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Alleanza terapeutica Le espressioni «alleanza terapeutica» e «alleanza di lavoro» indicano una dimensione interattiva della relazione psicoterapeutica riferita alla capacità del paziente e del terapeuta di sviluppare un rapporto basato sulla fiducia, il rispetto e la collaborazione, e finalizzato ad affrontare i problemi e le difficoltà del paziente. Fattore comune alle diverse forme di trattamento, l'alleanza è considerata dai ricercatori empirici una delle principali variabili che influenzano l'esito della psicoterapia. L'evoluzione storica del concetto di alleanza può essere schematicamente ricondotta a tre diversi momenti. Un primo periodo (1912-65) di teorizzazioni psicoanalitiche basate su singoli casi clinici e incentrate sull'utilità di differenziare i concetti di transfert e alleanza. Una seconda fase (1970-2000) caratterizzata dal proliferare di ricerche volte a dimostrare empiricamente l'esistenza del costrutto e il suo peso come variabile fondamentale del processo terapeutico, con conseguente costruzione di strumenti di valutazione ad hoc. Infine una terza fase, quella attuale, in cui il principale oggetto di studio sono le dinamiche relazionali, in particolare gli episodi di rottura e riparazione. L'attenzione agli aspetti fiduciari e collaborativi della relazione terapeutica ha radici antiche, ma il concetto di «alleanza» trae origine dalla psicoanalisi freudiana. Fin dai suoi primi scritti, Freud si interessa infatti di quegli aspetti della relazione che possono promuovere la guarigione. Già negli Studi sull'isteria (Freud, 1892-95) aveva sottolineato l'importanza di un atteggiamento collaborante da parte del paziente, ma è negli scritti sulla tecnica (1912b; 1913b; in particolare 1912a) che delinea un concetto assimilabile a quello di alleanza terapeutica. In quest'ultimo scritto, Freud differenzia il concetto di traslazione in «positiva» e «negativa». Mentre la forma negativa è costituita da sentimenti ostili in grado di interferire, sotto forma di resistenze, sulla possibilità del paziente di contribuire al processo di guarigione, è nella componente positiva della traslazione che Freud individua l'aspetto motivazionale in grado di fornire al paziente la forza necessaria per collaborare attivamente al lavoro analitico. Nei suoi ultimi scritti (1937a; 1938a) Freud torna sull'argomento e sottolinea la necessità che medico e paziente possano «coalizzarsi» contro i sintomi in un «patto» basato sulla disponibilità all'indagine, da parte del paziente, e su una comprensione competente ad opera dell'analista. E però R. Sterba (1934) a sottolineare in modo esplicito che la capacità del paziente di «lavorare in analisi» è uno degli elementi predittivi del successo della terapia. Egli mette in luce l'importanza di aiutare il paziente a realizzare una «scissione terapeutica nell'Io» tra le sue funzioni cooperative e oppositive. In questo modo l'analista potrà contare, nello svolgimento della sua funzione terapeutica, su elementi di realtà non transferali. La parte «razionale» dell'Io del paziente andrebbe insomma a formare una dimensione collaborativa che Sterba chiama «alleanza dell'Io». Fin dall'inizio, dice Sterba, l'analista userà il «noi» come strumento per favorire la scissione terapeutica. Sulla base di queste considerazioni non si può fare a meno di notare come Sterba si discosti dall'impostazione freudiana degli scritti sulla tecnica. L'accento non cade più sulla «cura d'amore», sulla «suggestione», sulla «persuasione del paziente», e l'analista finisce per essere colui che rafforza un Io autonomo. Per Sterba l'alleanza possiede una vita propria, libera dall'investimento pulsionale e dall'eccesso di vincoli affettivi con l'analista. Sulla scia della distinzione operata da Sterba si inseriscono i contributi di E. Zetzel e R. Greenson. Prima a utilizzare il termine «alleanza terapeutica», che considera il nucleo fondamentale di ogni situazione analitica, la Zetzel (1956; 1958) sottolinea come essa si fondi su una «condivisione matura della realtà» e su una comunità di intenti tra analista e paziente. Intenzionato a esplicitare la capacità del paziente di lavorare in modo finalizzato in terapia, Greenson (1965) preferisce l'espressione «alleanza di lavoro». Come Sterba, Greenson crede che l'alleanza si stabilisca tra l'Io razionale del paziente e l'Io analizzante dell'analista: il mezzo che la rende possibile è la parziale identificazione del paziente con l'atteggiamento analitico e riflessivo dell'analista. Per Greenson la relazione terapeutica si compone di tre dimensioni: alleanza di lavoro, transfert e relazione reale. Il trattamento analitico viene inteso come una relazione tra due forze contrapposte, la nevrosi di transfert e l'alleanza di lavoro; al terzo aspetto, quello reale, Greenson attribuisce due significati diversi: «realistico» (opposto al termine transfert, che indica invece un rapporto deformato e irreale) e «genuino, autentico» (opposto ad artificioso, falso). Collegati tra loro e capaci di influenzarsi a vicenda, questi ingredienti della relazione terapeutica devono però essere riconosciuti ed esaminati separatamente dal terapeuta. Greenson ha dunque messo in luce la multidimensionalità del concetto di relazione terapeutica. Ampliando i contributi della psicologia dell'Io, W. Meissner (1996) propone una lettura dell'alleanza come interazione tra l'empatia, il desiderio di capire e la capacità riflessiva dell'analista, e il desiderio di comprendere ed essere compreso, di essere aiutato e di sviluppare la propria personalità, propri del paziente. Queste capacità vanno attribuite alle funzioni del Sé complesso di entrambi i partecipanti alla relazione, che negoziano nell'alleanza un rapporto dinamico che si evolve e modifica nel tempo basandosi su dimensioni realistiche, mature e sane della personalità. Non tutti hanno riconosciuto l'utilità o la necessità di riferirsi a un concetto come quello di alleanza, preferendo ricondurre tutte le comunicazioni tra paziente e analista a dinamiche transferali. E il caso di M. Klein e di altri autori (per esempio D. Meltzer, Ph. Greenacre, H. Segai, Ch. Brenner), per i quali ogni comportamento e comunicazione del paziente vanno concettualizzati e interpretati come traslazione di sentimenti e atteggiamenti infantili, e fatti quindi rientrare nel concetto di nevrosi di transfert. A partire dagli anni '70, mentre l'attenzione psicoanalitica al concetto di alleanza terapeutica inizia a scemare, la sua popolarità cresce nella comunità dei ricercatori empirici, che la indicano quale principale fattore curativo nell'ambito delle diverse tecniche psicoterapeutiche. I fattori implicati in questo cambiamento di prospettiva sono molti: il crescente interesse per i processi di validazione empirica delle psicoterapie, ma anche una certa diffidenza da parte di molti psicoanalisti nei confronti della ricerca empirica in ambito clinico. Inoltre, il concetto di alleanza aveva assunto consistenza sullo sfondo di una concezione «classica» del processo analitico, basata sul modello pulsionale, il transfert e l'interpretazione. La riformulazione di alcuni presupposti della psicoanalisi, quali astinenza, neutralità e anonimato, ha poi profondamente modificato la teoria e la pratica della relazione terapeutica, rendendo paradossalmente meno necessario circoscrivere un concetto come quello di alleanza. Per molto tempo, infatti, esso aveva rappresentato l'esigenza di dar voce a fattori di ordine relazionale e non interpretativi del processo analitico. La valorizzazione degli aspetti bipersonali e la centralità della regolazione reciproca nella situazione analitica hanno così portato a considerare l'alleanza, più che una variabile specifica, come un elemento implicito e costitutivo del trattamento. L'autore che più ha contribuito a superare i confini tra le diverse impostazioni teoriche è E. Bordin (1979), per il quale il concetto di alleanza va compreso in una visione «panteorica» e considerato un fattore comune a tutte le psicoterapie, indipendentemente dal loro modello teorico e operativo. Bordin definisce l'alleanza come un accordo reciproco sugli obiettivi della terapia e i compiti necessari per raggiungerli, nel contesto di un legame di collaborazione e fiducia tra paziente e terapeuta. Questa definizione ha dato un importante impulso alla ricerca e ha ispirato la costruzione di uno dei più noti strumenti di valutazione dell'alleanza: il Working Alliance Inventory (Horvath e Greenberg, 1994). A Bordin va riconosciuto anche il merito di aver «traghettato» il concetto di alleanza, dalla sua culla psicodinamica, ad altri campi di intervento clinico, in particolar modo il cognitivismo. Tra i ricercatori impegnati nello studio dell'alleanza terapeutica vanno ricordati anche L. Luborsky e L. Gaston. Luborsky (1976; 1994) ricorre all'espressione «alleanza d'aiuto» per descrivere due tipi d'alleanza: quella di tipo 1, in cui il terapeuta aiuta in modo attivo il paziente che è in una posizione di attesa fiduciosa e passiva; quella di tipo 2, che si forma successivamente, in cui il paziente tiene una posizione più attiva e consapevole nel lavoro comune. E implicita in questo modello una concezione evolutiva dell'alleanza. La Gaston (Gaston e Marmar, 1994), autrice del questionario autosomministrato California Psychotherapy Alliance Scale, scompone il costrutto «alleanza terapeutica» in quattro sottodimensioni: la capacità di lavoro del paziente, l'impegno del paziente, il consenso sulla strategia di lavoro e la comprensione e il coinvolgimento del terapeuta. La fase attuale di riflessione sull'alleanza propone una lettura di questo concetto non più in termini di presenza/assenza, ma come dimensione costantemente presente e dotata di una sua ciclicità. L'alleanza terapeutica va quindi concepita come costituita da un continuum di interazioni comprese tra un estremo in cui gli interventi a sostegno della relazione collaborativa sono impercettibili e ben integrati nella struttura della terapia, a un estremo in cui si rendono invece necessari veri e propri interventi di ridefinizione degli scopi e degli obiettivi del trattamento. Per esempio, nel trattamento di pazienti con organizzazione borderline di personalità, che alternano modalità di funzionamento a diversi livelli di maturità, le gradazioni dell'alleanza terapeutica non si manifestano in successione ordinata, ma si alternano e ricompongono a seconda delle fasi del trattamento o anche dei momenti di una singola seduta. In molte terapie, inoltre, la costruzione dell'alleanza può essere considerata più un fine che un mezzo della cura. Partendo anch'essi dalla definizione trasversale e inclusiva di Bordin, J. Safran e J. Muran (2000) definiscono l'alleanza terapeutica un processo di «negoziazione intersoggettiva», in cui i due partecipanti allo scambio clinico sono implicati in una negoziazione continua. Oggetto di studio privilegiato diventano dunque gli inevitabili processi di rottura e riparazione dell'alleanza, alla luce della dialettica tra i bisogni di «agentività» e «relazionalità» del paziente. Anche l'influenza che il tipo di attaccamento paziente/terapeuta può esercitare sul processo e sull'esito della terapia inizia a essere studiata. Questo approccio rinforza una visione dell'alleanza come espressione del tentativo, da parte di paziente e terapeuta, di stabilire una regolazione reciproca ottimale, e dell'impasse terapeutica come finestra sul mondo intersoggettivo di paziente e terapeuta. VITTORIO LINGIARDI |