>Allucinazione

La parola «allucinazione» deriva dal latino hallucinatio, il cui spettro semantico spazia da errore, smarrimento, traviamento a cantonata, equivoco, abuso. Fino al XVIII secolo il termine ha un'accezione vaga, anche se sempre riferita alle esperienze sensoriali collegate alla patologia mentale o a particolari condizioni della mente (esperienze religiose ed estatiche). Nell'800, con l'opera di J. Esquirol, «allucinazione» viene a far parte a pieno titolo del vocabolario medico-psichiatrico. Nella sua opera Des maladies mentales (1838) troviamo un capitolo titolato Des hallucinations, che si apre con due frasi che avranno una portata decisiva: un uomo - scrive Esquirol - che ha la convinzione intima di una sensazione attualmente percepita mentre nell'ambiente esterno non c'è alcun oggetto, in vicinanza dei suoi organi di senso, in grado di suscitare tale sensazione, è in uno stato di allucinazione: è un visionario. E posta così una definizione talmente appropriata che, alla fine del '900, G. Asaad e B. Shapiro, in una tra le più quotate rassegne sull'argomento, la riprendono affermando che le allucinazioni possono essere definite come percezioni che si realizzami i n assenza di uno stimolo esterno appropriato e che possono riguardare ogni forma di sensibilità esterna, interna, propriocettiva e cenestesica.

Quasi un secolo e mezzo dopo Esquirol, un altro grande psichiatra francese, H. Ey, che ha dedicato alle allucinazioni un'opera capitale (1973), aggiunge una sfumatura alla storica definizione la quale diventa: l'allucinazione è una percezione senza oggetto da percepire. Il maestro di Bonneval spiega l'apparente tautologia dicendo che l'allucinazione consiste nel percepire un oggetto che non deve essere percepito o, che è lo stesso, che è percepito solo mediante una falsificazione della percezione.

Comunque, con Esquirol, l'allucinazione entra a pieno titolo a far parte della semiologia dell'alienazione mentale la quale in quel periodo, sulla scorta del Trattato di Ph. Pinel (1801), non è ancora distinta in malattie, ma connotata da stati: mania, melanconia, demenza e idiotismo. In quanto segno di alienazione mentale, l'allucinazione deve essere differenziata da altri fenomeni che le somigliano, ma che non devono essere confusi con essa. E il primo passo verso quella che si chiamerà diagnosi differenziale. Così, l'allucinazione si distingue dal sogno per il fatto che, mentre il sognatore dorme, l'allucinato è sveglio; rispetto al sonnambulismo la differenza risiede invece nel fatto che, mentre il sonnambulo non si ricorda niente, l'allucinato ricorda bene tutte le sue false percezioni.

Esquirol ritiene che l'allucinazione dipenda dall'organo centrale, dal cervello, e non da un'alterazione delle estremità nervose sensibili e ricorda che, se i sordi possono avere allucinazioni dell'udito e i ciechi allucinazioni visive, è perché il sintomo allucinatorio, presente in ottanta alienati su cento, è un fenomeno intellettuale, cerebrale, e non dipende dall'efficienza dei sensi. Su questa base Esquirol pone la distinzione fondamentale tra allucinazione e illusione; infatti, al contrario che per le allucinazioni, nelle illusioni troviamo alterata la sensibilità delle estremità nervose. Le illusioni possono colpire tutti i vari sensi e possono verificarsi in condizioni di assoluta sanità mentale. Lo stesso non vale per le allucinazioni. Quindi l'allucinazione diventa segno distintivo nella psichiatria che si affaccia verso la modernità.

Ma si deve aggiungere che questo segno può essere individuato e selezionato: quando uno psichiatra incontra un uomo che è convinto in modo incrollabile di percepire un oggetto che non c'è, si pone il problema del racconto di una tale esperienza vissuta. Si devono presentare allora, affinché ciò accada, almeno tre condizioni: il paziente deve accettare di confidare al clinico taluni aspetti della sua esperienza vissuta; deve quindi avere molta fiducia in lui, oltre che saper osservare bene se stesso; l'esperienza che in tal modo viene narrata deve essere quella di una evidenza percettiva esterna assolutamente certa, di modo che l'esperienza del paziente possa essere condivisa; il clinico, infine, deve essere sicuro che non esista alcun oggetto atto a suscitare la percezione del paziente. E posto così il problema del valore relazionale e comunicativo dell'allucinazione.

Dopo Esquirol, J. Baillarger si occupa di allucinazioni in un lavoro che presenta nel 1846 all'Accademia: Des hallucinations, des causes qui les produisent, et des maladies qui les caractérisent. Egli accetta implicitamente la definizione del suo predecessore, ma introduce una distinzione che resterà fertile: quella tra allucinazioni psicosensoriali e allucinazioni psichiche. Le prime sono, per così dire, complete, essendo composte da due elementi ed essendo il risultato dell'azione congiunta dell'immaginazione e degli organi di senso; le seconde sono invece incomplete, essendo dovute esclusivamente all'azione involontaria della memoria e non implicando in alcun modo l'attività degli organi di senso. Baillarger descrive dapprima le allucinazioni psicosensoriali, sottolineando che l'impressione che determinano nei pazienti è tanto realistica quanto quella delle sensazioni normali e si dilunga a descrivere le caratteristiche per ciascuna sensorialità, al fine di poterle tenere ben distinte dalle allucinazioni psichiche. Quest'ultime sono fenomeni che riguardano esclusivamente il pensiero e i pazienti affermano di ascoltare il pensiero di altri spiriti, non solo voci; si tratta di un linguaggio del pensiero del tutto interiore e le varie sensibilità non sono coinvolte. Nella seconda metà dell'800 comincia per la psichiatria una nuova èra: si passa dal paradigma della patologia unica, l'alienazione mentale, a quello fondato sulla distinzione delle diverse entità patologiche. L'individuazione delle singole malattie mentali, con la loro storia naturale, la patogenesi, i sintomi, il decorso, l'esito, comporta delle conseguenze anche per quanto riguarda l'allucinazione. Questo segno, ci si chiede, è caratteristico di tutte le malattie mentali o solo di qualcuna di esse? E sempre presente insieme al delirio oppure no? La sua presenza denuncia una particolare gravità della malattia?

Con l'opera di J. Séglas, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, la semiologia relativa alle allucinazioni si arricchisce notevolmente: ciò è favorito dallo studio della corteccia cerebrale che, in pochi anni, conosce un progresso impressionante, dall'individuazione dei centri del linguaggio sensitivo e motore (area di P. Broca e di C. Wernicke), dallo studio delle afasie e dalla chirurgia sperimentale sugli animali. Il libro più importante di Séglas, Des troubles du langage chez les aliénés (1892), fa tesoro di tutti i progressi della conoscenza del sistema nervoso centrale e riesce a innovare radicalmente il problema delle allucinazioni. Sulla scorta dell'analisi delle amnesie verbali, egli si scontra con il problema delle allucinazioni verbali, separando, all'interno di questo gruppo, le allucinazioni verbali uditive, visive e psicomotrici. È il primo a compiere questa operazione teoricamente complessa: l'allucinazione verbale può essere studiata sul calco del modello per le afasie, anzi, può essere considerata il reciproco inverso dell'afasia. A questo punto egli introduce la sua innovazione più originale: l'allucinazione psicomotrice verbale. Una vera e propria rivoluzione concettuale, perché completa un percorso neurofisiologico che invece era interrotto in qualsiasi teoria precedente: abbiamo quindi le allucinazioni psicosensoriali verbali che caratterizzano la fase recettiva delle «voci» e le allucinazioni psicomotrici verbali che insistono sulla fase emissiva delle «voci».

Forse il raddoppio del modello dell'afasia, che vede all'opera l'opposizione tra ricezione ed emissione, anche per l'allucinazione verbale soffre per una qualche forzatura didattica, ma è un fatto che si osservano pazienti che non solo «sentono le voci», ma anche «parlano con esse» instaurando un vero e proprio dialogo allucinatorie. Nel 1934 D. Lagache riprenderà le idee di Séglas nella sua tesi di dottorato Les hallucinations acoustico-verbales. E un compendio sul problema delle allucinazioni tra i più preziosi di tutta la letteratura psichiatrica. L'autore vi sottolinea che le allucinazioni psicomotrici verbali costituiscono un sintomo più grave rispetto a quelle uditive: esse interessano il senso muscolare, uno degli elementi della cinestesi, che costituisce la base fondamentale del senso di sé nello spazio e della personalità. Dal punto di vista clinico, le allucinazioni motrici verbali sono in relazione con un disturbo della personalità più accentuato rispetto a quello relativo alle allucinazioni uditive o implicanti le altre sensorialità. Le allucinazioni psicomotrici verbali interessano soggetti complessivamente più vulnerabili e sono un segno di cronicità; nella evoluzione dei deliri sono le ultime a comparire, ma anche le più persistenti. Queste allucinazioni sono espressione sia di un diminuito tono di vigilanza, sia di una modalità automatica di funzionamento mentale, In conclusione, si può affermare che le allucinazioni motrici verbali traducono una disgregazione mentale più profonda di quella manifestata dalle allucinazioni uditive. Dal punto di vista della semiologia, della descrizione fenomenica, della psicopatologia, il contributo degli psichiatri francesi è stato nettamente più rilevante rispetto ai loro colleghi degli altri paesi europei: ciò, naturalmente, se si esclude l'apporto della psicoanalisi e della fenomenologia allo studio dell'allucinazione.

Tuttavia, non è possibile trascurare un lavoro di E. Bleuler intitolato L'origine et la nature des hallucinations ( 1922). Tale scritto ha la peculiarità di insistere sul concetto di rappresentazione, e in questo si ricollega direttamente al punto di vista psicoanalitico. L'autore minimizza il ruolo dei sensi nel prodursi dell'allucinazione e sostiene che la rappresentazione si comporta come una percezione prolungata nel tempo, come una percezione che sopravvive a se stessa. Bleuler distingue poi i fenomeni del delirium tremens dalle allucinazioni vere e proprie: queste sono definite quali rappresentazioni cui il soggetto attribuisce un valore percettivo; non implicano alcunché di sensoriale, sebbene gli allucinati siano convinti di percepire qualche cosa e il loro meccanismo di produzione sia del tutto inconscio.

Nelle opere dedicate al fenomeno allucinatorio, Ey si discosta non poco dalla posizione del maestro di Zurigo, in particolare per quanto concerne l'adesione all'ipotesi psicogenetica della psicoanalisi. Le tesi di fondo erano già state espresse in Hallucinations et délires (1934), ma sono poi state riprese, ampliate e approfondite nell'opus magnum del 1973 nel quale Ey assume l'allucinazione a paradigma della sua concezione globale della psichiatria. Ispirandosi agli scritti di J. H. Jackson, nella sua «ricerca della percezione perduta», come lo stesso Ey defisce il suo Traité des hallucinations, mette in evidenza quattro idee direttrici che sono più volte riproposte: la prima riguarda il Lillo che l'allucinazione è un fenomeno patologico, eterogeneo rispetto alla molteplicità di illusioni che fanno parte del normale funzionamento dell'immaginazione. La seconda è un'idea ancora più semplice e consiste nel considerare il fenomeno allucinatorie come irriducibile alla teoria meccanicista che lo concepisce come un effetto dell'eccitazione neurosensoriale. La terza idea può essere definita antipsicogenetica, ma è forse più proprio dire antipsicoanalitica: la comparsa di un'allucinazione non può infatti essere ridotta alla sola proiezione di un affetto, anche se inconscio. La struttura negativa dell'allucinazione, le sue caratteristiche formali sono incompatibili con la forza del desiderio considerata per sé sola e richiedono un'altra dimensione, quella del deficit o, meglio, quella di una breccia nel sistema della realtà. La quarta idea, infine, è che per comprendere e spiegare l'allucinazione è necessario il ricorso a un modello gerarchizzato dell'organismo psichico. Essa, infatti, può manifestarsi solo in presenza di una disorganizzazione dei sistemi psicosensoriali.

A questo punto è necessario dar conto di quanto ha detto la psicoanalisi a proposito dell'allucinazione: a tale scopo si prenderanno in considerazione alcuni scritti di S. Freud e di pochi altri psicoanalisti perché, sul tema, l'essenziale lo troviamo nell'inventore della psicoanalisi. In quello che può essere ravvisato come un percorso freudiano per una teoria dell'allucinazione, ci accorgiamo che le idee fondamentali sono comprese in opere apparse prima del 1900, ma che sono poi rielaborate per lo meno fino al 1924. Le intuizioni freudiane sull'allucinazione possono essere raccolte in tre gruppi di idee: il primo vede l'allucinazione come espressione del ritorno del rimosso, cioè come sintomo comprensibile alla stregua di quello nevrotico; il secondo vede invece l'allucinazione in quanto modalità generale di costituzione del desiderio umano; il terzo, infine, vede l'allucinazione come fenomeno che si manifesta attraverso meccanismi psichici.

Se si guarda attentamente agli scritti di Freud ci si accorge che i concetti attorno ai quali ruota la sua teoria dell'allucinazione sono i seguenti: esperienza di soddisfazione; identità di percezione; regressione e realtà. Fin dall'inizio Freud associa l'allucinazione a un fenomeno di portata generale: la soddisfazione allucinatoria del desiderio. Nel suo Progetto di una psicologia (1895) Freud arriva a questa formulazione considerando quanto sia difficile scaricare, attraverso le emozioni o le attività muscolari (grida, pianto), quegli stati di tensione interna come, per esempio, la fame. Ben presto il bambino piccolo fa l'esperienza che per rispondere ai suoi bisogni è necessario che intervenga una forza esterna, rappresentata dalla figura che si occupa di lui: solo questo può portarlo all'esperienza di soddisfazione. Quindi - pensa Freud - ogni nuovo stato di tensione interna riattiverà l'« immagine mnestica» dell'oggetto legato alla soddisfazione e questa riattivazione fornisce fin da subito qualcosa di analogo a una percezione, cioè, un'allucinazione. L'interpretazione dei sogni (1899a) arricchisce questa teoria inserendola nel contesto più ampio di quella che è ormai la creatura della psicoanalisi: l'apparato psichico. Appena ricompare il bisogno una seconda volta - scrive Freud nel suo capolavoro - si avrà un moto psichico che intende reinvestire l'immagine mnestica corrispondente alla percezione derivata dall'esperienza del primo soddisfacimento. Un moto di questo tipo lo chiama desiderio, e abbiamo così che la ricomparsa della percezione è l'appagamento del desiderio e l'investimento pieno della percezione, a partire dalla tensione del bisogno, è la via più breve verso l'appagamento del desiderio. Nulla ci impedisce di ammettere - è questa l'idea centrale di Freud - uno stato primitivo dell'apparato psichico, nel quale questa via viene realmente percorsa in questo modo e l'atto del desiderio sfocia quindi in un'allucinazione. Questa prima attività psichica mira dunque a un'identità di percezione, vale a dire alla ripetizione della percezione che è collegata col soddisfacimento del bisogno.

Per le allucinazioni dell'isteria, della paranoia e per le visioni di persone sane di mente - scrive ancora Freud - si può dare la spiegazione che esse di fatto corrispondono a regressioni, vale a dire sono pensieri tramutati in immagini, aggiungendo che subiscono questa trasformazione soltanto i pensieri intimamente connessi con ricordi repressi o rimasti inconsci.

Nel saggio Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno (1915d) Freud riprende la sua tesi del 1899 relativa alla regressione e aggiunge di poter formulare l'ipotesi che l'allucinazione consista in un investimento del sistema cosciente, il quale non si attua però, come di norma, dall'esterno, ma dall'interno, e necessita per prodursi che la regressione proceda tanto in là da raggiungere lo stesso sistema cosciente, riuscendo in tal modo a porsi al di sopra dell'esame di realtà. E a questo punto che in nota Freud scrive che ogni tentativo di spiegare l'allucinazione dovrebbe prendere in considerazione non tanto l'allucinazione positiva, quanto piuttosto l'allucinazione negativa. Su quest'ultimo tipo di allucinazione Freud non ha scritto molto, ma il suo concetto è già adombrato nel Progetto e in Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di Jensen (1906), in cui il giovane archeologo Hanold aveva il dono dell'allucinazione negativa, cioè, l'arte di non vedere né riconoscere le persone presenti. Per comprendere il significato dell'allucinazione negativa quale tappa preliminare per la formazione di ogni altra allucinazione clinica si potrebbe proporre la seguente ipotesi: l'allucinazione negativa è la forma generica che assume la rottura della funzione allucinazione-percezione.

Nel 1977 A. Green si incaricherà di riprendere questo importante concetto chiarendone finalmente significato e confini: apprendiamo così che l'allucinazione negativa non è un fenomeno patologico; essa non indica assenza di rappresentazione, ma rappresentazione dell'assenza di rappresentazione. L'allucinazione negativa è inoltre il concetto teorico che è precondizione di ogni teoria della rappresentazione, sia che si tratti del sogno che dell'allucinazione. Anche se sogno e allucinazione non sono sovrapponibili, l'allucinazione negativa è la loro matrice comune. Essa indica quindi, prima di tutto, il momento in cui la rappresentazione viene interrotta, il momento di rottura della sua duplice appartenenza allucinosico-percettiva. E sul destino della rappresentazione quindi, che si svilupperà la potenzialità allucinatoria, una volta che si sia verificata questa rottura. Tale conclusione era stata intravista da Freud già in Le neuropsicosi da difesa (1894a) e poi ribadita in La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi (1924b). Nel primo scritto Freud prende le mosse considerando l'allucinazione secondo il modello nevrotico della rimozione, della regressione e del ritorno del rimosso, per poi staccarsene, immaginando un altro modello di produzione dell'allucinazione che vede quest'ultima come una percezione incompatibile con la realtà esterna. Commentando l'esordio di una psicosi allucinatoria, Freud scrive che l'Io si strappa alla rappresentazione incompatibile, ma questa è inseparabilmente connessa a un pezzo di realtà; l'Io, strappandosi ad essa, si stacca dunque, in lutto o in parte, anche dalla realtà. Questa è, a parere di Freud, la condizione che permette di dare allucinatoriamente vita alle proprie rappresentazioni, per il che il soggetto, una volta felicemente attuata la difesa, si ritrova nello stato di follia allucinatoria.

Ma di quale realtà si tratta nell'esperienza psicotica dell'allucinazione? Si può fare l'ipotesi (tenendo conto di Freud, 1910d) che questa realtà che non è rappresentata sia innanzitutto quella delle sensazioni, cioè del corpo. La realtà allucinatoria specificamente psicotica è innanzitutto quella di un'attività propriocettiva che non è riconosciuta come tale, per questo, riconosciuta come esterocettiva. Molti altri psicoanalisti, dopo Freud, hanno affrontato il problema delle allucinazioni, ma non hanno saputo offrire contributi significativi se si eccettuano V. Tausk, D. Winnicott, H. Searles, S. Resnik e, in particolare, W. Bion e J. Lacan. La conclusione che tuttavia possiamo trarre è che la psicoanalisi aiuta a capire il significato di ciascun tema allucinatorio per ogni singolo malato, anche se non sposta di molto la discussione psicopatologica.

A questo si dedica peraltro la corrente di studi fenomenologici che, su questo tema, ha profuso studi oltremodo significativi. Senza analizzare dettagliatamente gli scritti di E. Minkowski, di J. P. Sartre, di E. Straus, di M. Merleau-Ponty, di L. Binswanger, ci limitiamo a segnalare i contributi dottrinali più importanti.

Affrontare l'allucinazione da un punto di vista fenomenologico non vuol dire proporre un sistema esplicativo che sostituisca quello psicologico, che mira alla comprensione del contenuto allucinatorio, né quello sensorio-percettivo, che fa coincidere l'allucinazione con una patologia della percezione. La fenomenologia si interroga sulla costituzione di qualsiasi realtà mediante il lavoro della coscienza, e inoltre studia la relazione complessa tra costituzione del senso e determinazione della oggettività di ciò che è percepito. Studiare fenomenologicamente un'allucinazione significa quindi procedere a una ricerca clinica sulla modalità del manifestarsi del fenomeno allucinatorio; sulla sua temporalità e spazialità, sulla sua alterità e sui suoi enunciati. Vuol dire anche analizzare l'allucinazione come effetto della dislocazione dell'unità di esperienza. Minkowski ha scritto Il problema delle allucinazioni e il problema dello spazio, collocandolo come ultimo capitolo del Tempo vissuto (1933), iniziando così un nuovo modo di affrontare questo tema psicopatologico. Nessuno dei grandi fenomenologi ne prescinderà. Egli parte dall'osservazione di un caso clinico, in cui il malato sente delle «voci», e riesce a collezionare una serie di importanti conclusioni. Innanzitutto si rende conto di potersi rappresentare un'allucinazione solo sotto forma di un avvenimento brusco, rapido come un lampo. L'evento allucinatorio manifesta in effetti una specifica temporalità. Il messaggio allucinato è perfetto, dato in un sol colpo: è anche per questo che possiede un potere soggiogante. Non esiste un tempo all'interno dell'allucinazione, quando essa inizia non si ferma. Essa si impone con la violenza di uno stupro anche perché avviene nell'ambito di una passività totale del soggetto; non consente che la si faccia tacere né che la si respinga. Il soggetto allucinato è costretto a una ricezione forzata. Mentre si può sostenere che l'allucinazione fa sempre irruzione e determina una vera e propria perdita di libertà, è anche vero che è in grado di dislocare qualsiasi struttura atta a creare distanza per stabilirsi nel bel mezzo del mondo vissuto. Una seconda osservazione riguarda il fatto che il malato è il solo a sentire le «voci» e che le sue allucinazioni fanno quindi parte di un mondo privato, desocializzato. Ancora, egli ritiene che il suo malato non possa essere affetto unicamente da un disturbo della percezione, ma piuttosto da una modificazione profonda della forma della vita mentale, dicali l'allucinazione non è che una delle espressioni.

Inoltre, pensa che le allucinazioni vengano a sovrapporsi alla percezione della realtà, determinando così la costituzione di due mondi diversi, uno normale e uno patologico. Ciò gli fa venire in mente l'idea che nelle percezioni del malato si sovrappongano effettivamente due spazi che vengono visti in modo diverso. Per distinguerli Minkowski li denomina «spazio chiaro» e «spazio nero». Lo «spazio chiaro» è quello che ci si spalanca davanti quando apriamo gli occhi; vi si scorgono oggetti dai contorni precisi e le distanze che li separano. Si vedono le cose e lo spazio vuoto. Tutto in questo spazio è chiaro, preciso, naturale, non problematico e anche l'osservatore vi occupa un posto e sta in un certo rapporto con gli altri oggetti che vi si trovano. Se invece si pensa alla notte scura, si può avere un'immagine dello «spazio nero»: esso non si estende di fronte all'osservatore, ma lo tocca direttamente, lo avviluppa, lo stringe, addirittura penetra in lui e lo attraversa, come se il soggetto fosse permeabile all'oscurità, mentre non lo è alla luce. Quando il soggetto si confonde con l'oscurità è il momento in cui si costituisce il mondo morboso del malato allucinato. Per questo motivo Merleau-Ponty, nella sua fenomenologia della percezione (1945), scrive che ciò che garantisce l'uomo sano contro il delirio o l'allucinazione non è la sua critica, ma la struttura del suo spazio. La persona sana vede gli oggetti restare di fronte a lei, conservare la loro distanza, toccarla con rispetto; quella allucinata è invece condannata a una contrazione dello spazio vissuto, a un radicamento delle cose nel corpo, a una vertiginosa prossimità dell'oggetto. L'allucinazione espone il soggetto a un'esperienza vissuta di eccessiva prossimità; essa elimina la distanza intersoggettiva attraverso la quale ognuno mantiene la sua ipseità.

Qualche anno prima Sartre aveva già ripreso le tesi di Minkowski e di Lagache in Immagine e coscienza (1940): qui sostiene che la condizione prima dell'allucinazione è una specie di vacillamento della coscienza personale. Egli scrive anche che l'allucinazione coincide con un brusco annullamento della realtà percepita; nel momento in cui si dà allucinazione, il mondo reale è temporaneamente escluso. Forse l'allucinazione non è caratterizzata da un'alterazione della struttura primaria dell'immagine; forse essa è espressione piuttosto di un capovolgimento radicale dell'atteggiamento della coscienza rispetto all'irreale. In poche parole, si tratta forse dell'alterazione radicale di tutta la coscienza, e il cambiamento di atteggiamento di fronte all'irreale potrebbe apparire solo come la controparte di un indebolimento del senso del reale.

Merleau-Ponty insisterà sul fatto che l'allucinazione non è una percezione, però vale come realtà, essa sola vale per l'allucinato. Il mondo percepito ha perduto la sua forza espressiva e il sistema allucinatorio l'ha usurpata. Quantunque l'allucinazione non sia una percezione, c'è una impostura allucinatoria e, per differente che sia da una percezione, è necessario che essa possa soppiantarla ed esistere per il malato più delle sue percezioni. Ciò è possibile solamente se allucinazione e percezione sono modalità di un'unica funzione primordiale, grazie alle quali disponiamo attorno a noi un ambiente dotato di una struttura definita, e ci collochiamo ora in pieno mondo, ora in margine al mondo. L'esistenza del malato è decentrata, e non si compie più nel commercio con un mondo aspro, resistente e indocile, ma si esaurisce nella costituzione solitaria di un ambiente fittizio.

Riprendendo la distinzione dei due spazi, E. Straus (1935) introduce la contrapposizione tra spazio geografico e paesaggio. Egli sostiene che nella definizione quotidiana di una qualsiasi cosa, noi rompiamo e oltrepassiamo l'orizzonte del paesaggio per definire gli oggetti e anche noi stessi e infine la nostra relazione con gli oggetti dal punto di vista dell'ordine geografico individuato. Ciò che si trova nello spazio geografico viene contestualizzato in un modo oggettivamente stabilito; nello spazio del paesaggio tutto si svolge in maniera diversa. L'esperienza simpatetica è anteriore al dubbio e quindi nella contraddizione e alla possibilità di stabilire rapporti razionali e motivazioni. Naturalmente penetriamo l'orizzonte del paesaggio e raggiungiamo la geografia; adattiamo quindi il nostro mondo privato al mondo comune. Tale orientamento normale e la relativa interpretazione della nostra esperienza vissuta sono capovolti negli allucinati. Essi non penetrano l'orizzonte, restano nel paesaggio e attraggono nell'orizzonte di questo il mondo geografico. Ma il disturbo non è limitato a questa inversione dell'orientamento normale: il paesaggio degli allucinati è modificato nel suo carattere e diventa estraneo alle regole dell'esperienza simpatetica. All'interno dell'orizzonte del suo paesaggio, nel suo idios kosmos, il malato resta inaccessibile, incomprensibile e vive in un isolamento artistico.

L. Binswanger utilizza ampiamente i contributi di Minkowski e di Straus per discutere il problema delle allucinazioni nell'ambito del suo rapporto sul Caso Suzanne Urban (1952-53): in particolare è d'accordo sul fatto che nella psicosi allucinatoria si debba parlare di una condotta complessiva del malato piuttosto che di un disturbo del sensorium. Così, sente di essere completamente allineato con Straus là dove sostiene che le allucinazioni sono trasformazioni primarie del sentire. In più, Binswanger è convinto che le allucinazioni siano l'espressione più impressionante dell'oppressione della prossimità; il segno più eloquente, visibile, sensibile della possibilità di essere invasi dal mondo, dalle cose, dagli altri.

Un'ultima considerazione va riservata alle allucinazioni che si presentano fuori dal campo della psichiatria: esse sono dovute ad alterazioni neurologiche come nell'epilessia e nelle cosiddette allucinazioni peduncolari; a intossicazioni da sostanze come nell'alcolismo cronico e nell'uso di sostanze allucinogene o dislettiche; a particolari condizioni di deprivazione sensoriale protratta come nell'isolamento carcerario. Gli studi neurochirurgici e di stimolazione corticale, coerentemente con la neurofisiologia e la patologia del sistema nervoso centrale, possono renderci conto delle allucinazioni elementari e dei vari stadi di onirismo, ma non possono spiegarci le allucinazioni verbali, fondamentali nella clinica psichiatrica.

STEFANO MISTURA