Atteggiamenti e opinioni

Il concetto di «atteggiamento» è uno strumento utilizzato dalla ricerca psicologica che si riferisce a una costruzione che cambia nel tempo e con cui cambiano, pertanto, anche le metodologie di indagine. Il termine compare spesso nel parlare comune, a indicare una disposizione individuale verso un oggetto, sia in senso positivo che negativo; talvolta designa anche il modo in cui le persone si presentano agli altri, possibilmente in pubblico. Nelle scienze sociali il termine «atteggiamento» compare per la prima volta nello studio, di ispirazione antropologica, di W. Thomas e F. Znaniencki (1918) sui contadini polacchi negli Stati Uniti. L'atteggiamento vi è definito come un processo mentale individuale che determina le risposte, sia effettive che potenziali, di ogni individuo al suo mondo sociale; poiché un atteggiamento è sempre rivolto verso un qualche oggetto, esso può essere definito come uno stato della mente dell'individuo rispetto a un valore. Thomas e Znaniencki definiscono il «valore» come qualcosa di socialmente riconosciuto e perseguito, qualsiasi realtà che abbia un contenuto empirico accessibile ai membri di un dato gruppo sociale e un significato che può essere - o meno - oggetto di attività.

In questa prima formulazione compaiono già i due poli tra cui si stende la parabola storica del concetto di atteggiamento: l'individuo e il contesto sociale. In una prima fase, che possiamo molto approssimativamente collocare tra gli anni '30 e gli anni '60 del secolo scorso, la ricerca psicologica accetta l'idea di Thomas e Znaniencki secondo cui l'atteggiamento consisterebbe nella disposizione a rispondere in un certo modo ad oggetti, persone o situazioni. G. Allport (1935), ad esempio, definisce l'atteggiamento come uno stato mentale o neurologico di prontezza, organizzata per mezzo dell'esperienza, che esercita un'influenza di controllo, o dinamica, sulle risposte dell'individuo nei confronti di ogni oggetto o situazione con cui entra in rapporto. La concezione «disposizionale» degli atteggiamenti rimase in vigore fino alla comparsa della rivoluzione cognitiva, che peraltro ne mantenne l'enfasi sull'individuo.

Con l'avvento della psicologia cognitiva, negli anni '60, la componente valutativa dell'atteggiamento viene posta al centro dell'attenzione: l'atteggiamento costituisce una valutazione sommaria di un oggetto psicologico che viene definito per mezzo di aggettivi quali buono/cattivo, dannoso/benefico, piacevole/spiacevole, desiderabile/sgradevole. La formazione della valutazione è fondata, in questo periodo, sulla teoria della conoscenza come elaborazione di informazioni, sia nelle menti umane che nei computer. L'atteggiamento di una persona verso un certo oggetto si fonda, secondo questa prospettiva, sulle credenze - che sono a loro volta prodotte dalle informazioni disponibili - che la persona possiede circa l'oggetto.

Un nuovo orientamento nel modo di concepire gli atteggiamenti fa la sua comparsa negli anni '80, in un clima culturale «postmoderno» in cui si sviluppano approcci «costruzionisti», secondo cui l'atteggiamento non è una disposizione più o meno permanente interna alle persone, ma una costruzione che dipende dal contesto sociale, che è «situata» in esso.

Tre grandi filoni di ricerca forniscono l'impulso per questo cambiamento di rotta. Il primo è costituito dalla «teoria dell'azione situata», che sottolinea la sottigliezza della conoscenza quotidiana, l'adattamento attraverso l'azione nelle situazioni di vita, l'incorporazione della conoscenza nell'azione. Gli atteggiamenti sono, in questa prospettiva, costruzioni mobili, molteplici, talvolta anche contraddittorie; non sono proprietà individuali, ma emergono nell'interazione tra gli attori sociali e il loro ambiente. Il secondo filone è costituito dalla psicologia culturale, che si interessa alle comunità come luoghi di produzioni del significato dell'azione, agli artefatti come strumenti di mediazione, e al linguaggio come pratica quotidiana. Le persone non sono più isolati elaboratori di informazione, ma appartengono a gruppi sociali dotati di una propria cultura. Il terzo filone è quello della psicologia discorsiva, che adotta come strumento di indagine l'analisi del discorso. Il discorso non è semplicemente il luogo in cui vengono manifestate all'esterno le valutazioni prodotte dalle menti individuali, ma diventa lo spazio in cui si costruisce la relazione tra le persone e il loro ambiente, quella relazione definita in precedenza in termini di valutazione cognitiva, e ora definita in termini di azione sociale, di discorso nella vita di ogni giorno. Il titolo razzista nella cronaca nera del giornale, la barzelletta denigratoria raccontata al bar, la conversazione confidenziale con un'amica, sono spazi in cui non solo si esprime ma si costituisce l'atteggiamento.

La ricerca sugli atteggiamenti prese impulso, all'inizio degli anni '30, negli Stati Uniti, grazie all'invenzione di strumenti di misura, le scale, che si proponevano di conseguire una quantificazione precisa degli atteggiamenti. La scala a intervalli soggettivamente uguali, proposta da L. Thurstone nel 1928, misurava l'atteggiamento di una persona verso un certo oggetto registrando l'adesione ad affermazioni dotate di un valore scalare noto rispetto all'atteggiamento. La costruzione della scala partiva dalla raccolta di affermazioni relative all'oggetto di atteggiamento tratte da libri, da programmi radio, da conversazioni; le affermazioni venivano in seguito presentate a un consistente numero dì «giudici» (un centinaio) che le valutavano su una scala da 1 a 11 (dalle più sfavorevoli alle più favorevoli). Le affermazioni su cui l'accordo tra i giudici era scarso venivano scartate, le altre andavano a formare una scala composta di una serie limitata di affermazioni, dotate ciascuna di valore diverso stabilito in base della valutazione dei giudici, che veniva sottoposta alle persone. Il punteggio di ciascuna persona rispetto all'atteggiamento si otteneva calcolando la media dei valori scalari delle affermazioni che aveva dichiarato di condividere. Queste scale vennero abbandonate, sia per l'impegno richiesto per costruirle, specie per quanto riguardava la necessità di ricorrere ai giudici, sia per la fragilità dell'assunzione che a una data affermazione potesse essere assegnato un punteggio «obiettivo» (divenne presto chiaro che le valutazioni dei giudici non erano affatto obiettive; ad esempio giudici favorevoli ai neri consideravano come ostili nei confronti dei neri affermazioni che giudici sfavorevoli ai neri consideravano invece come neutrali, e viceversa).

Un altro tipo di scala, nato negli stessi anni, ebbe maggior fortuna, ed è usato ancora oggi, sia pure all'interno di una diversa cornice concettuale. Ci riferiamo alla scala a punteggi sommati, proposta da R. Likert nel 1932, che rinuncia ad assegnare un valore predefinito a determinate affermazioni, e con questo si libera dello spinoso problema dei giudici come fonti di valutazione. Le scale di Likert sono composte da una serie limitata di affermazioni, di solito tra 20 e 30. Alle persone viene chiesto di indicare, per ogni affermazione, quanto siano d'accordo con esse, se del tutto, o solo in parte, o in parte contrarie, o del tutto contrarie. Solitamente, le scale di Likert usano punteggi da 1 a 5, ma nulla vieta che si usino punteggi diversi, ad esempio da 1 a 7. Al totale disaccordo verso un'affermazione favorevole all'oggetto di atteggiamento viene convenzionalmente assegnato un punteggio 1, mentre al totale accordo con l'affermazione favorevole viene assegnato un punteggio 5. Il punteggio totale che ciascuna persona ottiene nelle risposte dà la misura del suo atteggiamento: quanto più la persona è favorevole all'oggetto, tanto più il suo punteggio nella scala è elevato. Le scale di Likert non fissano a priori i valori delle affermazioni proposte, ma si limitano a caratterizzarle come favorevoli o contrarie rispetto all'oggetto, e lasciano poi alle persone intervistate il compito di stabilire il grado del proprio consenso o disaccordo rispetto alle affermazioni.

La costruzione di una scala di Likert parte da una serie di affermazioni (di solito una cinquantina) contenenti valutazioni relative all'oggetto di atteggiamento. Le affermazioni che ottengono risposte altamente correlate con il punteggio totale entrano a far parte della scala, che deve contenere un egual numero di valutazioni positive e negative rispetto all'oggetto di atteggiamento. Il maggior pregio delle scale di Likert è quello di consentire l'esplorazione della struttura degli atteggiamenti per mezzo di accurate analisi matematiche che permettono diidentificare le dimensioni latenti, o fattori, che spiegano le relazioni significative che collegano tra loro i dati raccolti. Le scale devono essere controllate con tecniche psicometriche per verificarne la fedeltà (la stabilità rispetto a occasioni e condizioni di applicazione diverse) e la validità (la capacità di cogliere le caratteristiche dell'oggetto di indagine).

La validità delle scale, dei questionari, e in generale delle forme di indagine che utilizzano resoconti verbali, venne messa in discussione da vari punti di vista. Anzitutto dimostrando che non sempre alle dichiarazioni corrispondono condotte congruenti. R. LaPiere (1934) dedicò a questo tema un celebre studio. Egli percorse in auto migliaia di miglia sulle strade della California nel pieno dalla Grande Depressione, che aveva distrutto infiniti posti di lavoro, risparmi, imprese e alimentato forti ostilità verso gli immigrati orientali, accompagnando (senza farsi notare dagli albergatori) una coppia di cinesi in oltre duecento fra alberghi, ristoranti, bar e campeggi. Egli rilevò un fatto sorprendente: in un solo caso la coppia cinese fu respinta. Il dato veramente sorprendente fu però un altro: qualche mese più tardi, LaPiere inviò agli alberghi, ristoranti, campeggi che avevano ospitato i suoi due collaboratori cinesi un questionario, in cui chiedeva se fossero disposti ad accettare come ospiti dei membri della razza cinese. Solo poco più di metà degli oltre duecento alberghi che avevano accettato i due cinesi rispose al questionario. Di questi, il 92% disse che non accettava cinesi. Altri diedero risposte evasive, e solo uno affermò che avrebbe accettato dei cinesi. La discrepanza tra ciò che le persone avevano fatto e ciò che avevano dichiarato in seguito era enorme. LaPiere ne concluse che i comportamenti delle persone non sempre seguono le loro dichiarazioni, e che pertanto ogni ricerca sugli atteggiamenti che si fondasse soltanto sulle dichiarazioni non dava alcuna garanzia del fatto che alle parole sarebbero seguiti i fatti.

L'indagine di LaPiere trova una spiegazione soddisfacente nel quadro delle recenti teorie «situate». Se gli atteggiamenti vendono studiati senza considerare il contesto in cui le persone si muovono, si rischia di «scoprire» la presenza di disposizioni che non trovano poi conferma nelle effettive condotte delle persone, perché queste, in realtà, quando devono prendere decisioni, tengono conto in modo molto attento delle situazioni specifiche. Se un albergatore ha davanti a sé una coppia sorridente, ben vestita, che parla un perfetto inglese, come i due cinesi di LaPiere, egli può accettarla senza difficoltà; il fatto che i due siano cinesi può non essere saliente, in quel particolare contesto. Se invece all'albergatore si chiede per iscritto, e in termini generali, se sia disposto ad accettare dei cinesi, allora la risposta può cambiare perché si tratta di prendere un impegno per il futuro senza sapere chi si presenterà a chiedere che l'impegno venga onorato. Lo stesso LaPiere mise in rilievo, nel suo resoconto della ricerca, l'importanza di questi aspetti situazionali. Egli osserva che l'accoglienza favorevole incontrata dai due cinesi è anche una risposta alle loro buone capacità di comunicazione interpersonale.

Un altro limite delle indagini sugli atteggiamenti che dipende dall'uso di resoconti verbali riguarda le risposte ai questionari. N. Schwarz (1999) ha mostrato che spesso le domande condizionano le risposte. Variazioni anche piccole nelle parole usate, nel modo di porre la domanda, nel contesto possono produrre grandi cambiamenti nei risultati dell'indagine. Ad esempio, in una ricerca in cui si chiedeva di indicare qual è la cosa più importante per i bambini per prepararsi alla vita adulta, il 61,5% di un campione scelse «pensare da soli» quando la risposta era presente in una lista presentata dal ricercatore; quando invece la risposta non era presente, solo il 4,6% degli intervistati ne fece cenno. Ciò avviene non perché le persone siano poco accurate nelle loro risposte ma, al contrario, perché vogliono dare risposte pertinenti, e per farlo cercano di capire che cosa il ricercatore voglia sapere. Persino i resoconti dei propri comportamenti possono non essere attendibili. Ciò accade perché le persone non hanno accesso immediato alla conoscenza delle frequenze dei loro comportamenti in un dato tempo. Di conseguenza, nei casi in cui il ricercatore fornisce all'intervistato una gamma di risposte alternative circa la frequenza di determinati eventi, la gamma proposta può diventare una fonte di informazione per l'intervistato, che può supporre che i valori centrali della scala siano i valori medi della variabile studiata e indichino il comportamento «normale». Schwarz conclude la presentazione dei risultati della sua ricerca sostenendo che i questionari non sono strumenti che permettono al ricercatore di raccogliere informazioni «obiettive», ma sono momenti di un dialogo che coinvolge sia il ricercatore che l'intervistato. Per questo il ricercatore consapevole sarà molto attento a evitare di condizionare le risposte attraverso le domande che propone.

Ancora a proposito dell'uso di questionari, va tenuto presente il fatto che le risposte degli esseri umani - naturalmente «interessati» a raggiungere i loro scopi - comportano inevitabilmente una gestione «strategica» dell'informazione. La componente strategica delle condotte umane viene presa spesso in considerazione nei termini, piuttosto limitati, della «desiderabilità sociale»: le persone, nel rispondere a un questionario, possono cercare di offrire un'immagine positiva di sé. Pochi studenti, ad esempio, ammetterebbero in un questionario di copiare agli esami, mentre nelle situazioni reali si è visto che non sono pochi coloro i quali, pur avendo dichiarato il contrario, non esitano a copiare se ne hanno la possibilità. La distorsione nelle risposte, provocata dal desiderio di offrire un'immagine positiva di sé, è solo un aspetto, sia pure importante, del più generale fenomeno della manipolazione strategica dell'informazione da parte degli esseri umani. La valutazione diventa una questione pragmatica, guidata dagli scopi che le persone si propongono di conseguire, e non (solo) un calcolo costi/benefici come vorrebbe la tradizione cognitiva. Il principale modello che la psicologia cognitiva ha elaborato per lo studio degli atteggiamenti è il «modello aspettativa-valore», imperniato sul ruolo delle credenze: il significato valutativo di un atteggiamento emerge spontaneamente e inevitabilmente nel momento in cui ci formiamo delle credenze su un certo oggetto.

Il modello sostiene che l'atteggiamento generale di una persona verso un oggetto è determinato dal valore soggettivo degli attributi dell'oggetto in interazione con la forza delle associazioni che collegano l'oggetto e i suoi attributi. Facciamo un esempio: l'atteggiamento di un soggetto verso gli immigrati senegalesi dipenderà dalle sue credenze (valore della valutazione, di solito stimato fra 1 e 3) circa gli attributi degli immigrati dal Senegal (immaginiamo che gli attributi presi in considerazione siano tre: sono buoni lavoratori, sono socievoli, svolgono attività non sempre limpide) e dal grado di certezza (aspettativa, anch'essa stimata fra 1 e 3) attribuito alla valutazione espressa dalla credenza. Il prodotto del valore per l'aspettativa fornirà la misura dell'atteggiamento del nostro soggetto verso gli immigrati. Non stupisce il fatto che questo modello sia stato contestato per la sua rigidità e per l'eccesso di razionalismo che viene attribuito alle condotte umane. La critica del modello che vede gli atteggiamenti come risultati di un calcolo razionale segue due percorsi. Da un lato, si evidenzia il fenomeno degli «atteggiamenti molteplici»: non sempre le persone hanno un atteggiamento stabile e coerente verso oggetti, persone o problemi, come suppone il modello aspettativa-valore; ad esempio, atteggiamenti differenti verso lo stesso oggetto possono comparire in persone che si trovano a far parte di gruppi sociali differenti, che danno valutazioni diverse dell'oggetto di atteggiamento. Dall'altro, la ricerca più recente mostra che gli atteggiamenti nascono non solo da processi cognitivi «freddi», come il calcolo razionale, ma anche da processi cognitivi «caldi», in cui giocano un ruolo importante le emozioni, gli stati d'animo, il contesto sociale. Il peso degli umori e degli stati d'animo nell'attivare particolari stili cognitivi è oggi ampiamente riconosciuto.

Il modello aspettativa-valore parte dal presupposto che, da una parte, ci siano dei «soggetti» che valutano e «hanno» atteggiamenti e, dall'altra, degli «oggetti» che vengono valutati come più o meno accettabili, decenti, meritevoli. Questa concezione non coglie pienamente il carattere dinamico e interattivo del rapporto che lega le persone al loro ambiente. Proviamo a immaginare una ricerca sull'atteggiamento degli «studenti di Viterbo» verso «gli immigrati extracomunitari» centrata sull'interazione. Dovremo prendere in considerazione non solo i modi in cui gli studenti di Viterbo cercano e organizzano l'informazione sugli immigrati (fornita dai giornali, dalla Tv, dalla scuola, dai libri) e i modi in cui essi fanno esperienza diretta degli immigrati quando vanno in autobus, a scuola o al bar. Dovremo anche tenere conto degli atteggiamenti degli extracomunitari nei confronti degli studenti di Viterbo. Non potremo continuare a considerare gli immigrati come «oggetti» delle valutazioni di un altro gruppo -gli studenti di Viterbo - che monopolizza il nostro interesse. Dovremo cercare di comprendere come le esperienze degli uni e degli altri si incontrino e si modifichino a vicenda in un unico spazio sociale, dato che gli atteggiamenti e le azioni degli uni si costituiscono (anche) come risposte agli atteggiamenti e alle azioni degli altri. Se svolgessimo una ricerca di questo tipo vedremmo scomparire, nel corso della ricerca, le categorizzazioni astratte da cui eravamo partiti, i «giovani di Viterbo», da una parte, e gli «immigrati extracomunitari», dall'altra, per lasciare il posto a situazioni specifiche. Verrebbe così in primo piano la grande varietà delle forme di interazione sperimentate all'interno di un certo contesto sociale. Invece di partire dal generale per cercare di arrivare alle situazioni particolari, come fanno le indagini su larga scala, questo tipo di ricerca etnografica sceglie di partire dalle situazioni che si incontrano nella vita quotidiana, per risalire - quando è possibile - a problematiche di carattere più generale.

La posizione delle persone su problematiche «sensibili» - moralmente coinvolgenti e socialmente rilevanti - è spesso troppo ricca per essere contenuta nell'adesione a formule precostituite come quelle contenute nelle scale di Likert. Il discorso, la conversazione, la discussione sono le forme in cui, nella vita quotidiana, le persone costruiscono, esprimono e negoziano con gli altri le loro valutazioni. La psicologia sociale discorsiva rende visibili ì processi di costruzione del significato che hanno luogo nella pratica quotidiana e accetta il fatto - finora poco riconosciuto - che membri di comunità diverse usino risorse cognitive e relazionali differenti per dare senso alla loro esperienza. Siamo, oggi più che in passato, consapevoli del fatto che gli atteggiamenti sono costruzioni sociali figlie di un dato momento e di un dato gruppo sociale. Le nostre categorie di valutazione ci sembreranno allora «situate» in un particolare contesto e, senza che ciò corroda la fiducia che abbiamo nei «nostri» atteggiamenti, diventeremo consapevoli del fatto che «altre» storie possono produrre, e di fatto producono, «altri» modi di vedere le cose.

GIUSEPPE MANTOVANI