Attaccamento |
Alla fine della Seconda guerra mondiale, l'Oms chiese a J. Bowlby di scrivere una relazione sul destino dei bambini senza casa nell'Europa del dopoguerra. Il rapporto venne pubblicato nel 1951 con il titolo Maternal Care and Mental Health. Emerse che bambini nel primo anno di vita, separati dalle loro madri per un periodo di tempo sufficientemente lungo, mostravano una serie di reazioni comportamentali dominate da fasi di «protesta», «disperazione» e «distacco» (Bowlby, 1951). Tali reazioni erano così comuni e frequenti che Bowlby, a partire da queste osservazioni, ipotizzò che fosse la perdita della specifica figura materna il fattore causale più significativo. Proseguendo nelle sue ricerche, elaborò allora il costrutto teorico dell'«attaccamento», con il quale si proponeva di spiegare il complesso legame tra il bambino e il proprio caregiver primario (Bowlby, 1969; 1973; 1980). La teoria dell'attaccamento di Bowlby nasce dall'eredità freudiana riletta alla luce degli studi di biologia evoluzionistica: la funzione primaria della relazione madre/figlio è quella della «protezione», che assicura la sopravvivenza, l'adattamento e la crescita del piccolo. Già K. Lorenz aveva notato che i piccoli delle oche seguivano la loro madre anche se non li nutriva; e H. Harlow aveva osservato che i piccoli delle scimmie, in periodi di stress, preferivano una «madre di panno soffice» che offriva un contatto confortevole, rispetto a una «madre di fil di ferro» che forniva il nutrimento. Bowlby ipotizzò che il bambino elabora un «comportamento di attaccamento», che ha lo scopo di stabilire e conservare la «vicinanza» con il genitore, affinché lo accudisca, lo protegga e soddisfi i suoi bisogni. Queste considerazioni costituiscono la cornice teorica di fondo all'interno della quale si è sviluppala la teoria dell'attaccamento. Il punto cardine di questo orientamento è l'affermazione che il lattante non è solo sottoposto alla spinta di soddisfare una pulsione, di ottenere una gratificazione libidica e di ridurre la tensione, ma ha anche e soprattutto la tendenza innata a creare e mantenere relazioni. Questa «forza motivazionale relazionale» modella e orienta il ciclo vitale e, in un primo momento, si traduce in pattern di regolazione dei propri stati fisiologici ed emotivi; e in seguito anche in modelli di attaccamento con il caregiver. Negli anni '50 e '60, quando Bowlby iniziò a delineare questa teoria, gli psicoanalisti in campo infantile si erano già allontanati dall'ipotesi che l'area motivazionale del comportamento umano fosse dominio esclusivo delle pulsioni e dei desideri infantili, e avevano posto in luce il ruolo fondamentale dei bisogni adattivi e relazionali. Secondo la nuova prospettiva, lo sviluppo dell'individuo era visto realizzarsi non tanto per processi maturativi interni, ma per processi interpersonali, nel senso che la crescita e il formarsi delle funzioni psichiche dipendono dal tipo e dalla qualità dell'incontro intersoggettivo. Bowlby si era posto sulla scia di questo cambiamento di paradigma; la sua teoria dell'attaccamento, infatti, inizialmente concepita come una revisione della teoria psicoanalitica freudiana (in particolare della metapsicologia e della teoria delle pulsioni) per comprendere il funzionamento mentale di bambini che avevano subito perdite o separazioni precoci, successivamente ha assunto lo status di una vera e propria «teoria motivazionale indipendente», in grado di far luce nulla complessità dello sviluppo umano. La teoria psicoanalitica e la teoria dell'attaccamento hanno, dunque, radici comuni, ma si sono sviluppate secondo sentieri divergenti dal punto di vista epistemologico. La psicoanalisi si è evoluta attraverso strade multiple, portate avanti dalle osservazioni cliniche di diversi autori, non sempre convergenti; la teoria dell'attaccamento, invece, si è sviluppata in modo più lineare, attraverso ricerche empiriche che hanno portato a nuove scoperte e hanno ampliato le acquisizioni passate. P. Fonagy (1999) sottolinea come attualmente entrambe le «epistemologie» (quella centrata sull'esperienza clinica e quella basata sulla ricerca empirica) presentino punti di convergenza nel tentativo di spiegare i disturbi psichici secondo un approccio evolutivo. Se consideriamo, per un momento, il corpus psicoanalitico come un insieme unico rivolto alla comprensione del funzionamento normale e patologico della personalità, emerge come molti aspetti importanti della teoria dell'attaccamento siano stati osservati sia sul lettino analitico sia all'interno di un laboratorio. Basti pensare al fatto che alcuni analisti hanno parlato di fenomeni molto simili all'attaccamento utilizzando termini diversi per descriverli, come il concetto di «fiducia di base» proposto da E. Erikson (1950), la descrizione della «base sicura», definita «sfondo di sicurezza», effettuata da J. Sandler (1985b), oppure l'ipotesi avanzata da A. Modell (1984) che esista uno specifico «istinto relazionale». Come afferma Fonagy (1999), dunque, entrambe le teorie potrebbero utilmente arricchirsi attraverso uno scambio di osservazioni derivate dalla clinica e dalla ricerca empirica. All'interno del gruppo di ricerca guidato da Bowlby, dopo aver delineato i lineamenti teorici fondanti la teoria dell'attaccamento, si fece strada l'idea di mettere a punto possibili strategie di misurazione di questo nuovo costrutto. A tal proposito, la psicologa dello sviluppo M. Ainsworth condusse due studi basati sull'osservazione diretta di madri e bambini: una di queste indagini fu portata avanti nei primi anni '50 in Uganda; l'altra fu eseguita nei primi anni '60 a Baltimora. A partire da queste ricerche la Ainsworth, che collaborò per quasi quarant'anni con Bowlby, creò un contesto di valutazione dell'attaccamento infantile, la strange situation (Ainsworth et al., 1978), che diede l'avvio a una fiorente produzione di studi empirici sulle differenze individuali nella qualità dell'attaccamento; studi che sono alla base dell'accettazione della teoria dell'attaccamento nella contemporanea psicologia e psicopatologia dello sviluppo. Mediante la procedura della strange situation, la quale prevede che bambini di dodici mesi siano esposti a una situazione di lieve stress che attiva l'attaccamento, inserendoli in un ambiente non familiare da cui la madre si allontana per breve tempo, sono stati così individuati differenti «modelli di attaccamento» e sono stati posti in relazione al modo in cui la madre accudisce il bambino. I quattro principali modelli di attaccamento dei bambini, «sicuro», «evitante», «ambivalente» e «disorganizzato» sono stati messi in rapporto con due principali modi di accudire il bambino da parte del genitore, i cosiddetti «contesti di accudimento», che sono stati definiti «sensibile» e «insensibile». In sintesi, un genitore sensibile è quello che è capace di rispondere prontamente e adeguatamente ai bisogni e alle richieste del figlio, stabilisce un buon rapporto durante l'alimentazione, è attento a tutte le esigenze del piccolo e non è «controllante». Viceversa, una situazione di insensibilità parentale è quella in cui il genitore ha un atteggiamento di rifiuto o è incapace e incoerente nelle risposte ai bisogni del bambino, gli affetti e le emozioni non trovano uno spazio comune e condiviso tra il bambino e i genitori, e l'adulto si dimostra insensibile agli stati mentali, emotivi e intenzionali del figlio. Le ricerche sull'attaccamento hanno mostrato come, con un genitore sensibile, il bambino sviluppi un modello di attaccamento «sicuro», cioè elabora una «primaria» strategia comportamentale per cercare protezione e cura, per stabilire vicinanza e contatto, e contemporaneamente costruisce un «modello operativo interno» secondo cui la figura del genitore è avvertita e considerata come disponibile e amorevole, e se stesso come degno di cure e capace di attrarre l'attenzione. Un genitore insensibile, invece, tende a far emergere nel proprio figlio un modello di attaccamento «insicuro», che può essere a sua volta distinto in un modello «evitante» e in un modello «ambivalente». Non potendo ottenere una protezione pronta e incondizionata, in questi due casi il bambino, che si sente ansioso e insicuro nei confronti del caregiver, sviluppa una strategia comportamentale «secondaria» che, comunque, è organizzata al fine di realizzare ugualmente sistemi coerenti e strutturati di regole basati sull'esperienza e in grado di predire e guidare le azioni future. Nel modello «ansioso-evitante» il bambino, di fronte a una madre che tende a rifiutarlo e a non rispondere ai suoi bisogni, cerca di «minimizzare» l'attivazione di comportamenti finalizzati al ricevimento di protezione e cura ed elabora un modello operativo interno che vede il genitore come rifiutante e se stesso come non degno di attenzione. Nel modello «ansioso-ambivalente» (o «preoccupato-resistente») il bambino, in presenza di un contesto di accudimento insensibile, è incerto se il genitore sarà disponibile a fornire l'aiuto richiesto e quindi tende a «massimizzare» l'attivazione di strategie comportamentali tese ad attrarre la sua attenzione; sviluppa così un'immagine interna del caregiver come inconsistente e incoerente nel rispondere alle sue esigenze e una percezione del Sé come insicuro e incapace di suscitare risposte adeguate. Entrambi i modelli di attaccamento insicuri sono presenti nella popolazione generale con una percentuale rispettivamente del 20-25% e del 10-15% e sono spesso associati alla comparsa di possibili problemi comportamentali (ad es. difficoltà nel controllo degli impulsi, scarsa autostima, difficili relazioni con gli altri), anche se si tratta di strategie adattative «normali» e coerentemente organizzate per mantenere la vicinanza con il caregiver. Più di recente, alcune ricerche hanno messo in evidenza l'esistenza di modalità di attaccamento, e quindi di modelli operativi interni, che non rientrano perfettamente nel sistema di classificazione tripartito («sicuro», «insicuro-evitante», «insicuro-ambivalente»). In relazione a madri «insensibili», sono stati identificati gruppi di bambini con comportamenti di attaccamento disorganizzati, contraddittori e non adattativi, con conseguenti modelli mentali incoerenti e non strutturati (Main e Solomon, 1990); essi sviluppano dunque modelli di attaccamento «atipici». Sono stati così ipotizzati il modello di attaccamento «disorganizzato-disorientato» e il modello «ambivalente/evitante», osservati principalmente in bambini ad alto rischio psicosociale, dove sono stati individuati episodi di abuso, povertà estrema, disturbi psichiatrici in uno dei genitori. I modelli operativi interni, cioè le rappresentazioni di sé e dei genitori elaborate in seguito alle esperienze vissute con il caregiver e al modello di attaccamento sviluppato, guidano e condizionano le azioni del bambino. Successivamente, essi diventano un'organizzazione più complessa di percezioni, di pensieri, di sentimenti, di comportamenti, che influenzano la forma e la qualità dei rapporti di attaccamento che si instaurano nel corso della vita; e si trasformano in «memorie semantiche» che possono essere espresse verbalmente. Perciò si è pensato che, interrogando un adulto secondo certe procedure, fosse possibile far affiorare questi modelli operativi interni e, quindi, risalire al tipo di attaccamento sviluppato dall'individuo nell'infanzia. Si è posto allora il problema di vedere se e in che modo un adulto ricorda, si rappresenta cognitivamente e sente emotivamente il rapporto avuto con i genitori. E stato così realizzato lo strumento della Adult Attachment Interview (Aai), un'intervista semistrutturata in grado di valutare la rappresentazione che un individuo ha della propria storia di attaccamento. Sono emerse in tal modo diverse categorie di individui caratterizzati da un peculiare modo di «vivere» l'esperienza relazionale con il genitore, e di ricordare il tipo di attaccamento stabilito con il caregiver. Sono stati dunque classificati cinque tipi di persone adulte con specifici «stati mentali» nei confronti dell'attaccamento («modelli di attaccamento negli adulti»). 1) Gli adulti «sicuri-autonomi» esplorano i ricordi, i pensieri e i sentimenti in modo chiaro e coerente. Pur se descrivono difficoltà o conflitti con i genitori (inclusi traumi e abbandoni), sono in grado di fare un bilancio equilibrato, di raccordare le loro esperienze passate con quelle presenti e di discuterle senza atteggiamenti difensivi; dimostrano inoltre un solido senso di sé e un'apertura alle relazioni con gli altri. 2) Gli individui «distanziati» tendono a svalutare o sottovalutare l'importanza e le conseguenze delle esperienze di attaccamento. Si presentano distaccati e indipendenti, forti e non condizionati dagli altri; hanno la propensione a idealizzare l'infanzia, a descriverla come un'età meravigliosa, a considerare i genitori come un «porto sicuro». Tuttavia, il quadro da essi dipinto non è sorretto da specifici ricordi di protezione e cura; inoltre la memoria si concentra sugli oggetti e non sulla relazione. 3) Gli adulti «preoccupati-invischiati» risultano ancora coinvolti e preoccupati della loro relazione infantile, sono spesso arrabbiati e incapaci di superare le esperienze passate, mancano di autostima e si soffermano sulla propria incapacità di soddisfare le aspettative dei genitori. Non riescono ad essere sintetici e spesso oscillano nelle opinioni e nei ricordi; appaiono confusi e incapaci di dare un quadro coerente e integrato delle loro esperienze di attaccamento. 4) Gli adulti «irrisolti-disorganizzati» (anche indicati come «irrisolti per lutto o trauma») presentano atteggiamenti, pensieri e sentimenti incoerenti e disorganizzati, uno stato cognitivo confuso che è collegato a ricordi di «traumi» infantili, come la perdita di una figura di accudimento ed episodi di abuso fisico e/o sessuale. Manifestano sfiducia, ossessiva attenzione ai dettagli e confusione nel narrare le loro esperienze; in alcuni casi il loro racconto è incoerente, irrazionale, costellato da lapsus; sembrano persone che non hanno elaborato il lutto. Dalle ricerche emerge che i modelli operativi interni degli individui «irrisolti-disorganizzati» si riscontrano più frequentemente in persone con patologie psichiatriche, che sono state vittima di abuso fisico e/o sessuale, che hanno subito separazioni precoci e ripetute nei primi anni di vita, crisi familiari, stress psicosociali, lutti e traumi. 5) Infine, tramite l'Aai è possibile individuare un'altra categoria di individui denominata «inclassificabile», che raggruppa appunto persone con caratteristiche dei modelli precedenti mescolate tra loro e con rappresentazioni mentali contraddittorie e incoerenti. Diversi autori hanno osservato che il modello di attaccamento del bambino non è una semplice replica di quello del genitore. Il caregiving e l'attaccamento sono due distinti sistemi di comportamento. Il sistema di caregiving è una trasformazione, in età matura, del sistema di attaccamento, una trasformazione che integra e amplia lo scopo di essere protetti con quello di dare protezione. In relazione ai diversi modelli di attaccamento valutati nei bambini, allora, mediante apposite interviste alle madri (che dovevano descrivere se stesse come genitore e la relazione intrecciata con il figlio nei suoi aspetti cognitivi, affettivi e comportamentali), sono stati identificati i corrispondenti stili di caregiving: «rassicurante», «respingente», «incerto» e «debole-incompetente». Ciascuno di questi stili di caregiving è risultato collegato, rispettivamente, a bambini con modello di attaccamento «sicuro», «evitante», «ambivalente» e «disorganizzato». In particolare, è stato notato che, nei bambini con modello di attaccamento disorganizzato, i genitori si descrivono come incapaci di fornire protezione e spaventati dalla possibilità di «perdere il controllo» nei confronti dei figli (stile «debole-incompetente»). In questi casi, sono attivi contemporaneamente i modelli operativi interni sia del bambino sia dei genitori. Così, di fronte a un figlio che cerca di «controllare» la relazione (per riattivare l'investimento degli adulti nei suoi confronti), il genitore, sopraffatto dai propri bisogni irrisolti di attaccamento, metterà in atto uno stile di caregiving «debole-incompetente», caratterizzato da comportamenti violenti e abusivi. Dunque, i modelli operativi interni dei bambini, derivati dalle esperienze di attaccamento precoce, possono riattivare modelli relazionali passati del genitore che vengono riattualizzati nell'accudimento del figlio. MASSIMO AMMANITI e SILVIA CIMINO |