Affetto, attività/passività

Negli ultimi anni si è sviluppata una tendenza più o meno esplicita a considerare la clinica come indipendente dalla metapsicologia, sulla scorta dell'opinione secondo cui quest'ultima sarebbe lontana da quel laboratorio relazionale eletto a unico garante di collegialità per analisti di troppo variegate ascendenze teoriche. Contro questa cancellazione delle teorie militano però varie ragioni, la più stringente delle quali concerne proprio l'insospettabile vicinanza alla prassi terapeutica (che ne risulta implicata) di molti concetti all'apparenza confinati nell'iperuranio teorico, esemplari fra tutti quelli di «affetto» e «attività/passività». Il primo è condizione necessaria dell'analisi sotto forma di legame transferale e di timer dell'atto interpretativo (la cui efficacia è vincolata alla contiguità della soglia di rappresentazione con quella dell'affetto), laddove il secondo risulta costitutivo del setting sul doppio versante del paziente e dell'analista, l'uno chiamato alla passività della dipendenza e all'attività delle libere associazioni, l'altro all'attività dell'interpretazione e alla passività dell'attenzione fluttuante. Rilevanza clinica, da un lato, e rango teorico fra i più elevati, dall'altro, fanno perciò di affetto e attività/passività modelli canonici di incarnazione della teoria, mentre il loro antichissimo retaggio prefreudiano li rende tornasole dei rapporti di continuità e rottura fra sapere psicoanalitico e filosofico. Quel retaggio offre buone credenziali alla tesi di un'originaria coincidenza tra liberazione d'affetto, passività, femminile e male da un lato, controllo dell'affetto, attività, maschile e bene dall'altro, coincidenza visibile a partire dai termini pathos, affectus, affectio, usati da una millenaria tradizione per denotare patologie e affezioni causate da un'azione passivamente subita dall'anima. Nelle concezioni trinitarie dell'anima (Platone e Aristotele) lo scenario patologico dipende sempre da commutazione di attività e passività fra parti distinte dell'anima: quella noetica, cui di norma spetterebbe solo attività, ne perde una quota variabile cedendola a quella sensitiva (che dovrebbe essere solo passiva) ed esponendosi così alla sua azione perturbatrice. Analogamente nelle concezioni unitarie dell'anima (scettici, stoici ed epicurei), dove però il baricentro teorico si sposta dall'intrapsichico all'interpsichico: passività e passione (prototipo quella amorosa) sono ascritte ad avvenuta effrazione dei confini dell'anima da parte di un oggetto cui si è consentito incauto insediamento interiore come fonte di eccitamento. D'altra parte, il raccordo della coppia attività/ passività con quella maschile/femminile risulta già stabilito dalla tesi secondo cui la passività è proprietà essenziale della materia (mater) e l'attività di Dio (pater), tesi sostanziata da Aristotele con argomenti biologici (derivati dalla teoria dei quattro elementi) relativi a sperma (attivo) e mestruo (passivo), e adoperata poi dalla tradizione teologica per la definitiva equiparazione dell'attività col bene e della passività col male. Il quadro concettuale così delineato prenderà a mutare solo dopo il '600, ma al passo lento di una filosofia morale che attende, per accelerare, spinte appropriate da parte della scienza, risolutive quelle apportate dalla psicoanalisi. In tema di apparato dell'anima, S. Freud ha sciolto infatti il nodo dell'antica vertenza fra trinitari e unitari affermando la natura tripartita della psiche, ma sostenendo contestualmente che quella tripartizione è apprezzabile solo in condizioni patologiche; al novero di quelle condizioni e alla connessa tassonomia morale ha sottratto l'affetto, facendone uno dei due costituenti del codice binario della psiche (l'altro è la rappresentazione); e infine, ha riconosciuto come meta della pulsione e come sua unica manifestazione rilevabile la coppia attività/passività, ovviamente sottratta anch'essa al dominio morale e, con qualche residua ambiguità, anche a quello del genere sessuale.

Se si interpreta il Progetto freudiano (Freud, 1895) non più in termini di tentativo neurologico fallito, ma come inconsapevole esposizione ante litteram dei fondamenti della futura metapsicologia, diventa agevole riconoscere nelle particelle materiali del cervello e nella quantità di energia in moto fra esse una prefigurazione, rispettivamente, di rappresentazioni e affetto (Laplanche, 1980). Questa interpretazione va però integrata dalla considerazione ontogenetica secondo cui affetto e rappresentazione, per quanto elementi psichici distinti e dissociabili, traggono origine entrambi dalla spinta pulsionale, il primo sotto forma di investimento somatico (prototipo la scarica motoria d'angoscia) e la seconda sotto forma di investimento mnestico (prototipo la reviviscenza allucinatoria della gratificazione) (Freud, 1899a). La loro comune origine si riflette in un destino convergente in normalità ma divergente in patologia, l'una contrassegnata da presenza di affetto congruo alla concomitante rappresentazione (e viceversa), l'altra da affetto senza rappresentazione (isteria), da rappresentazione senza affetto (ossessione) o da varie loro combinatorie incongrue per motivi intrinseci o estrinseci (Freud, 1915b). In ogni caso, in patogenesi un ruolo di primo piano spetta all'affetto, nella sua duplice veste di vettore del raccordo associativo fra rappresentazioni e di quale edonico percepito dalla coscienza, e conseguentemente analogo ruolo gli spetta nella cura, che della patologia è trasposizione transferale. Anzi, all'epoca della terapia catartica la sofferenza psichica era da Freud spiegata esclusivamente in termini di ingorgo affettivo: di norma, compito delle vie associative è smaltire l'energia affettiva eccedente distribuendola lungo il decorso di opportune rappresentazioni, in ottemperanza ai principi di piacere e costanza; il trauma, promotore di sofferenza, si inscrive nella memoria come corpo estraneo, fonte di eccitamento ed escluso dal commercio associativo, determinandosi così incapsulamento dell'affetto e simultaneo di vieto di accesso alla coscienza per le rappresentazioni; scopo della terapia è perciò l'abreazione delle eccedenze affettive confinate nel corpo estraneo ottenuta mediante recupero mnestico e conseguente ripristino della viabilità associativa (Freud, 1892-1895). I mutamenti intervenuti con il tramonto della tecnica catartica e l'avvento di quella psicoanalitica, se apportarono sostanziali modifiche al quadro d'assieme già delineato (abbandono della teoria della seduzione con revisione dei ruoli rispettivi di trauma e fantasia, scoperta della sessualità infantile come motore ontogenetico e parallela., progressiva emergenza della psicoanalisi come teoria generale della psiche), lasciandoo però inalterato il ruolo prioritario dell'affetto nell'economia psichica, reso ora più complesso dall'avvento di nuovi problemi metapsicologici.

Valga come esempio il problema posto dalla difficile ascrizione topica dell'affetto. Se sotto il profilo descrittivo, e sulla scorta dell'evidenza clinica, è attendibile inferire l'esistenza di affetti inconsci, non altrettanto può» dirsi della correlata inferenza meta-psicologica: poiché gli affetti sono per definizione qualia edonici, essi devono infatti necessariamente essere presenti alla coscienza all'interno di un range i cui estremi sono tenuti da piacere e dispiacere in forma pura. Come è possibile dunque parlare coerentemente di affetti inconsci? La risposta freudiana al dilemma chiama in causa i differenti; esiti sortiti dalla rimozione su rappresentazione e affetto, la prima persistendo come tale nell'inconscio dopo l'avvenuta rimozione, il secondo decadendo durante il processo stesso di rimozione da dinamica attuale a puro assetto disposizionale (Freud, 1915a). Quanto però questa risposta ad hoc sia pregiudizialmente sbilanciata a favore della teoria, lo dimostra la quotidianità del rilievo, nella stanza d'analisi, non tanto di generiche disposizioni a sviluppare questo o quell'affetto, quanto di potenti mozioni d'amore e d'odio che appaiono del tutto attuali e del tutto ignorate dalla coscienza. Con l'introduzione del punto di vista strutturale a integrazione di quello topico (Freud, 1922), l'assegnazione all'affetto di una struttura gerarchica ne arricchisce e complica ulteriormente la teoria. Sulla scorta della seguente interdefinizione: il processo è una struttura labile (a corto raggio temporale) e la struttura è un processo stabile (a lungo raggio temporale), è possibile ora spiegare come l'analisi miri a una revisione delle strutture affettive mediante la loro trasformazione in processi affettivi con successivo, spontaneo consolidamento di questi ultimi in nuove strutture auspicabilmente meno patologiche; ed è possibile inoltre descrivere una gerarchia affettiva che includa a un estremo i prototipi somatici elementari dell'affetto, consistenti in processi di scarica, e all'altro quei loro derivati così strutturati, complessi, articolati e relativamente esonerati da scarica (sentimenti), da potersi ritenere a pieno titolo componenti stabili della personalità. Il transito ontogenetico da un estremo all'altro della gerarchia affettiva avviene, come nel caso della concomitante gerarchia di rappresentazioni, per recursione iterativa di processi, in linea di principio percorribile regressivamente nel lavoro d'analisi. Tuttavia, non c'è progresso teorico che non generi nuovi problemi: ne costituisce esempio, in questo caso, la teoria dell'angoscia come segnale emesso dall'Io (Freud, 1925c): quando venga estesa a tutti gli affetti - generalizzazione legittima a meno di considerare l'angoscia affetto a statuto speciale - espone al rischio di declassarli da fonte di vita psichica a semplici strumenti logistici al servizio dell'apparato difensivo.

All'affetto si salda la coppia attività/passività, nella cornice della concezione trinitaria della psiche espressa, in particolare, dal punto di vista strutturale, dove è la struttura egoica, o meglio, sono i suoi strati più profondi a ridosso dell'Es, a patire le turbolenze affettive derivate dalla spinta pulsionale, senza che vi sia più traccia, nel pensiero freudiano, né dell'equivalenza passività/passione, né della rigida contrapposizione passività/attività, proprie della tradizione filosofica. La coppia concettuale è antica in Freud quanto il concetto stesso di affetto, ma, diversamente da quest'ultimo, raggiunge la sua maturità teorica più tardi; anzi, inizialmente e per breve tempo i due termini che la costituiscono non sono stati altro che voci non specializzate prese a prestito dal lessico quotidiano per indicare che l'isteria dipende da seduzione passivamente subita, l'ossessione da seduzione attivamente perpetrata (Minuta K, 1895, in Freud, 1892-97). E questo il solo esempio in Freud di un aut/aut fra attività e passività che scomparirà al compimento della loro maturità teorica, perché da allora in poi i due termini si legheranno stabilmente con relazione complementare e di reciproca presupposizione, constatabile nella congiunzione fra primato economico assegnato all'attività in virtù del fatto che ogni pulsione è un frammento di attività, e primato genetico assegnato alla passività perché si nasce assolutamente dipendenti dall'intervento del soccorritore umano (Napolitano, 2002). Per aggiungere poi un indispensabile tocco di relatività alla complementarità dei termini della coppia, è sufficiente l'insistenza freudiana sul fatto che per guadagnare una meta passiva è a volte necessario il dispiegamento di una grande attività (e viceversa); e l'insistenza sull'importanza di prospettiva e linguaggio in tema di possibili, fallaci ascrizioni di attività e passività, come nel caso dell'allattamento, che si presta ad essere descritto sia come attiva erogazione di nutrimento che come passivo lasciarsi succhiare il seno, o in quello correlato dell'equazione fra divorare e essere divorati, dove l'attività di suzione si accompagna a un fantasma di passiva incorporazione nell'altro. Non a caso questi esempi sono tratti dallo scenario orale, perché esso risulta elettivo per la messa a fuoco delle quattro proprietà che definiscono la pulsione: la spinta ne rappresenta l'elemento quantitativo conferendole carattere intrinsecamente attivo, la fonte consiste nel processo di eccitamento in un organo, l'oggetto è ciò che esaurisce spinta e tonte mediante soddisfacimento, e infine la meta è costituita dalla misura di attività e passività richieste per l'ottenimento di quel soddisfcimento (Freud, 1915g). L'assoluto rilievo assegnato da Freud a quest'ultima dipende da troppo elusive caratteristiche delle altre tre proprietà, la spinta collocandosi non sul versante psichico ma sul crinale che lo separa da quello somatico, e la fonte addirittura in pieno versante somatico, mentre l'oggetto, seppure di dominio psichico, si configura a tal punto come opaco e intercambiabile strumento al servizio del soddisfacimento da diventare infine anonimo sotto il profilo metapsicologico. La meta resta così l'unica finestra aperta sulle dinamiche psichiche e l'unico indicatore rilevabile della loro organizzazione. E questa una tesi freudiana puntualmente criticata negli ultimi decenni proprio sulla scorta di accurate revisioni del potenziale d'impatto detenuto dall'inconscio dell'altro relazionale (sia esso madre o analista), a tal punto perspicuo ed elevato da conferire all'oggetto importanza pari se non superiore a quella detenuta dalla meta (Laplanche, 1992a). Anzi, per certi aspetti si potrebbe sostenere che è l'oggetto a fissare le rispettive proporzioni di attività e passività convocate di volta in volta dalla vicenda relazionale, e che esso non appartiene al dominio interpsichico se non da un punto di vista descrittivo ed esterno, mentre da quello metapsicologico è a tutti gli effetti fonte intrapsichica di eccitamento (posizione teorica, questa, che già appartenne esplicitamente alle concezioni greche unitarie dell'anima). In ogni caso, è un fatto che le proporzioni di attività e passività risultino fissate dai dispositivi biologici di base solo in piccola parte e al nastro di partenza dell'ontogenesi, perché nel seguito la regola è di reciproca commutazione passività/attività modulata dalle variabili difensive in gioco nella relazione. Tra lo scenario orale e quello del tramonto del complesso edipico si snoda l'intreccio freudiano tra attività/passività da un lato e maschile/femminile dall'altro. A partire dai Tre saggi (Freud, 1905c) in poi, Freud non si stancherà di dedicarsi a scioglierlo insistendo sull'irrilevanza psichica del genere sessuale, troppo impregnato di importi biologici, antropologici e sociali, e perciò troppo saturo di pregiudiziali aliene, per poter entrare nel novero dei concetti metapsicologici, fosse anche sotto forma di quella bisessualità originaria dell'essere umano peraltro già assunta tra i fondamenti della psicoanalisi. L'intreccio tra le due coppie diventa dunque lotta, con lo scopo dichiarato di rimpiazzare ovunque e completamente genere sessuale con meta pulsionale, operazione supportata da tre argomenti di grande rilievo: essa taglia i ponti con il pesante retaggio filosofico cui si è accennato in apertura, che alla combutta fra genere sessuale e attività/passività assegnava ogni sorta di connotazione morale; taglia anche i ponti con altre discipline scientifiche, in ottemperanza ai bisogni di una scienza giovane e al correlato slogan freudiano secondo cui la psicoanalisi farà da sé; infine, e come corollario, ha di mira il conio di una metapsicologia pura, autoconsistente e definitivamente priva di ingredienti difensivi e antropomorfi. Altrettanti, però, i controargomenti: ogni rivoluzione, per quanto radicale, finisce per integrare e contenere proprio quel passato che pretenderebbe di cancellare, costituendone a volte la migliore testimonianza (questo l'insegnamento della clinica, oltre che della storia); l'ibridazione con altri campi del sapere è indispensabile, anzi, è fecondante, pena settarismo, ideologia e conseguente derealizzazione; e infine, non esiste alcuna scienza pura, fosse anche la logica formale e meno che mai la psicoanalisi, perché, a detta dello stesso Freud, la scienza giunge fin dove giunge il nostro antropomorfismo. E se non bastasse, si può chiamare in causa poi l'assoluto rilievo del genere sessuale nello stesso pensiero freudiano (testimoniato ad esempio dalla particolare importanza assegnata alla passività orale ed edipica nello sviluppo sessuale femminile) per dimostrare la parziale natura di formazione reattiva della lotta ingaggiata da Freud, senza che per questo decadano altri e illuminanti aspetti dei suoi allerta in merito. Essi valgono a segnalare aree di particolare indipendenza della meta pulsionale dal genere sessuale, accompagnata però da difficile discernibilità dei confini attività/passività, come nel caso del narcisismo e della pulsione di morte (Freud, 1914d; 1920). Sotto il profilo economico, il narcisismo è infatti fra i principali commutatori di passività e attività, dispiegandosi per intero fra l'attività di investimento libidico del soggetto e il suo passivo costituirsi come oggetto di quello stesso investimento, una condizione, questa, in cui i confini tra le due componenti complementari della meta diventano più che mai nebulosi, se non indecidibili. E sotto il profilo dinamico, la pulsione di morte, nelle sue manifestazioni di coatta ripetizione (attiva) degli scenari di esposizione (passiva) al trauma, e nella sua qualità di fenomeno psicosomatico universale, finisce per trascendere anch'essa la specificità di genere sessuale e per porre addirittura interrogativi sulla tenuta ultima della distinzione attività/passività, almeno quando la si guardi ad altissima risoluzione. In entrambi i casi e per contrapposizione, se ne potrebbe tuttavia inferire che i connotati di attività e passività risultano tanto più marcati quanto maggiore è il loro ancoraggio al genere sessuale, come dimostrato fra l'altro dal ruolo da esse svolto nelle perversioni.

FRANCESCO NAPOLITANO