Acting (in e out), enactment, agire |
Con il termine di acting out, comparso inizialmente in ambito psicoanalitico e successivamente entrato nell'uso anche in altri contesti, ci si riferisce a un tipo di comportamento, per lo più impulsivo, che può avere conseguenze negative tanto per il soggetto che lo compie quanto per un'altra persona o cosa, come ad esempio aggredire qualcuno, o perdere o distruggere un oggetto. In senso più generale l’acting out si riferisce a una situazione in cui una persona agisce prima di riflettere, senza considerare le conseguenze della sua azione. Ciò che qualifica un comportamento come acting out è l'inferenza che viene fatta da un osservatore esterno (ma, a posteriori, anche dal soggetto medesimo) sulla motivazione che lo ha prodotto: il comportamento «agito», infatti, porta alla luce, come una valvola di sfogo che scarica l'angoscia, un problema inconscio non altrimenti gestibile. L'uso specifico del termine acting out appartiene alla psicoanalisi e alla psicopatologia. Originariamente è stato usato da S. Freud per designare un tipo di azione che l'analizzando compie in alternativa al ricordare e al mettere in parole un contenuto inconscio rimosso. Tale azione mette in atto un fantasma inconscio che il soggetto sperimenta con un senso di attualità tanto più vivo quanto meno ne riconosce l'origine e il carattere di ripetizione. Per Freud il concetto di acting out appartiene essenzialmente al contesto della cura, non solo perché è li che viene individuato, ma anche perché è in rapporto alla finalità della cura analitica che tale fenomeno si produce. In psicopatologia, invece, l’acting out si riferisce alla tendenza, presente in certi tipi di personalità, ad agire impulsivamente per l'incapacità di far ricorso alla mediazione della parola, indicando dunque essenzialmente un sintomo o una caratteristica patologica della personalità. Il termine acting out (che nella traduzione italiana delle opere di Freud corrisponde a «mettere in atto») è la forma sostantivata del verbo inglese to act out, che a sua volta è la traduzione del verbo tedesco agieren (agire). Si tratta di un termine non corrente nella lingua tedesca, che Freud ha usato per descrivere un tipo di resistenza riscontrata durante il trattamento analitico, quando il paziente, anziché ricordare e mettere in parole un evento significativo del suo passato, lo mette in atto (lo «agisce», appunto) in un comportamento. Freud usa agieren sia come verbo che come sostantivo, spesso anche in forma transitiva, in modo simile a come usa abreagieren, che ha la medesima radice, e che significa scaricare pulsioni, fantasmi, ecc. In modo simile all'espressione italiana «messa in atto», il termine inglese acting out contiene significati che rimandano, da una parte, alla rappresentazione teatrale (to act a part = mettere in scena), e, dall'altra, all'esteriorizzazione e al rapido compimento di un atto, come indicato dalla posposizione out. A tale proposito va sottolineato che nell'uso comune l'espressione acting out non contiene tanto un'indicazione spaziale (in/out, all'interno/ all'esterno dello spazio in cui si svolge l'analisi) quanto piuttosto un'enfasi sulla natura di un'azione che sta al posto del pensiero. Distinguere l’acting out dall'acting in, come talora è stato fatto, contrapponendo un luogo (esterno all'analisi) a un altro (la stanza d'analisi), è fonte di confusione perché mette in secondo piano la distinzione, che è invece assai più significativa sul piano metapsicologico, fra il piano intrapsichico e quello dell'azione aperta (Boesky, 1982). Talora, tuttavia, l'espressione acting in è stata preferita a quella di acting out per riferirsi a particolari forme di azione che si svolgono nella stanza d'analisi ma escludono l'uso del linguaggio verbale (Paniagua, 1998). Freud accenna per la prima volta alla nozione di agire nel Poscritto del Frammento di un'analisi d'isteria, dove descrive il caso di una paziente che aveva interrotto improvvisamente la cura analitica: egli ne individua la causa nel fatto che essa aveva «messo in atto» una parte essenziale dei suoi ricordi e delle sue fantasie, invece di riprodurla nella cura, trasferendo così su Freud medesimo i sentimenti di vendetta nutriti verso il Sig. K. (Freud, 1905a). Circa dieci anni dopo Freud prende di nuovo in esame - questa volta in modo più dettagliato in un testo dedicato alla tecnica psicoanalitica - la nozione di agire (1914b). Freud osserva che spesso la cura analitica incontra una resistenza nel suo sviluppo, perché il paziente non ricorda nulla di ciò che ha dimenticato e rimosso. Anziché ricordare, il paziente mette in atto ripetutamente, e senza rendersene conto, ciò che ha rimosso. Egli, ad esempio, non ricorda di essere stato caparbio e diffidente verso i genitori ma si comporta nello stesso modo verso l'analista. Parimenti non ricorda di essere rimasto privo di consiglio e di aiuto nella sua esplorazione sessuale infantile, ma porta sogni e associazioni confuse, si lamenta di non riuscire a far nulla e di non portare a termine ciò che intraprende. La resistenza al lavoro analitico è tanto maggiore quanto maggiore è la tendenza a mettere ripetutamente in atto ciò che non viene ricordato. In altre parole, la coazione a ripetere è inversamente proporzionale alla capacità di ricordare. Freud spesso contrappone «agire» (agieren) a «ricordare» (erinnen), considerandole due modalità antitetiche con cui il passato si manifesta nel presente: nel primo caso come inconsapevole e ripetitiva messa in atto, nel secondo caso come riproduzione sul terreno psichico, ovvero come recupero e conseguente trasformazione del rimosso nella rappresentazione verbale. Per quanto l'agire costituisca una resistenza al progresso del trattamento analitico, tuttavia - una volta che si prenda in considerazione il fatto che porta alla luce una dimensione inconscia altrimenti non esprimibile - esso diventa anche un indicatore della dinamica psichica inconscia. Assumendolo in questa prospettiva, l'agire può essere considerato non solo come un ostacolo al trattamento analitico, ma anche come una possibilità per approfondirlo. In tal senso l'agire può rappresentare un'occasione, se non addirittura un passaggio necessario, per portare alla luce della coscienza il materiale inconscio rimosso. E a questa necessità che Freud si riferisce quando dice che non si può uccidere un nemico assente o non sufficientemente vicino. Freud afferma anche che è pressoché inevitabile che durante la cura analitica la resistenza a prendere coscienza dei desideri e dei conflitti inconsci si manifesti in una qualche forma di agire, soprattutto se in tale agire è implicata la figura dell'analista. Tale agire, egli precisa, deve comunque restare limitato al contesto della cura; se le regole su cui si basa la conduzione della cura analitica venissero troppo alterate non sarebbe possibile fare del comportamento agito il fulcro del lavoro analitico. Per domare la coazione a ripetere - che può essere resa innocua, o addirittura utile, quando le riconosciamo il diritto di far quel che vuole entro un ambito ben definito - e per trasformarla in un motivo che stimoli il ricordo, bisogna impiegare il transfert in modo appropriato. La potenzialità positiva insita nell'agire dentro l'analisi è stata ripresa negli anni successivi da molti psicoanalisti che si sono occupati di questo problema clinico, ma anche da Freud stesso in una delle sue ultime opere, il Compendio di psicoanalisi (1938a). In questo testo egli afferma che è oltremodo indesiderabile che il paziente, al di fuori del transfert, agisca anziché ricordare; la condotta ideale, per gli scopi dell'analisi, sarebbe che il paziente, al di fuori del trattamento, si comportasse nella maniera più normale possibile, manifestando soltanto nel transfert le sue reazioni anomale. In sostanza Freud concepisce implicitamente due tipi di «agire»: uno che non oltrepassa i confini del contesto della cura, e che è perciò possibile elaborare, e un altro che si verifica all'esterno, rappresentando così una vera e propria minaccia al proseguimento della cura. Tuttavia, nella misura in cui Freud individua nel meccanismo dell’acting out una manifestazione del transfert (che è quell'aspetto della cura analitica la cui elaborazione è indispensabile per recuperare l'inconscio rimosso), egli finisce per attenuarne i connotati negativi: tanto è inevitabile il transfert, altrettanto è inevitabile l'agire. La concezione dell'acting out nell'originaria formulazione freudiana corrisponde dunque a un fenomeno clinico che si produce, come il transfert, in relazione alla dinamica della cura; che, come il transfert, implica una ripetizione e l'impossibilità a ricordare; che, come il transfert, costituisce una forma indiretta di ricordo; e che infine, come il transfert, si configura ora come una resistenza e ora come un'occasione per l'analisi. Quando Freud considera il transfert sulla persona dell'analista come un modo di «agire», quando cioè egli esamina l'agire e il transfert dal punto di vista del comune meccanismo ad essi sotteso (la resistenza al recupero del rimosso), la differenza fra i due fenomeni quasi svanisce. In pratica essi risultano, al di là di una differenza di accenti, quasi sovrapposti e intercambiabili: nel transfert l'accento viene messo sulla figura dell'analista su cui viene trasferito il materiale pulsionale, mentre nell'acting out l'accento viene messo sull'espressione di tale materiale pulsionale in un'azione anziché nella parola. Come vari autori (fra cui J. Laplanche e J.-B. Pontalis) hanno da tempo rilevato, la mancata differenziazione dei fenomeni di ripetizione nel transfert da quelli dell'acting out ha delle conseguenze sia per la tecnica che per la teoria. Per delimitare descrittivamente il fenomeno dell'acting out e per definire con più precisione il concetto, si deve innanzitutto aver presente con quale tipo di pazienti Freud aveva a che fare, e soprattutto con quale tipo di concettualizzazione teorica egli affrontava i fenomeni che incontrava nella clinica. Il contesto clinico in cui egli operava era quello della cura di soggetti nevrotici, dotati di sufficiente maturità e forza dell'Io e sufficiente controllo degli impulsi da non dover ricorrere, in condizioni normali, a forme di espressione «agite». Dopo Freud, la nozione di acting out è andata incontro a una serie di trasformazioni che ne hanno esteso l'ambito di applicazione al di là del contesto della cura analitica. La riflessione sulla dinamica dell'acting out è stata alimentata, da un lato, dall'estensione del trattamento psicoanalitico a tipologie di pazienti diverse da quelli affetti dalla nevrosi classica, e dall'altro, da nuove concettualizzazioni sul funzionamento dell'apparato psichico e sull'azione terapeutica della psicoanalisi. Gli apporti del lavoro clinico e la discussione teorica, tuttavia, lungi dall'approdare a una definizione condivisa nella comunità psicoanalitica, hanno messo in evidenza quanto questo concetto, pur utile nella clinica, resti ambiguo e controverso nelle sue implicazioni teoriche. Sul piano dell'elaborazione concettuale, il cambiamento più rilevante rispetto alla concezione iniziale che collocava l’acting out nella dinamica del transfert, e dunque in una dimensione strettamente clinica, ha riguardato l'allargamento dell'ambito di riferimento del fenomeno a contesti extraclinici. Non più vincolato soltanto al contesto della cura e alla dinamica transferale, la connotazione dell’acting out si è spostata sulla qualità impulsiva del comportamento, indipendentemente dal suo verificarsi nel corso della cura analitica o al di fuori di essa. Il collegamento fra acting out e transfert è diventato, in altre parole, meno rilevante nel determinare l'uso di questo concetto, mentre è passato in primo piano il meccanismo d'azione che vi sta alla base: l'espressione di un contenuto psichico nell'azione anziché nella verbalizzazione, per incapacità a tradurlo in pensiero e a metterlo in parole. Ciò è stato collegato a un deficit della capacità di mentalizzazione, che spesso consegue a traumi o carenze risalenti alle prime fasi dello sviluppo. Questo uso più allargato del concetto di acting out, peraltro criticato da vari autori, si è esteso al di là dei confini della psicoanalisi propriamente detta ed è entrato nel linguaggio della psichiatria dinamica, dove la tendenza ad agire, ovvero a rispondere con qualche tipo di azione impulsiva a stati d'ansia non maneggiabili altrimenti, viene considerata un vero e proprio stile difensivo caratteristico di certe strutture di personalità. Restando nell'ambito strettamente psicoanalitico, il cambiamento a cui è andato incontro negli ultimi decenni il paradigma concettuale della psicoanalisi, con l'enfasi posta sugli aspetti relazionali rispetto a quelli pulsionali e intrapsichici, ha coinvolto anche il modo di concepire l’acting out. Mentre classicamente tale termine aveva una connotazione peggiorativa, venendo usato per lo più con un significato equivalente a «comportamento disturbante», fonte per l'analista di problemi tecnici (Turillazzi Manfredi e Pazzagli, 1984), con l'avvento dei nuovi modelli si è dato maggior peso alla dimensione comunicativa. Alcune caratteristiche che prima venivano sottolineate per definire l’acting out - come l'aggressività, la regressione, la resistenza al cambiamento, il deficit delle funzioni egoiche - sono passate in secondo piano rispetto all'attenzione prestata al fatto che comunque un agito veicola un'intenzione, ancorché inconscia, di mettersi in relazione con l'altro. Un arricchimento della comprensione della dinamica comunicativa insita nell’acting out viene dal concetto di identificazione proiettiva. Questo concetto, largamente usato nella teoria delle relazioni oggettuali e in particolare dalla scuola kleiniana, designa quella forma di comunicazione inconscia, non simbolica, messa in atto da un soggetto quando espelle e proietta parti di sé nell'altro in modo tale da indurlo a partecipare al processo proiettivo medesimo (Sandler, 1988). La dinamica attraverso cui una relazione d'oggetto interna viene esteriorizzata e, per così dire, immessa nell'organizzazione psichica di un altro individuo, comporta un movimento psichico assai complesso: è come se il soggetto avesse una capacità - beninteso inconscia - di coinvolgere emotivamente il suo interlocutore e di farlo entrare in risonanza con quanto viene proiettato in lui, talora al punto da indurlo a reagire. Questo movimento, pur originandosi nel soggetto, nella sua propria individualità, sollecita a tal punto la partecipazione attiva di un altro soggetto, il destinatario dell'identificazione proiettiva, che alla fine il fenomeno psichico che si produce non riguarda più una mente singola, ma due menti in interazione. Negli acting out è spesso in gioco una dinamica complessa di questo tipo. Per comprendere dunque nella sua globalità la fantasia inconscia che viene attualizzata tramite un acting out non basta indagare la dinamica psichica individuale, ma bisogna anche tener conto del contesto relazionale in cui tale acting out ha luogo. Bisogna, in altre parole, prendere in considerazione non solo gli elementi psichici che l'individuo espelle fuori di sé, ma anche l'oggetto - l'«oggetto» inteso nel doppio versante di oggetto interno fantasmatico e di oggetto esterno reale - sul quale viene effettuata la proiezione. Questo tipo di approccio dell'acting out, che ne mette in evidenza la dimensione relazionale e comunicativa, è particolarmente utile nella clinica, in quanto permette all'analista di accedere alle motivazioni inconsce del paziente attraverso le risonanze contro-transferali che vengono in lui stesso mobilitate: il riconoscimento dell'oggetto fantasmatico proiettato nella propria persona lo guida a comprendere l'intenzionalità comunicativa dell'agito e a restituirla al paziente con l'interpretazione. Sono stati soprattutto analisti di scuola non kleiniana, e per lo più appartenenti all'area geografica nordamericana, a portare in modo sistematico l'attenzione sui molti modi in cui paziente e analista si influenzano reciprocamente e a sottolineare le implicazioni interattive della comunicazione. E' vero, come diceva Freud, che nella stanza di analisi non si scambia nient'altro che parole; ma le parole non esprimono solo dei contenuti, esercitano anche - attraverso la dimensione pragmatica del linguaggio - un'influenza sull'interlocutore. In questo senso esse «agiscono», ovvero implicano delle azioni, anche se non nel senso motorio del termine. Una volta che lo scambio verbale fra paziente e analista venga visto come un flusso continuo di interazioni, e conseguentemente la situazione analitica concepita in una prospettiva bipersonale, la dimensione dell'«agire» risulta comunque presente nella stanza d'analisi - anche se ovviamente con modalità diverse, talora rilevabili in comportamenti macroscopici ma più spesso in quel fitto intreccio di microazioni che ha luogo dentro la comunicazione linguistica. Questa visione della relazione analitica ha comportato un capovolgimento del modo di concepire il ruolo dell'analista - non più visto come una presenza anonima e asettica, come uno «schermo opaco» su cui si riflettono i movimenti psichici del paziente, ma come un partecipante attivo al processo analitico, nel quale egli entra con la propria specifica soggettività. Per descrivere quei particolari momenti dell'analisi in cui l'analista si accorge che il proprio comportamento è stato sottilmente indotto dal paziente è stato utilizzato il termine di enactment, comunemente usato nella letteratura psicoanalitica per designare in senso lato l'«attualizzazione» o la «messa in atto» di una fantasia inconscia. Negli anni recenti, tuttavia, con il diffondersi di un punto di vista attento all'interazione e alle componenti non verbali, gestuali e posturali della comunicazione, il termine di enactment ha acquisito un significato più specifico: viene usato per indicare un atto (en-act-ment) il cui intento è di persuadere o forzare l'altro a un'azione che risponda alla sollecitazione data (si veda il rafforzamento conferito dalla particella en-). In pratica si designa con il termine di enactment un comportamento che ha la sua origine nel complesso intreccio transferale-controtransferale che lega paziente e analista (Filippini e Ponsi, 1993). Di questo episodio relazionale di reciproca induzione che si evidenzia attraverso un comportamento, le varie scuole psicoanalitiche danno valutazioni diverse: per coloro che adottano il paradigma relazionale nella sua versione più radicale, gli enactments sono evenienze ordinarie e inevitabili che punteggiano qualsiasi processo analitico, mentre per gli analisti classici l’enactment è un'evenienza pressoché eccezionale ed è l'espressione di un mancato controllo del controtransfert da parte dell'analista - mancato controllo che può peraltro convertirsi in un'occasione per approfondire il lavoro analitico se l’enactment viene individuato e interpretato. MARIA PONSI |
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