Archetipo

Il termine «archetipo», usato prevalentemente nella psicologia analitica, è originato dall'osservazione, da parte di C. G. Jung, di strette somiglianze tra i contenuti della vita psichica, in particolare onirica, di ogni individuo, i contenuti della vita psichica degli altri e quelli dell'immaginazione umana in tutte le sue varie manifestazioni (in particolare nei miti). Secondo Jung, i contenuti immaginativi della vita psichica non sono riconducibili alle vicende della vita psichica personale, bensì si tratta spesso di immagini collettive, tipiche di tutta l'umanità. L'inconscio collettivo è un patrimonio ereditario, non individuale, di possibilità rappresentative (Jung, 1928-1931). Il termine archetipo fu usato esplicitamente da Jung a partire dal 1919. Prima di questa data i termini utilizzati per indicare ciò cui successivamente il termine archetipo si sarebbe riferito erano stati quelli di immagine, imago e immagine primordiale, termini che a loro volta avevano preso il posto, pur senza farlo scomparire, del termine complesso. Adottando il termine imago al posto di complesso, Jung volle accentuare con tale nome la sua indipendenza nella gerarchia psichica, la sua autonomia, caratteristica essenziale anche del complesso a tonalità affettiva, ma che «imago» esprimerebbe meglio (Jung, 1952).

Va segnalato che il termine deriva dal titolo di un romanzo pubblicato nel 1906 da C. Spitteler che ebbe una notevole risonanza e in cui il protagonista si crea una donna immaginaria (chiamata appunto Imago) conforme ai propri desideri. Nelle edizioni successive, Jung aggiunse che archetipo, al posto di imago, accentuava il carattere impersonale dei motivi collettivi. Il passaggio da complesso a immagine, o imago, fu così giustificato dal volere accentuare l'autonomia del mondo interno; il passaggio da immagine, o imago, a immagine primordiale, dal voler accentuare l'aspetto arcaico di alcune immagini; il passaggio da immagine primordiale ad archetipo, dal voler accentuare, infine, l'impersonalità dell'inconscio collettivo.

Il termine «imago» è stato utilizzato anche all'interno della psicoanalisi freudiana. S. Freud, pur non dandogli molto rilievo, lo utilizzò prevalentemente per indicare la percezione soggettiva degli oggetti reali. Occorre anche ricordare che nel 1912 Freud fondò con H. Sachs e O. Rank, pure in riferimento al romanzo di Spitteler, la rivista «Imago», concepita come luogo di dialoghi interdisciplinari. L'indeterminazione del termine avrebbe dovuto facilitare il raggiungimento dello scopo prefisso. Possiamo anche ricordare che J. Lacan, nel 1938, riprese il termine «imago» utilizzandolo nel senso datogli da Freud, e pensandolo come costitutivo dei vari complessi. In ambito kleiniano, S. Isaacs (1948) chiari in modo puntuale la distinzione tra imago e immagine. «Imago» si riferisce a un'immagine inconscia, a una persona o parte di una persona, ai primissimi oggetti; racchiude tutti gli elementi emozionali e somatici presenti nella relazione del soggetto con la persona immaginata, i legami corporei presenti nella fantasia inconscia con l'Es e la fantasia di incorporazione che sta alla base del processo di introiezione. «Immagine» si riferisce invece a qualsiasi oggetto e situazione (umana o no); gli elementi somatici e i fattori emozionali ne sono rimossi.

Secondo la psicologia analitica, nelle definizioni presenti in Tipi psicologici (Jung, 1921), i tre termini sono comunque presentati come distinti. Con immagine non è tanto intesa una riproduzione psichica dell'oggetto esterno, quanto una concezione basata sull'attività fantastica inconscia e che appare come una visione o un'allucinazione. Costituita dai più vari materiali, non ne sarebbe tanto un conglomerato quanto un prodotto unitario con un proprio significato autonomo, un'espressione concentrata della situazione psichica totale o un'espressione dei contenuti inconsci costellati in quel momento. Non avrebbe poi né un carattere arcaico né un'importanza collettiva (Jung, 1921). Imago è utilizzata spesso come sinonimo di immagine. Il termine indica comunque, più specificamente, una risonanza psichica della percezione sensoriale e accentua il carattere di indipendenza dai contenuti reali cui si riferisce. In imago c'è anche un riferimento all'antica idea religiosa di imagines et lares. In conclusione, il termine immagine è più vicino alla cosa immaginata di quanto lo sia il termine imago, che mette più in rilievo la sua appartenenza al mondo interno. Si potrebbe anche dire che imago indica una raffigurazione del rapporto soggettivo con l'oggetto. L'imago non nasce dall'oggetto esterno immaginato, ma deve la sua specificità a una disposizione psichica esistente a priori (Jung, 1928-1948).

Imago è un termine molto importante anche per quanto riguarda le concezioni religiose di Jung: quando un uomo parla di Dio, non può che parlare, secondo Jung, dell'immagine che ne ha. Esisterebbe in effetti, nella vita psichica, un'imago dei la cui presenza, da un punto di vista psicologico, sarebbe di grande importanza e del confronto con la quale l'uomo moderno non potrebbe fare a meno. La sua esistenza non garantirebbe però l'esistenza esterna di un Dio.

Con «immagini primordiali» vengono indicate quelle immagini che hanno un carattere arcaico e che appaiono simili a motivi mitoologici. Sono espressione di materiali inconsci collettivi e indicano che lo stato momentaneo della coscienza è sotto l'influenza dell'inconscio collettivo. Immagini primordiali e archetipi - termine che Jung sostiene di aver tratto da sant'Agostino - sono spesso usati come sinonimi. Ma archetipo viene preferibilmente usato quando Jung vuole sottolineare l'aspetto autonomo e impersonale dell'inconscio collettivo. Il termine immagine primordiale infatti lega ancora, in qualche modo, le immagini alle cose che hanno dato origine alle loro percezioni e poi, successivamente, alle loro immagini.

In Istinto e inconscio (1919), il primo testo in cui Jung usa il termine «archetipo» (presente anche in Psicologia dell'inconscio, testo che però, rispetto alla prima stesura del 1917, ha subito rielaborazioni successive), coabitano due concezioni, secondo la prima delle quali gli archetipi sono prevalentemente considerati come forme tipiche della comprensione. Nell'inconscio esistono non solo pulsioni attive, movimenti verso gli oggetti, ma anche forme a priori dell'intuizione, archetipi di percezione e comprensione. Gli istinti conducono a un comportamento specificamente umano, gli archetipi costringono invece in forme specificamente umane la percezione e l'intuizione. Istinti e archetipi dell'intuizione formano l'inconscio collettivo. Nella seconda concezione, istinti e archetipi non sono pensati come separati. L'immagine primordiale è legata a un'intuizione che l'istinto ha di se stesso, è una sorta di autoraffigurazione dell'istinto (Jung, 1919). Le forme della comprensione, da questo punto di vista, sono strettamente connesse alle forme dell' azione. Jung ritiene impossibile stabilire quale dei due, percezione intuitiva o impulso ad agire, possa essere pensato geneticamente primo. Potrebbe anche trattarsi di una medesima attività vitale che il pensiero umano sarebbe costretto a suddividere a causa dei propri limiti.

Attraverso il collegamento tra le forme della comprensione e le forme dell'azione, Jung giunge infine a pensare gli archetipi come nuclei attivi, agenti, della vita psichica, modalità globali di rapporto col mondo. L'immagine primordiale viene concepita come un organismo vivente di vita propria e dotato di potenza generatrice, complementare all'istinto, che comporta un agire finalistico e presuppone una comprensione della situazione corrispondente al senso e aderente allo scopo (Jung, 1921). Possono essere distinguibili due ambiti, quello della sfera istintuale e quello della sfera archetipica. La sfera istintuale rappresenta gli impulsi naturali, l'archetipica le dominanti che emergono alla coscienza come idee generali. Altrimenti detto, l'istinto ha due aspetti: un aspetto fisiologico e un aspetto per il quale le sue molteplici forme entrano nella coscienza come immagini e nessi d'immagini. Gli archetipi possono essere così pensati come le immagini inconsce degli istinti stessi, come dei modelli di comportamento istintuale.

Nella misura in cui gli archetipi intervengono a regolare, a modificare e a motivare nella configurazione i contenuti della coscienza, essi si comportano cioè come istinti. E pertanto proponibile una loro identità alle forme istintuali, ossia ai modelli di comportamento.

Occorre anche dire che per Jung gli archetipi in sé, in quanto pensati come degli a priori, non sono direttamente conoscibili. Si tratta di predisposizioni che se non incontrassero la realtà non potrebbero manifetarsi. Sarebbero conoscibili solo attraverso le loro immagini o rappresentazioni archetipiche. Nel maschio esisterebbe ad esempio l'archetipo a priori della donna, una predisposizione a conoscerla, ma senza un incontro con la madre reale l'a priori sarebbe destinato a rimanere tale. Gli archetipi in sé, come a priori, sono inconoscibili. Sono conoscibili invece le loro manifestazioni, le loro immagini.

La posizione relativa all'inconoscibilità dell'archetipo in sé è, in Jung, epistemologicamente forte. E però facile dimenticarla a causa del fatto che Jung usa spessissimo il termine archetipo per designare ciò che più correttamente avrebbe dovuto chiamare immagine o rappresentazione archetipica. Jung dà per scontato che gli archetipi siano in sé inconoscibili, e ne parla pertanto, talora disinvoltamente, come se il lettore, fosse ben consapevole della differenza tra archetipo e immagine archetipica. L'uso interscambiabile dei due termini ha creato degli equivoci e si è spesso pensato che Jung sostenesse che a manifestarsi alla coscienza siano proprio gli archetipi e non le loro forme immaginative, rese possibili dal necessario rapporto con la realtà.

Nella tradizione filosofica inaugurata da Platone, il termine archetipo indica il modello o l'esemplare originario o l'originale di una serie qualsiasi. Il latino typus rinvia al greco typos che significa percossa, colpo e quindi anche impressione visibile prodotta in un oggetto percuotendolo o premendolo. Archetipi sono state dette anche le idee platoniche in quanto modelli delle cose sensibili e, più frequentemente, le idee esistenti nella mente di Dio come modelli delle cose create. Il termine si trova nelle Enneadi di Plotino, in Proclo, in Filone di Alessandria, in Ireneo, in Dionigi l'Aeropagita e nella letteratura alchemica. Quando, nel Corpus hermeticum, Dio è designato come luce archetipica, ciò significa che Egli è immagine primordiale di ogni luce, preesistente e superiore a ogni fenomeno luminoso (Jung, 1938-1954). Il termine si ritrova anche in Berkeley e in Kant, che distingue un intelletto archetipo, che è divino e crea gli oggetti pensandoli, dall'intelletto ectipo che è umano o finito, discorsivo e non creativo.

La specificità degli archetipi junghiani sta nel fatto di essere proposti da Jung come organizzatori della vita psichica, predisposizioni, cioè, che la rendono possibile. Il mito dell'eroe solare è ad esempio una traduzione spontanea, creativa, da parte della psiche del corso naturale del sole: rappresenta la presa di coscienza del processo fisico a livello psichico. L'archetipo dell'eroe solare nasce da un dato osservativo ed evidenzia il modo con cui la psiche lo sperimenta. La psiche primitiva è colpita dal percorso naturale del sole e crea un mito (quello dell'eroe solare) che costituisce un'appropriazione della realtà bruta e una sua trasformazione in realtà spirituale. Gli archetipi sono così dei principi regolatori ereditati, espressione della creatività della psiche inconscia. Esisterebbe poi una tendenza evolutiva di questa stessa vita psichica inconscia verso una sempre maggiore presa di coscienza. Questa tendenza evolutiva sarebbe evidenziabile sia a partire dall'esame dell'evoluzione umana nel suo complesso, sia dall'esame dei diversi sviluppi individuali volti oggi, nel mondo contemporaneo, all'integrazione tra Io e Sé, alla costituzione di un equilibrio tra le esigenze della psiche personale e quelle del fondo da cui la psiche personale emerge. L'uomo contemporaneo non può pensarsi, cioè, come completamente padrone di sé, perché la tendenza alla propria evoluzione appartiene a un fondo di sé che non può essere comandato ma che anzi autopropone inaspettate possibili soluzioni (talora, per l'Io, di tipo catastrofico). Su una illimitata casualità soggettiva aleggia un oscuro sapere che sorprende e che è testimone dell'esistenza di un fondo creativo non legato, esclusivamente, alla coscienza. Queste caratteristiche delle immagini archetipiche permettono di comprendere come la loro esperienza possa essere di tipo numinoso e di fondamentale importanza psicologica.

Cariche di particolare numinosità sono le immagini archetipiche relative alla sfera religiosa. Quando Jung sostiene che Parchetipo, in quanto immagine dell'istinto, è psicologicamente un fine spirituale verso il quale preme la natura dell'uomo, il mare verso il quale tutti i fiumi dirigono il loro corso tortuoso, il premio che l'eroe strappa lottando col drago intende dire appunto che le immagini archetipiche orientano la psiche verso il fine spirituale che può derivare da un confronto con l'inconscio collettivo. La coscienza individuale, esposta al pericolo di venire sviata dalla propria luce e di diventare un fuoco fatuo privo di radici, agogna alla forza salutare della natura, alle profonde sorgenti dell'essere e alla comunione inconscia con la vita dalle innumerevoli forme (Jung, 1952).

Le immagini archetipiche (le più importan-li sono Anima e Animus, Grande Madre, Eroe, Ombra, Persona, Puer Aeternus e Puella Aeterna, Sé e Senex) sono pertanto pensabili come immagini di modalità di esistenza, come patterns of behaviour sia comprensibili a livello di recezione intuitiva sia agenti nella e sulla realtà. Di fronte alla comparsa di queste immagini l'Io rischia vuoi di rifiutarle vuoi di identificarsi con loro. La crescita psicologica consisterebbe invece in una loro integrazione alla coscienza. Il concetto di archetipo non è, pertanto, un concetto saturo, e presenta molte sfaccettature. Jung ha amato molto lasciare i concetti insaturi e non ha mai racchiuso il proprio pensiero in formulazioni definitive. Sostiene che i contrari sono caratteristiche estreme di uno stato, e che, costituendo una differenza di potenziale, permettono movimenti energetici. L'antitesi spirito/istinto rappresenta una delle opposizioni più generali che ha il merito, ad esempio, di ricondurre a un denominatore comune il maggior numero possibile degli eventi psichici più importanti e complicati.

La più evidente polarità presente nella concettualizzazione della nozione di archetipo è rappresentata dal fatto che esso possa essere pensato sia come un'entità statica che come un'entità creativa e dinamica. Nel pensiero teorico di Jung i due poli coesistono e la loro coesistenza è epistemologicamente sostenibile. Nella sua attività di studioso e di clinico il suo interesse è stato però prevalentemente rivolto all'importanza di un rapporto psicologico con immagini psichiche ipostatizzate.

Col passare degli anni Jung è divenuto un critico sempre più attento della nostra civiltà e ha dato sempre più importanza, da questo punto dì vista, alla necessità, per l'uomo moderno, di mantenere un contatto con la vita psichica più arcaica, con la saggezza accumulata nei secoli. In questo modo, nei suoi scritti, gli archetipi, nonostante teoricamente Jung li considerasse fonti di cambiamento e di sviluppo, appaiono spesso come ipostatizzati. Da un punto di vista teorico Jung pensa che la storia dell'uomo sia aperta verso ulteriori sviluppi rispetto agli stadi oggi raggiunti, che ci sia spazio verso un'ulteriorità. Nel suo pensiero la coscienza nasce dall'inconscio, e non se ne sa il perché. La psiche umana è così mossa da una spinta evolutiva di cui non si conosce il possibile esito ma che proviene dall'inconscio collettivo. A fronte di questa possibile ulteriorità, Jung pone invece, con l'integrazione tra Io e Sé, una finalità ben precisa e appunto ipostatizzata.

Questo aspetto «statico» del pensiero di Jung è stato oggetto, a livello teorico, di molte critiche. Jung, secondo diversi autori, avrebbe finito per considerare gli archetipi come entità non storiche. M. Trevi e M. Innamorati (2000) pensano ad esempio che Jung avrebbe desiderato andare al di là dello strato superficiale della psiche, avrebbe voluto attingere alla psiche oggettiva, a impalpabili e inverificabili archetipi, a una psychologia perennis, una psicologia pronunciata una volta per tutte, una psicologia ne varietur che si ergerebbe, fuori della storia, a una distanza inconfrontabile da ogni altra psicologia. Il dibattito su questo punto è ancora del tutto aperto.

Tra gli autori più interessanti che vi hanno molto riflettuto può essere citato J. Knox (2003), il quale, sostenendo che nel pensiero di Jung coesistono quattro diverse concezioni, pone la classica problematica relativa agli archetipi in connessione con importanti concezioni contemporanee. Gli archetipi sarebbero considerati da Jung: 1) come entità biologiche in forma di informazione (legata ai geni) che fornisce un insieme di istruzioni per la mente come per il corpo; 2) come strutture organizzanti mentali di natura astratta, un insieme di regole e istruzioni senza un contenuto simbolico o rappresentazionale, così da non poter essere mai sperimentate direttamente; 3) come significati centrali che hanno un contenuto rappresentazionale, e che di conseguenza danno alla nostra esperienza un significato simbolico centrale; 4) come entità metafisiche che sono eterne e di conseguenza indipendenti dal corpo. Gli studi relativi allo sviluppo infantile sembrerebbero dimostrare, secondo questo autore, che tutto ciò che è rappresentazionale e ha un significato soggettivo (ciò che appartiene alla terza concezione) sia legato all'esperienza. Ciò che invece non è rappresentazionale (ciò che appartiene alla prima e alla seconda concezione) sarebbe costituito da modelli innati di cui non esiste coscienza e che permetterebbero un primo sviluppo di immagini di schemi (il «contenimento», la «parte e l'intero», la «forza», il «legame», il «su e giù») alla soglia per così dire della rappresentazione. Lo «schema immagine» non sarebbe mai sperimentato direttamente ma costituirebbe come un fondamento, un piano terra della vita psichica; sarebbe pertanto molto simile al concetto junghiano dell'inconoscibile archetipo in sé.

GIUSEPPE MAFFEI