Autismo schizofrenico

L'idea e il nome di «autismo» sono stati proposti da E. Bleuler (1911) assieme al termine «schizofrenia». La svolta attuata da Bleuler è stata il passaggio dal criterio longitudinale di individuazione dell'unità di malattia definita da E. Kraepelin (1899) «demenza precoce», basato essenzialmente sull'uniformità di decorsi ed esiti, a un criterio per così dire trasversale, fondato sull'individuazione di un supposto unico meccanismo patogeno di fondo: la scissione delle funzioni psichiche e l'allentamento dei normali nessi associativi del pensiero. Da qui il neologismo bleuleriano «schizofrenia» («mente divisa»), e soprattutto le possibilità di un approccio psicodinamico più comprensivo. E all'interno del disturbo schizofrenico che Bleuler individuò il fenomeno autismo, definendolo secondo due superfici: il distacco dalla realtà e il predominare negli schizofrenici della vita interiore. «La vita interiore assume una preponderanza patologica» (Bleuler, 1911). Ma questa patologica predominanza del mondo interno che estranea lo schizofrenico dalla realtà esterna è pur sempre per Bleuler il correlato della scissione schizofrenica delle funzioni psichiche, dei nessi associativi: è quest'ultimo il criterio forte che individua in senso essenzialistico le schizofrenie di Bleuler, criterio di evidente (e riconosciuta) derivazione psicodinamica, non solo associazionistica, ma anche rifiutato da grandi maestri come K. Schneider (1966) per la sua possibile ubiquitarietà. In ogni caso a questo criterio forte viene subordinata, nella schizofrenia, la patogenesi del fenomeno «autismo». Nelle dicotomie bleuleriane, dunque, l'autismo nella schizofrenia è un fenomeno «secondario» rispetto al primario disturbo associativo, ma è «fondamentale» rispetto all'accessorietà di deliri e allucinazioni.

L'immagine del ritiro, del distacco dalla realtà esterna, dell'allontanamento dagli altri, della separazione dal mondo comune e in comune, della chiusura in una sorta di eremo attivamente ricercato o invece passivamente subito, è stata fin dall'inizio centrale nel concetto di autismo e ne è rimasto uno degli aspetti descrittivi più ricordati nella clinica. Bleuler espressamente asseriva che per gli schizofrenici il modo di essere autistico ha lo stesso significato «che le mura del monastero hanno per i monaci, che il solitario deserto ha per alcuni santi», la differenza fra salute e malattie essendo puramente quantitativa. Questa tesi di un continuum fra salute e malattia ha percorso buona parte del pensiero psichiatrico, e oggi torna in contributi attuali, nei quali si ripropone che, a un certo livello, cambiamenti quantitativi possono generare, anche in psichiatria, differenze qualitative. Si può osservare che per la psicopatologia di ispirazione antropologico-fenomenologica ciò che può declinare come patologiche umane possibilità di essere non è solo un criterio quantitativo ma, in termini dialettici, la loro sproporzionata autonomizzazione, il fissarsi in rigida alternativa rispetto alle altre possibilità di essere.

Per Bleuler l'autismo schizofrenico è, da un lato, la conseguenza della scissione schizofrenica, che porta alla possibilità di tagliar via quelle associazioni che ostacolerebbero il desiderio di sostituire la fantasia alla realtà; d'altro lato, l'autismo è l'esagerazione di un fenomeno fisiologico. Esisterebbe anche nella normalità un pensiero autistico, in quanto non si confronta con la realtà, come nel bambino, nell'isterico e nel selvaggio, precisa l'autore in tema di insufficiente distinzione fra fantasia e realtà. Sembra quindi che nel pensiero di Bleuler il disturbo associativo e in generale i processi di «scissione», vero deus ex machina della schizofrenia bleuleriana, giochino il ruolo di favorire e rendere possibile, liberandola dai vincoli della logica, una gigantesca fuga nella fantasia a scapito della realtà contingente, massimalizzando così una possibilità tuttavia insita nella vita psichica dì ognuno, e più particolarmente nelle creature più primitive. Tutto ciò presenta l'autismo, più di quanto non sembri, come la realizzazione fantasmatica di un desiderio solipsistico e si comprende la vicinanza con il freudiano «autoerotismo».

Lo sfondo culturale bleuleriano è ovviamente quello della psicologia associazionistica coeva, ma anche quello dell'emergenza nello schizofrenico di tendenze e desideri nell'uomo adulto civilizzato meglio controllati: il tema cioè della riemergenza nella patologia psichica del passato storico dell'umanità. È noto quanto questo paradigma abbia influenzato la psichiatria del XIX e degli inizi del XX secolo; vi è un'aria di famiglia che va dalla dégénérescence di B. A. Morel (1860) all'«atavismo» di E. Tanzi ed E. Lugaro (1923) ad autori più recenti, quali H. Ey (1954) o S. Arieti (1955). Con un meccanismo jacksoniano, la malattia, in quanto lesione e danno (nell'accezione di Bleuler: dei normali nessi associativi), libera modi di funzionamento psichico (nel nostro caso: la prevalenza della fantasia) che sono generalmente assai più sfumati nella normalità e - semmai - un poco più evidenti nel bambino e nel selvaggio. Il presupposto è la tipica tesi («mai dimostrata vera», scriveva K. Jaspers, 1959) dell'omologazione fra evoluzione dell'umanità ed evoluzione del singolo.

Sembra che il perno su cui ruota la geniale intuizione bleuleriana dell'autismo schizofrenico sia il giganteggiare della fantasia, condotta dai «complessi emotivi» del malato: è questa sorta di ipertrofia della fantasia interiore che, col favore della scissione associativa, estranea la persona dal mondo esterno. L'aspetto per così dire «positivo» (predominare del mondo interno fantasmatico) appare a più riprese nei testi bleuleriani come il marchio dell'autismo; l'aspetto per così dire «negativo» (distacco dalla realtà), benché l'autore non stabilisca una gerarchia genetica fra i due aspetti, sembra troppo generico per definire l'autismo bleuleriano.

Bleuler è certamente attento al valore anche difensivo che l'autismo da lui descritto può assumere, quando nota che alcuni schizofrenici sono consapevoli del fatto di dover sopravvivere evitando emozioni e che pertanto l'indifferenza verso il mondo esterno è protettiva rispetto a un'eccessiva sensibilità. Il costrutto di autismo si complica ancora nell'elaborazione di Bleuler del concetto di «pensiero autistico», che sembra l'inevitabile conseguenza dell'aver considerato l'autismo come un oggetto definibile secondo due simultanee superfici: il distacco dalla realtà e la prevalenza di un mondo fantasmatico interiore. È questo secondo aspetto che conduce Bleuler a parlare di pensiero autistico come sorgente dei contenuti deliranti, guidati da desideri e timori. La mirabile lettura, veramente anticipatoria, che l'autore dà del delirio schizofrenico in termini dinamici sfuma tuttavia i confini fra ciò che è modo di esistenza autistica e ciò che è delirio. Peraltro l'autore mantiene una concezione più matriciale dell'autismo rispetto al delirio, non solo collocando l'uno fra i «sintomi fondamentali» e l'altro fra i «sintomi accessori» della schizofrenia, ma notando che anche in assenza di vere e proprie idee deliranti l'autismo si manifesta, nello schizofrenico, nella difficoltà o incapacità di tener conto della realtà. Questa incapacità è d'altronde per definizione evidente nell'ambito del delirio, il quale tuttavia è un giudizio sul mondo, un compimento di significato - per quanto abnorme - su di esso, un nuovo trascendersi e quindi relazionarsi intenzionalmente con l'oggetto e con l'aspetto rivelatorio che, nel delirio, da esso promana. L'autismo invece non sembra essere un sapere (delirante) sul mondo, ma propriamente un non sapere più. E questo non-sapere-più o, meglio, non-sentire-più non riguarda la conoscenza - realistica o delirante che sia - del mondo intersoggettivo, ma il «sentirne» o no, ariflessivamente, la sua ovvia naturalità. Bleuler questo mostra di averlo intuito senza esplicitamente dirlo; come quando scrive che i pazienti autistici possono lamentarsi che le cose e le persone sono altre, estranee, senza più rapporti col paziente. Una paziente dimessa va in giro come in una tomba vuota, tanto estraneo le sembra il mondo. Proprio la «tomba vuota», la «fortezza vuota» et similia appaiono come le allegorie, le icone, della condizione autistica schizofrenica, come modo difettivo di essere, rispetto al quale il delirio può anche essere un oltrepassamento.

Si sconta qui la genericità della formula «perdita di contatto con la realtà» che pur cogliendo un dato di fatto fenomenicamente evidente nelle psicosi, diventa appunto sinonimo semplicemente di «psicosi». Potremmo sostenere che, mentre non ogni autismo è delirante, ogni psicosi - anche la più strutturata in senso delirante - è autistica almeno per quanto concerne l'ambito del delirio. Ma questo ci porterebbe a concepire una sorta di autismo parziale, a cuneo, a settore (del resto Bleuler insisteva sulla coesistenza nello stesso soggetto di «pensiero autistico» e «pensiero realistico»), ma ciò sembra stravolga l'intuizione del fenomeno autismo come un modo di essere che concerne la globalità della persona, assai più a monte di un eventuale delirio. Per cui se non ogni autismo è delirante, nemmeno ogni delirio è autistico, nel senso sovradetto. Può quindi apparire confusivo ricorrere al concetto bleuleriano di «pensiero autistico», che se è una privata inferenza, un convincimento, una idiosincrasica maniera di pensare sul Sé, sugli altri e sul mondo, che segue una sua «logica» diversa dalla logica condivisa, si identifica col pensiero delirante. È evidente che il pensiero che giunge a un convincimento delirante è un pensiero distaccato dalla realtà comune, e in questo senso si può dire che è un pensare autistico: ma è una tautologia.

Tautologia che inquina la relazione fra «delirio» e «autismo»: esistono persone deliranti che, al di fuori del delirio, solo artificialmente potremmo definire persone autistiche; ed esistono persone autistiche che non costruiscono un delirio. Solo mantenendo separati questi due grandi fenomeni psicopatologici, delirio e autismo, possiamo considerare, o meglio vedere, quest'ultimo come maniera di essere che precede o accompagna quel che chiamiamo schizofrenia, e può imprimere il suo sigillo anche sul delirio eventualmente presente. Il fenomeno autismo è stato il filo rosso del pensiero di molti studiosi. La sua storia è scandita, dopo Bleuler, da nomi quali E. Minkowski, E. Kretschmer, L. Binswanger, D. Cargnello, H. Kranz e, fra gli autori più recenti, W. Blankenburg, A. Tatossian, J. Parnas, P. Bovet e diversi altri, perché l'autismo è la vicenda di appassionanti intuizioni e rassegnate delusioni: un concetto che seduce la mente dello psicopatologo sulla strada della comprensione del nucleo della schizofrenia e ripetutamente delude l'aspirazione del clinico alla esattezza e affidabilità, e questo non è l'ultimo dei motivi della sua scomparsa dagli odierni manuali diagnostici.

La storia del concetto di autismo è paradigmatica non solo e non tanto di un accrescersi di conoscenza, ma di come gli oggetti stessi della conoscenza mutino a seconda delle angolature di studio, cosicché più spesso quando la psicopatologia della condizione schizofrenica parla oggi di autismo si riferisce principalmente al concetto di autismo elaborato da Minkowski, che ne fa il disturbo generatore dell'esistenza schizofrenica, e non un semplice « sintomo » della schizofrenia, per fondamentale che possa esser considerato.

E’ ben noto il debito, da lui stesso esplicitamente riconosciuto, che Minkowski (1953) ha con la filosofia di H. Bergson (i concetti ili «slancio vitale», di «intuizione», ecc.), ma in realtà egli si muove da un crocevia culturale che comprende la filosofia di Bergson, l'insegnamento di Bleuler (del quale era staio allievo), le prime ricerche fenomenologiche di E. Husserl («cercare il profondo nell’ apparenza», il «ritorno alle cose stesse», ecc.) e ricerche caratterologiche ma infine antropologiche di Kretschmer (1921), le prime tesi psicoanalitiche di Freud e di Jung, per sviluppare un pensiero proprio che parte sempre dal valore essenziale dello sforzo di penetrazione interumana dell'osservazione clinica.

Notando che da tempo gli psichiatri avevano indicato, con termini quali «discordanza» (Ph. Chaslin), «atassia intrapsichica» (T. Stransky), «dissociazione», ecc., come il disturbo essenziale della schizofrenia coinvolgesse, più che l'una o l'altra funzione psichica, la loro armonica coesione, interessando per così dire «lo spazio interstiziale» Ira le varie funzioni, Minkowski pone la domanda fondamentale di quale fattore stabilisca nella norma la concordanza fra queste «facoltà». E rispondendo a questa domanda che Minkowski delinea il fattore «contatto vitale con la realtà», sviluppando il concetto di «perdita di contatto vitale con la realtà» come il «disturbo generatore» e definitorio dell'autismo schizofrenico. Un aspetto importante è quell'aggettivo «vitale» con il quale egli designa quale tipo di contatto è carente. Innanzitutto si tratta di un contatto dinamico che presuppone il nostro avanzare in sincronia con il divenire dell'ambiente, con il fluire del «divenire ambiente», in armonia con la nostra interiore temporalità, con il nostro temps vécu. La perdita di questa sintonia vitale si affaccia nella schizofrenia come crollo della temporalità e fa dell'autismo una condizione senza tempo. Fin dall'inizio nel pensiero di Minkowski è essenziale la costituzione del mondo come mondo intersoggettivo. Non sembrerebbe difficile tradurre il minkowskiano «contatto vitale con la realtà» con: gli «assiomi della vita quotidiana» (E. Straus) o con: «coerenza dell'esperienza naturale» (Binswanger) o con: «evidenza naturale» (Blankenburg). Formulazioni che pur derivano da diverse illuminazioni fenomenologiche, ma tutte ruotano attorno al tema del nostro abituale radicamento nel mondo intersoggettivo della vita, o tout court del common sense, che permea e struttura appunto il nostro quotidiano e aproblematico esperire, a garanzia del senso di realtà del mondo e della naturalità della copresenza. Vi è in Minkowski una continua sottolineatura del «sentimento di armonia con la vita», di «sincronismo vissuto», che connotano questo tipo di accordo con la realtà. Un accordo che non riguarda certo gli aspetti di conoscenza razionale del mondo, e in definitiva non riguarda il «come» l'esistente onticamente è, ma il presupposto ontologico che il mondo del vivere «è»: è una realtà intersoggettiva nella quale non soltanto l'ipseità è immersa, ma che è cocostitutiva dell'ipseità stessa.

E questo fondo e sfondo ovvio, precognitivo, precategoriale, preverbale di sincronismo con la naturalità degli altri, che Minkowski chiama «contatto vitale con la realtà», e che è esemplarmente incrinato in quella figura dell'autismo, in quella «obliquità», in quel mettersi di traverso dell'esistenza (che prefigura il vuoto dell'autismo minkowskiano) mirabilmente studiata da Binswanger (1956a) come «stramberia». Nella schizofrenia, Bleuler ha avuto per Minkowski il grande merito, fra gli altri, di proporre la nozione di autismo che, appunto, si riferisce alla maniera di essere della persona schizofrenica e che stampa il suo marchio su ogni sintomo e manifestazione della sua vita psichica e che è per l'autore il nucleo della schizofrenia, derivando, anzi manifestando direttamente, il «disturbo generatore». Per Minkowski l'autismo non è uno dei sintomi della schizofrenia: è la schizofrenia stessa, come modalità peculiare di esistenza.

Ma l'autismo minkowskiano è solo un erede più lontano di quanto sembri, al di là dell'omaggio di Minkowski al maestro di Zurigo, dall'autismo di Bleuler. Non solo l'autismo non viene più considerato, come avviene in Bleuler, un sintomo conseguente al disturbo delle associazioni, ma il profilo stesso del fenomeno è profondamente modificato. All'incrocio degli sfondi culturali bergsoniani e fenomenologici, all'incrocio dei concetti di disturbo generatore e di coinvolgimento della personalità tutta intera, il punto di svolta è la concezione minkowskiana di «attività autistica». E attraverso essa che la persona autistica non può più essere considerata come semplicemente ripiegata sulle sue fantasie, e l'autismo un fenomeno puramente ed erroneamente inteso come interiorizzazione, come assorbimento della personalità da parte della mera vita interiore, da parte di complessi e di fantasie. Minkowski rileva che il profilo delineato da Bleuler dell'autismo conduce in definitiva verso un'interpretazione di esso come fuga volontaria dal mondo: se non volontaria, si può osservare, certamente come una «difesa». Sembra evidente che, nella polisemia che le diverse impostazioni psichiatriche hanno finito per attribuire al concetto di autismo, vi appartengono non semplicemente comportamenti ma anche modi di essere più o meno scopertamente difensivi: l'autismo è una originaria «ferita», ma questo modo di essere può anche assumere il valore di una «difesa», per patologica che sia. Ma Minkowski non può contentarsi di una lettura che mescola i due aspetti nel definire l'autismo, e rischia di far prevalere l'aspetto difensivo, insistendo sull'interiorizzazione e sul giganteggiare di intime fantasticherie, che possono anche continuarsi nel delirio. L'osservazione che gli schizofrenici non sono tutti passivamente ripiegati su se stessi, ma anche quando agiscono nel mondo la loro attività ha un'impronta profondamente morbosa, perché gettano il loro atto nel mondo senza tener conto di esso, nel senso di non avere alcun sufficiente accordo, non, ovviamente, tematico ma modale, con il common sense, per cui l'atto risulta «strano», «incoerente», «rigido», «eccessivo», e si spegne in se stesso (actes sans lendemain). Su di un altro registro, possiamo dire che il «co» che fonda l'essere come co-essere, la costituzione dell'Altro nel mondo della vita, nel mondo della naturalità dell'evidenza, appaiono in questo tipo di agire ancor più apertamente carenti che nell'inerzia-isolamento-ritiro, che noi possiamo sempre immaginare come il frutto di immersione del malato in fantasticherie, attribuendogli una nettezza ed esuberanza sproporzionate. Ciò che Minkowski sottolinea è che esiste anche un'attività autistica, un'attività «primitivamente» autistica. L'averla trascurata ha condotto a identificare l'autismo con l'interiorizzazione, con gli stati passivi di assorbimento della personalità nella vita interiore. Minkowski costruisce i concetti fondamentali e contrapposti di «autismo ricco» e «autismo povero», e valorizza quello di possibile «compensazione fenomenologica». L'autismo ricco è il frutto dell'incontro fra un disturbo primario, la perdita della naturalità dell'esperienza espressa nella perdita di contatto vitale, e i processi di compenso che colmano o tentano di colmare il vuoto che ne deriva. Ma è l'autismo «povero» che mostra il disturbo schizofrenico «allo stato puro». Parnas e Bovet (1991), «rivisitando» l'autismo nella schizofrenia, insistono sul fatto che questo fenomeno si rivela nel rapporto fra la persona autistica e il mondo esterno e si riferisce a una globale deficienza cognitivo-affettiva di «sintonia» (attunement) fra lo schizofrenico e l'ambiente intersoggettivo. Del resto la rappresentazione in statu nascendi dell'autismo che Blankenburg (1971) fornisce nel mirabile studio sulla schizofrenia «paucisintomatica» (priva o quasi di deliri o allucinazioni) quale perdita della naturalità dell'evidenza, implica una carenza fondazionale dell'Io «trascendentale» e una drammatica costruzione dell'Io empirico», nel tentativo impossibile di sostituirsi a tale carenza. Carenza fondazionale che si esprime nella fragilità nel costituire l'Altro, per cui gli altri, le persone, inevitabilmente incontrate nel mondo della vita sono per la persona autistica un problema, un doloroso enigma.

La vita autistica può essere considerata quale pervasiva perdita dell'ovvietà della realtà intersoggettiva. Non si tratta tanto dello stabilirsi di una chiusura della comunicazione, mi l'ermetismo o nel silenzio, e del ritiro nei comportamenti in negativo, che possono ben essere anche una difesa, quanto della difficoltà o impossibilità a intendersi con gli altri, non nella divergenza del normale o patologico disaccordo tematico, ma a intendersi non sul «che cosa», bensì sul «come» del mondo della vita, sulla naturalità dell'essere-con-1'altro. E la carenza dell'Altro nell'orizzonte costituente travolge assieme la soggettività propria e la comune realtà. Quando si delinea l'autismo e le sue condizioni di possibilità come un probabile precursore nella persona di vicende psicotiche ci si riferisce a situazioni di «scompenso» nelle quali, per motivi sia connessi alle dinamiche intrapersonali che situative (in fondo la separazione Io-Mondo è un après coup della ragione), lo stile e il modo di vivere intessuti di valenze autistiche perdono la loro norma interna, non tengono più, e la persona è spiazzata dall'angoscia. Questo non è certo un destino fatale del profilo autistico che, come tratto, sembra abbracciare tutto lo «spettro schizofrenico», da alcuni tipi di disturbi di personalità alla psicosi, che anzi, sotto il profilo antropologico, rispetto alla vulnerabilità psicotica lo «schizotipo» potrebbe mostrare una sua stabilità, proprio nell'elaborare un suo atteggiamento di eccentricità di fronte alla carenza di sintonia con il mondo intersoggettivo.

ARNALDO BALLERINI