Altruismo

La storia delle idee che possiamo inscrivere nella categoria concettuale della solidarietà è lunga e ricca di sfaccettature e significati. Argomentazioni religiose, filosofiche, politiche e sociali si sono susseguite nel tempo, tra loro alleandosi e scontrandosi in merito al modo di intendere i rapporti fra esseri umani nella sfera pubblica. È comunque nella seconda metà dell'800 che l'idea di solidarietà acquista una forma teorica più definita, sia come principio di organizzazione della vita collettiva, sia come sentimento soggettivo che muove gli individui gli uni verso gli altri.

Infatti, il termine «altruismo» è stato coniato nel 1852 da A. Comte, uno dei padri della sociologia. Nella tradizione positivista dell'autore, così come nei suoi sviluppi successivi, l'altruismo viene concepito come fenomeno necessario alla conservazione della specie, laddove l'egoismo punta alla mera conservazione dell'individuo. L'altruismo assume allora le fattezze di un ideale morale, la suprema legge che dovrebbe governare il mondo degli eventi sociali. Nell'ambito delle scienze sociali il comportamento altruistico verrà pertanto usato, non senza ambiguità e non sempre a proposito, come contraltare delle prospettive edonistiche e utilitaristiche, alimentando le controversie sulla natura umana (egoistica vs altruistica).

Nonostante queste lontane origini sociologiche, l'altruismo tarderà a imporsi come tema d'interesse psicologico. Non mancò certamente, anche da parte dei primi psicologi, l'esortazione a farne oggetto di studio. Basti qui ricordare l'invito di W. McDougall, agli inizi del '900, a considerare l'altruismo all'interno di una psicologia degli istinti, ancorata all'evoluzionismo. Questo e altri sporadici tentativi non produssero però alcun risultato degno di nota.

Uno studio psicologico sistematico dell'altruismo iniziò solo negli anni '60 del secolo scorso, e non a caso. Soprattutto negli Stati Uniti, quel periodo vide la recrudescenza di episodi criminosi, azioni violente cui spesso assistettero numerosi astanti, senza che prestassero un minimo soccorso nei confronti della vittima. Emblematica la vicenda di Kitty Genovese, occorsa il 13 marzo 1964 a New York: una giovane barista aggredita e pugnalata a morte sotto casa, senza che nessuno dei numerosi vicini di casa, testimoni dell'accaduto, muovesse un dito. Prontamente, dai media si levarono cori sdegnati verso un'inerzia considerata incivile, imputata a una crisi del senso di comunità. L'episodio ebbe grande eco e alcuni psicologi raccolsero la sfida di comprendere e spiegare simili accadimenti. Iniziò così il periodo di ricerca che possiamo definire con l'interrogativo «quando le persone aiutano?», volto a indagare le condizioni ambientali, situazionali e relazionali che inducono o meno i singoli a prestare soccorso a chi è in difficoltà.

Dopo un ventennio di indagini in questa direzione, gli studiosi passarono dal «quando» al «perché le persone aiutano?», prestando così particolare attenzione alle motivazioni, altruistiche o egoistiche, che guidano gli individui. Lo sviluppo della ricerca psicologica ha anche prodotto una maggiore complessità concettuale, che si rispecchia nell'arricchimento della terminologia usata dagli studiosi.

Tra le espressioni più importanti vi è quella di «comportamento prosociale», nata in opposizione al comportamento antisociale, per indicare un'ampia gamma di azioni (aiutare, confortare, prendersi cura, condividere, ecc.), liberamente poste in essere e che possono avere radici diverse, altruistiche ma anche egoistiche. Benché il dibattito sia ancora aperto, prevale la tendenza a considerare l'altruismo una manifestazione della più ampia categoria del comportamento prosociale. Pertanto, per altruismo si intende generalmente la disposizione a interessarsi del bene degli altri, anche a costo di sacrifici personali. Il criterio decisivo non risiede nel risultato dell'atto, bensì nella motivazione che guida il comportamento di chi agisce.

Il tema della motivazione ha portato gli studiosi ad affermare che solo le genuine manifestazioni di comportamento prosociale appartengono all'orizzonte dell'altruismo, ossia riguardano quella forma speciale di comportamento d'aiuto intenzionale, oneroso per l'altruista e finalizzato a qualcosa di diverso dall'ambire a ricompense. Gli psicologi distinguono così l'aiuto egoistico, il cui scopo primario è il beneficio di chi agisce, dall'aiuto altruistico, il cui obiettivo principale è il benessere altrui.

Così come i problemi condensati nel concetto di altruismo vedono la luce ben prima del termine che li identifica, analogamente il modo con cui oggi, in psicologia, si dibatte questo tema risente inevitabilmente della passata storia delle idee. Un'eredità di domande e risposte non ancora giunta a una sintesi unitaria. Infatti, sebbene non manchino tentativi di integrazione, lo studio dell'altruismo in psicologia vede confrontarsi diverse prospettive teoriche, che mirano a spiegare il comportamento altruistico adottando punti di vista molto distanti. Alcune offrono preminenza all'analisi dei fattori innati, altre alla cultura e all'apprendimento; parallelamente, si scontrano gli approcci che enfatizzano il ruolo del singolo individuo contro quelli che riconducono la questione alla dimensione situazionale e collettiva.

Tra gli approcci innatisti, la teoria psicoanalitica, che concepisce la natura umana come sostanzialmente egoistica, assume in proposito posizioni eterogenee, non sempre convincenti. Alcuni psicoanalisti considerano l'altruismo come una forma difensiva contro ansie e conflitti interni, lasciando trapelare l'idea che l'essere umano non possa prendersi cura autenticamente degli altri. Il tentativo di sfumare questa visione pessimistica ha orientato l'attenzione sui processi educativi che influenzano positivamente la formazione della personalità altruistica e agiscono come argini che riducono la forza dell'egoismo.

Anche la teoria evoluzionistica non è in grado di offrire spiegazioni esaustive intorno al tema dell'altruismo. La tradizionale logica della selezione naturale prevede che riproduzione e vita dipendano dai geni dell'individuo più adattabile e capace di resistere all'ambiente, ma, poiché l'altruismo crea svantaggi al singolo che può mettere a repentaglio la propria vita per gli altri, nasce il problema di definire come i suoi geni possano essere trasmessi e come siano arrivati fino a lui. Di fronte a questo interrogativo, i sociobiologi, in accordo con gli etologi, precisando che non bisogna parlare di individui bensì di geni più adatti, introducono il concetto di «selezione parentale» (Hamilton, 1964) per indicare il processo evolutivo delle caratteristiche che contribuiscono alla sopravvivenza dei geni della parentela. Quando si sacrifica per la sopravvivenza della comunità o della famiglia, producendo così la perdita dei propri geni che vengono esclusi dal ciclo riproduttivo, l'individuo favorisce la diffusione delle attitudini altruistiche, le quali sopravvivono come patrimonio genetico del gruppo.

Questa prospettiva, come quella psicoanalitica, considera quindi l'altruismo in termini di egoismo: l'interesse è trasmettere il patrimonio genetico familiare. La selezione parentale può spiegare l'inclinazione umana ad aiutare i parenti, ma lascia aperto il problema dell'aiuto prestato a estranei.

Per fornire una spiegazione a un simile comportamento viene introdotto un altro concetto, quello di «altruismo reciproco» (Trivers, 1971). L'individuo può mettere in pericolo la propria vita per aiutare uno sconosciuto se si aspetta che in futuro questo favore venga contraccambiato. In tali frangenti, la selezione favorisce i geni che predispongono all'altruismo perché gli atti altruistici implicano reciprocità, la quale garantisce all'individuo soccorritore un aumento delle probabilità future di sopravvivenza e riproduzione.

Lo psicologo dello sviluppo M. Hoffman ha cercato conferme all'idea che l'altruismo sia una costituente essenziale della natura umana. Secondo lo studioso la qualità, dipendente da fattori genetici, che sottende l'altruismo è l'empatia, ossia l'esperienza vicaria delle emozioni altrui. Studi condotti con neonati sembrano confermare questa ipotesi, dimostrando che gli esseri umani, sin dalla nascita, sono predisposti a reagire in modo corrispondente al disagio di loro pari (Sagi e Hoffman, 1976).

E' dato per certo ormai che nel comportamento sociale la dimensione biologica giochi un ruolo importante. Dato però che gli stessi sociobiologi ammettono l'importanza della mediazione culturale, diventa difficile stabilire le specifiche modalità tramite cui i fattori biologici influenzano il comportamento. La cultura infatti ha il potere di condizionare persino i bisogni più fortemente determinati in senso fisiologico, come la fame e il sonno. Nella prima infanzia il bambino soddisfa queste esigenze quasi d'istinto, ma attraverso il processo di socializzazione egli acquista progressivamente la capacità di rispondere a tali stimoli con una vasta gamma di comportamenti, in base agli usi e costumi della società del suo tempo. La posizione antistorica della sociobiologia manifesta in misura ancora maggiore i propri limiti di fronte al tema dell'altruismo.

Per quanto si possa ammettere che gli esseri umani siano evolutivamente predisposti all'altruismo, resta però da capire da che cosa siano determinate le enormi differenze che caratterizzano i comportamenti di solidarietà in diverse culture e gruppi umani. Per esempio, l'altruismo esercitato nelle pratiche di volontariato si rende intelligibile, in questa nostra società contraddistinta da individualismo e regolata da principi funzionali all'interesse, solo se lo si considera come un appagamento dei bisogni di identità personale e di appartenenza politica a gruppi che guardano alla dignità umana e alla giustizia come a valori irrinunciabili. Inoltre, sui comportamenti altruistici gioca una certa influenza anche la sfera delle esperienze, in particolare i rapporti familiari e le pratiche educative. La teoria dell'apprendimento sociale sostiene infatti che il nostro modo di agire sia l'esito di apprendimenti, conseguiti attraverso rinforzo, osservazione e imitazione di modelli (Bandura, 1977). L'azione del modello, soprattutto in situazioni ambigue, serve come punto di riferimento per capire quale sia la condotta più appropriata in determinati contesti. Nello scenario delle disposizioni che regolano la vita collettiva, nel caso di comportamenti altruistici, il modello assume il ruolo di fattore attivante nei confronti delle norme che prescrivono di aiutare chi si trovi in difficoltà.

In questo problematico orizzonte è quindi importante capire quali siano le situazioni in cui le persone dimostrano di agire in modo altruistico o da indifferenti, quali processi emotivi e cognitivi influenzino tali condotte e che tipo di relazione si instauri tra fattori sociali e dinamiche individuali, in merito alla disciplina normativa con cui le varie culture governano i rapporti umani. Poiché i comportamenti altruistici sono ritenuti un bene per la collettività, capire se vi siano persone dotate di caratteristiche stabili di personalità predisposte all'altruismo è stato uno degli obiettivi perseguiti dagli psicologi. Purtroppo, la ricerca del «buon samaritano» non ha dato i frutti sperati (Zamperini, 2001). La relazione tra comportamenti d'aiuto e fattori personali (ad esempio, possedere un alto profilo morale, una buona autostima, capacità d'empatia, abilità nell’assumere prospettive altrui, ecc.) è piuttosto inconsistente. Le situazioni d'aiuto sono talmente varie che è impossibile prevederne l'accadere attraverso i tratti di personalità di singoli individui. Nei diversi contesti possono infatti agire fattori che inibiscono le caratteristiche soggettive, o norme sociali che prescrivono di prestare soccorso alla vittima.

Da un punto di vista normativo, la spiegazione del comportamento di aiuto viene ricondotta all'interiorizzazione di norme o standard collettivi assunti attraverso apprendimento sociale. Una di queste è la norma della responsabilità sociale, che impone di aiutare i bisognosi, per cui le persone dovrebbero essere più propense ad aiutare quanti dipendono da loro. Ad esempio, possiamo riconoscere tale norma nelle relazioni di coppia o nei rapporti amicali, quando una delle parti si trova in difficoltà e riceve sostegno dall'altra. Parallelamente, la norma della reciprocità impone che le persone aiutino e non danneggino coloro che le hanno favorite. Si tratta di una norma connessa al principio di equità che regola le relazioni interpersonali. Secondo questa prospettiva, ogni attore dovrebbe ricevere in proporzione al contributo che ha precedentemente dato ad altri. Se le norme suddette costituiscono obblighi morali di carattere generale, le stesse possono coniugarsi secondo le differenti realtà individuali, costituendo le norme personali, che si riferiscono alla soggettiva percezione del senso di obbligo ad agire in modo altruistico. Esse si sviluppano in specifiche situazioni di aiuto; i sentimenti di obbligazione nei confronti degli altri motivano la condotta di soccorso che è ricompensata da sensazioni positive, perché tale azione rispetta gli standard morali.

Se l'obbedienza alle norme sociali aderisce alle esigenze della collettività, le norme personali sono funzionali ai bisogni soggettivi, e così come le persone possono differire rispetto alle loro specifiche credenze normative, esse si differenziano altresì in merito alla tendenza ad agire conformemente alle stesse. Infine va ricordato che, seppure implicitamente, alcune norme di fatto inibiscono l'altruismo. La valutazione degli investimenti individuali e dei guadagni ottenuti è un elemento centrale della «teoria del mondo giusto» (Lerner, 1980). Nel corso del processo di socializzazione, i soggetti sviluppano l'idea di giustizia in base al merito, ritenendo che le persone ottengano ciò che meritano. Ma questa credenza produce dei problemi. Per esempio, quando alcuni individui si trovano in situazioni precarie, determinate azioni altruistiche potrebbero rimediare al loro disagio. Ma se ciò accadesse, significherebbe ammettere che il mondo è ingiusto; per non mettere in crisi tale credenza la gente è spesso indotta a ritenere che chi è svantaggiato sia anche responsabile della propria condizione e quindi non meritevole d'aiuto.

La maggior parte delle norme attesta la bontà e l'appropriatezza dei comportamenti altruistici. In molti casi, però, gli urgenti bisogni altrui non ricevono l'aiuto che servirebbe, prescritto normativamente, perché l'adesione a tali norme è più teorica che pratica. Inoltre, non sempre le norme sono prontamente rispettate, poiché le situazioni d'emergenza possono risultare ambigue e non facilmente decifrabili. E' quindi importante capire quali siano le caratteristiche delle situazioni che possono inibire una condotta d'aiuto. Partendo dagli studi sul comportamento degli spettatori in situazioni d'emergenza, sono state identificate cinque fasi nel processo che produce aiuto: accorgersi che sta accadendo qualcosa, considerare la situazione come emergenza, decidere quali responsabilità assumersi per intervenire, scegliere il tipo di intervento e stabilire di attuarlo. Una risposta negativa a ciascuno di tali livelli significa che la vittima non viene soccorsa (Latané e Darley, 1970).

L'effetto spettatore, che comporta il non prestare aiuto all'altrui bisogno, dipende da alcuni fattori situazionali. In primo luogo, l'influenza sociale. L'ambiente influenza ciò a cui prestiamo attenzione; ad esempio, nei centri urbani, più che nelle piccole località, essa è focalizzata su faccende rilevanti a livello personale, per cui i bisogni di estranei potrebbero non essere notati. Ma anche quando fossero rilevate, le situazioni di aiuto sono spesso ambigue, e perciò lo spettatore osserva il comportamento degli altri per capire che cosa stia accadendo. Si dà ignoranza collettiva quando l'indifferenza di alcune persone verso chi è in pericolo si estende ad altri spettatori; l'inerzia promuove l'idea che probabilmente non ci sia nulla di cui preoccuparsi. In tal modo, ogni spettatore che si dimostri incerto diventa un modello di passività, in grado di influenzare negativamente gli altri. In secondo luogo, la diffusione di responsabilità. Stabilito che è una circostanza critica, si tratta di decidere chi si assumerà la responsabilità dell'intervento. Quando uno spettatore è consapevole che altri sono presenti e disponibili a rispondere all'emergenza, anche se non può vederli o non può essere visto, si crea una condizione in cui viene distribuita su di loro una parte della responsabilità, riducendo il coinvolgimento soggettivo. L'effetto di diffusione della responsabilità tende ad aumentare con l'incremento del numero degli spettatori. Il fenomeno può essere visto anche come una riduzione dei costi psicologici associati all'inerzia: quando altre persone sono presenti i costi possono essere condivisi e la norma della responsabilità sociale viene indebolita.

In terzo luogo, l'inibizione da pubblico. Lo spettatore che decide di intervenire corre il rischio di essere messo in imbarazzo se la situazione viene mal interpretata e quindi se non si dà alcuna reale emergenza. Ma soprattutto, la presenza di altri può inibire l'azione d'aiuto perché chi agisce può temere una valutazione non positiva per il proprio operato. Il timore del giudizio altrui aumenta quando lo spettatore non sa valutare se essere o meno all'altezza della situazione. Risulta così evidente che in un contesto di aiuto le persone stabiliscono un rapporto tra costi e benefici, cercando di minimizzare i primi e massimizzare i secondi, analisi che, come appena detto, è influenzata da fattori situazionali. Essendo però i costi e i benefici legati a percezioni soggettive, le caratteristiche della persona in difficoltà e le differenze individuali tra i potenziali soccorritori possono influire sulla valutazione. Per esempio, atteggiamenti e sentimenti positivi verso la persona bisognosa, basati su relazioni precedenti, similarità o attrazione, possono aumentare le ricompense dell'intervento (perché la gratitudine del ricevente è elevata), abbassare i costi dell'aiuto (poiché diminuisce la preoccupazione rispetto alla reazione all'offerta di soccorso), e persino incrementare i costi dell'inerzia (perché sarebbe troppo forte il sentimento di vergogna). Tutto ciò aumenta la probabilità che venga messa in atto una qualche forma di assistenza.

Le differenze di genere nei comportamenti di aiuto si rendono a loro volta comprensibili, almeno in parte, sulla base della diversa percezione tra costi e benefici: ad esempio, le donne possono essere meno disposte, rispetto agli uomini, a prestare soccorso a un autostoppista maschio perché il costo percepito (il potenziale pericolo di subire aggressioni o furti) è molto alto. Inoltre, le persone tendenzialmente usano il loro umore temporaneo come informazione, recuperando ricordi a esso associati, per valutare la situazione; ad esempio, la percezione della mancanza di pericolo può prodursi come conseguenza del fatto di essere di buon umore, facilitando quindi atti prosociali.

Se per un verso il calcolo razionale tra costi e benefici non è sufficiente a spiegare prosocialità e altruismo, per l'altro i fenomeni che li inibiscono talvolta funzionano senza che i soggetti ne siano consapevoli. Altresì il processo decisionale che produce aiuto non sempre rispetta una logica sequenziale per fasi. Le situazioni d'emergenza, per loro natura, sono pericolose, imprevedibili e incalzanti, e perciò producono emozioni forti e stress, che interferiscono sulle capacità di pianificare l'azione. Nello stesso tempo, certe emergenze sono talmente evidenti, gravi e coinvolgenti da mobilitare gli spettatori in maniera spontanea, inducendo ad agire «irrazionalmente». In molti casi l'aiuto è impulsivo, e solo a posteriori viene razionalizzato, magari definendolo eroico. Più sopra abbiamo indicato un ulteriore aspetto che influenza le situazioni di aiuto: il ruolo motivazionale delle emozioni.

Il «modello costi-benefici dell'attivazione» sostiene che la visione della sofferenza altrui susciti nello spettatore sentimenti spiacevoli che lo motivano a modificare la situazione (Dovidio et al., 1991). Quando le emozioni negative sono troppo intense e si danno poche possibilità di intervento, la soluzione migliore è la fuga. Ma allorché i bisogni della vittima siano evidentemente gravi e sembri possibile intervenire, il livello di attivazione emozionale si riduce tramite l'azione di soccorso. Il fattore determinante per la messa in essere dell'aiuto è che il vissuto di disagio sia determinato dal vedere i patimenti del sofferente e non da altro. Sebbene si dia un certo accordo rispetto all'idea che l'empatia motivi al soccorso, il consenso si riduce quando si discute sulla natura di tale sentimento e sulle sue qualità motivazionali.

Infatti, a seconda delle situazioni, l'attivazione viene interpretata diversamente: in occasioni di emergenza, lo spettatore risponde sconvolto e mostrando grande sofferenza; in condizioni meno critiche, egli può sembrare triste e angosciato oppure compassionevole. Inoltre, le inferenze possono creare un'esperienza emotiva che guida l'azione. Ad esempio, l'attribuzione di un certo evento a cause incontrollabili, come può essere una malattia incurabile, determina una partecipazione che induce al comportamento d'aiuto. Viceversa, cause controllabili, come il non rispetto delle prescrizioni mediche, generano rabbia e quindi inibiscono l'aiuto. L'attivazione interpretata come tristezza e angoscia può produrre una motivazione all'aiuto di tipo egoistico, in quanto il prestare soccorso migliora la condizione emotiva. Il «modello del sollievo dallo stato d'animo negativo» sostiene che quando gli individui patiscono sentimenti opprimenti, come angoscia o colpa, sono spinti ad alleviare la propria condizione in ogni modo (Cialdini et al., 1987). In tal senso, attraverso la socializzazione e l'esperienza, le persone apprendono a ridurre uno stato psicologico negativo anche aiutando gli altri. Secondo questo modello, il potenziale benefattore non sarebbe motivato a offrire aiuto quando altre soluzioni possano arrecare sollievo e precedano l'opportunità di aiutare, oppure qualora egli non creda che l'aiuto sia in grado di migliorare il suo umore, come accade ad esempio nella depressione. Anche in tal caso, si tratta di una prospettiva teorica che pone alla base della motivazione altruistica un fondamento esclusivamente egoistico.

In contrasto con questa visione, il «modello dell'empatia-altruismo» (Batson, 1991), senza negare il fattore egoistico, afferma che esiste altresì il vero altruismo. L'essere testimoni delle disgrazie altrui può produrre varie esperienze emotive, e il disagio personale che costituisce l'aiuto egoistico non è l'unica leva su cui si impernia la volontà di aiutare il prossimo. Il provare un interesse empatico (simpatia, compassione) crea infatti un'autentica motivazione altruistica. Coloro che sperimentano un simile stato emotivo offrono il proprio aiuto nonostante possano sottrarsi alla situazione. Esistono ormai numerosi studi che confermano la tesi secondo cui i comportamenti di aiuto possono essere informati da un processo di immedesimazione e di genuino interesse verso la vittima. Quindi la ricerca sul ruolo delle emozioni nei comportamenti prosociali ridimensiona la portata esplicativa dei modelli basati su un'algebra cognitiva tra costi e benefici, restituendo un'idea di umanità più positiva.

Sebbene l'altruismo costituisca un tema di ricerca aperto, i problemi sollevati e le risposte fornite (alcune ancora provvisorie) godono di un grande rilievo sociale. Soprattutto alla luce della diagnosi prevalente della società contemporanea e dell'immagine poco lusinghiera di essere umano che ne deriva. Avidi di beni e successo, gli individui sarebbero impazienti e sempre alla ricerca di modi rapidi per soddisfare i propri bisogni. Nel contempo, si dimostrano apatici e indifferenti verso la sorte altrui. L'idea che se ne ricava è quella di un individuo estraneo alle vicende del mondo e ripiegato in se stesso, nella deriva della cultura del narcisismo collettivo. Da qui discende una serie di problemi sociali, tra cui: l'indebolimento dei legami interpersonali (familiari e amicali), la scarsa partecipazione alla vita comunitaria (erosione del senso civico), i dilemmi nell'allocazione di beni scarsi e più in generale il tema dell'insorgenza della cooperazione (razionalità individuale vs razionalità collettiva), fenomeni di intolleranza e violenza (sociali e interculturali).

Brevemente, possiamo ricordare la ricaduta degli studi sull'altruismo per la comprensione del comportamento umano nel caso di calamità e disastri, un sapere trasformatosi in pratiche formative per gli operatori della protezione civile; la connessione con le reti di sostegno sociale, ossia con le attività informali di aiuto a disabili, anziani, senza casa, immigrati: l'altruismo costituisce infatti un elemento centrale nel volontariato. Ancora, l'intreccio con le professioni d'aiuto e in particolare con quel coinvolgimento emotivo e relazionale che, se non adeguatamente assistito, spesso può creare un forte disagio personale in chi lavora quotidianamente faccia a faccia con la sofferenza (il noto fenomeno del burn-out). Un'agenda di temi rilevanti, al cui cospetto i ricercatori sono chiamati a rifuggire dal ricorso a una vaga e generica motivazione altruistica (contrapposta a quella egoistica), per indirizzarsi invece verso l'analisi della molteplicità di scopi e intenzioni che possono guidare la condotta umana. Differenti da cultura a cultura, da situazione a situazione, da individuo a individuo.

ADRIANO ZAMPERINI