Ian Tattersal

Il cammino dell’uomo

Garzanti, Milano 2004

1. Ian Tattersal, curatore del Dipartimento di antropologia dell’America Museum of Natural History di New York, è uno dei massimi esperti mondiali di paleo-antropologia. Amico dello scomparso S. J. Gould e di Niles Eldredge, ha aderito alla teoria degli equilibri punteggiati che questi autori hanno elaborato, che egli sostiene dall’alto della sua competenza. E’ autore della mappa dell’evoluzione degli ominidi, aggiornata alle ultime scoperte paleontaropologiche più famosa e accreditata, che appare nella figura seguente:

 

Questa mappa basta da sola ad invalidare il modello dell’evoluzione lineare degli ominidi a lungo sostenuta dai neodarwinisti, la quale comportava la successione di sole quattro o cinque specie che si riteneva fossero esistite una alla volta. La paleoantropologia, per ora, di specie ne conteggia quattordici, riunite in quattro generi, e dà per contato che, in alcuni periodi, queste specie siano convissute in ambienti diversi o utilizzando diversamente le risorse ambientali. Anche l’Homo sapiens è convissuto per migliaia di anni con altre due specie umane (H. neanderthalensis, h. floresiensis), rimanendo poi sola ed unica.

Dato che una selezione del genere non si riscontra in qualunque altra specie, l’unicità dell’Uomo è il “mistero” che l’evoluzionismo deve risolvere. Il cammino dell’Uomo di Tattersal affronta questo problema esplicitamente, senza la pretesa ovviamente di risolverlo ma articolando un discorso che pone le premesse per giungere ad una soluzione. Il problema è impostato ed esplicitato fin dall’introduzione in maniera splendida:

“A una mezz'oretta a piedi da Les Eyzies-de-Tayac, una sonnolenta cittadina della Francia sudoccidentale, una stretta fessura penetra in profondità all'interno di una parete di calcare. Questo passaggio serpeggiante un tempo era il letto di un corso d'acqua sotterraneo. Oggi è la grotta di Les Combarelles I. All'entrata una guida apre con una chiave la vecchia cancellata di ferro e la spalanca. Un corridoio lungo, stretto e tortuoso scompare nell'oscurità. L'altezza e la larghezza mi permettono appena di stare in piedi, schiacciato contro il mio vicino. Procediamo tastoni, scansando le sporgenze di roccia, e ci inoltriamo per circa centocinquanta metri lungo quel passaggio tenebroso, domandandoci perché mai ci siamo cacciati in questa strettoia impervia e buia, nonostante la presenza dell'illuminazione elettrica a intervalli regolari. All'improvviso la guida si ferma e tutte le domande si dissolvono. Alla luce radente e filtrata delle lampade, le pareti della grotta si animano all'improvviso di figure incise, alcune quasi cancellate dallo strato di calcite che si è depositato nel corso dei millenni. Le raffigurazioni di trecento fra cavalli, mammut, renne, bisonti, stambecchi, leoni e molti altri mammiferi si affollano lungo le pareti della grotta per quasi un centinaio di metri. Eseguite con estrema delicatezza dopo una meticolosa osservazione dell'animale, queste figure così varie, che talora si sovrappongono, sono opera di popolazioni dell'Era glaciale, e forse risalgono a 13000 anni or sono.

Non affascina solo la maestria rivelata da queste meravigliose incisioni, eseguite in un'epoca in cui il paesaggio intorno a Les Cornbarelles ora una foresta di querce - era una vasta steppa percorsa dal mammut, dal rinoceronte lanoso e dal leone delle caverne: la cosa più sorprendente è che siano così antiche. Perché questa non è certo arte rozza: nel s genere è raffinata quanto ogni altra arte finora espressa dall'umanità, e non è certamente meno vigorosa. Qualsiasi pregiudizio sulla “primitività” degli “uomini delle caverne”, si dissolve all'istante. E quando finalmente si riesce a distogliere lo sguardo da queste superbe reliquie di un passato dell'umanità inconcepibilmente remoto e ci si volta per riprendere il cammino verso l'entrata della grotta, si nota qualcos'altro. A mezza altezza, la superficie delle pareti cambia. 11 pavimento della grotta è stato scavato in questo secolo per facilitare l'accesso ai visitatori, ma durante l'Era glaciale la volta, in certi punti, era a una sessantina di centimetri dal suolo. Gli artisti che la decorarono dovevano farsi strada sdraiati sul ventre, schiacciati fra il suolo e il soffitto, respirando faticosamente in un ambiente povero di ossigeno. Dopo aver scelto un punto distante dall'entrata per eseguire le incisioni e avere strisciato quasi un'ora per raggiungerlo, avevano a malapena lo spazio per muovere le braccia, per non parlare del resto del corpo. Al contempo dovevano aver trasportato all'interno non solo gli strumenti di selce utilizzati per incidere, ma anche una sorgente di luce, spesso poco maneggevole e scarsamente affidabile. L'illuminazione, come sappiamo dallo studio di altri siti di età confrontabile, era fornita da lampade ottenute scavando una pietra, a cui talvolta veniva data una forma molto elaborata cori ricche decorazioni. La cavità veniva riempita di grasso animale e la combustione era assicurata da un rametto di ginepro che faceva da stoppino. Sebbene la luce fosse debole e si spegnesse facilmente, queste lampade gocciolanti dovevano aggiungere, nella percezione dell'artista, un effetto notevole alle incisioni. Nella luce guizzante le immagini sembrano prendere vita: danno l'impressione che gli animali corrano a balzi lungo le pareti, anche perché gli artisti ebbero sempre cura di raffigurarli in movimento.

Uscendo dalla grotta si viene divorati dai “perché”. Perché infilarsi in un cunicolo stretto, senz'aria, buio, scomodo e potenzialmente pericoloso, che si addentra nella roccia terminando in un antro cieco dove c'è a malapena lo spazio per rigirarsi? Perché creare un'arte che può essere vista solo affrontando grandi difficoltà? Perché ignorare la parte più esterna della grotta, per eseguire le incisioni solo nei suoi recessi più profondi? Perché sovrapporle e perché disseminare immagini così vive di disegni geometrici e di una profusione di segni dall'oscuro significato e apparentemente superflui?

In tutta franchezza, non saremo mai in grado di dare una risposta certa ad alcuno di questi interrogativi: ma tentare di farlo è interessantissimo. Quest'arte sorprendente è l'espressione simbolica, miracolosamente ben conservata, dei racconti e dei valori di una cultura scomparsa da lungo tempo, che ci ha lasciato solo qualche riflesso indiretto e indistinto di un insieme certamente ricco di miti, credenze e tradizioni. Ma qualunque fosse l'urgenza oscura che spingeva gli artisti fino nei più profondi e inquietanti recessi di Les Combarelles e di molte altre grotte della Francia e della Spagna tanti millenni or sono, possiamo istintivamente riconoscerla come un'esigenza profondamente umana. Non solo siamo noi esseri umani, e solo noi, ad avere creato arte, ma siamo anche le uniche creature capaci di comportamenti misteriosi e imperscrutabili come questo.

Noi esseri umani siamo animali enigmatici. Siamo imparentati con il resto del vivente, ma ci distinguiamo per le nostre capacità cognitive. Gran parte del nostro comportamento è condizionato dall'interesse per concetti astratti e simbolici. Ciò non significa che non condividiamo con altri animali alcuni comportamenti, inclinazioni e strutture fisiche: questa verità non è nemmeno in discussione. Anzi, è proprio attraverso l'osservazione delle somiglianze che sappiamo di essere parte integrante della natura, ed è proprio studiando come sono distribuite tali somiglianze fra le numerose specie della Terra che possiamo conoscere con precisione il nostro posto nel grande albero della vita. Fare ipotesi sulla struttura di questo albero va oltre i propositi del mio libro, poiché intendo piuttosto affrontare la questione dell'unicità umana, analizzando ciò che ci differenzia dai nostri “parenti” più prossimi.” (pp. 7-9)

La prima rilevantissima differenza, cui il brano citato già fa cenno, è l’esplosione “creativa” dei primi Homo sapiens europei (i Cro-Magnon), che, per ora, è fatta risalire a 30000 anni fa. Scrive Tattersal:

“Ben lontana dal rappresentare uno sviluppo relativamente tardo fra le culture dell'Era glaciale, l'arte espressa nelle grotte più profonde fu un'innovazione precoce. La datazione dei dipinti della grotta di Chauvet, un sito della Francia centromeridionale scoperto di recente, ha dimostrato che almeno alcune delle trecento e più raffigurazioni di animali che popolano le pareti risalgono a più di 30 kyr or sono. Ciò contrasta clamorosamente con la stima della loro età in circa 18 kyr avanzata poco dopo la scoperta. Nessuno aveva immaginato che un'arte parietale così raffinata potesse essere tanto antica, ma datazioni confrontabili sono state di recente ottenute da altri siti: è chiaro che la cronologia dell'arte dell'Era glaciale dovrà essere radicalmente riveduta. Ciò che finora non è stato messo in dubbio è che l'età dell'oro dell'arte mobiliare e parietale corrisponde al Magdaleniano, il cui inizio è datato a circa 18 kyr fa, proprio quando l'ultima glaciazione raggiungeva il culmine. Cosa ci dice tutto ciò sui Cro-Magnon? Innanzitutto avvalora la conclusione che le prime popolazioni di Homo sapiens anatomicamente moderno giunsero in Europa equipaggiate dì tutte le capacità cognitive di cui siamo dotati noi. In secondo luogo sottolinea la tendenza verso l'innovazione e la diversificazione culturale che è una caratteristica fondamentale della nostra specie ed è al contempo estranea a tutte le specie umane precedenti.” (pp. 20-21)

“I Cro-Magnon ci hanno trasmesso ampie testimonianze dell'importanza dei simboli nella loro vita. Un'analisi accurata dei segni astratti che dipinsero sulle pareti delle grotte e incisero sulle placchette, come anche una migliore comprensione della loro “arte”, sta cominciando a rivelarci che in realtà non ci troviamo di fronte a un singolo corpo unitario di simboli e di credenze. Anzi, verso il termine dell'Era glaciale, nella sola Europa occidentale (una regione geograficamente limitata) vi furono dozzine di sistemi simbolici correnti. Questa diversità culturale, tipica dell'uomo attuale - e, in realtà, la stessa ampia diffusione del comportamento simbolico contrastano vistosamente con la relativa monotonia dell'evoluzione umana nel corso dei cinque milioni di anni precedenti. Prima dei CroMagnon, infatti, le innovazioni furono a dir poco sporadiche. Nuove tecniche cominciano a rivelare sfaccettature e ritmi nell'evoluzione dell'arte e della società dell'Era glaciale che sarebbero stati impensabili per l'umanità precedente, e stanno portando questo campo della scienza a una nuova epoca di fermenti finora inimmaginabili. Non siamo ancora in grado di sapere dove e come questi fermenti avranno termine, ma è già ampiamente evidente che con l'avvento di Homo sapiens anatomicamente moderno era emersa un'entità del tutto nuova: ancora oggi stiamo esplorando e ampliando il suo potenziale. Come ho accennato, vi sono indicazioni di forme artistiche e simboliche molto antiche anche fuori dall'Europa, e senza dubbio verso il termine dell'Era glaciale si ebbero sviluppi analoghi in tutto il Vecchio Mondo. Ma la documentazione lasciataci dai Cro-Magnon non ha rivali.” (p. 30)

L’esplosione creativa dei Cro-Magnon si iscrive in una cornice più ampia. Il cervello umano con le caratteristiche che ha attualmente è comparso evolutivamente tra 160mila e 100mila anni fa. Per un lunghissimo periodo, però, anche se ha favorito l’adattamento della nuova specie, esso non sembra avere esibito le sue potenzialità in maniera nettamente differenziata rispetto alle altre specie umane. E’ solo 40mila anni fa che esso va incontro all’esplosione creativa, riconducibile non solo alle arti rupestri, bensì alla costruzione di utensili molto più complessi ed efficaci rispetto a quelli adottati in precedenza. Come si può spiegare questa esplosione, la quale, con il suo ritardo, attesta che originariamente, la biologia ha preceduto la cultura?

2.

Un primo dato importante, e peraltro ampiamente valorizzato da Darwin stesso, riguarda la presenza nell’uomo di un potente istinto sociale. Scrive Tattersal:

“Se doveste costringere un antropologo - sicuramente poco incline alla collaborazione - a esprimere un’opinione sul perché si originò l’intelligenza umana (o come io preferirei formulare la domanda, perché la specie più intelligente del nostro ramo evolutivo ebbe successo), è molto probabile che […] alla fine brontolerebbe qual cosa del tipo: “Il nostro complesso contesto sociale”. E’ certamente vero che insieme con il loro cervello più voluminoso e complesso i primati superiori mostrano un'“intelligenza sociale” considerevolmente più spiccata di quella dei primati inferiori, con i quali sono più strettamente imparentati. Io stesso, che da tanti anni studio con ammirazione il più vario gruppo di primati inferiori, i lemuri del Madagascar, mi trovo obbligato a conformarmi a questa nozione, sebbene sia convinto che sinora la complessità sociale dei lemuri non sia stata riconosciuta, forse perché la loro forma di comunicazione è più estranea all'osservatore umano di quanto lo siano quelle delle scimmie, antropomorfe e non. Non c'è dubbio, quindi, che quando passiamo dai lemuri alle scimmie non antropomorfe e da queste prima alle antropomorfe e infine all'uomo, l'ambiente sociale immediato in cui queste creature vivono e si muovono diventi sempre più complesso: in altri termini, esso occupa una parte via via più ampia del loro ambiente totale. Quello delle popolazioni umane urbanizzate corrisponde spesso all'intero ambiente, con conseguenze che esamineremo in seguito.

Dunque non è difficile capire perché mentre numerosi primatologi hanno cercato spiegazioni dell'organizzazione complessiva di gruppi di primati nell'ambiente esterno - la minimizzazione della predazione, il più efficiente sfruttamento delle risorse disponibili e così via - coloro che erano interessati ai meccanismi che promuovono un accrescimento dell'intelligenza hanno invece preferito guardare alla complessità delle interazioni interindividuali entro i gruppi sociali. E ciò che hanno trovato li ha condotti a definire “machiavellica” l'intelligenza richiesta dalle interazioni di questo tipo. La ragione principale di una definizione così poco lusinghiera (o forse il contrario?) è che la vita nel l'ambito di gruppi sociali i quali, diversamente dalle colonie di api sono composti di individui il cui comportamento è in gran parte volontario, non è certamente un esempio di armoniosa cooperazione Al contrario, gli individui sono in competizione reciproca per una vasta gamma di risorse fra cui quelle essenziali come il cibo, lo status e il sesso, ed è qui che entrano in gioco gli aspetti machiavellici del l'intelligenza. La ragione è che nei gruppi relativamente stabili e gerarchicamene organizzati come quelli di gran parte dei primati superiori, il successo sociale dipende spesso meno dalle capacità pure e semplici - forza fisica, fascino, aggressività o altro - che dai rapporti interindividuali.” (pp. 41-42)

L’uomo peraltro condivide il suo carattere sociale con tante altre specie. Tra i comportamenti sociali, uno - legato all’empatia - sembra comune solo alle grandi antropomorfe: “Mentre comportamenti sociali di vario genere sono routinari fra i primati superiori, sembra che l'uomo condivida solo con le grandi antropomorfe la capacità di penetrare nella mente di altri individui e di prevederne il comportamento basandosi su conoscenze precedentemente acquisite.” (p. 45)

Un aspetto assolutamente specifico e differenziale sembra invece legato all’autoconsapevolezza:

"Se la capacità di conoscere e vagliare i pensieri altrui è presente in qualche forma fra le antropomorfe, che cosa possiamo dire della conoscenza di sé? Dopotutto, si sostiene da parecchio tempo che la nostra sola vera conoscenza è quella di noi stessi, e che la conoscenza del mondo esterno muove da quella interiore ed è filtrata attraverso le nostre percezioni. E’ molto difficile avvicinarci alla questione della conoscenza di sé, anche nell'uomo, e finora i tentativi meglio riusciti di accertarla in altri primati si sono avvalsi della tattica piuttosto rudimentale dell'utilizzo di specchi. Poste davanti a uno specchio, le scimmie non antropomorfe si sono mostrate abili nel servirsi della sua proprietà di riflettere utilizzandolo, per esempio, per vedere dietro gli angoli e identificare altre scimmie. In una situazione di “inganno visivo”, infatti, la proprietà dello specchio di riflettere rivela la comprensione della geometria visiva da parte del soggetto. Ma queste scimmie non sembrano mai sfiorate dall'idea che quando guardano direttamente nello specchio quella che vedono riflessa è la loro Immagine. Le grandi antropomorfe, invece, riescono a capire benissimo ciò che sta accadendo (dopo un prevedibile periodo iniziale di confusione in cui sono caduti anche esseri umani adulti che non avevano familiarità con lo specchio). Quindi, quando fu fatto l'esperimento di dipingere macchie colorate sulla faccia di alcuni scimpanzé precedentemente anestetizzati, la maggior parte di questi, al risveglio, se ne andò in giro tranquillamente fino a quando, vista la propria immagine riflessa dallo specchio, tentò di cancellare la macchia. E una volta riconosciutisi allo specchio, gli scimpanzé lo usarono singolarmente per esplorare la propria faccia e il proprio corpo, guardandosi da diverse angolazioni e facendo smorfie.

Qualcuno ha sostenuto in modo convincente che l'evidente capacità delle antropomorfe di riconoscersi allo specchio implica che possiedono l'autocoscienza, altrimenti non avrebbero modo di interpretare l'immagine. Inoltre si è sostenuto che la conoscenza di sé e dei propri stati mentali è un pre-requisito essenziale per comprendere i pensieri e i sentimenti altrui. Una simile razionalizzazione è, ovviamente, un processo molto diverso dalla semplice previsione delle reazioni che l'operato di un individuo può suscitare in un altro, anche se all'atto pratico potrebbe essere difficile o impossibile distinguere i comportamenti risultanti dai due processi. Inoltre bisogna ammettere che le antropomorfe utilizzano la propria immagine riflessa nello specchio in misura molto più limitata di quanto facciano gli esseri umani. È stato osservato, per esempio, che a parte la cancellazione di segni estranei, le antropomorfe non compiono alcun tentativo di modificare la propria immagine, nemmeno in modi che accrescerebbero il loro successo sociale. Non c'è, per esempio, alcun indizio del desiderio di “migliorare” l'immagine riflessa e il suo soggetto, come invece fanno (con o senza specchi) gli uomini di tutte società tagliandosi i capelli, portando complicate acconciature, adornandosi di monili o dipingendo il proprio corpo.

La lista dei comportamenti in cui le antropomorfe - e solo esse rassomigliano almeno in parte all'uomo potrebbe continuare a lungo, ma è ovvio che nessuna osservazione di primati non umani fornirà mai le prove sufficienti che essi abbiano un'intelligenza umana anche se alcune delle capacità rivelate dalle antropomorfe potrebbero essere considerate una tappa necessaria sul cammino della sua acquisizione. Il genere umano è sempre il genere umano, dopotutto, gli scimpanzé sono sempre scimpanzé. I primati superiori iniziarono tutti con le stesse potenzialità sotto forma di un unico progenitore comune (che non poteva essere molto diverso dai suoi parenti più stretti). I vari rami evolutivi dei primati superiori distaccatisi da quello del progenitore comune non fecero altro che mettere a frutto - in modi differenti e in un lungo periodo - la sua particolare qualità che predisponeva all'accrescimento dell'intelligenza. Come vedremo più dettagliatamente in seguito, la stessa selezione naturale è soggetta a eventi casuali - essa può operare solo sulle situazioni che le si presentano e certamente non è un meccanismo di ottimizzazione nel senso ingegneristico del termine. L'umanità attuale è il risultato di una sequela unica di eventi evolutivi dipesi non solo dal raggiungimento di particolari capacità ereditarie ma anche da quelle altre che erano già state acquisite dalla sua linea evolutiva quando intervenne le selezione.” (pp. 45-47)

Per quanto riguarda il linguaggio, dopo anni e anni di sperimentazione mirata a verificare la capacità dei primati di apprendere a “parlare”, la conclusione è univoca: “Gli scimpanzé, dunque, non possiedono il linguaggio articolato, Anche attraverso gli eroici e tenaci sforzi degli istruttori non lo acquisiscono nemmeno nella sua forma più rudimentale. Inoltre è difficile dimostrare che possiedono capacità cognitive che potrebbero essere chiamate “prelinguistiche”. Gli esseri umani sono realmente unici per il possesso del linguaggio e dell'apparato che permette loro di apprenderlo ed esprimerlo.” (p. 62)

Ad analoga conclusione si perviene per quanto riguarda la costruzione degli utensili: “Per il momento è importante osservare che i più antichi ominidi che fabbricarono strumenti litici identificabili come tali possedevano sia il meccanismo centrale che quello periferico necessari per questa attività. Ma la cosa forse più interessante è che essi inventarono efficienti tecniche di fabbricazione di strumenti partendo da una scelta consapevole del materiale adatto, e questa attività diventò una componente tutt'altro che trascurabile del loro repertorio comportamtale. Da un punto di vista cognitivo, è chiaro che furono significativamente diversi da ogni altra antropomorfa attuale.” (pp. 54-55) L’empatia, l’autoconsapevolezza, il linguaggio articolato, la costruzione di utensili sono dunque prove poco confutabili dell’unicità della specie umana. Come far rientrare questo quadro nella cornice dell’evoluzionismo?

3.

Tattersal pensa che sia possibile integrando il darwinismo, che considera l’individuo il motore dell’evoluzione, con la teoria degli equilibri punteggiati, che anziché gli individui valorizza le specie: “Le specie, ben lontano dall'essere semplici segmenti della linea evolutiva arbitrariamente definiti, sono entità reali. Come gli individui, nascono (speciazione), hanno un arco di vita (di lunghezza molto variabile, ma non segnata da cambiamenti di rilievo) e poi muoiono (estinzione). Ciò che più conta, sul vasto palcoscenico dell'evoluzione le specie interpretano un ruolo simile a quello previsto per gli individui dal darwinismo tradizionale. Le specie possono estinguersi per molte ragioni, compresa quella di essere battute nella competizione con altre specie, fra cui i loro stessi discendenti: in altri termini, nello stesso modo in cui gli individui differiscono nella capacità di competere fra loro, altrettanto fanno le specie. Le tendenze osservate nella documentazione fossile - come l'aumento progressivo del volume cerebrale umano - vengono spesso citate come testimonianze di un graduale cambiamento di direzione, ma in realtà è molto più probabile che siano il risultato della selezione delle specie per competizione reciproca, e non della selezione direzionale all'interno delle linee evolutive.”

Sulla base di questa nuova gerarchia, Tatatersal espone il suo punto di vista sull’evoluzionismo: “Secondo me (e non sono solo) la chiave di volta per la comprensione del processo evolutivo sta nel riconoscere non solo l'esistenza ma anche il significato della gerarchia di organizzazione biologica, della quale ho già parlato. Si tratta della gerarchia che comincia con i geni e procede verso l'alto, dall'individuo alle popolazioni locali, alle specie e forse anche oltre. Tutti questi livelli sono coinvolti nel processo evolutivo, ma ciascuno partecipa a modo proprio. Le mutazioni e le ricombinazioni genetiche generano quella variabilità su cui opera la selezione naturale. Promuovendo il successo o il fallimento riproduttivo di individui con caratteri ereditari più o meno favorevoli, la selezione naturale favorisce l'adattamento di una popolazione locale ad ambienti specifici. Per definizione, le popolazioni locali sono le uniche ad avere buone probabilità di vivere in un habitat - o un insieme di habitat - relativamente omogeneo al quale è possibile adattarsi; perciò esse sono la reale forza traente dell'innovazione evolutiva. I nuovi caratteri si originano con gli individui, ovviamente, ma è solo l'affermazione di quei caratteri in una popolazione che costituisce innovazione nel senso evolutivo vero e proprio. In breve, quindi, gli individui non si evolvono, le popolazioni si. Ma quali popolazioni?

In un certo senso, è la specie riproduttivamente unitaria a costituire la popolazione definitiva. Ma in un altro, senso, che non è meno importante, le specie sono essenzialmente astrazioni. Infatti, come abbiamo appena visto, esse consistono solitamente di più popolazioni locali che occupano una varietà di ambienti, o perlomeno di microambienti. La conseguenza è che le tendenze evolutive nell'ambito di una specie non saranno unidirezionali, ma divergenti, in quanto ciascuna popolazione locale facente parte della specie si scava un solco adattativo nel proprio habitat. E, noi sappiamo con certezza che le popolazioni locali sviluppano routinariamente le proprie peculiarità ereditarie, anche se è possibile sostenere che nella maggior parte dei casi la selezione naturale è qualcosa che dobbiamo presumere, e non qualcosa che possiamo sapere, poiché solo molto recentemente abbiamo cominciato a disporre di evidenze sperimentali dirette a conferma del fatto che la selezione naturale opera realmente nell'ambito di popolazioni.

Le popolazioni locali, dunque, diventano quasi sempre entità distinte, ma è l'evento della speciazione che “fissa” le innovazioni à: conferisce loro validità storica. Infatti mentre popolazioni locali distinte possono avere un'esistenza economica, esse restano sempre legate al resto della loro specie dalla continuità riproduttiva, almeno potenzialmente. Gli habitat sono costantemente fluttuanti, e le popolazioni isolate o quasi isolate al cui interno sorgono le innovazioni corrono sempre il rischio di venire riassorbite, insieme con le loro peculiarità genetiche, nella popolazione parentale. E qui che entrano in funzione i “meccanismi di isolamento” che assicurano almeno un certo grado di incompatibilità riproduttiva fra popolazioni imparentate. Spezzando la continuità riproduttiva, creano nuove entità storiche distinte dalle effimere unità che erano precedentemente a rischio per riassorbimento o per estinzione locale. A lungo andare la nuova specie potrebbe non sopravvivere, ma la sua esistenza, per quanto breve, sarà stata perlomeno obiettiva e indipendente da ogni altra. E se, al contrario, essa ha successo ed espande l'areale, porterà i propri caratteri distintivi in nuovi habitat dove i processi gemelli di innovazione locale e competizione interspecifica ricominceranno da capo. In questo modo l'entità specie agisce principalmente per definire i confini entro i quali le innovazioni possono accumularsi, mentre il processo di speciazione sceglie nuovi attori per il palcoscenico dell'evoluzione.

E' importante chiarire altri due punti. Il primo è che i meccanismi di isolamento - i quali, al contrario dell'incorporazione di nuove variazioni fisiche, sembrano richiedere una ristrutturazione del pool genico di una popolazione - hanno maggiori probabilità di affermarsi in popolazioni poco numerose e quasi isolate. Ciò perché i pool genici delle popolazioni poco numerose sono intrinsecamente molto meno stabili di quanto lo siano quelli delle popolazioni numerose: nelle ultime, infatti, ogni innovazione che si presenta tende a essere spazzata via dalla forza inerziale dei genotipi affermatisi in precedenza. Il secondo punto, che ho già sollevato brevemente, è che mentre un pool genico di proporzioni ridotte incorpora le novità vantaggiose più rapidamente di quanto possa fare uno di grosse proporzioni, l'acquisizione di meccanismi di isolamento e l'acquisizione di nuovi adattamenti non sono necessariamente la stessa cosa. I due processi, anzi, potrebbero essere completamente indipendenti. Ciò perché in alcuni casi possiamo osservare l'accumulazione di enormi differenze fra popolazioni di una specie senza alcun indizio di isolamento genico, mentre in altri casi specie strettamente imparentate ma riproduttivamente distinte possono apparire all'occhio umano praticamente identiche. Per di più, sebbene dobbiamo imparare ancora moltissimo sul misterioso processo della speciazione, è già molto chiaro che tutte le innovazioni morfologiche o comportamentali (adattative e non) devono necessariamente sorgere all'interno di popolazioni che si riproducono liberamente. Per quanto possa tentarci, non possiamo utilizzare routinariamente l'arrivo di nuove specie per “spiegare” la comparsa di nuove morfologie nella documentazione fossile, sebbene, come risultato delle imperfezioni della documentazione, di fatto una nuova specie e una nuova morfologia possano comparire contemporaneamente. Inoltre è importante capire che non tutte le innovazioni morfologiche affermate in una popolazione rappresentano necessariamente adattamenti in senso stretto.

Vi sono numerosissimi fattori casuali che possono intervenire nell'acquisizione di nuove morfologie, specialmente in popolazioni poco numerose. Ciò non significa, ovviamente, che un carattere importante che si è fissato casualmente sia esente per sempre da qualche forma di selezione. Le circostanze locali potrebbero cambiare e rendere “utile” tale carattere, ma non solo: una volta che sia stato raggiunto l'isolamento genico fra una popolazione locale e la sua specie parentale, qualora si ristabilisse il contatto fra loro, le due specie ora indipendenti sarebbero libere di competere. Ciò sposta l'effetto della selezione a un altro livello, quello che abbraccia tutti gli attributi di una popolazione. E, come hanno proposto Eldredge e Gould, per spiegare le tendenze a lungo termine che osserviamo nella documentazione fossile, dovremmo considerare la sopravvivenza differenziale delle specie concorrenti. Tuttavia questa non è sempre riconducibile all'eccellenza dell'adattamento. Gli ambienti possono essere relativamente stabili oppure no, ma quando cambiano solitamente lo fanno in breve tempo, a ritmi che l'adattamento per selezione naturale stenta a mantenere. Quando avviene questo tipo di cambiamento, la qualità dell'adattamento di una specie al suo vecchio habitat è irrilevante, e qualunque vantaggio competitivo abbia avuto può essere eliminato d'un sol colpo.

Se il cambiamento esterno - che solitamente è costituito dallo scomodo arrivo di una nuova specie, compresi, forse, i parenti stretti - è abbastanza grande, si resta con due sole alternative possibili: migrazione verso un habitat più congeniale o estinzione. In casi estremi la seconda è praticamente l'unica via aperta, come le periodiche estinzioni di massa verificatesi nella storia della Terra hanno drammaticamente dimostrato. Comunque sia, è raro che un cambiamento adattativo immediato possa essere un'opzione. Le variazioni ambientali avvengono in genere troppo in fretta per essere prontamente raggiunte dalla selezione naturale. Inoltre hanno l'effetto di permettere la rapida colonizzazione di tratti di territorio da parte di nuove specie, e tutto ciò conduce alla competizione e a rapide sostituzioni delle faune. Come vedremo, il genere Homo potrebbe essere emerso in associazione con un “impulso” di questo tipo, scatenato dall'ambiente. Geni, individui, popolazioni e specie vengono selezionati tutti in un modo o nell'altro durante il tempo dell'evoluzione, ed è il risultato di questo processo che noi vediamo riflesso nella documentazione fossile.” (pp. 91-95)

4.

I capitoli quarto e quinto del saggio sono una minuziosa ricostruzione dell’evoluzione degli ominidi, così come è oggi possibile realizzarla alla luce della paleoantropologia. Il momento più importante di questa ricostruzione, naturalmente, riguarda la comparsa dell’uomo, alla quale Tattersal dedica questo paragrafo:

“Nel Capitolo 1 ho già descritto i sorprendenti successi dei primi uomini di tipo moderno che entrarono in Europa. Dove ciò avvenne è tutt'altro che chiaro, e su questo tornerò tra breve. Per il momento è sufficiente osservare che i primi invasori giunsero pienamente equipaggiati della loro morfologia moderna da un altro luogo, poiché non è certamente in Europa che essi si originarono. Stabilire la loro provenienza non è semplice anche perché una popolazione può essere “moderna” non solo anatomicamente ma anche comportamentalmente. Non c'è dubbio che Homo sapiens, così come lo conosciamo dai resti fossili, ebbe origine in Africa o nelle vicinanze, e ciò è indicato anche dagli studi molecolari, che hanno collocato l'evento intorno a 130-160 kyr or sono. Mentre questa datazione presunta può essere discussa, il fatto che fra le popolazioni africane si osservi una variabilità molecolare superiore a quella delle popolazioni di altri continenti dimostra in modo abbastanza convincente che Homo sapiens si è differenziato in Africa più a lungo che altrove.

La documentazione fossile, per quanto non abbondante, racconta una storia analoga. Forse circa 120 kyr fa un gruppo di aspetto moderno si accampò non lontano dalla punta meridionale dell'Africa, nei siti ora chiamati Klasies River Mouth. Fabbricavano strumenti tipo Middle Stone Age (più o meno e equivalenti al Musteriano dell'Europa e dell'Asia occidentale), ma vi sono indicazioni del fatto che il modo in cui essi organizzavano lo spazio abitativo era di concezione più moderna dei loro strumenti, anche se non lasciarono testimonianze materiali di attività simboliche. I fossili umani di Kiasies sono pochi e frammentari ma - e questo è molto interessante sono stati interpretati come i resti di un festino cannibalesco: la più antica testimonianza attendibile di questo comportamento.

Anche altri siti africani hanno restituito testimonianze dei primi uomini di anatomia moderna, ma la loro analisi è confusa dall'incertezza della datazione. Un cranio frammentario di aspetto moderno proveniente dalla valle dell'Omo, in Etiopia, potrebbe risalire a 125 kyr, sebbene altri reperti africani dello stesso periodo conservino una morfologia più arcaica. In termini faunistici la regione del Levante faceva parte dell'Africa, ed è interessante che proprio quest'area abbia restituito la sola testimonianza fossile, affidabile anche nella datazione, della provenienza dei primi uomini di morfologia moderna. In Israele i siti di Skhul e di Qafzeh sono stati recentemente datati a circa 100 kyr (il primo un po' di più, il secondo un po' di meno). Come abbiamo visto, entrambi hanno restituito strumenti di tipo musteriano, ma ciascuno conteneva significative testimonianze di accurate inumazioni accompagnate da semplici offerte funerarie. I fossili umani di Qafzeh sono stati attribuiti a popolazioni diverse, ma comprendono certamente resti di individui di Homo sapiens; quanto a Skhul, la maggior parte dei ricercatori è disposta ad ascrivere i fossili alla nostra specie sebbene conservino alcuni caratteri arcaici (ma qualcuno di noi nutre riserve in proposito). In ogni caso, basandoci su Qafzeh abbiamo testimonianze incontrovertibili della presenza nel Levante di uomini di anatomia moderna datati approssimativamente a 100 kyr.

Come ho già accennato, in Israele uomini anatomicamente moderni coesisterono in qualche modo con i Neandertaliani almeno dal tempo di Qafzeh e Skhui fino a circa 40 kyr or sono. Potrebbe essere significativo che la prima comparsa del Paleolitico superiore in quella regione si verificò solo poco dopo la scomparsa dei Neandertaliani locali, indicando che fu l'adozione di modelli di comportamento moderni a conferire la supremazia a Homo sapiens. In ogni caso le testimonianze di precoce attività simbolica sono rare. Una placchetta con incisioni dalla linea sinuosa, palesemente intenzionali, è stata recentemente descritta dal sito di Quneitra, sulle alture del Golan, datato a 50 kyr or sono. A quel tempo lo strumentario dei Neandertaliani e quello delle popolazioni anatomicamente moderne erano più o meno indistinguibili, e non vi è alcuna indicazione che ci permetta di attribuire questo sito agli uni o agli altri. Ma anche con l'arrivo della tecnologia del Paleolitico superiore - che, allo stato attuale delle conoscenze, fu esclusivamente opera di popolazioni di tipo moderno - nel Levante non troviamo immediatamente tracce di quelle attività simboliche che caratterizzarono le prime popolazioni europee di morfologia simile (la cui tecnologia utica era non meno distintiva). In un certo senso è un rompicapo, ma sappiamo bene che fra le popolazioni attuali vi è un'ampia varietà di espressioni culturali, e sebbene tutte siano caratterizzate da attività simboliche, non sempre sono del tipo che lascia tracce nella documentazione archeologica. Molto semplicemente, gli antichi Europei che assisterono alla scomparsa dei Neandertaliani possedevano un repertorio culturale copiosamente riflesso nella straordinaria documentazione di sé che essi ci lasciarono, sebbene e ciò è significativo non in ugual misura in ogni sito. Comunque i dati attualmente in nostro possesso indicano con certezza che i modelli comportamentali di tipo moderno si originarono molto dopo le prime testimonianze di modernità anatomica.

Che cosa accadde esattamente quando l'uomo comportalmentalmente e anatomicamente moderno invase l'Europa non è chiaro, e non sappiamo nemmeno attraverso quale via (o vie) abbia raggiunto il subcontinente Fino a non molto tempo fa, le cose sembravano relativamente semplici: i siti europei del Paleolitico superiore di datazione più antica (invariabilmente associati, dove sono stati trovati resti fossili, a popolazioni di anatomia moderna) si trovavano a Oriente; in Bulgaria, in particolare, il sito del Paleolitico superiore di Bacho-Kiro è datato a più di 40 kyr or sono. Sembrava inoltre che le popolazioni di tipo moderno che invasero l'Europa provenissero da est, e che l'occupazione fosse cominciata approssimativamente intorno a quel periodo. E si riteneva che più o meno 27 kyr fa le nuove popolazioni avessero estromesso i Neandertaliani dalla loro ultima roccaforte nella penisola iberica, all'estremità occidentale dell'Europa. Ma ora abbiamo datazioni di circa 40 kyr per località del Paleolitico superiore nella stessa penisola iberica, precedenti a quelle di qualsiasi altro sito a ovest della Bulgaria. Dovremmo dedurne che le prime popolazioni anatomicamente moderne giunsero in Europa intorno a questa data in più ondate, penetrando da luoghi diversi? Forse qualche tentativo iniziale di occupazione falli? Quali sono le implicazioni dell'alternarsi di strati aurignazianj e chatelperroniani in certi siti francesi? Man mano che verranno ottenute nuove datazioni forse il quadro generale si chiarirà; nel frattempo è possibile affermare che la conquista dell'Europa da parte delle popolazioni di morfologia moderna fu un processo molto lungo e complesso, poiché la cacciata dei Neandertaliani si concluse solo dopo una dozzina di millenni.

Alcuni paleoantropologi hanno sostenuto che in pratica non fu un processo di espulsione ma di assimilazione, perché le popolazioni di tipo moderno si sarebbero incrociate con i Neandertaliani, i cui geni sarebbero stati ”sommersi” da quelli dei nuovi venuti. Sfortunatamente questo scenario di invasione pacifica non trova conferme nella documentazione fossile (che localmente rivela un modello di sostituzione a breve termine). Inoltre le spiccate differenze fisiche fra Neandertaliani e uomini di anatomia moderna rendono altamente improbabile che i due gruppi potessero incrociarsi e procreare. Possiamo ammirare le popolazioni del Paleolitico superiore europeo per le loro prestazioni artistiche, ma esse, al pari di noi, devono avere avuto un lato oscuro, e gli incontri fra Cro-Magnon e Neandertaliani non possono essere stati sempre felici per questi ultimi.

Tutto ciò, ovviamente, è estraneo alla questione delle origini dei comportamenti dell'uomo anatomicamente moderno. Come abbiamo visto, troviamo impressionanti testimonianze di attività artistiche, musicali e simboliche fin dagli inizi del Paleolitico superiore europeo, molto oltre 30 kyr or sono. Non sappiamo per quanto tempo si protrasse l'acquisizione della sensibilità e delle inclinazioni del nuovo tipo umano, ma è evidente che erano già pienamente fiorite a uno stadio iniziale. Di conseguenza nessuno nega che le delicate placche dell'Abri Blanchard racchiudano una forma di notazione simbolica, sebbene non possiamo essere certi che fossero realmente calendari lunari, come è stato proposto. Ma il simbolismo è innegabilmente l'essenza dell'umanità, come intendo sottolineare nel prossimo capitolo. Se vi è una sola cosa che distingue l'uomo da tutte le altre forme di vita, attuali o estinte, è la capacità di pensiero simbolico: saper generare complessi simboli mentali ed elaborarli in nuove combinazioni. È proprio questo il fondamento dell'immaginazione e della creatività: la capacità, unicamente umana, di creare un mondo nella propria mente, e di ricrearlo in quello reale che si trova all'esterno. Altre specie possono sfruttare il mondo esterno con grande efficienza, come abbiamo visto nel caso degli scimpanzé, ma mantengono sostanzialmente il ruolo di soggetti passivi e men osservatori. Anche i Neandertaliani, per quanto notevoli possano essere stati, con tutta probabilità si erano a malapena liberati da questa condizione.

E’ nelle manifestazioni artistiche dei Cro-Magnon che si rivela pienamente la singolare capacità umana di questa popolazione. La loro arte fu molto più di un'interpretazione meccanica dell'ambiente che li circondava. Fu invece una complessa ri-creazione del mondo esterno, reso con squisito senso dell'osservazione e con padronanza dei propri mezzi. Non conosceremo mai con certezza il contesto mitico (o i contesti) di quella ri-creazione, ma è evidente che persino le superbe immagini degli animali con cui i Cro-Magnon condividevano il territorio avevano per loro un significato simbolico che trascendeva la semplice identità zoologica. Riconosciamo subito i segni astratti che punteggiano i fregi degli animali di Lascaux indicandoli come “simboli” (quale altro senso avrebbero?), ma è evidente che le immagini degli animali erano per i Cro-Magnon che le dipinsero molto più di semplici raffigurazioni: sono pregne di tutti i significati che popolavano il complesso universo mentale dei loro autori.

A parte gli aspetti più alti della creatività e dell'immaginazione, i Cro-Magnon ci offrono la migliore testimonianza della complessità dell'organizzazione sociale che è tipica delle popolazioni umane attuali. Per esempio, non solo vi sono sepolture elaborate con offerte funerarie come quelle di Sungir a indicare con certezza l'esistenza della fede in una vita dopo la morte, ma esistono anche prove evidenti della stratificazione sociale e della differenziazione sociale ed economica dei ruoli che caratterizzano anche le società attuali. Non possiamo ritenere che tutti i Cro-Magnon avessero avuto le stesse sontuose sepolture, e in realtà sappiamo che non fu così. Alcuni vissero esistenze più umili di altri; e mentre è probabile che alcuni Neandertaliani abbiano avuto un'importanza sociale superiore a quella dei loro compagni, e persino che maschi e femmine avessero ruoli economici (in quanto contrapposti a riproduttivi) differenti, vi sono buone probabilità che la società neandertaliana fosse radicalmente diversa da tutto ciò con cui oggi abbiamo familiarità. I siti neandertaljanj sono prevalentemente poco estesi (e quando sono vasti consistono in una successione di spazi abitativi di piccole dimensioni che implica una rigida limitazione delle dimensioni dei gruppi in qualsiasi momento); i siti dei Cro-Magnon abbracciano una gamma di dimensioni molto più ampia lasciando comprendere che, almeno stagionalmente, si riunivano gruppi numerosi. A livello economico, diversi filoni di testimonianze indicano l'esistenza di più approcci fondamentalmente differenti all'esplorazione dell'ambiente. Le punte di armi da getto sono rare nei siti neandertaliani, e indicano che essi attaccavano abitualmente le prede di grossa taglia a distanza ravvicinata (una tecnica estremamente pericolosa, che si riflette nelle tracce di traumi osservabili sui loro resti fossili e che qualcuno ha paragonato ai traumi tipici di coloro che praticano il rodeo); i Cro-Magnon, al contrario, lanciavano proiettili da una distanza di sicurezza.

E interessante osservare che mentre una parte dell'arte dei primi Cro-Magnon fu fra le loro più grandi manifestazioni, con il trascorrere del tempo possiamo facilmente individuare nella documentazione del Paleolitico superiore le prove di progresso (in quanto contrapposto al semplice cambiamento) a livello tecnologico. I più antichi complessi litici aurignaziani, per esempio, sono relativamente grossolani, e le più sofisticate tecniche di pesca vennero adottate relativamente tardi nel Paleolitico superiore. Forse è ciò che dovremmo aspettarci, in quanto la tecnologia ha in sé qualcosa di assoluto e la sua efficienza può essere misurata con precisione. Gli uomini si disfano sistematicamente delle procedure inefficienti a favore delle più nuove ed efficaci, e la regolare innovazione tecnologica nel corso del Paleolitico superiore è solo il primo esempio documentato di una tendenza che perdura ancora oggi. Al contrario, l'arte esprime un fondamentale anelito dell'anima la cui efficacia non è direttamente misurabile. Un’arte serve alla stessa funzione essenziale indipendentemente dalla sua qualità intrinseca, la sua eccellenza non ha a che vedere con la tecnologia, e infine cambia con la moda seguendo percorsi non lineari, dunque imprevedibili. E per questo che oggetti straordinari come il cavallino di Vogelherd annunciano la comparsa precoce di una sensibilità umana pienamente moderna come una lama aurignaziana non potrebbe mai fare, e questo oggetto squisito e immensamente antico la testimonierà in modo eloquente fino a quando la Terra sarà popolata di esseri umani che potranno apprezzarlo.

Tuttavia, sebbene la documentazione lasciataci dai Cro-Magnon sia la testimonianza qualitativamente più affidabile, oltre che quantitativamente più ricca, della loro creatività, non è certamente la più antica. Vi sono indicazioni che, particolarmente in Africa e in Australia, modelli di comportamento di tipo moderno si erano consolidati già parecchio tempo prima. Gli strumenti su lama, per esempio, compaiono in Africa prima (probabilmente molto prima) di 80 kyr or sono; e mentre un singolo caso non può essere generalizzato, può essere considerato significativo che le punte di armi da getto siano normalmente presenti in siti africani datati a oltre 100 kyr. Recentemente, un sito dello Zaire ha restituito punte in osso munite di denti che sono state datate (non unanimemente) a 60-80 kyr fa, e in siti dell'Africa meridionale di età confrontabile sono state trovate indicazioni di lavorazione dell'osso. L'Africa, inoltre, ha offerto testimonianze di estrazione della selce e del trasporto di materie prime su lunghe distanze, mentre in Europa non vi è traccia di simili comportamenti se non nel Paleolitico superiore. Anche la differenziazione locale nelle tecnologie litiche, associata in Europa con i Cro-Magnon, si è manifestata in Africa in tempi molto antichi.

Tutto ciò si correla più ai progressi tecnologici che a comportamenti apertamente simbolici ma, come ho già detto, questi ultimi non sono sempre del tipo che può conservarsi nella documentazione archeologica. Prese nell'insieme, le indicazioni di precoci modelli di comportamento ”moderno” individuate nei siti africani sono dunque suggestive. In quel continente, le testimonianze dirette di simbolismi sono più frammentarie delle testimonianze di innovazioni tecnologiche, ma non sono del tutto assenti: frammenti incisi di guscio di uovo di struzzo sono noti da località che potrebbero forse risalire a 100 kyr or sono, e perline dello stesso materiale sono note da parecchi siti molto lontani fra loro, la cui datazione può variare da 60 a 50 kyr. Frammenti di osso con tacche, forse interpretabili come sistemi di notazione, sono stati trovati in siti anteriori a 40 kyr or sono. Ne consegue che le popolazioni della Middle Stone Age africana (approssimativamente equivalente, sul piano cronologico e tecnologico, al Musteriano) sebbene non fossero così propense alla produzione di oggetti simbolici quanto lo erano i Cro-Magnon, mostravano ugualmente interessanti indizi di modelli comportamentali più ”moderni” di quelli dei Neandertaljani.

Anche in Australia esistono tracce ditali comportamenti in periodi molto antichi. Semplicemente in termini di occupazione, l'uomo cominciò a essere presente nell'Australasia già a partire da 60 kyr fa, o forse prima. Si tratta di un dato di importanza tutt'altro che locale perché per arrivare in Australia egli dovette compiere la formidabile impresa di navigare per 60 miglia di oceano aperto. Ciò che più conta è che sono state trovate indicazioni indirette di attività artistiche svolte 50 kyr fa o più, e recentemente è stato riferito il ritrovamento di curiosi graffiti circolari su roccia riferibili a un periodo molto precedente, anche se la datazione rimane fortemente controversa. In sintesi, sebbene fuori dell'Europa tutto ciò di cui attualmente disponiamo siano solo vaghe indicazioni di comportamenti simbolici, è evidente che al momento attuale la nostra percezione è pesantemente condizionata dalla ricchezza della documentazione europea, relativamente tarda. Non c'è dubbio che nell'origine e nella diffusione dei comportamenti di tipo moderno vi sia stata molta più effervescenza di quanto ora possiamo vedere con i nostri occhi.” (pp.156-163)

5.

In più punti del saggio, Tattersal rileva che, nonostante il progresso delle conoscenze paleontropologiche, non riusciremo mai a sapere del tutto come sono andate le cose. Ciò non significa che lo sforzo di ricostruire il passato remoto della specie sia vano. Tutti i dati finora accumulati concorrono a convalidare la teoria darwiniana, aggiungendo ad essa, in virtù della teoria degli equilibri punteggiati, una quota ancora maggiore di casualità, di imprevedibilità, di contingenza, di ridondanza funzionale.

A cosa può servire quello sforzo è il tema esplicito dell’ultimo capitolo, che merita una lunga citazione:

“Capitolo sesto Essere uomini

Potrebbe apparire strano far seguire a due capitoli nei quali ci siamo diffusi su cinque milioni di anni della storia evolutiva umana l'affermazione che non vi sia da imparare su noi stessi, contemplando il nostro passato evolutivo, molto più di quanto ve ne sia osservando il nostro bizzarro comportamento di oggi. Tuttavia non ho dubbi che, per un aspetto importante, questa affermazione sia assolutamente vera. Infatti, se l'ultimo capitolo ha dimostrato qualcosa, è che con l'arrivo di Homo sapiens comportamentalmente moderno apparve sulla Terra un'entità del tutto nuova. Per la prima volta dall'adozione della postura eretta o forse dalla fabbricazione di strumenti litici era comparso un nuovo tipo di ominide del quale non si poteva dire che facesse semplicemente ciò che avevano fatto i suoi predecessori, magari in un modo un po' migliore o addirittura un po' diverso. Homo sapiens non è soltanto una versione migliorata dei suoi antenati: è una nuova concezione, qualitativamente distinta per aspetti molto significativi seppur limitati. Anche se la nostra egocentrica specie tende a sopravvalutare l'entità della differenza qualitativa tra se stessa e il resto del mondo vivente, inclusi i nostri parenti più prossimi, questa differenza è reale. Dunque lo straordinario fenomeno che noi rappresentiamo deve essere compreso, sempre che sia possibile, nei termini della sua unicità.

Poiché con queste affermazioni non voglio certamente mettere fuori gioco me stesso e i miei colleghi paleoantropologi, mi affretto ad aggiungere che nulla di quanto appena detto implica che lo studio dell'evoluzione umana non abbia niente da offrire alla specie attuale oggetto delle sue indagini. Dopotutto non è irrilevante che le immagini degli uomini estinti che ci guardano dalle copertine di ”Time” garantiscano vendite record. Il desiderio di conoscere il nostro posto nella natura e di sapere da dove veniamo sia come individui sia come nazioni oppure come specie è chiaramente una delle caratteristiche più essenziali della psiche umana. Inoltre, al pari dei miti che ci hanno accompagnati fin da molto prima dell'invenzione della ruota, qualsiasi nozione sulle nostre origini la scienza sia in grado di offrirci aiuta a soddisfare un desiderio radicato nella parte più profonda di noi stessi.

Tuttavia resta vero che le capacità di Homo sapiens attuale e quelle degli straordinari artisti del Paleolitico superiore rappresentano un enorme passo avanti rispetto a quelle dei nostri progenitori. Per dirla in altri termini, ciò che è stato concisamente definito ”capacità umana” non è derivato per semplice estrapolazione dalle più antiche tendenze della nostra linea evolutiva che gli studi paleoantropologici hanno il compito di chiarire. Si tratta di qualcosa più simile a una “qualità emergente”, per mezzo della quale una nuova combinazione di caratteristiche produce casualmente un risultato del tutto inatteso. L'esempio più classico è rappresentato dall'acqua, le cui eccezionali caratteristiche, così essenziali alla vita, non possono essere predette a partire da quelle degli atomi di idrogeno e di ossigeno isolati. Ma forse lo straordinario cervello umano è l'esempio migliore in assoluto. Ed è certamente la natura emergente del nostro organo di controllo e delle capacità da esso derivate a spingere oggi l'uomo a riflettere su se stesso e sulla documentazione scritta, la quale indica che il comportamento umano nei suoi tratti essenziali non è cambiato per nulla da quando essa ebbe inizio cinquemila anni fa per comprendere cosa abbiamo di veramente inusuale. L'essere umano è così straordinario, così senza precedenti quanto alle caratteristiche che ci fanno sentire diversi da tutta la miriade degli altri meravigliosi risultati dell'evoluzione, che solo l'introspezione potrà dirci chi siamo. Questa indagine di noi stessi deve incominciare dalla nostra straordinaria coscienza, dalla quale tutto il resto deriva.

Gli usi della coscienza

Gli esseri umani hanno discusso all'infinito sulla natura della propria coscienza, quantunque con risultati incerti. Naturalmente il problema è che questa qualità è una forma di esperienza interiore. Non deriva dal mondo esterno, anche se ha a che fare con il modo in cui lo percepiamo. La nostra coscienza, se vogliamo, è il filtro attraverso cui vediamo e interpretiamo l'ambiente attorno a noi; ma essa non esiste nell'ambiente stesso (che è costituito da tutti gli altri individui della nostra specie) e quindi non ci fornisce alcun punto di riferimento esterno sul quale poter concordare. Noi possiamo accordarci sul fatto di avere una coscienza, ma a causa della sua stessa natura non possiamo definirla in modo universale. Tuttavia è la caratteristica umana più evidente, ed è impossibile ignorarla in qualsiasi spiegazione di noi stessi.

Da dove deriva la coscienza? La nostra mente è distinta dal corpo oppure l'una emerge dall'altro? Questo interrogativo, formulato molto acutamente da René Descartes ben più di tre secoli or sono, è tuttora al centro di un vigoroso dibattito. L'introduzione del pensiero evoluzionistico non fece quasi nulla per porvi fine: Charles Darwin era fermamente convinto che la coscienza umana fosse univocamente spiegata dall'evoluzione del cervello per mezzo della selezione naturale, mentre Alfred Russel Wallace che in tutti gli altri campi fu un energico sostenitore dell'adattamento attraverso la selezione naturale era semplicemente incapace di immaginare come questo processo avesse potuto dar luogo alla straordinaria consapevolezza umana. Oggi, anche se i termini del dibattito sono rimasti essenzialmente gli stessi, mi pare che entrambi questi geniali pensatori avessero ragione. La coscienza è un prodotto del nostro cervello, il quale a sua volta è un prodotto dell'evoluzione. Ma le proprietà del cervello umano sono emergenti, sono il risultato di una serie di acquisizioni casuali (naturalmente basate sull'eccezionale risultato di una lunga storia evolutiva) le quali possono essere state favorite dalla selezione naturale solo dopo che il cervello si fu formato. I meccanismi alla base di queste proprietà emergenti restano fra i più importanti interrogativi irrisolti della scienza, anche se numerosi filoni di indagine vengono attualmente seguiti da neurobiologi, psicologi, filosofi e altri.

Un approccio oggi popolare al problema della coscienza è quello di immaginare il nostro cervello come una macchina. In un senso limitato deve veramente essere tale, perlomeno in quanto non abbiamo motivo di considerare la coscienza qualcosa di diverso dal prodotto di un processo che ha luogo all'interno del cervello. E, naturalmente, sono le somiglianze ereditarie nella meccanica dei nostri cervelli a permettere agli esseri umani di presupporre di possedere coscienze più o meno simili, e di avere a che fare gli uni con gli altri su questa base. L'idea che tutti gli esseri umani normali abbiano coscienze tra loro confrontabili in pratica è accettabile.

Fin qui tutto bene. Ma nonostante la recente fioritura di tecniche che ci hanno permesso una conoscenza senza precedenti delle funzioni e disfunzioni del cervello umano, non sappiamo ancora quali meccanismi abbiano condotto a ciò che chiamiamo coscienza, anche se le ipotesi abbondano. In teoria, è possibile costruire un ”cervello” artificiale che riproduca il funzionamento di quello umano fino a includere l'esperienza della coscienza, ma non abbiamo affatto idea di come ciò possa essere realizzato in pratica. I tentativi di simulare risposte umane utilizzando il computer di creare cioè l'“intelligenza artificiale” si sono perlopiù limitati allo sviluppo di algoritmi che mimano i risultati di approcci “intelligenti” a particolari problemi, anche se la recente creazione di ”reti che apprendono” ha ampliato questa prospettiva. Alcuni di questi tentativi hanno sortito effetti sorprendenti, ma il problema essenziale rimane. Anche se arrivassimo al punto di non distinguere le risposte di un computer perfettamente ”intelligente” da quelle di un essere umano dotato di coscienza (e non dimentichiamo che la varietà delle menti umane è infinita) non potremmo ancora concludere che il computer stesso possiede una coscienza del genere a noi familiare. Inversamente, persone per altri aspetti normali possono eseguire attività complesse in stati di ”incoscienza” dovuti a disordini del sonno. Queste attività hanno talvolta condotto gli interessati in tribunale, ma i verdetti dei giudici non ci hanno certo aiutati a riconoscere, e ancor meno a definire, la coscienza: alcuni sonnambuli sono stati giudicati non responsabili di atti normalmente considerati delittuosi, commessi durante questo stato ambiguo e poco conosciuto, mentre altri sono stati condannati. Ciò vale anche per imputati afflitti da disordini mentali di tipo diverso o il cui cervello era stato in qualche modo danneggiato.

La concezione del cervello come macchina (anche se progettata in modo imperfetto) continuerà inevitabilmente a occupare filosofi e neurobiologi, ma finora non ci ha aiutati a capire come il cervello generi la qualità che chiamiamo coscienza. E’ evidente che, sebbene per certi versi risulti utile studiarlo come se fosse una macchina, esso non lo è secondo alcuna definizione comune. Per il momento, dunque, coloro che sono interessati alla coscienza umana come prodotto dell'evoluzione farebbero forse meglio a porsi una domanda differente. Se non sappiamo che cosa la coscienza sia esattamente, siamo in grado di riflettere proficuamente sulla sua funzione, o perlomeno sulle possibilità che essa ci fornisce? Ho preso in prestito il titolo di questa sezione “Gli usi della coscienza” dallo psicologo Nicholas Humphrey, che ha formulato questa domanda in modo particolarmente elegante. Humphrey è un darwinista rigoroso, convinto che il cervello umano si sia “evoluto perché, e solo perché, è indispensabile a qualche funzione biologica utile”. E mentre dovrebbe essere ormai chiaro che la mia visione del processo evolutivo è diversa dalla sua (il cervello umano è comparso per caso, e successivamente è stato favorito dalla selezione naturale), la domanda di Humphrey centra in pieno il problema affrontato da tutti coloro che sono interessati all'origine della moderna coscienza umana. Io mi limiterei a riformularla leggermente: ”Quale aspetto dei processi mentali della specie che possedeva tale capacità le ha permesso di trionfare sulle altre specie a essa imparentate, che invece non la possedevano?”.

La risposta di Humphrey a questa domanda è collegata alla metafora che usa per descrivere quella che considera la caratteristica principale della coscienza umana. Nella sua concezione, la coscienza è determinata da un “occhio della mente”: una proprietà esclusiva della mente stessa, basata su attributi strutturali o fisiologici non meglio definiti, che consente al cervello di osservare se stesso al lavoro. Questa abilità che possiamo presumere sia temporaneamente sospesa nei sonnambuli veri e propri e assente negli individui con certi tipi di danni cerebrali permette ciò che Humphrey definisce lo “sguardo interiore”. Devo ammettere che la metafora di Humphrey è persuasiva, anche se non abbraccia tutto ciò che secondo il senso comune potrebbe essere attribuito alla coscienza. Sono inoltre d'accordo con lui nel concludere che “la profondità, la complessità e l'importanza biologica” delle relazioni umane interpersonali, che “superano di gran lunga quelle di qualsiasi altro animale”, sarebbero impossibili senza lo sguardo interiore. In effetti, abbiamo visto che il doppio inganno degli scimpanzé potrebbe indicare una certa capacità rudimentale di leggere nella mente degli altri, ma non v'è dubbio che Humphrey abbia ragione nel dire che, nel caso degli esseri umani, “senza la capacità di comprendere, prevedere e influenzare il comportamento dei membri della propria specie, una persona stenterebbe a sopravvivere da un giorno all'altro”. In una misura del tutto senza precedenti, la comprensione delle motivazioni altrui, impossibile senza una certa comprensione delle proprie, è un ingrediente essenziale del comportamento sociale umano.

Per un darwinista rigoroso questa osservazione è sufficiente. La coscienza umana è derivata semplicemente e inevitabilmente dal vantaggio riproduttivo conferito dalla selezione naturale, generazione dopo generazione, agli individui dotati di una capacità sempre maggiore di guardare dentro se stessi. Ma abbiamo già visto che il processo evolutivo è di fatto molto più complesso; ed è difficile capire perché, se piccoli vantaggi comportamentali erano stati inesorabilmente amplificati nel tempo secondo questo meccanismo, tra gli animali altamente sociali come i primati non sarebbe potuta accadere la stessa cosa in tutte le linee di discendenza. Inoltre non esiste esempio migliore della storia evolutiva del cervello dei vertebrati per dimostrare che il cambiamento evolutivo non è semplicemente consistito di graduali miglioramenti nel corso del tempo. L'evoluzione del cervello non è proceduta per semplice aggiunta di qualche nuova connessione qua e là, fino a diventare, dopo eoni, una grande macchina perfettamente oliata. L'evoluzione opportunistica ha arruolato, in maniera alquanto disordinata, vecchie parti del cervello per svolgere nuove funzioni, e sono state aggiunte nuove strutture, mentre alcune delle vecchie sono state ampliate in modo piuttosto casuale.

Per avere una chiara visione di questo fenomeno dobbiamo capire che per arrivare dove siamo oggi è stato necessario un processo naturale a vari livelli. Innanzitutto, a partire da un precursore che possedeva la gamma di exattamenti necessari comparve il cervello dell'uomo moderno all'interno di un'antica popolazione locale e per mezzo di modificazioni che ancora non comprendiamo. In seguito la selezione naturale operò all'interno di quella popolazione fissando la variante come norma. Poi intervenne la speciazione che stabilì l'individualità storica della nuova entità. Infine la nuova specie vinse la competizione con le altre a essa imparentate, in un processo che forse per la prima volta poco dopo la comparsa dell'ominide ancestrale finì per lasciare sulla scena un'unica specie ominide: Homo sapiens. Vista in questo modo, la piena coscienza umana è solo uno dei risultati di quel processo routinario e casuale di comparsa e affermazione delle innovazioni che si verifica nell'evoluzione di tutte le linee.

Cosa ne possiamo concludere? Innanzitutto che, una volta acquisiti il cervello e la coscienza di tipo moderno, un intero pacchetto di possibilità cognitive era pronto per essere sfruttato (anche se non subito). Concordo pienamente con Humphrey sul fatto che le relazioni sociali complesse rese possibili dall'“occhio della mente” esprimono una componente fondamentale della coscienza dell'uomo attuale. Inoltre non ho difficoltà a supporre che tali relazioni non fossero caratteristiche almeno nella forma pienamente sviluppata del nostro immediato precursore. Dubito però che, quanto alle relazioni interindividuali, l'“Occhio della mente” costituisca l'unica chiave del successo della nostra specie. Più che essere la causa della coscienza umana, esso è plausibilmente un risultato della nostra capacità di astrazione simbolica. Inoltre, mentre tale qualità potrebbe favorire il successo di alcuni individui all'interno della specie rendendoli più abili a penetrare nella mente dei propri simili, non è altrettanto ovvio come di per sé possa costituire un vantaggio nella competizione tra specie. Molto semplicemente, le nostre capacità cognitive così variegate e flessibili devono conferirei qualcosa in più della semplice possibilità di interagire gli uni con gli altri, per quanto in modo raffinato e complesso. La singola caratteristica che ci rende diversi e straordinari è l'acuta percezione del mondo al di là del nostro ambiente sociale.

Alcune ricerche accurate e ben progettate di Dorothy Cheney e Robert Seyfarth hanno dimostrato un'inaspettata sottigliezza e complessità nelle relazioni sociali del cercopiteco verde; tuttavia questo primate mostra un acume molto minore nelle relazioni con l'ambiente circostante. Per esempio, reagisce scarsamente agli indizi della presenza di predatori nell'ambiente, e nella ricerca del cibo non dimostra di essere tanto ingegnoso e cooperativo quanto lo è nelle relazioni sociali. In questo senso lo scimpanzé si comporta meglio: tuttavia va considerato più una creatura sociale che un essere in grado di pianificare, osservare attentamente e sfruttare l'ambiente circostante.

Nel contesto prevalentemente urbano e universalmente tecnologico in cui viviamo siamo bombardati da stimoli sociali, mentre le nostre interazioni con il mondo non sociale sono ampiamente mediate dalla tecnologia. Per scrivere questo libro sto usando un computer; per tornare a casa prenderò la metropolitana, e poi potrò rilassarmi ascoltando musica registrata su un compact disc. Tuttavia anche adesso non siamo poi così lontani, almeno in termini di tempo, dalle nostre originarie capacità di attenti lettori dell'ambiente esterno, quella parte dell'ambiente totale che non abbiamo creato noi stessi. Recentemente ho incontrato un francese di mezz'età, conducente di autobus, che mi ha affascinato con i racconti della sua giovinezza nella campagna del Corrèze. I suoi migliori amici erano più anziani di lui e praticavano il bracconaggio. Scrutando nel folto della foresta, questi uomini erano in grado di individuare infallibilmente il cespuglio dietro al quale un coniglio terrorizzato si era reso invisibile. Dai servizi di “National Geographie” sono ancor più noti gli aborigeni australiani, capaci di sopravvivere per lunghi periodi in un deserto spoglio e apparentemente privo di acqua nel quale noi periremmo sicuramente; oppure i San, in grado di capire da un rametto piegato o da un sasso capovolto nel letto di un ruscello quale tipo di animale fosse passato, quanto tempo fa, in quale direzione fosse diretto, qual era la sua andatura e se era ferito. Solo l'uomo è in grado di leggere i tenui segnali provenienti dal mondo circostante e utilizzarli a proprio vantaggio. Se l'acquisizione delle attuali capacità umane ha conferito a Homo sapiens un vantaggio utilizzabile per la competizione in natura, si tratta certamente di questo. Come tali capacità si siano dispiegate è un'altra questione, sulla quale tornerò al termine del capitolo.

La noncondizione umana

La condizione di una specie deriva dalle sue capacità, e per diversi secoli gli interrogativi su quella umana hanno alimentato il dibattito di filosofi e teologi. C'è una certa ironia nel fatto pur inevitabile che proprio la specie che apparentemente ama arrovellarsi sulla propria condizione sia in realtà l'unica a esserne priva. Ma anche nell'eventualità in cui questa esistesse, sarebbe estremamente difficile da definire. Di qualunque condizione si tratti, è certamente più facile descriverla nel caso di un'ameba, di una lucertola, di un toporagno o addirittura di uno scimpanzé. Quest'ultimo è senza dubbio una creatura complessa, ma la gamma di possibilità che ha a disposizione è enormemente più limitata del ventaglio di opzioni con le quali un singolo Homo sapiens deve confrontarsi. Naturalmente noi dobbiamo misurarci anche con molte delle stesse realtà fondamentali con le quali hanno a che fare gli scimpanzé, e nessuna di queste va ignorata nei tentativi di definire la nostra condizione. Ma non c'è nulla di specificamente umano nei problemi che condividiamo con gli scimpanzé: ciò che ci rende differenti sono la nostra consapevolezza e il modo che abbiamo di affrontare le realtà della vita. Inoltre, per quanto stimiamo le nostre capacità di ragionamento, non è certo il libero esercizio della razionalità a caratterizzarci in questi frangenti. Dopotutto, la storia del genere umano è disseminata di buone occasioni sprecate, e continuerà a esserlo anche in futuro. No, la questione è molto più complessa.

Per l'uomo la vita non è soltanto un fatto economico: essa è sommersa da complessità sociali e simboliche di ogni tipo, e ci siamo inventati letteralmente migliaia di modi per crearle e per affrontarle. Ciascuna società ha elaborato metodi propri per far fronte non solo ai bisogni economici e sociali, ma anche alla consapevolezza della mortalità degli individui che la compongono. Inoltre, per quanto la relatività dei costumi possa turbarci, nessuna società è intrinsecamente migliore o peggiore delle altre secondo un principio morale universale. Non possiamo derivare alcun concetto di moralità (che è una costruzione sociale) o di “legge naturale” (che è una costruzione intellettuale) dalla contemplazione della natura o di qualunque altra entità materiale situata al di fuori di noi in quanto gruppo, poiché la natura non si cura delle sofferenze o dei successi dei singoli individui. Definire amorale tale indifferenza significherebbe solo “antropomorfizzare”. Quindi, per esempio, nonostante io sia fermamente convinto che qualunque sistema morale risulti profondamente incrinato se non assume che l'unità di sofferenza sia il singolo individuo, devo riconoscere che questo concetto non trova giustificazione in nulla al difuori del contesto umano (o forse solo della percezione che io ne ho). Parlo di questo argomento perché negli ultimi tempi è diventato di moda andare alla ricerca delle radici della ”bontà” umana (o di qualunque altra cosa riguardi i nostri misteriosi comportamenti) guardando al nostro passato evolutivo. Se ciò fosse veramente possibile, e se il nostro comportamento fosse in ogni istante sotto il controllo di geni ancestrali, allora potremmo veramente considerare la natura come arbitro dei sistemi morali. Ma purtroppo, come vedremo tra poco, questa idea di stampo sociobiologico è manifestamente falsa.

È indubbio che i codici morali e le norme di comportamento rappresentino necessità fondamentali per esseri individualmente complessi, oscuramente motivati e tuttavia altamente sociali come noi. Inoltre, e ne ho già accennato in precedenza, per giustificarli dobbiamo necessariamente guardare dentro noi stessi piuttosto che fuori. Gli esiti di tale introspezione, tuttavia, variano in ampia misura a seconda di dove guardiamo esattamente; e certo non possiamo considerare le pratiche comuni di una determinata società come una violazione della condizione umana. Il risultato è che, come specie, Homo sapiens presenta una stupefacente varietà, quasi impossibile da condensare in un preciso resoconto di ciò che potrebbe essere descritto come la condizione umana, a meno di non farvi rientrare il linguaggio e il pensiero simbolico, fattori critici dei quali discuteremo in seguito, e che in ogni caso hanno probabilmente più attinenza con le cause che con gli effetti. Noi siamo creature sia individuali sia sociali e, a livello sociale, la componente basilare della nostra condizione il fattore che rende indispensabili i sistemi morali è la necessità di vivere gli uni con gli altri, pur complessi e imprevedibili quali siamo tutti.

Ma anche in questo caso stiamo eludendo la questione essenziale: chi siamo noi? Come è stato ormai riconosciuto da tempo, Homo sapiens è un intrico di paradossi, sia individualmente sia collettivamente. Lasciamo per il momento da parte le società, poiché ciascuna cultura ha semplicemente operato la sua selezione all'interno della vasta gamma di valori e comportamenti di cui Homo sapiens nel suo insieme dispone. Cosa possiamo dire sui comportamenti umani individuali? Essi possono essere descritti per mezzo di qualunque coppia di opposti: generoso/egoista, ingenuo/scaltro, aggressivo/timoroso, intelligente/stupido, compassionevole/crudele, timido/risoluto, e potremmo continuare a lungo. È ancora più significativo che queste contraddizioni possano coesistere nella stessa persona, anzi, in una certa misura lo fanno quasi invariabilmente. Considerate il seguente passo tratto dalla copertina di una biografia: ”Marito e padre amorevole, donnaiolo dissipato; avvocato coscienzioso, irresponsabile ubriacone; autore di tediose filastrocche, ma anche uno dei più raffinati biografi in lingua inglese; che cosa può rendere tale un uomo?”. In effetti, che cosa rende tale ciascuno di noi? C'è un detto nel nord dell'Inghilterra, “Niente è così strano come la gente”, che è forse il ritratto più azzeccato della condizione umana individuale. L'uomo appena descritto era James Boswell, il biografo di Samuel Johnson. Anche se Boswell può essere considerato un esempio quasi clamoroso dell'inclinazione umana all'incoerenza, condivide questa caratteristica praticamente con tutti noi. Per quanti può valere la stessa descrizione? I pastori evangelici si scagliano pubblicamente contro l'adulterio e il permissivismo sociale ma conducono vite private moralmente squallide; i politici invocano drastiche misure economiche mentre sperperano il denaro pubblico; Adolf Hitler, che commise tante mostruosità, sembra fosse gentile con i bambini e i cani. Quante azioni che l'umanità compie ci sentiamo in dovere di definire “inumane” o “crimini contro il genere umano”? Evidentemente ciò che siamo e ciò che oggi ci farebbe piacere pensare di essere sono due cose ben diverse, e qualunque visitatore delle segrete di un castello medievale o qualunque testimone dei recenti eventi ruandesi può confermarlo.

Andare alla ricerca di un preciso concetto universale per definire la condizione umana è dunque chiaramente infruttuoso. Ciascuno di noi ha una gamma di possibilità pressoché infinita all'interno della quale scegliere i propri comportamenti. Non che la scelta sia necessariamente cosciente, anche se siamo in grado di modificare i nostri comportamenti esteriori quando la situazione lo richiede: per fare un esempio, di rado siamo sgarbati con i nostri capi, qualunque cosa pensiamo di loro, perché sappiamo che sarebbe poco saggio. Ma non sempre le situazioni sono così nette e ben delineate. Come mai alcuni si sentono tanto minacciati dalle convinzioni personali e dalle azioni altrui? Perché così tante persone manifestano un ingiustificato senso di superiorità? Perché sentiamo tanto spesso l'esigenza di ridicolizzare le idee assennate estremizzandole in maniera assurda? Come mai diventiamo aggressivi proprio quando sappiamo di avere torto? Perché proviamo piacere per la sofferenza altrui anche se non ci porta benefici concreti? Ciascuno di noi potrà avanzare una spiegazione razionale per reazioni di questo tipo, ma nella maggior parte dei casi avrà poco a che vedere con la fonte reale di tali sentimenti. In questi casi l'“occhio della rnente”, così determinante ai fini della nostra unicità cognitiva, produce delle distorsioni, fondate sull'innata capacità che abbiamo di credere alle nostre stesse bugie, spesso inventate a partire da fatti reali allo scopo di soddisfare i nostri interessi. E se crediamo alle nostre bugie non dobbiamo stupirci se crediamo così spesso a quelle degli altri, specialmente quando ciò costituisce per noi un vantaggio o quando incarnano concetti ai quali, quantunque poco plausibili, vogliamo credere. Questo autoinganno innesca una sorta di retroazione a livello sociale, che dà origine a un insieme di miti i quali a loro volta rafforzano i comportamenti che ne derivano, c sui quali cosa ancora più distruttiva si basano tante credenze indiscusse e tante convenzioni comportamentali. Per quanto riguarda la società occidentale, pensiamo per esempio alla stregoneria, che in realtà non è mai stata praticata da nessuno e che, se esiste oggi, è un passatempo basato soltanto sul mito.

Il motivo principale per cui siamo riluttanti a riconoscere le contraddizioni della natura umana è, ovviamente, che siamo costretti a vivere gli uni con gli altri, e perciò dobbiamo adattarci almeno in pubblico a un insieme di norme comportamentali e di valori comuni che talvolta possono essere contrari alle nostre convinzioni o ai nostri impulsi personali. Ma a livello sociale la definizione dell'insieme di valori e di norme ammissibili è risultata un problema enorme, esacerbato dagli elementi di cui ho appena parlato. Nella nostra società, così come in molte altre, i valori comportamentali sono basati su un codice morale, stabilito inizialmente in un contesto religioso (anche se in questo caso cause ed effetti sono inestricabilmente legati). Poiché tutte le società possiedono forme di religione a cui si accompagna sempre una mitologia delle origini, che ha lo scopo di spiegare la relazione degli uomini con l'ambiente circostante, queste non possono venire ignorate nelle discussioni sui comportamenti specifici dell'uomo. Inoltre la religione rappresenta in un certo senso uno dei più antichi tratti caratterizzanti individuabili nella documentazione archeologica della nostra specie: anche se non comprendiamo che cosa la produzione artistica dei CroMagnon significasse esattamente per coloro che la crearono, è chiaro che essa rifletteva la loro visione del posto dell'uomo nel mondo, nonché tutto l'insieme di mitologie che ne costituivano la spiegazione. Insieme al profondo desiderio di negare il carattere definitivo della morte e a una curiosa riluttanza ad accettare l'inevitabile limitatezza dell'esistenza terrena dell'individuo, l'elaborazione ditale spiegazione è e probabilmente è sempre stata una delle principali funzioni della religione. Il motivo per cui possiamo identificarci così strettamente con questa popolazione scomparsa da tempo immemorabile risiede proprio nel fatto che la sua arte, con ogni evidenza, trascende la pura rappresentazione per abbracciare un simbolismo soprattutto religioso.

Sto sollevando ora il tema della religione soprattutto perché, per ironia, è nella nostra concezione di Dio che vediamo più nitidamente riflessa la condizione umana. Per spiegarmi devo necessariamente ritornare a un'osservazione che ho fatto in precedenza. Gli esseri umani, nonostante le loro eccezionali capacità mentali di tipo associativo, sono incapaci di immaginare entità situate al di fuori della loro esperienza o che non possano essere inferite da ciò che conoscono della realtà materiale. Dio ricade certamente in questa categoria. Ai tempi in cui vennero scritti i testi che fondarono le maggiori religioni del mondo, l'universo era un luogo familiare, anche se talvolta ostile e imprevedibile, poiché per quasi tutta l'umanità non era costituito dall'intero globo, ma solo dalla regione nota a ciascuno. Gli astri potevano muoversi nel cielo e avere proprietà mistiche, permettendoci di calcolare il susseguirsi delle stagioni; ma, a parte questo toro ruolo limitato, le idee dell'uomo riguardanti il suo posto nella natura erano esclusivamente determinate dall'ambiente e dalle esperienze specifiche di ciascun gruppo umano. Invece, proprio nei giorni in cui sto scrivendo, il telescopio Hubble ha stimato che oltre ai 10 miliardi di galassie già calcolati, l'universo ne contiene altri 40 miliardi. In questo universo incommensurabilmente vasto, la Terra e i suoi abitanti non sono altro che granelli microscopici, e la nostra idea di Dio deve dunque espandersi in modo proporzionale.

Tuttavia, anche al termine del XX secolo, la nostra concezione del Creatore rimane, come è sempre stata, fermamente antropomorfica. Gli dei in cui crediamo sono talvolta crudeli, altre volte amorevoli, gelosi o misericordiosi, oppure forse tutte queste cose insieme: un riflesso della nostra natura contraddittoria. Secondo una versione della nostra genesi, noi fummo creati a immagine di Dio. Può darsi che Egli sia davvero così incoerente: noi lo siamo di sicuro. Ma è più probabile che siamo stati noi a costruire Dio a nostra immagine, per il semplice fatto che, per quanto andiamo orgogliosi delle nostre capacità di pensiero astratto, non siamo in grado di fare altrimenti. Descrivere Dio attribuendogli la nostra intelligenza e le nostre caratteristiche, sembra in qualche modo riduttivo nei Suoi confronti. Ma quale alternativa ci resta, se vogliamo credere in un Dio con il quale sia possibile avere un rapporto personale (l'unico tipo di rapporto veramente comprensibile per l'essere umano)? Dio a nostra immagine. E tuttavia non corporeo, capace di fare cose per noi impensabili, e padrone di un universo la cui immensità è inafferrabile? Qui sembra di ravvisare un paradosso tipicamente umano. Forse un giorno potremo perlomeno concepire un Dio abbastanza grande e onnicomprensivo da trascendere i limiti della nostra stessa immaginazione ed esperienza. Ma nel frattempo, anche se non dobbiamo seguire alla lettera il monito di Wittgenstein di non parlare di ciò che non conosciamo (altrimenti che divertimento ci sarebbe?), faremmo bene a considerare l'inadeguatezza della nostra concezione di Dio come lo specchio più fedele delle limitazioni che definiscono la condizione umana.

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Cervello e comportamento

Noi siamo psicologicamente così complessi stavo quasi per scrivere “nevrotici” almeno in parte a causa del modo in cui il nostro cervello è cresciuto nel corso di milioni di anni, struttura su struttura. Ho già fatto osservare che l'antiquata nozione di conflitto innato fra le strutture e le funzioni cerebrali più vecchie e le più recenti va ormai considerata un'eccessiva semplificazione. Tuttavia è nel nostro organo di controllo - esso stesso il prodotto di una lunga storia evolutiva - che dobbiamo cercare le chiavi per interpretare le contraddizioni che tutti rileviamo ogni giorno. A un livello, le nostre facoltà ci dicono che la morte è definitiva, ma a un altro rifiutiamo l'idea e ci aggrappiamo alle alternative più improbabili. Siamo al contempo ammalati di nostalgia e amiamo tutto ciò che è nuovo. Odiamo nel nome di un Dio amorevole. Inventiamo cose che non sono vere e ci crediamo. Vogliamo l'autonomia nella nostra vita, ma interferiamo in quella altrui. Abbiamo meravigliose capacità razionali ma, nel migliore dei casi, seguiamo ciò che ci suggerisce la ragione solo di tanto in tanto. Gli esempi della nostra illogicità potrebbero andare avanti all'infinito. Perché?

Una possibile risposta è che tali contraddizioni si originano dalle complesse interazioni fra le aree corticali superficiali e le strutture più antiche sottostanti. Ma, come abbiamo visto, questa opinione non è facilmente sostenibile, poiché i sistemi più antichi e quelli più recenti sono strettamente interconnessi da un punto di vista funzionale, e ciò che ci rende al contempo inclini all'irrazionalità e capaci di progettare un supercomputer o di inviare una navicella spaziale su Marte è la struttura complessiva del nostro cervello. Inoltre sembra che anche in termini comportamentali fare una semplicistica distinzione fra funzioni emozionali e funzioni razionali sia gravemente fuorviante. Fra i due gruppi, infatti, esiste un livello intermedio costituito dalla funzione neurocomportamentale, partecipe di entrambi. Si tratta dell'intuizione, che opera in assenza di ragionamento conscio e che da tempo numerosi psicologi cognitivi ritengono radicata nella memoria emozionale. E ora si sta profilando sempre più fortemente la possibilità che l'intuizione abbia un ruolo importante anche nella maturazione delle decisioni razionali.

Quando un individuo prende una decisione, il suo cervello non si limita a utilizzare un algoritmo standard che analizza i dati e genera la soluzione ottimale. Al contrario, la valutazione dei dati è integrata dall'immissione di altri input d'ogni genere, che possono variare da un generico disagio o da una generica sicurezza alla vera propria paura, o essere semplicemente la fastidiosa sensazione che entrambe le decisioni potrebbero essere giuste (o sbagliate). La conclusione, sebbene sia stata raggiunta ponderando i fatti, può non essere del tipo che l'individuo è in grado di razionalizzare verbalmente; o, se può farlo, può trattarsi semplicemente di questo: una razionalizzazione. In un ingegnoso tentativo di chiarire questo livello di funzione mentale, Antonio e Hannah Damasio, insieme con i loro collaboratori del College of Medicine della University of Iowa, si sono domandati perché i pazienti che avevano riportato danni all'area ventromediale della corteccia di associazione prefrontale l'area cerebrale direttamente al disopra degli occhi riuscissero bene nei test di memoria e in quelli per la determinazione del quoziente di intelligenza mentre nella vita normale, oltre a soffrire nel prendere una decisione, optavano sempre per la soluzione peggiore. Hanno dunque ideato un esperimento nel quale diversi mazzi di carte offrivano differenti possibilità di vincere: una situazione che diventava chiara ai soggetti solo dopo che avevano accumulato una notevole esperienza usandoli. I soggetti di controllo impararono molto presto a scegliere i mazzi vincenti, molto prima di essere in grado di spiegare perché lo facessero, mentre i pazienti cerebrolesi continuarono a prendere le carte dai mazzi perdenti anche dopo aver capito quali fossero i vincenti. In tutti i soggetti venne controllata la conduttanza della pelle, una misura dello stress psicologico simile a quella usata nella macchina della verità. I pazienti cerebrolesi non diedero segno di stress qualunque mazzo avessero scelto, mentre i soggetti di controllo rivelarono una condizione di stress nel momento in cui si stavano domandando se prendere delle carte da uno dei mazzi perdenti, anche prima di averli consciamente identificati come tali.

La conclusione di tutto ciò fu molto chiara: le prevenzioni inconsce vale a dire le intuizioni avevano guidato il comportamento dei soggetti di controllo prima che essi sapessero consciamente quali mazzi fossero vincenti e quali perdenti. I pazienti cerebrolesi, d'altra parte, erano altrettanto capaci di rendersi conto di quali mazzi fossero quelli buoni e quali fossero quelli da evitare, ma non possedevano l'intuizione. La loro incapacità di prendere le decisioni migliori nella vita era presumibilmente correlata alla mancanza ditale facoltà, e ciò era dovuto alle lesioni cerebrali. Alla luce dei risultati ottenuti, i Damasio ritengono che l'area ventromediale della corteccia prefrontale faccia parte del sistema di immagazzinamento delle informazioni sulle ricompense e le punizioni ricevute in precedenza: informazioni successivamente utilizzate per stimolare le intuizioni che poi entrano a far parte dei normali processi decisionali delle persone. Tutto ciò ha senso, poiché è chiaro (intuitivamente?) che l'intuizione è un pilastro indispensabile dell'edificio della creatività umana. Anche la scienza compendio delle attività razionali umane lo conferma. Infatti, mentre vanta di mettere obiettivamente alla prova ipotesi emerse da osservazioni accuratamente raccolte, non tiene conto del fatto che le ipotesi iniziali sono molto spesso il prodotto di un'intuizione, e non di un ragionamento verbalmente fondato. L'intuizione è dunque un mediatore indispensabile dei nostri processi di pensiero. D'altra parte qualcuno potrebbe osservare che mentre la grande musica ha sempre una componente intellettuale, il suo potere deriva invariabilmente dalla sua capacità di andare diritta ai sentimenti aggirando non solo la ragione ma anche le intuizioni (a meno che non susciti altre associazioni). Ma anche qui dobbiamo essere cauti: recenti ricerche indicano che avere a che fare con la musica in tenera età (meglio se suonando uno strumento, ma anche ascoltandola) favorisce lo sviluppo della capacità di ragionamento matematico, perché a quanto sembra potenzia i circuiti neurali responsabili delle forme di ragionamento più elevate. Ciò sottolinea ulteriormente il già intricato rapporto fra le nostre facoltà inferiori e quelle superiori. Ma nel complesso è chiaro che la cognizione umana è composta da quelli che possiamo definire, in senso lato, come i processi emozionali, intuitivi e consciamente razionali. Ed è molto probabile che si debba aggiungere il ragionamento simbolico alle preesistenti funzioni di risposta emozionale e di intuizione che hanno caratterizzato il balzo finale verso la coscienza umana attuale.

Ma nel compiere il balzo avanti non ci siamo lasciati dietro il nostro passato. Poiché mentre i comportamenti conflittuali che segnano l'esperienza di ciascun individuo possono non derivare direttamente dalla dicotomia spesso artificiosa intelletto/emozioni, le intuizioni, basate su reazioni emotive a esperienze precedenti, spesso possono contraddire la valutazione razionale e simbolica dei dati disponibili. A questo proposito occorre osservare che sebbene noi siamo pronti ad acquisire capacità tecnologiche assimilando i risultati dell'esperienza altrui, là dove entrano in gioco le interazioni umane ci riveliamo più o meno incapaci di imparare secondo questo modello. Indipendentemente da quanta saggezza nella condotta delle cose umane i nostri progenitori ci abbiano trasmesso nei millenni, ciascuna generazione ha continuato a ripetere all'infinito gli stessi errori. Se aggiungiamo a questa inclinazione le limitazioni connaturate alle scelte umane, vediamo quanto sia facile capire perché la storia tende a ripetersi secondo cicli così brevi. Mentre siamo in grado di imparare prontamente e permanentemente da qualcun altro compiti tecnologici come la programmazione e l'uso di un videoregistratore (a quanto pare, non è un'impresa impossibile), nelle interazioni con il nostro prossimo non sembriamo capaci di imparare se non sotto l'azione di un pesante condizionamento. Solo dopo tristi esperienze personali comprendiamo veramente quali siano i modi migliori per trattare con gli altri; e anche allora troviamo difficile estendere l'esperienza tanto duramente acquisita a nuove situazioni. In questo caso il problema non è quale emisfero cerebrale sia coinvolto, nonostante sia proprio su questo che si focalizza l'attenzione generale. La questione essenziale è l'interazione di più modalità cerebrali che insieme formano la mente così come la conosciamo: una fonte potenziale di tensione dalla quale, come vedremo, non saremo mai liberi.

È qui, dunque, nelle intricate strutture del nostro cervello, che cadono i presupposti della psicologia evoluzionistica. Non possiamo attribuire la responsabilità del nostro comportamento a quello dei nostri remoti progenitori umani, nonostante questo non sia del tutto irrilevante. Non importa se fossero cacciatori, o raccoglitori, o entrambi; non importa se vivessero in gruppi numerosi o esigui; non importa se i maschi fossero sessualmente promiscui oppure fedeli e provvedesero alla sopravvivenza dei figli: tutte queste distinzioni hanno poco a che vedere con ciò che siamo (o riusciamo a essere) al termine del XX secolo. I nostri cervelli non sono macchine tutte uguali, programmate dai geni per rispondere in modi specifici a stimoli specifici. Le molteplici differenze culturali in tutto il mondo sono sufficienti a provarlo, così come lo sono le straordinarie differenze fra individui della stessa società. Siamo invece esseri comportamentalmente complessi e altamente sensibili alle esperienze: tra noi i conflitti interni e i comportamenti compulsivi sono spesso la norma, e non l'eccezione. Non c'è dubbio che questa complessità comportamentale ci accompagni sin dalla comparsa di Homo sapiens anatomicamente moderno, ma i modi di vita dei nostri progenitori hanno poco a che vedere con quelli attuali.

La nostra mente razionale, inoltre, non è un'apparecchiatura perfetta, sempre allerta: anche nei momenti di maggiore obiettività cornmettiamo spesso errori matematici, oppure prendiamo decisioni sbagliate sul comportamento da tenere nel complesso universo che noi stessi ci siamo costruiti. L'errore è un'inevitabile realtà dell'esistenza umana, eppure ed ecco un'altra contraddizione quando si verificò il disastro della Exxon Valdez, una sciagura della massima prevedibilità statistica, chiedemmo tutti a gran voce la testa dei dirigenti della Exxon Corporation, mentre sapevamo benissimo, se mai ci fossimo presi la pena di ammetterlo davanti a noi stessi, che i veri colpevoli eravamo tutti noi singolarmente, ogni volta che accendevamo la luce o giravamo la manopola del gas. Peggio ancora, anche quando in linea di principio sapremmo come agire nell'interesse nostro e altrui, pochissimi di noi riescono a mettere in pratica questa conoscenza in tutti i casi e nel migliore dei modi. Tutti possono agire razionalmente per parte del tempo, ma nessuno può farlo sempre e al massimo grado. Tuttavia credo che, nonostante gli evidenti aspetti negativi del nostro modo di essere, dovremmo rallegrarcene: l'amore e la compassione, dopotutto, non sono qualità puramente razionali.

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Allora, che cosa è accaduto?

Nelle pagine di apertura di questo capitolo ho sollevato la questione della coscienza umana, quella qualità poco conosciuta che ci induce a sentirei così diversi dal resto del mondo. È un fattore che non possiamo ignorare, qualsiasi versione diamo della nostra evoluzione. Ma mentre le sue straordinarie conquiste sono indiscutibilmente uniche nel mondo animale, non possiamo dare per certo che solo l'uomo la possieda. In ultima analisi, l'affermazione, piuttosto frequente, che solo l'uomo ne sia dotato è una semplice questione semantica perché tutti gli animali sono individui senzienti, e non automi. Strutturalmente, il loro cervello somiglia al nostro in caratteristiche essenziali, e se il nostro non è una macchina, non lo è nemmeno il loro. All'inizio di questo libro abbiamo passato in rassegna gli attributi comportamentali delle scimmie antropomorfe, vedendo in loro una risonante eco di noi stessi. A causa della nostra netta sensazione di diversità dagli altri abitanti della Terra, preferiamo sottolineare le differenze, e non le somiglianze, che percepiamo fra noi e i nostri parenti più stretti, ma in ultima analisi dobbiamo ammettere che, a parte quelle anatomiche, molte di queste differenze sono semplicemente quantitative, e talora, forse, non esistono nemmeno.

Nella mia esposizione dello sviluppo umano mi sono concentrato sui comportamenti contraddittori che si originano almeno in parte dalla disordinata struttura del nostro cervello, il prodotto di un lunghissimo processo evolutivo di accrescimento e riorganizzazione. L'ho fatto perché è importante capire che il nostro passato evolutivo è sempre con noi, anche se alcuni dei nostri attributi mentali non hanno precedenti. Dopotutto, non siamo rimasti come eravamo nel momento in cui siamo stati plasmati con l'argilla. Tuttavia è ugualmente importante renderci conto che il nostro comportamento non è prigioniero dei nostri geni, come vorrebbero farci credere gli psicologi evoluzionisti. Anche se giorno dopo giorno è sempre più evidente che, in quanto individui, la nostra personalità è influenzata, spesso anche pesantemente, dal nostro patrimonio genetico, le nostre capacità umane emergenti forniscono a ciascuno di noi una gamma di scelte comportamentali senza paragoni, che costituisce il fondamento della nostra libera volontà. E noi compiamo la maggior parte di queste scelte per ragioni economiche o sociali del tutto estranee alla diffusione dei nostri geni. Ciò detto, resta vero che non vi è nulla di essenzialmente unico nel fatto che i nostri comportamenti non siano stereotipati. Alcuni leoni sono codardi, altri coraggiosi; alcuni cani sono intelligenti (per essere cani), altri no; alcuni scimpanzé sono più simpatici di altri. Non c'è dubbio che molti altri animali possiedano, sotto qualche forma, una coscienza individuale, come sa benissimo chiunque abbia un cane. Al contrario, l'esempio dei sonnambuli dimostra che comportamenti umani molto complessi sono possibili anche quando la coscienza non è operante.

Quando osserviamo attentamente i fattori cognitivi che ci caratterizzano, spesso vi troviamo un parallelo in natura, particolarmente fra i primati con i quali abbiamo stretti legami di parentela. Anch'essi hanno capacità previsionali, valutano le proprie reazioni, sono capaci di perpetrare inganni, sebbene in modo rudimentale, e sono in grado di provare sentimenti quali la gioia, l'affetto, la paura o l'irritazione. Nel più ampio contesto di tutto ciò che entra a far parte della nostra esperienza quotidiana come individui, le differenze fra noi e le antropomorfe sono realmente limitate, almeno quantitativamente. Il nostro cervello e i processi che è in grado di compiere non sono del tutto diversi da quelli delle antropomorfe. Ciò che è accaduto nel corso dell'evoluzione è che abbiamo acquisito nuove capacità, non in sostituzione delle vecchie ma in aggiunta. Ma allora, che cosa c'è esattamente dietro la nostra acquisizione della piena coscienza umana?

La risposta, paradossalmente, sta proprio nelle difficoltà che incontriamo nel definire la coscienza. In teoria potremmo scoprire che cosa c'è di unico in noi sia confrontandoci con le antropomorfe sia cercando nella documentazione fossile e archeologica le tracce dei cambiamenti che riflettono il raggiungimento della nostra modernità comportamentale. Ma in nessun caso è un compito semplice, per una ragione significativa: entrambe le fonti sono mute. Cominciamo con le antropomorfe. La ragione per la quale non possiamo conoscere i confini della loro coscienza è molto semplice: le antropomorfe non parlano. Non possono spiegarci quali sentimenti provino, o che cosa passi loro per la mente, perché non hanno il linguaggio articolato. E questo, come abbiamo visto, non consiste nella semplice emissione consecutiva di suoni, o nella mera comunicazione. È la complessa operazione di stabilire associazioni fra stimoli ricevuti dalle aree sensoriali del cervello e di tradurle in segnali in uscita dai centri che governano la produzione dei suoni nel tratto sopra-laringeo. Ciò significa stabilire categorie e denominazioni per oggetti e sensazioni del mondo esterno e dell'universo interiore, compiendo associazioni ed esprimendo i risultati secondo un insieme di regole del tutto arbitrario. La parola chiave in questo caso è associazioni, e sebbene tutti gli esseri senzienti abbiano una certa capacità di compierle fra differenti tipi di input cerebrali, è evidente che il linguaggio articolato non dipende solo da queste, ma permette anche il compimento di certi tipi di associazioni. Il linguaggio articolato, possiamo affermare, è più o meno sinonimo di pensiero simbolico.

Ciò non significa sostenere che la comprensione sia del tutto preclusa in assenza di linguaggio e di pensiero. L'intuizione non verbale può dirci molto sul mondo, e mentre non sarebbe esatto considerarla come linguaggio articolato inespresso, possiamo considerarla un suo precursore, o perlomeno una sua precondizione. Ma la pura intuizione ha limiti molto visìbili. Essa è individuale e direttamente esperienziale, mentre il linguaggio è condiviso e simbolico. Wolfgang Kohler, che diede inizio agli studi sull'uso di strumenti fra gli scimpanzé, mise a punto un esperimento che evidenziava con chiarezza le limitazioni imposte dall'assenza di linguaggio, pur rivelando che il problema era stato compreso. Lo studioso tedesco insegnò a una coppia di scimpanzé a ottenere una ricompensa in cibo tirando simultaneamente due corde pendenti a poco meno di dodici metri di distanza l'una dall'altra, cioè a una distanza tale da non permettere che uno degli animali potesse compiere l'operazione da solo, mentre l'azione concertata di due individui avrebbe raggiunto lo scopo. Quando entrambi ebbero imparato bene, uno dei due venne allontanato e sostituito da un altro a cui la tecnica non era stata insegnata. Lo scimpanzé che aveva esperienza soffrì momenti di estrema frustrazione nel vedere che l'altro non riusciva a portare a termine il compito: aveva una perfetta comprensione intuitiva del problema, ma non poteva fare tutto da sé e non era in grado di spiegare all'altro come ottenere il cibo. Ovviamente, pur sapendo che cosa doveva fare, non sarebbe giunto alla soluzione del problema con il proprio ragionamento, ed è estremamente improbabile che avrebbe potuto farlo in assenza delle capacità che rendono possibile il linguaggio. La capacità di arrivare alla soluzione e quella di comunicarla a un altro individuo, infatti, sono generate sostanzialmente dallo stesso meccanismo.

E difficile specificare quali siano esattamente le correlazioni cognitive del linguaggio, in parte a causa del problema di comunicare con creature che non lo possiedono. Ma è certo (quanto può esserlo un'inferenza), che il linguaggio e le capacità mentali a esso associate hanno strettamente a che vedere con la capacità di pensare, che è il fondamento del successo della nostra specie. Il linguaggio, come il pensiero, comporta la formazione e l'elaborazione di simboli nella mente, e la nostra capacità di ragionamento simbolico è praticamente inconcepibile in sua assenza. Anche l'immaginazione fa parte dello stesso processo: solo dopo aver creato simboli mentali possiamo combinarli in nuovi modi e porci nuovi interrogativi. Il linguaggio è dunque molto più del semplice mezzo con cui spieghiamo i nostri pensieri a noi stessi e agli altri: è fondamentale per lo stesso processo di pensiero. Inoltre, queste vantate unicità umane, come per esempio la consapevolezza della morte da cui deriva il senso religioso e che dà origine a tante nostre manifestazioni, sono probabilmente poco più di un'estensione della stessa capacità simbolica. Per quanto la possiamo temere o possiamo esserne ossessionati, la nostra morte non può essere parte della nostra esperienza individuale. Rimane un'astrazione per ciascuno di noi, indipendentemente da quante morti simboliche altrui possiamo vedere ogni sera in televisione o al cinema. La stessa essenziale capacita e sottesa anche all'“occhio della mente” che permette al cervello di oggettivare i propri processi, e a un altro strano alterego dell'occhio della mente, la nostra capacità di autoinganno: entrambi dipendono in modo analogo dall'abilità di generare e ricombinare simboli mentali. Ma non è tutto: praticamente qualsiasi componente delle nostre capacità di raziocinio possiate indicare dal senso dell'umorismo al concepimento di scenari apocalittici si basa sulle stesse capacità mentali che ci permettono la produzione del linguaggio.

La documentazione fossile dimostra piuttosto chiaramente che i nostri antichi precursori erano non-linguistici. Come abbiamo visto, non possiamo arguire l'esistenza della capacità di linguaggio direttamente dalla morfologia dei calchi endocranici; d'altro canto, le strutture del tratto sopralaringeo che rendono possibile il linguaggio articolato determinano la curvatura della base del cranio. I primi artefici di strumenti litici possedevano certamente una chiara visione delle proprietà meccaniche dei diversi tipi di roccia ed erano in grado di prevedere le proprie necessità future, ma questa conoscenza intuitiva venne raggiunta in assenza delle strutture periferiche che rendono possibile il linguaggio articolato. Anche certe innovazioni successive, come il controllo del fuoco e l'edificazione di ripari, sembrano essere state raggiunte solo attraverso l'affinamento della capacità intuitiva. Homo heidelbergensis è il primo ominide che, a quanto ci consta, aveva la base del cranio arrotondata sulla quale si inseriva la muscolatura di un tratto sopralaringeo di tipo moderno. Sapeva fabbricare strumenti efficienti, conosceva l'uso del fuoco, costruiva ripari e aveva un cervello piuttosto grande, ma la documentazione archeologica, dalla quale è stato possibile arguire i suoi comportamenti, non contiene traccia di attività simboliche. Ovviamente essa è selettiva, ma il contrasto con le popolazioni del Paleolitico superiore, che vivevano circondate di simboli, non potrebbe essere più stridente. Quasi certamente, dunque, la discesa della laringe e la riorganizzazione delle strutture sopralaringee necessarie per l'articolazione delle parole avvennero in un più generale contesto respiratorio. Da ciò consegue che il tratto sopralaringeo di morfologia moderna è un exattamento per il linguaggio: una condizione preesistente che rese possibile questa notevole innovazione una volta acquisiti i necessari collegamenti cerebrali.

E solo con l'arrivo dei CroMagnon in Europa (unitamente a stimolanti indizi ancora precedenti di modernità comportamentale in altre parti del mondo e, ciò che forse è ancora più significativo, in Africa) che la documentazione archeologica annuncia inequivocabilmente la comparsa di una popolazione dotata di una sensibilità di tipo moderno. E certamente non è una coincidenza che solo con i CroMagnon e i loro simili gli archeologi comincino a trovare affidabili testimonianze di strategie economiche paragonabili a quelle delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori attuali, che riflettono la capacità squisitamente umana di interpretare e comprendere l'ambiente esterno. Persino i Neandertaliani, per quanto complessi e ammirevoli siano stati, erano probabilmente limitati a un livello di comprensione del mondo puramente intuitivo. Erano esperti artefici di strumenti litici ed erano in grado di imparare per imitazione, sebbene sia probabile che individualmente mostrassero scarsa originalità e modesta inventiva. Erano evidentemente capaci di empatia, e può darsi che nell'inumare il defunto deposto sul letto di fiori di Shanidar avessero pianto; inoltre siamo quasi certi che avessero modi molto complessi per comunicare. E fortemente probabile che tutto ciò fosse stato raggiunto in assenza di ragionamento simbolico, e forse addirittura senza la capacità latente di produrre il linguaggio articolato, come la presunta anatomia curiosamente primitiva della base del cranio di almeno alcuni di essi indicherebbe. I Neandertaliani non vissero, come viviamo noi, in un mondo di cui erano gli artefici, un mondo ricostruito nella loro mente, ma vissero invece in quello che aveva fornito loro la Natura.

La documentazione archeologica che ci hanno lasciato è abbastanza esauriente da permetterci di affermare con certezza che non erano nostri uguali, ma dipingerli come una versione inferiore di noi stessi sarebbe gravemente semplicistico. Data la nostra incapacità di immaginare stati di coscienza diversi dai nostri, potremmo essere tentati di paragonare l'intelligenza di un Neandertaliano a quella della persona più stupida, priva di immaginazione, di senso dell'umorismo e della capacità di esprimersi che potremmo concepire ai nostri giorni. Ma questo sarebbe profondamente sbagliato. I Neandertaliani, nonostante tutte le loro somiglianze anatomiche e comportamentali rispetto a noi, erano creature diverse, e dovrebbero essere interpretati nei loro stessi termini. Quasi certamente mancavano della cruciale capacità di pensiero simbolico della quale il linguaggio è la manifestazione emblematica e di cui persino il più limitato intelletto attuale è capace. L'atteggiamento più proficuo, quindi, è quello di considerare la loro documentazione comportamentale non come un riflesso inferiore del nostro modo di fare le cose, ma come misura delle straordinarie conquiste che possono essere conseguite unicamente attraverso i meccanismi dell'intuizione.

Come e quando acquisimmo le nostre singolari capacità linguistico-simboliche? Come ho fatto osservare, nonostante la nostra ampia conoscenza della struttura del cervello umano, del modo in cui le informazioni vi fluiscono e di come certe parti funzionino in particolari comportamenti, i meccanismi attraverso i quali si genera la nostra complessa coscienza simbolica rimangono completamente oscuri. È chiaro, tuttavia, che dopo un paio di milioni di anni di irregolare espansione cerebrale e di altre acquisizioni avvenute nella linea umana, dovevano essere presenti gli exattamenti necessari per permettere il completamento dell'intero edificio attraverso una mutazione che in termini genetici era presumibilmente di minore entità. Nello stesso modo in cui la chiave di volta di un arco è solo una piccola parte dell'intera struttura, ma è vitale per la sua integrità, un cambiamento della struttura neurale relativamente modesto deve avere avuto questo notevole effetto emergente nel nostro cervello. E questa innovazione neurale deve essere stata acquisita nell'ambito di un'esigua popolazione nostra progenitrice quando tutte le strutture periferiche essenziali - l'apparato vocale, per esempio - erano già disponibili per permetterne l'espressione.

Tuttavia nessuno ha ancora capito esattamente perché l'espansione e l'aumento della complessità cerebrale siano stati così costantemente presenti, seppure in modo episodico, nella lunga storia evolutiva dell'uomo, anzi, in quella dei primati in generale. E non sappiamo nemmeno perché, al termine di questo processo, il cervello umano sia diventato così meravigliosamente exattato per il linguaggio e il ragionamento simbolico. Forse i vantaggi conferiti dai progressi compiuti nel ragionamento intuitivo furono di per sé sufficienti a portare avanti questo processo, anche se certamente deve esservi stato qualcosa di speciale negli antichi ominidi perché questo exattamento diventasse così fortemente caratteristico del nostro gruppo. E comunque innegabile che un exattamento in sé non è nulla di speciale. Per esempio, è stato recentemente dimostrato che le capacità di parlare e di scrivere sono localizzate ciascuna in uno degli emisferi cerebrali. La capacità di scrivere, quindi, non è una semplice conseguenza passiva della capacità mentale di formare parole parlate, ma dipende da circuiti neurali distinti. La capacità latente per entrambi i comportamenti fu certamente presente nel cervello dei primi uomini di tipo moderno, ma quella di scrivere non venne scoperta fino a circa 50 kyr dopo la comparsa del linguaggio articolato, e molti gruppi umani non la conoscono ancora oggi.

Sfortunatamente, sia la documentazione fossile sia quella archeologica sono incomplete per il periodo critico della nostra evoluzione durante il quale emerse la capacità umana simile a quella attuale. Vi sono convincenti testimonianze del fatto che l'uomo anatomicamente moderno sia comparso in Africa, ma per il momento sembra che questo sia stato un evento molto antico rispetto alle prime indicazioni di complessi comportamenti simbolici paragonabili ai nostri. Come ho sottolineato, non vi è ragione di supporre che la comparsa di nuove tecnologie e di nuovi comportamenti debba necessariamente procedere di pari passo con l'arrivo di nuove specie, ma è comunque importante sapere come Homo neanderthalensis riuscì a coesistere nel Levante per oltre 60 kyr con gli artefici dell'industria musteriana che nell'anatomia ossea erano Homo sapiens. Questo lungo periodo di coesistenza e di affinità culturale significa forse che i cervelli di questi ominidi erano di fatto identici? Se sì, i collegamenti interni del cervello di morfologia moderna devono in qualche modo essersi formati parecchi millenni dopo l'acquisizione della nostra struttura scheletrica attuale, come, in realtà, è stato proposto. Ritengo che non sia facile crederlo. Se fosse stato così, infatti, gli uomini comportalmentalmente moderni avrebbero acquisito la base anatomica delle loro capacità simboliche piuttosto tardi, e ciò non avrebbe dato all'uomo caratterizzato da questa nuova morfologia fisica molto tempo per diffondersi dal suo presunto luogo di origine africano e sostituire in tutto il mondo le popolazioni che avevano lo stesso aspetto scheletrico ma un cervello più arcaico (anche se all'aspetto poteva apparire identico). Per di più, nella nostra documentazione, pur nella sua limitatezza, non compare nulla che possa avvalorare questo scenario.

L'unica alternativa evidente è che l'anatomia ossea di tipo moderno sia giunta insieme con il cervello di tipo moderno exattato, e che questo sorprendente nuovo organo sia rimasto inattivo, così come effettivamente fu, fino a quando uno stimolo culturale (quasi certamente l'invenzione del linguaggio), lo mise all'opera nell'ambito di una popolazione locale. E addirittura possibile che la capacità umana si sia originata perlomeno in parte in un evento epigenetico, legato allo sviluppo, piuttosto che in un cambiamento di grande entità avvenuto nella struttura cerebrale geneticamente programmata. Lo sviluppo cerebrale dopo la nascita comprende la formazione di specifiche vie da una complessa massa di interconnessioni neurali, prevalentemente attraverso processi di eliminazione selettiva. Durante l'infanzia è facile imparare le lingue, anche parecchie contemporaneamente, ma dopo i dieci anni le vie neurali specifiche si sono formate e l'acquisizione di nuove lingue è molto più difficile. Ne consegue che le capacità linguistiche coinvolgono la strutturazione del cervello nel corso del suo sviluppo. Non è dunque troppo difficile immaginare, almeno sommariamente, come una prima forma di linguaggio, relativamente rudimentale, possa essere stata acquisita chissà, inizialmente, addirittura fra i bambini attraverso mezzi comportamentali, affinandosi e diversificandosi nel corso dei millenni fino a produrre la stupefacente varietà di lingue che oggi vengono parlate in tutto il mondo. Certamente la comparsa del linguaggio così come ci è universalmente familiare oggi non può essere stata un evento rapido. Comunque sia, è molto più plausibile immaginare che esso, con le capacità mentali e le complessità cornportamentali associate, si sia diffuso (e diversificato) dal suo luogo di origine attraverso il contatto e la diffusione fra popolazioni umane bene affermate che già possedevano la capacità potenziale di acquisirlo, e non fra quelle numerose popolazioni di individui i quali, pur essendo fisicamente uguali a noi, mancavano di quella capacità, e che quindi furono eliminate in tutto il mondo in un periodo di tempo relativamente breve.

E’ davvero frustrante arrivare alla fine della nostra storia e dover ammettere di sapere ben poco sul come, quando, dove o perché acquisimmo la nostra straordinaria coscienza. Sebbene tendiamo ad attribuire un'importanza eccessiva alle nostre capacità cognitive, di cui quelle linguistiche sono la sintesi, dobbiamo ammettere che esse fanno di noi qualcosa di diverso da tutti i milioni di altre creature del pianeta. Ma la latente capacità di formare ed elaborare simboli mentali non è chiaramente l'ineluttabile risultato di un processo durato coni, anche se i fondamenti vennero stabiliti durante il lungo passato evolutivo umano. Piuttosto, la sua acquisizione fu un evento emergente probabilmente di scarsa importanza in termini di innovazione fisica o genetica, relativamente improvviso, che si presentò molto tardi nella nostra storia evolutiva. Questo evento capitale, purtroppo, non ha lasciato tracce visibili sulle ossa e sui denti che costituiscono la nostra documentazione fossile, mentre quella archeologica, come abbiamo visto, è incompleta, altamente selettiva e rispecchia molto debolmente il comportamento dei nostri progenitori. Ma sebbene la probabilità iniziale che tutte le componenti necessarie per la coscienza umana di tipo moderno si trovassero riunite, così come in realtà accadde, fosse indubbiamente minima in termini statistici, altrettanto lo era la probabilità di comparsa di ciascuno dei milioni di specifici risultati del processo evolutivo. Visto sotto questa luce, l'evento in sé è molto meno notevole del suo risultato finale.

Che cosa, dunque, dobbiamo pensare di noi stessi? Molto più di tre miliardi di anni da quando le prime forme di vita comparvero sulla Terra, noi, unici fra i milioni di discendenti del nostro progenitore comune, acquisimmo in qualche modo non solo un cervello voluminoso - anche i Neandertaliani lo avevano - ma una mente del tutto sviluppata. Questa mente è complessa, non nel senso in cui può esserlo un meccanismo, con numerosi componenti che lavorano insieme senza difficoltà nel perseguimento di uno scopo comune, ma nel senso che è un prodotto di antiche componenti riflessive ed emozionali, ricoperte di un sottile strato di raziocinio. La mente umana, quindi, non è un'entità del tutto razionale, ma ancora oggi è condizionata dalla storia evolutiva del cervello dal quale emerse. Per quanto lungo sia il balzo che abbiamo compiuto passando dal resto del mondo vivente all'acquisizione del pensiero simbolico, non ci siamo del tutto emancipati dalle strutture cerebrali che governarono il comportamento di alcuni dei nostri progenitori più remoti. Ed è precisamente quest'interazione del vecchio con il nuovo che ci rende non solo unici in parecchi modi degni della più grande ammirazione, ma anche pericolosi come nessun'altra specie riesce a esserlo, sia per noi stessi che per il resto del mondo vivente.

Poiché la documentazione fossile e quella archeologica dimostrano che il passo finale verso l'ominazione fu più di una semplice estrapolazione da tendenze precedenti, non è compito del paleontologo tentare una spiegazione delle complessità del comportamento dell'uomo attuale. Egli può solo fare osservare l'interazione del vecchio e del nuovo che avviene all'interno dei nostri cervelli elaboratori di simboli e che sostiene la nostra coscienza, di cui siamo tanto orgogliosi. Ma non può spingersi oltre. L'interpretazione critica della nostra condizione attuale è di pertinenza di psicologi, neurobiologi, filosofi cognitivi, romanzieri, drammaturghi eccetera. Come dovremmo condurre la nostra vita (e come veniamo indirizzati a viverla) è di pertinenza dei filosofi morali e, che Dio ci assista, dei legislatori. In pratica, il fato dell'umanità è nelle mani dei politici e di miliardi di persone comuni. Ciononostante, al paleontologo è concesso di fare osservare che la natura, mentre ha posto nelle mani di Homo sapiens una capacità unica e potenzialmente distruttiva, non è tenuta ad assicurarsi che egli la usi saggiamente. Tuttavia, poiché è innegabile che siamo il prodotto di una lunga serie di cambiamenti, diventa inevitabile domandarsi se se ne profilo altri che possano davvero aiutarci a meritare la nostra denominazione zoologica di ”Uomo saggio”. In sintesi, che cosa possiamo aspettarci dal nostro futuro evolutivo? Questo sarà l'argomento delle pagine conclusive.

Conclusione

La gente si è sempre interessata non solo della propria provenienza, ma di dove sta andando. Fin dal secolo scorso, con la comparsa del concetto di evoluzione, la nostra origine e il nostro destino sono apparsi indissolubilmente legati. Considerando che l'evoluzione viene vista dai più come un processo graduale e progressivo, non è difficile capire la nostra prontezza nello stabilire questa connessione; e la rapidità attuale dei cambiamenti culturali (che, ovviamente, si trasmettono in modo del tutto diverso dai cambiamenti evolutivi) ha superficialmente sostenuto questo punto di vista. Inoltre è significativo che la futurologia, con la sua popolarità dilagante, si basi sull'individuazione delle tendenze e sull'estrapolazione. Non vi è mai stata difficoltà ad ammettere che il passato è la chiave per conoscere il futuro, mentre gli autentici utopisti hanno sempre faticato per fare accettare all'umanità i concetti realmente nuovi.

Non c'è dunque da stupirsi che l'iconografia popolare della nostra specie ci dipinga come esseri provvisti di una testa grande per ospitare un cervello altrettanto grande e supremamente razionale. Sempre secondo questa iconografia, la nostra grande testa si trova in equilibrio precario su un corpo gracile e dotato di arti esili, mentre il suo proprietario si bea nei miraggi di infiniti miracoli tecnologici. Come estrapolazione è abbastanza ragionevole, perché è innegabile che nella sua lunga evoluzione il cervello umano sia aumentato di volume, che negli ultimi tempi il nostro corpo si sia fatto un po' meno robusto, che la complessità della nostra tecnologia si sia moltiplicata, e che questa moltiplicazione, negli ultimi decenni, sia avvenuta con straordinaria rapidità. Ma possiamo realmente concludere che le nostre brillanti prestazioni del passato sono una garanzia di progresso futuro? Ne dubito profondamente.

Tanto per cominciare, è evidente che il cambiamento verificatosi durante il nostro passato è stato, nel migliore dei casi, sporadico. Anzi, in tutta la prima metà della nostra storia evolutiva non vi furono mutamenti con rilevanti conseguenze funzionali. Nemmeno i primi artefici di strumenti litici, a quanto sembra, apparivano molto diversi dai loro predecessori, e una volta che quei mutamenti si furono presentati, sarebbe trascorso un altro milione di anni prima che venisse compiuto un altro significativo progresso tecnologico. Ma questo non è l'unico esempio. Sia anatomicamente sia tecnologicamente la storia della nostra linea di discendenza è stata una storia di innovazione episodica, e non di graduale avvicinamento alla perfezione.

Per quanto ciò possa apparire deludente, si accorda piuttosto bene con il nostro emergente apprezzamento delle complessità del processo evolutivo. Se l'evoluzione comporta la diversificazione e la speciazione invece della costante accumulazione di piccoli cambiamenti, e se la storia delle singole specie è in gran parte routinaria, allora non dovremmo sorprenderci di scoprire che nella nostra linea di discendenza l'innovazione significativa è stata un fenomeno intermittente. Conseguentemente, sia che vogliamo affidarci alla teoria evoluzionistica oppure ai resti fossili del nostro passato come guida alla comprensione di quello che potrebbe essere il futuro biologico della nostra specie, l'interrogativo che dobbiamo porci è lo stesso: “Esistono le condizioni per nuovi sviluppi evolutivi a partire da Homo sapiens?”.

Abbiamo visto che sono le piccole popolazioni isolate, o quasi isolate, a essere sia il vero motore dell'innovazione evolutiva sia il bersaglio della speciazione. Queste antiche popolazioni umane erano sparse in gran parte del globo durante le crisi ecologiche e geografiche verificatesi nel corso delle glaciazioni, ed è in questo contesto che comparve Homo sapiens. Ma oggi la situazione e radicalmente diversa. La popolazione umana mondiale è già parecchio al disopra dei cinque miliardi di individui, e sta crescendo vertiginosamente. I mezzi di trasporto annullano le distanze e le barriere geografiche. La gente non ha mai conosciuto una mobilità pari alla nostra. L'isolamento delle popolazioni umane è ormai una cosa del passato, e mai come ora per le persone provenienti da aree geografiche disparate è stato così facile mescolarsi. Il risultato certo è che oggi non esistono più le condizioni per una vera e propria innovazione evolutiva all'interno della nostra specie. Noi formiamo un'unica numerosissima popolazione che si sposta sulla Terra, e mai nella storia di una specie le condizioni sono state meno propizie per l'affermazione di novità evolutive. E, a meno che intervenga qualche calamità, non è probabile che ciò possa avvenire.

Ma questa calamità potrebbe non essere molto lontana. Qualche virus terrificante quanto l'HIV ma più resistente e più facilmente trasmissibile potrebbe essere in agguato. La tecnologia potrà probabilmente fare poco per mitigare le conseguenze globali di un impatto meteorìtico simile a quello associato alla scomparsa dei dinosauri. Secondo la stima più recente, la probabilità di un simile evento è quasi zero per i prossimi centomila anni, ma a un certo punto esso si verificherà, inevitabilmente. Nell'immediato, una o più delle innumerevoli conseguenze dell'utilizzazione sempre più frequente delle alte tecnologie potrebbe sfuggirci di mano. Ugualmente preoccupante è la probabilità che l'esasperato sfruttamento dell'ecosistema mondiale conduca al suo collasso e alla nostra rovina. Le eventualità sono infinite, e qualsiasi fattore possa operare per ridurre e frammentare le popolazioni umane ripristinerebbe la possibilità di qualche mutamento evolutivo.

Ma, calamità a parte, quale importanza potrebbe avere uno qualsiasi di questi eventi? Be', sotto certi aspetti forse qualcuno potrebbe averne, almeno nella misura in cui i racconti di fantascienza riflettono certi desideri del nostro inconscio collettivo. E ovvio, per esempio, che i creatori del personaggio di Spock della serie Star Trek hanno fatto centro inventandosi un essere così totalmente razionale. Non si può negare infatti che vi sia qualcosa di curiosamente seducente nell'idea di vivere liberi da tutto il bagaglio emotivo di cui ci carica la condizione umana. Dopotutto, il comportamento irrazionale, sospinto da oscure emozioni, sta alla base di molte delle infinite sofferenze che gli uomini hanno inflitto a se stessi e agli altri nel corso della storia documentata. Ma ovviamente c'è un rovescio della medaglia anche in questo, perché nessuno di noi vorrebbe essere un automa, e in una vita priva di emozioni non vi sarebbe posto per sentimenti come l'esultanza, l'amore, la gioia.

Le ipotesi prospettate dalla fantascienza per il nostro futuro non si fermano agli Spock. Una possibilità di cambiamento sempre più discussa è quella offerta dai viaggi nello spazio. Che cosa accadrebbe se piccole colonie umane dovessero stabilirsi su lontani corpi celesti? La popolazione sarebbe poco numerosa, quindi esisterebbero le condizioni favorevoli a un cambiamento evolutivo. Ma anche se a un certo punto i viaggi nello spazio di questo tipo diventassero una realtà, per il momento tutt'altro che certa, una simile colonia dovrebbe essere mantenuta in vita mediante collegamenti con la Terra. U isolamento non sarebbe completo, e l'evoluzione di una nuova specie (che in ogni caso si verificherebbe abbastanza lontano da non avere importanza per il resto dell'umanità) sarebbe estremamente improbabile. E ammesso che per qualche miracolo una colonia stabilita nello spazio fosse in grado di sopravvivere in condizioni di isolamento qualora il cordone ombelicale con la Terra venisse interrotto, ciascuno sviluppo successivo sarebbe biologicamente irrilevante per la continuazione della vita umana sul nostro pianeta. Lo stesso vale per l'ingegneria genetica, un altro tema caro alla fantascienza come occasione per avere in futuro cambiamenti evolutivi. Nuovi genotipi artificialmente ottenuti potrebbero affermarsi soltanto isolando gli individui che li possiedono dal resto della popolazione. E nell'improbabile eventualità che fosse mai consentito di compiere simili manipolazioni su individui della nostra specie, le innovazioni ottenute in questo modo rimarrebbero necessariamente limitate a piccole popolazioni “di laboratorio”, quindi non riguarderebbero Homo sapiens nel suo insieme.

In sintesi, abbiamo una prospettiva buona e una cattiva. Quella cattiva è che se le cose continueranno ad andare più o meno come vanno attualmente, non possiamo aspettarci che né l'evoluzione né la tecnologia giungano in groppa a un destriero bianco, come è stato in passato, per salvare la specie umana dalle sue follie dotandola di un'intelligenza senza limiti o addirittura di buonsenso collettivo. Quella buona è che, se non interverrà qualche disastro, quasi certamente potremo continuare a essere in eterno creature contraddittorie, poco comprensibili e fortemente interessanti, come siamo sempre stati. A meno che non accada l'impensabile, non ci libereremo del nostro vecchio io familiare ma potenzialmente pericoloso. E dunque avremo urgente necessità di imparare a convivere con questo fatto nel migliore dei modi. La perfettibilità, come sempre, resta un'illusione.” (pp. 169-214)

6.

Le riflessioni di I. Tattersal sulla vicenda umana sono, con quelle di T. Pievani, tra le più profonde che siano mai state scritte nell’ambito di quella che ormai si può definire la “filosofia evoluzionistica”.

Il principio per cui il cervello umano è nato sulla base di una serie indefinita di fattori casuali, imprevedibili e contingenti, spiega a sufficienza la sua indefinita complessità e la difficoltà, individuale e collettiva, di amministrarlo nel modo migliore (se esiste).

Nell’Abbecedario ho scritto che, producendo il cervello umano, la natura ha “dimenticato” di fornirci il libretto delle istruzioni. Si tratta, ovviamente, di una boutade, ma non priva di senso.

Le contraddizioni comportamentali, la tendenziale “irrazionalità”, il bisogno degli esseri umani di mistificare, vale a dire di celare a se stessi la “verità” sulla condizione comune e sul proprio modo di essere - che Tattersal sottolinea a più riprese -, trovano la loro ragione di essere nella necessità di amministrare un organo il cui carattere essenziale è un’indefinita ridondanza, che viene soggettivamente percepita come una vertiginosa e inquietante complessità.

A riguardo, mi preme rilevare che Tattersal non valorizza adeguatamente la neotenia umana, vale a dire il fattore - frutto, presumibilmente, della mutazione di alcuni geni regolatori - che, mantenendo un tasso di crescita elevato, ha prodotto l’aumento di volume della neocorteccia.

Identificare nella neotenia il fondamento delle straordinarie capacità cognitive umane, che sembrano imprescindibili dal volume della neocorteccia, non è affatto azzardato. Ridurre però a questo le conseguenze della neotenia sembra semplicistico. Essa ha prodotto, infatti, una ridondanza a tal punto intensa che gran parte dell’attività mentale non può scorrere a livello cosciente perché tale scorrimento realizzerebbe uno stato confusionale e un bombardamento di stimoli intollerabile.

Da questo punto di vista, la coscienza e l’inconscio sembrano le due facce di una stessa medaglia, ed è chiaro che l’esigenza primaria della coscienza è di mantenere un minimo di unità e di coesione sulla base della rimozione.

Nell’affrontare il problema della coscienza, peraltro, Tattersal sembra cadere nella trappola ideologica cui ho fatto più volte riferimento, caratterizzata dal fatto di assumere la coscienza stessa come un attributo del cervello individuale. Sulla base di questa trappola - estremamente significativa della difficoltà di rinunciare ad identificare la coscienza con l’Io - il mistero dell’autoconsapevolezza è insolubile.

Proprio l’insistenza di Tattersal sul valore del linguaggio nel differenziare la specie umana da tutte le altre suggerisce un’alternativa che ritengo di grande suggestione.

L’uomo nasce sulla base di un’interazione sociale intensa, prolungata (dalla neotenia) e sottesa da una capacità empatica già in una certa misura presente nei primati, ma indubbiamente indefinitamente più intensa.

La scoperta dei neuroni specchio, a cui Tattersal non fa cenno, è una prova dell’importanza dell’intersoggettività ai fini della nascita dell’autoconsapevolezza.

Tenendo conto di questo fattore, e della ridondanza funzionale del cervello umano, non è affatto azzardato ritenere che la capacità simbolica sia stata acquisita in conseguenza dell’interiorizzazione dell’Altro prodotta dall’intersoggettività. Tale interiorizzazione avrebbe poi contribuito ad avviare la produzione del linguaggio e la dimensione introspettiva, che è una dimensione dialogica.

Tattersal insiste sul fatto che la coscienza umana riconosce l’ambiente esterno come suo target primario. E’ probabile però che la capacità di rappresentare simbolicamente l’ambiente esterno abbia fatto seguito alla capacità di simbolizzare l’ambiente umano.

Si tratta di un’ipotesi abbastanza innovativa, che trova per ora conforto solo nel fatto che l’inconscio sembra totalmente antropomorfico.

Il mostro di belle speranze è il saggio cui ne affido lo sviluppo.