscillare fra dedizione e resistenza ostentata, fra ammirazione enfatica e odio, fra fedeltà e tradimento. Le scienze umane hanno studiato l'autorità molto meno dell'autoritarismo, che ne costituisce una degenerazione. Se l'autorità viene considerata al servizio della persona, nella visione delle scienze sociali l’autoritarismo è concepito come un esercizio esasperato e finalizzato a se stesso dello squilibrio che caratterizza le relazioni di autorità, come un tentativo di puntellare con mezzi ideologici, o con il ricorso a qualche forma di potere, un'autorità decaduta. In questo caso, la legittimità dello squilibrio della relazione non è attribuita consensualmente, ma è presente solo in chi tenta di impadronirsi dell'altro per utilizzarlo a proprio profitto. Anche in psicologia con «autoritarismo» si fa riferimento a una degenerazione dell'autorità, consistente nella propensione a preferire i regimi antidemocratici a quelli democratici. Tale degenerazione è stata studiata muovendo da epistemologie e teorie assai differenti fra loro. Non sono dunque univoche né la sua definizione teorica, né la sua definizione operativa. I primi studi sull'autoritarismo sono stati condotti nell'Europa degli anni '30 del '900, come reazione allo sgomento e all'orrore derivanti dalla montante diffusione del fascismo e del nazismo. Com'era possibile - ci si chiedeva - che in una cultura fondata sul diritto, sull'ordine e sulla ragione, milioni di persone «normali» si fossero improvvisamente mostrate in grado di tollerare, o addirittura di promuovere attivamente, lo sterminio in massa di milioni di loro concittadini? I lavori «classici» sul tema vennero condotti, prima da W. Reich e poi dagli studiosi del francofortese Institut fur Sozialforschung, con una duplice, amplissima ambizione: spiegare le ragioni psicologico-sociali del fascismo e del nazismo integrando un'ideologia libertaria (in origine marxista) con le ottiche della psicologia, della sociologia, della storia e dell'economia, e usare le conoscenze ottenute per sviluppare un programma di prevenzione della dittatura per il futuro benessere delle nazioni. Dal punto di vista psicologico, questi primi lavori adottarono un paradigma psicoanalitico, concettualizzando l'autoritarismo come una sindrome di carattere o di personalità bifronte, caratterizzata dalla contemporanea tendenza alla sottomissione alle autorità antidemocratiche e al dominio antidemocratico sugli altri, in un'inquietante unione fra la reverenza per l'autorità e la ribellione. Reich (1933) teorizzò che le radici del fascismo affondassero nella struttura psicologica dell'individuo massificato, esito della repressione sessuale su larga scala promossa dallo stile educativo castrante della famiglia piccolo-borghese dell'epoca. Nella sua ottica, l'incapacità di fronteggiare adeguatamente l'inevitabile ambivalenza nei confronti dei genitori e la cristallizzazione di un carattere privo di vera indipendenza sarebbero all'origine della duplice tendenza a sottomettersi a qualsiasi aspirante Fuhrer capace di far sviluppare ai suoi seguaci una sorta di transfert che li porti a riversare su di lui le emozioni a suo tempo rivolte al padre autoritario e a dominare sadicamente i più deboli. A parere di E. Fromm (1941), l'organizzazione produttiva e sociale dell'Occidente spinge larghe quote di cittadini a fronteggiare le richieste di un mondo percepito come incomprensibile e pericoloso, rinunciando alla propria individualità e alla propria libertà mediante alcuni meccanismi di fuga. Fra essi l'autoritarismo, fondato sul tentativo di fondersi con un'autorità esterna capace di fornire la forza che si sente mancare in sé e/o di diventare in prima persona un'autorità di tal genere per qualcun altro, al fine di sentirsi onnipotente ai suoi occhi. L'autoritarismo sarebbe il risultato dello sviluppo di un carattere sadomasochista - considerato la base umana del fascismo - nel quale l'infliggere sofferenze è il mezzo per sentirsi legato alla persona che si domina, e il patire le sofferenze è il mezzo per sentirsi incorporati da un altro considerato irresistibilmente forte. L'opera più importante di questa prima fase degli studi sull'autoritarismo è tuttavia La personalità autoritaria (Adorno et al., 1950). Si tratta di una monumentale ricerca empirica che ha integrato metodi quantitativi (fra cui la famosa scala F, deputata a rilevare il potenziale fascismo) e qualitativi (colloqui clinici, domande proiettive, test di appercezione tematica), partendo dal presupposto che l'ideologia fascista si radichi nel profondo della personalità. A parere di Adorno e colleghi, la persona potenzialmente fascista è caratterizzata dall'articolazione di nove sottosindromi: convenzionalismo; sottomissione autoritaria; aggressività autoritaria; antiintraccezione; superstizione e stereotipia; potere e durezza; distruttività e cinismo; proiettività; concezione distorta della sessualità. L'origine di tale articolazione sarebbe infantile: i genitori delle personalità autoritarie sarebbero stati sistematicamente punitivi, freddi, rigidi, castranti, esageratamente interessati a uno status spesso sentito vacillare e al potere, disposti a dare affetto e comprensione solo a condizione di ottenere obbedienza assoluta e indiscussa. Le personalità autoritarie gestirebbero gli impulsi aggressivi provati nei confronti di genitori tanto incapaci di soddisfare i loro più profondi bisogni psicologici sia reprimendoli, sia proiettandoli e spostandoli sugli individui e sui gruppi sanzionati negativamente a livello sociale, sia ancora mascherandoli mediante la sottomissione servile e l'eccessiva glorificazione, tipiche formazioni reattive. Da un'educazione di questo tipo deriverebbe una personalità caratterizzata dalla debolezza di un Io incapace di mediare fra la realtà, un Es implacabile e primitivo e un Super-io non integrato nella personalità. Da ciò la necessità di cercare al di fuori di sé un agente coordinatore e organizzatore. Pur trattandosi di una lettura tuttora affascinante, quasi nulla di questa ricerca è attualmente considerato convincente, sia per i suoi limiti teorici (principalmente il tipo di approccio psicoanalitico usalo dagli autori, tutt'altro che moderno e non falsificabile in una ricerca quantitativa) e metodologici (principalmente l'avere sistematicamente confuso autoritarismo e acquiescenza), sia per le numerose smentite empiriche cui l'opera è andata incontro (innanzitutto l'assenza di stili educativi particolarmente rigidi nell'infanzia delle personalità autoritarie). Nel costante intreccio fra scienza e politica che lo caratterizza, il successivo dibattito sull'autoritarismo affronta negli anni '50 il suo primo mutamento nell'oggetto di indagine. Infatti, nel fosco clima maccartista degli Stati Uniti dell'epoca, si comincia a pensare che la vera minaccia per le società occidentali sia costituita dal comunismo e non dal fascismo; dall'«autoritarismo della sinistra» e non dall'« autoritarismo della destra». Si tenta allora di concettualizzare un autoritarismo valido sia per i fascisti, sia per i comunisti. Contemporaneamente, si abbandonano i poco convincenti paradigmi psicoanalitici, per adottarne di più aderenti agli standard della psicologia dell'epoca. Gli approcci più rappresentativi sviluppati sono due, entrambi in breve tempo travolti dai loro stessi limiti teorici e metodologici. Il primo è quello di H. Eysenck (1954), secondo cui le ideologie si fondano su due dimensioni fra loro indipendenti: l'asse radicalismo/conservatorismo, ai cui estremi si troverebbero rispettivamente i comunisti e i fascisti, e l'asse mente dura / mente tenera, ai cui estremi si trovano rispettivamente le persone antidemocratiche (ossia i comunisti e i fascisti) e quelle democratiche. Il fascismo viene così a essere concepito come un'ideologia conservatrice e dura, mentre il comunismo come un'ideologia radicale e dura. Il secondo approccio è quello di A. Rokeach (1960), secondo cui fascisti e comunisti si differenziano in base a che cosa credono di sé e del mondo sociale, ma sono accomunati dallo stile cognitivo dogmatico con cui lo fanno. Negli anni successivi il numero degli studi sull'autoritarismo comincia a declinare, principalmente per tre ragioni: a) lo stemperarsi dell'orrore e dello sdegno scatenati dal fascismo e dal nazismo, che avevano costituito il principale motore dei primi studi sul tema; b) i severi limiti teorico-metodologici dei lavori fino ad allora pubblicati, che fanno dubitare che si possano studiare empiricamente le dimensioni psicologiche dell'antidemocrazia; e) l'esplodere della psicologia cognitivista, che lascia sempre meno spazio a oggetti di studio diversi dai processi di conoscenza del mondo sociale. A partire dagli anni '70, pochi autori solitari continuano a studiare l'autoritarismo. Pur muovendo da presupposti diversi, essi hanno alcuni elementi comuni. Innanzitutto, cercano nuovi approcci teorici più soddisfacenti di quelli dei loro predecessori. Ne nasce una lodevole enfasi sulla falsificabilità delle ipotesi anche nell'ambito delle ricerche quantitative. Inoltre, modificano l'oggetto di indagine, cominciando a distinguere un autoritarismo dei leader (la tendenza a diventare un leader antidemocratico) da un autoritarismo dei seguaci (la tendenza a divenire seguace di un leader del genere) e concentrando l'attenzione quasi esclusivamente sul secondo, individuato come il vero pericolo per le democrazie occidentali. Infine, optano quasi esclusivamente per il ricorso alla ricerca quantitativa e, soprattutto, per lo studio di campioni costituiti da studenti universitari e non di persone genuinamente antidemocratiche né di campioni estratti dalla popolazione generale (una lodevole eccezione è costituita dalla ricerca di S. Milgram sull'obbedienza all'autorità). Scelte doppiamente criticabili, sia perché hanno fatto dubitare della validità esterna di tutti i risultati ottenuti, sia perché non hanno consentito di monitorare il reale potenziale antidemocratico presente all'interno delle società occidentali. Negli ultimi anni del '900 l'interesse per l'autoritarismo torna tuttavia ad aumentare, sia per la crescente diffusione nel mondo occidentale dei partiti di estrema destra, dei gruppi xenofobi e degli atteggiamenti razzisti, sia per la disponibilità di due approcci assai solidi sviluppati in tale periodo. Il primo è quello di B, Altemeyer (1988; 1996). Il costrutto da lui sviluppato è definito «autoritarismo di destra» (right-wing authoritarianism, rwa), e consiste nella covariazione di tre gruppi di atteggiamenti: la sottomissione autoritaria (un alto grado di sottomissione e di accettazione delle affermazioni e delle azioni delle autorità, percepite come pienamente legittime nel dirigere la società), l'aggressività autoritaria (una predisposizione a nuocere fisicamente, psicologicamente, economicamente, socialmente a varie persone e a vari gruppi, accompagnata dalla credenza che le autorità legittime la approvino, o che essa serva a preservarle), e il convenzionalismo (un alto grado di accettazione delle convenzioni sociali, percepite come sostenute dalle autorità legittime). L'rwa correla positivamente con il pregiudizio, con il favore per la pena di morte, con il possesso di atteggiamenti punitivi nei confronti delle persone non convenzionali, con la religiosità, con l'approvazione delle ingiustizie perpetrate dalle autorità e con l'obbedienza in esperimenti «stile Milgram». Altemeyer (1988) utilizza la teoria dell'apprendimento sociale per spiegare l'origine dell'RWA. Le principali variabili alla base del suo sviluppo sarebbero la paura del mondo e il senso di superiorità morale, che si svilupperebbero in età adolescenziale quando i futuri autoritari non avrebbero avuto l'opportunità di sviluppare una ricca esperienza di vita. Questo avrebbe precluso loro la possibilità di entrare in contatto con i membri dei gruppi esterni, le persone devianti e quelle «immorali», e di realizzare che esse non costituiscono un pericolo per l'ordine sociale. Tale spiegazione - che ricorda molto da vicino l'«ipotesi del contatto» di G. Allport (1954) - è probabilmente la parte più debole del suo lavoro, dato che non considera che non si arriva tutti all'adolescenza con la medesima propensione a fare esperienze e a interpretarle in modo simile. Uno dei principali meriti di Altemeyer è invece la sua proposta di soluzione alla questione dell'«autoritarismo della sinistra». I suoi dati mostrano che, mentre nel mondo occidentale le persone di estrema destra, ma non i comunisti, hanno alti livelli di rwa, nei paesi ex sovietici avviene il contrario; per quel che concerne il loro livello di rwa le persone occidentali di estrema destra sono dunque decisamente simili ai comunisti dell'ex blocco sovietico. L'rwa è dunque da concepire di destra in senso non politico, ma psicosociale, dato che si fonda sulla rigida obbedienza alle autorità percepite come legittime e sulla rigida lealtà alle norme culturali della propria società, quali che esse siano. Più recentemente, J. Sidanius e F. Pratto (1999) hanno concettualizzato l'orientamento alla dominanza sociale (social dominance orientation, sdo), che, secondo lo stesso Altemeyer, può dare conto dell'« altra personalità autoritaria», ossia dell'autoritarismo dei leader. L'sdo è definito come il grado con cui si desidera che il proprio gruppo di appartenenza domini sui gruppi estranei, ed è considerata la base psicologica dei miti di legittimazione della disuguaglianza (gli atteggiamenti, i valori, gli stereotipi e le ideologie che forniscono una giustificazione intellettuale e morale alle pratiche che promuovono il dominio di certi gruppi sociali su altri). L'sdo correla con il pregiudizio, il razzismo, il sessismo e il nazionalismo. Sidanius e Pratto sostengono molto vagamente che alla sua base stanno quattro gruppi di predittori: l'appartenenza a, e l'identificazione con, i gruppi dominanti; alcuni fattori quali lo status occupazionale, la fede religiosa e l'insieme degli eventi naturali e sociali accaduti nel corso dell'infanzia; alcuni I ratti di personalità innati; e il sesso. Tuttavia, manca ancora un modello convincente circa lo sviluppo delle differenze individuali di sdo. L’uso sempre più diffuso dell’rwa e dell’sdo sia portato a cercare di scoprire empiricamente se le due forme di autoritarismo sono compresenti nelle stesse persone. La risposta a questa domanda rappresenta una delle sfide più interessanti per gli studi sull'autoritarismo, dato che attualmente si sono trovate sia relazioni nulle, sia positive, sia negative in alcuni sottogruppi costituiti da militanti di destra e di estrema destra. Le altre sfide maggiormente interessanti per gli studiosi di autoritarismo sono attualmente due. La prima concerne il tentativo di individuare i predittori di rwa e sdo recuperando l'attenzione alla sfera della personalità, ma utilizzando approcci più convincenti dal punto di vista teorico e metodologico di quelli classici: i due più promettenti sono il Big Five e l'attaccamento. La seconda tenta di rispondere a quella che potrebbe essere definita la domanda sull'autoritarismo: le persone con alti punteggi di rwa e di sdo costituiscono effettivamente delle minacce alla democrazia? Per poter rispondere a questa domanda, si stanno confrontando i punteggi di rwa e di sdo di persone genuinamente antidemocratiche con quelli di persone sinceramente democratiche. In sede di bilancio, si può sostenere che negli studi sull'autoritarismo, come in quelli dedicati a molti altri oggetti di studio, nel corso degli anni si è assistito a una graduale sostituzione dell'effervescenza (e spesso dell'ingenuità) teorico-metodologica dei primi studi con l'uso di approcci più solidi, anche se spesso caratterizzati da perfezione metodologica più apparente che reale. Lo studio di ineludibili questioni socialmente rilevanti è insomma pian piano diventato un insieme di tentativi di risolvere rompicapo assai interessanti, come direbbe Kuhn, ma molto lontani dall'originario tentativo di comprendere le effettive minacce alla democrazia al fine di difendersene. Ciononostante, gli studi sull'autoritarismo hanno influenzato la psicologia in maniera assai positiva anche al di là delle loro scoperte empiriche almeno in due sensi. Da un lato, hanno contribuito alla sua crescita teorica, sia mostrando che è possibile tentare di studiare le dinamiche individuali alla base dell'antidemocrazia, sia contribuendo attivamente alla fondazione della «psicologia politica». Dall'altro, hanno fatto crescere la metodologia della ricerca psicologica, contribuendo a mostrare come sia fondamentale tentare di controllare l'acquiescenza e la desiderabilità sociale in sede di raccolta e di analisi dei dati. MICHELE ROCCATO |