Fin dalla prima lettura ho rilevato che la sorprendente intuizione sopravvenuta nella mente di un giovane naturalista di trenta anni, per cui la vita evolve sulla base di meccanismi naturali, che egli peraltro ha avuto il merito di coltivare per decenni cercando di dare ad essa un’organizzazione scientifica, ha dovuto fare i conti per un verso con una tradizione consolidata che assegnava all’uomo un posto del tutto straordinario nella natura e per un altro con l’opzione gradualista operata da Darwin in conseguenza della sua visione del mondo liberale. La cornice gradualista, come si è visto, non è compatibile con le scoperte paleontologiche e paleoantropologiche, che pongono di fronte ad evidenti fenomeni catastrofici (ricorrenti estinzioni di massa che fanno seguito a lunghi periodi di stasi, evoluzione a cespuglio delle forme ominidi, ecc.).
Nella sua pretesa di salvaguardare la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, il neodarwinismo, nonostante l’indubbio contributo che esso ha fornito all’integrazione tra la teoria stessa e la genetica, ha tentato di mascherarne i punti deboli, convalidando un modello gradualista, lineare e scalare dell’evoluzione degli ominidi la cui conseguenza è stata quella di rendere ancora più misteriosa l’origine dell’Homo sapiens, la cui unicità contrasta con la varietà che caratterizza tutte le altre specie.
Per fortuna, l’ideologia iperadattamentista del neodarwinismo ha generato, all’interno della biologia evoluzionistica, una vera e propria rivoluzione, esitata nella teoria degli equilibri punteggiati, elaborata da S. J. Gould e da N. Eldredge, che integra e potenzia la teoria darwiniana.
Darwinismo, Neodarwinismo e Postdarwinismo (definizione impropria con cui si fa riferimento alla teoria degli equilibri punteggiati) vanno considerati, nel loro complesso e nella loro successione, come prova che la scienza comporta inesorabilmente qualche inquinamento riconducibile all’ideologia personale degli studiosi, vale a dire tende inesorabilmente alla “normalizzazione” (Khun), ma è capace di criticare se stessa e di procedere verso un adeguamento dei suoi paradigmi ai dati che riguardano l’oggetto in questione. Scienza storica, l’evoluzionismo ha avuto esso stesso una storia contrassegnata da numerose vicissitudini. Ciò significa solo che il sapere umano, nella cui cornice la scienza occupa ormai un posto di assoluto rilievo, procede e non può procedere che per tentativi ed errori, e che esso risente inesorabilmente dell’appartenenza storica degli scienziati che lo producono.
A questo riguardo, è importante sottolineare che il liberalesimo di Darwin ha avuto una sua continuazione nell’ambito del neodarwinismo, il cui maggiore rappresentante – Th. Dobzhansky – ha assunto posizioni inequivocabilmente progressiste (cfr. Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino 1981) nel contesto “maccartista" statunitense degli anni ‘50 del secolo scorso. La teoria degli equilibri punteggiati ha aperto, peraltro, una perdurante polemica sul presunto marxismo di S. J. Gould, che non ha mai celato di essere stato educato da un padre comunista e cita a più riprese Marx, del quale ha assimilato un certo modo di pensare la storia.
Scienza storica, la teoria darwiniana ha avuto uno sviluppo che attesta comunque la sua vitalità e la validità del metodo scientifico.
L’antidarwinismo, che va considerato esso stesso in termini storici, sembra, invece, avere seguito una parabola opposta alla teoria dell’evoluzione. Il primo antidarwinista si può considerare A. Wallace il quale rilevò per primo la complessità delle funzioni psichiche umane, irriducibile alla selezione naturale e la discontinuità che si dà tra l’uomo – autoconsapevole, dotato di capacità simbolica e creativo – e gli altri animali.
Oggi sappiamo che Wallace aveva ragione nel contestare la continuità ipotizzata da Darwin tra mondo animale e mondo umano, anche se la soluzione creazionista da lui avanzata è insostenibile.
Per un certo periodo di tempo, fino a tutti gli anni ’70 del secolo scorso, gli antidarwinisti hanno svolto anche una funzione utile perché hanno insistito nel sottolineare i punti deboli del darwinismo e del neodarwinismo, costringendo i biologi evoluzionisti a riflettere su di essi. Il loro intento esplicito era di demolire la teoria darwiniana, ma è probabile che, senza la funzione di stimolo critico da essi esercitato, la fase di “normalizzazione” del paradigma neodarwinista, che è potente ed elegante, si sarebbe prolungata per molto tempo e, forse, la teoria degli equilibri punteggiati non avrebbe visto la luce.
Da quando tale teoria, integrativa del darwinismo, è stata formulata, però, vale a dire dai primi anni ’80, gli antidarwinisti si sono sempre più attestati su di una linea reazionaria e antiscientifica. Dopo avere, infatti, tentato invano di cooptare la teoria degli equilibri punteggiati, interpretandola, contro le affermazioni dei suoi autori, come antidarwinista, e dopo averla attaccata duramente come espressione di un pensiero marxista (accusa che, negli Stati Uniti è obbrobriosa), essi hanno continuato a criticare ossessivamente i punti deboli dell’evoluzionismo come se esso fosse rimasto fermo alla sua originaria versione gradualista.
Per prendere atto di questo, riporto alcune citazioni tratte da un animoso articolo scritto dal fisico nucleare Vladislav Olkhovsky in risposta ad un numero di National Geographic nel novembre 2004 la cui copertina titolava "Darwin aveva torto?". La risposta, a firma di David Quammen, occupa ben 32 pagine e non lascia dubbi: "No. Le prove a favore dell'evoluzione sono schiaccianti". Nell’articolo in questione, intitolato “Le prove sono veramente schiaccianti?”. Olkhovsky scrive:
“Mentre tutti sono d'accordo che la teoria di Darwin può spiegare la "microevoluzione", finora nessun fatto scientifico e nessuna verifica scientifica indiscutibile hanno suggerito che la teoria di Darwin può spiegare anche la macroevoluzione dagli esseri unicellulari a quelli pluricellulari, dalle specie meno complesse alle specie più complesse. La dottrina della macro-evoluzione naturale non ha ottenuto fino ad ora - in 150 anni - alcuna conferma empirica sicura o univoca [...]
Nessuno, poi, è riuscito a risolvere in modo indiscutibile il problema dell'origine spontanea delle strutture ed apparati "integrali" (dal punto di vista sia morfologico che biochimico), che hanno una complessità irriducibile (come ad esempio l'occhio, l'orecchio, il sangue). Tutti gli organismi viventi sono pieni di strutture dalla complessità irriducibile che assicurano loro il migliore adattamento possibile all'ambiente, ma queste strutture non possono formarsi col gradualismo supposto da Darwin.
Un altro punto non chiarito è il punto di partenza della macroevoluzione biologica. Da che cosa inizia? Dalla materia non-vivente, da una cellula viva, o dalla biosfera intera? A queste domande non esiste una risposta scientifica! Per di più, non c'è nessun fatto a favore dell'origine spontanea della vita dalla materia non-vivente...
Per quanto riguarda le prove fossili, l'esistenza di forme "transitorie" o "intermedie" ipotizzate da Darwin, è stata decisamente smentita dalla paleontologia. Le forme fossili cosiddette transitorie sono rare ed estremamente discutibili; tutti i maggiori gruppi viventi compaiono improvvisamente e completamente formati, senza mostrare cambiamenti direzionali durante l'arco della loro esistenza (fino ad oggi oppure fino alla loro estinzione). D'altra parte, l'unico modo per tentare di ricostruire una catena evoluzionistica sarebbe lo studio genetico dei fossili, cosa che è impossibile.
National Geographic utilizza come prova a favore dell'evoluzione addirittura la struttura degli embrioni (p. 13): "Perché l'embrione di un mammifero passa attraverso stadi di sviluppo che assomigliano a quelli dell'embrione di un rettile"? […] "Perché, come scrisse Darwin, 'l'embrione è l'animale nel suo stato meno modificato" e quello stato "rivela la struttura del progenitore". Quest'ultima idea, più nota come la "legge biogenetica fondamentale" del biologo tedesco Ernst Haeckel (1866), è stata smentita già nel 1874 dallo specialista in anatomia Wilhelm His ed è stata respinta dal mondo scientifico sin dagli anni venti. È completamente scomparsa dai testi universitari a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso perciò stupisce vederla riproporre come se il tempo non fosse passato.
Per quanto riguarda la presunta evoluzione dell'uomo, vale la pena di chiedersi cosa, oltre alla somiglianza anatomica, morfologica e genetica, dà agli evoluzionisti delle ragioni per proporre la macro-evoluzione da antenati comuni a primati e uomo. Quale sarebbe, poi, la somiglianza spirituale fra l'animale-antenato dell'uomo e l'uomo moderno, con la sua mente capace di pensiero astratto, l'auto-coscienza, la moralità e la lingua, caratteristiche assolutamente assenti in qualsiasi animale. La teoria (insegnata nell'ex URSS) dell'evoluzionista Friedrich Engels, secondo la quale sia stato proprio il lavoro a trasformare la scimmia in uomo, fa soltanto ridere...
Ormai si sta facendo sempre più strada, fra gli stessi scienziati, la convinzione che per spiegare l’origine degli esseri viventi e la loro complessità, bisogna supporre un “Progetto Intelligente”: ognuno ha poi una sua convinzione sulle caratteristiche del“Progettista”, ma diviene sempre più indecente continuare a riproporre il caso e laselezione naturale come la sorgente dei magnifici esseri viventi.”
In tutte queste affermazioni, che in gran parte fanno capo a problemi i quali sono stati presi in considerazione e affrontati dagli evoluzionisti, ce n’è una sola inconfutabile. Nessun biologo è in grado di spiegare, oggi, come si sia realizzato il passaggio dalla materia inanimata a quella animata. L’evoluzionismo, però, non ha mai avuto questa pretesa (seppur scientificamente legittima). Esso si limita a interpretare ciò che è accaduto dopo la comparsa dei primi organismi unicellulari. E’ sorprendente che un fisico nucleare intenda invalidare il darwinismo perché esso non è in grado di spiegare ciò che è accaduto prima. La fisica, nell’ottica della teoria del Big-Bang, ha ricostruito la storia della materia a partire da alcuni milionesimi di secondo successivi ad esso. Il non essere (ancora) in grado di spiegare ciò che è avvenuto prima non toglie certo valore alla disciplina.
Il problema è che gli antidarwinisti contemporanei non prendono neppure in considerazione l’ipotesi che la selezione naturale, la cui azione è fuor di dubbio, possa essere integrata da altri meccanismi, nonostante Darwin stesso abbia fatto cenno a questa possibilità. Essi rimangono fermi all’anticreazionismo esplicito di Darwin e ritengono che sia stato questo presupposto “ideologico” a costringerlo ad ammettere la casualità dell’evoluzione animale.
Ho esposto i motivi per cui la teoria della selezione naturale va revisionata e integrata con la teoria degli equilibri punteggiati, che sormonta lo scoglio del gradualismo, ma non ha bisogno di ricorrere ad un Creatore o ad un disegno intelligente perché attribuisce alla natura stessa una creatività casuale. L’exaptation, vale a dire la produzione di strutture contingenti e potenzialmente ridondanti, è l’espressione di questa creatività.
A livello umano, l’exaptation è riconducibile ad un insieme di mutazioni riguardanti i geni regolatori che hanno determinato un netto ritardo dello sviluppo, e quindi la crescita smisurata della neocorteccia, che ha comportato la riorganizzazione di tutto l’apparato mentale.
Con la sua contingenza, però, l’exaptation accresce il riferimento alla casualità. E’ come se la natura, avendo sperimentato il vantaggio adattivo di un cervello di dimensioni maggiori, ne abbia prodotto, in virtù di mutazioni casuali, uno le cui potenzialità si possono ritenere non solo ridondanti, ma anche in qualche misura disadattive.
I creazionisti identificano nell’ansia esistenziale, che porta l’uomo ad interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo destino, l’indizio di una spiritualità aperta al trascendente.
La realtà, come afferma Gould, in riferimento alla neotenia, è che “il bambino è il padre dell’uomo”: assioma splendido su cui non si finirà mai di riflettere. E’ difficile attribuire ad un Dio creatore un’idea così bislacca e un esperimento così azzardato, anche se è assolutamente vero che la neotenia, ponendo per anni il bambino in una condizione di dipendenza radicale ed estatica dall’adulto, può consentire di spiegare la necessità psicologica permanente di un Essere superiore o di un Padre.
Impossibilitato a contendere con la teoria dell’evoluzione sul piano scientifico, il creazionismo ha assunto di recente una nuova veste, le cui origini embrionali vanno individuate nel pensiero di H. Spencer, che per primo ha esteso l’evoluzionismo al cosmo intero. Si tratta dell’ipotesi nota come Intelligent Design.
Tale ipotesi riconosce la sua più rozza espressione nei neo-creazionisti statunitensi, che si richiamano alla lettera biblica. Essa, però, è stata elaborata in maniera sottile e affascinante dal gesuita Theilard De Chardin (1881–1955), geologo e antropologo, che, in una certa misura, ripercorre le tracce di A. Wallace, ipotizzando un processo evolutivo in due fasi: la prima parte dal mondo inorganico e si sviluppa attraverso la produzione della biosfera, del mondo degli esseri viventi nella loro straordinaria varietà; la seconda coincide con il processo di ominizzazione che, con la comparsa dell’uomo, segna il passaggio dalla biosfera alla noosfera, il mondo del pensiero riflessivo, di ordine sostanzialmente spirituale, che gravita verso il Punto-Omega, vale a dire la convergenza dell’umanità con il Cristo Cosmico.
Nonostante sia stata a lungo osteggiato dalla Chiesa, che ha letto in esso un’ombra di eresia panteistica, il pensiero di Theilard De Chardin ha introdotto nella storia dell’evoluzionismo il principio antropico, secondo il quale l’evoluzione dell’universo riconosce come suo fine la comparsa della coscienza umana capace di riflettere su di esso.
Meno mistica è la versione dell’ipotesi, sostanzialmente panteistica, illustrata dal fisico Paul Davies, ne Il cosmo intelligente (Mondadori, Milano 1989), che si conclude con le seguenti parole:
“Il fatto stesso che l'universo è creativo, e che le sue leggi hanno consentito la comparsa e lo sviluppo di strutture complesse fino al livello della coscienza - in altre parole, il fatto che l'universo ha organizzato la propria autoconsapevolezza - è per me una prova considerevole che "vi è qualcosa" dietro a tutto ciò. L'impressione dell'esistenza di un disegno globale è schiacciante. La scienza può spiegare tutti i processi per mezzo dei quali l'universo si costruisce il proprio destino, ma ciò lascia comunque aperta la possibilità che vi sia un significato oltre l'esistenza.” (p. 261)
Non è sorprendente che, per via di quel qualcosa che apre l’orizzonte di una trascendenza affrancata da un Dio antropomorfico, Il Cosmo intelligente sia divenuto una sorta di manifesto del movimento confluito successivamente nell’ideologia new-age.
L’ipotesi dell’Intelligent Disegn è di natura induttiva come il darwinismo, ma a suo sostegno non porta alcuna prova, ed inoltre è articolata diversamente da autore ad autore.
Il presupposto dell’ipotesi è la tendenza della materia ad organizzarsi in forme sempre più complesse. Parecchi fautori dell’Intelligent Design accettano l’ipotesi del Big-Bang, ma sostengono che la differenziazione delle costellazioni, l’origine del sistema solare, la comparsa della Terra e, infine, l’evoluzione della vita sulla terra, a partire da un ammasso indistinto di energia, attestano inconfutabilmente che la materia tende verso una progressiva complessificazione. Taluni ritengono che la complessificazione sia imprescindibile da un Demiurgo o da un Dio; altri ammettono che tale tendenza sia insita nella materia (giungendo dunque ad una conclusione panteistica); altri ancora, identificano nell’uomo e nella sua coscienza capace di rispecchiare e di riflettere sull’Universo il fine intrinseco all’evoluzione della materia (principio antropico).
Il riferimento alla complessificazione dell’organizzazione della materia è un riferimento teorico importante perché fa capo alla scienza dei sistemi complessi, la quale ha dimostrato che in essi le leggi causali e deterministiche svolgono un ruolo minoritario rispetto a quelle probabilistiche. I sistemi complessi sono ricchi di alternative equiprobabili una delle quali poi si realizza.
Appoggiandosi a questa teoria, i fautori dell’Intelligent Design riabilitano il ruolo del caso (centrale nel darwinismo), ma ritengono che esso sia in qualche misura guidato da un’Intelligenza il cui fine è l’organizzazione della materia ad un livello sempre più elevato.
Si tratta, a mio avviso, di un punto di vista rispettabile, ma non necessariamente condivisibile. Potrebbe, infatti, trattarsi semplicemente di un modo di interpretare le cose che corrisponde a vincoli dell’apparato mentale, che rifugge dal disordine, dalla confusione e dalla casualità, piuttosto che allo stato delle cose stesse. Il fatto che il Cosmo sia intelleggibile, non significa affatto ch'esso sia necessario e tanto meno strutturato da un Logos (comunque inteso).
Inserire l’evoluzione della vita e la comparsa dell’Uomo nel più vasto contesto dell’Universo non può prescindere dal fatto che di quest’ultimo sappiamo sostanzialmente poco, mentre dell’evoluzione della vita sappiamo quanto basta ad avallare la teoria darwiniana (revisionata e integrata).
L’antidarwinismo è sostanzialmente un orientamento ideologico. Esso muove dal presupposto che la “giostra della vita” debba avere un senso, che abbia un carattere progressivo e che l’uomo ne rappresenti l’espressione più elevata.
In genere è molto difficile capire le origini delle ideologie. Per quanto riguarda l’antidarwinismo contemporaneo, però, qualcosa si può dire.
Verso la metà del 1980 si avvia negli Stati Uniti la deregulation neoliberistica, che fa della lotta competitiva tra singoli individui il fattore supremo dello sviluppo socio-economico. Torna, insomma, alla ribalta il cosiddetto darwinismo sociale, in auge negli ultimi due decenni del secolo XIX, che, in seguito alle due guerre mondiali, sembrava sormontato in nome del Welfare State, che riabilitava il principio della solidarietà sociale.
Il neodarwinismo sociale è appena temperato dal conservatorismo compassionevole, che non assegna ai deboli alcun diritto, ma riconosce il loro essere bisognosi e promuove nei ricchi un orientamento gratuitamente filantropico. Al tempo stesso, sempre negli Usa, la polemica mai sopita delle sette cristiane fedeli alla lettera della Bibbia contro l'evoluzionismo dà luogo al rilancio del creazionismo in senso stretto e nella versione mistificata del Disegno Intelligente. Paradossalmente, i nuovi cristiani (come amano chiamarsi) sono quasi tutti favorevoli al modello neoliberista.
Come spiegare una contraddizione del genere? Preso atto dello stato preagonico del comunismo sovietico e poi della sua fine, la società statunitense, che si ritiene investita da Dio della missione di diffondere urbi et orbi i valori della dignità e della libertà dell'uomo, inteso come creatura divina, ha identificato in Darwin l'incarnazione del Male e nella sua filosofia materialistica e meccanicistica la matrice del nichilismo contemporaneo.
In breve, i cristiani statunitensi, religiosi e liberisti, sono giunti alla conclusione che il principio della selezione è valido a livello di dinamica sociale (pur dovendo essere temperato dalla compassione) ma non a livello naturale.
Con un qualche ritardo, l'antidarwinismo sbarca in Europa e rianima il conservatorismo della Chiesa che lo ingloba nella cornice di una rivendicazione del valore sacro della vita che troverebbe la sua espressione più pregnante nell'uomo.
La Chiesa ha le sue ragioni. Di fatto, per quanto ateo, il marxismo teorico riconosce l'uomo come fine ultimo e valore assoluto della storia. L'evoluzionismo darwiniano, viceversa, è l'attacco più virulento che sia stato sferrato contro la presunzione dell'uomo di essere una creatura straordinaria.
Le cose non stanno proprio così. Il darwinismo non toglie valore all'uomo; piuttosto gli pone sulle spalle la responsabilità di essere un animale del tutto particolare, in quanto la sua origine casuale si associa alla consapevolezza di esserci e di coesistere con i simili. Una sua interpretazione pedissequa può indurre a pensare che sulla base della lotta per l’esistenza non sia possibile edificare alcuna etica che vada al di là dell’individualismo competitivo. Ma questo non sembra vero perché trascura l’insistenza di Darwin nell’attribuire all’uomo un potente istinto sociale e una valenza empatica. Su queste attribuzioni alcuni studiosi ritengono possibile pervenire a conclusioni etiche.
Il compito in prima battuta è stato assunto dai filosofi. Sono stati pubblicati di recente due saggi: Un’etica senza Dio (Laterza, Bari 2007) di Eugenio Lecaldano e La morale della natura (Laterza, Bari 2008) di Simone Pollo.
Nel primo, Lecaldano scrive:
“E stato ampiamente spiegato dai filosofi e dagli scienziati naturalisti dal XVIII secolo in avantiche, nel momento in cui diveniamo consapevoli della nostra natura autonoma di esseri moralmente responsabili, questa consapevolezza si presenta come percezione della rilevanza delle sofferenze e dei dolori altrui e si trasforma in una istintiva partecipazione all'altrui sofferenza, da alleviare o eliminare. Questo processo naturale di formazione della soggettività morale non richiede alcun appello a un nostro posto speciale nel creato e non ha alcun bisogno di trovare conforto nel riconoscimento di una nostra comune natura di creature e di figli prediletti di Dio. E’ sufficiente il richiamo alla naturale simpatia (intesa qui in un senso minimale e quasi biologico) con le emozioni altrui: una simpatia che, secondo alcuni teorici dell'etica, pur muovendo in modo più immediato e diretto verso le persone che ci sono più familiari e in una più stretta relazione con noi, si allarga a tutto il genere umano e anche al di là della specie umana, fino alla partecipazione alle sofferenze degli animali.” (p. 36)
“Si radica in questa nostra inevitabile partecipazione alle emozioni degli altri quella dimensione dell'etica che viene caratterizzata come un senso di giustizia: così come sentiamo negativi e da evitare dolori e sofferenze e proviamo piacere nell'esserne alleviati, non diversamente - per equità ed uguaglianza - dobbiamo regolarci nei confronti dei dolori e delle sofferenze altrui, nei confronti dei quali non riusciremmo ad essere indifferenti, neanche volendolo. Quella parte dell'etica che viene abitualmente categorizzata con la nozione di giustizia non trova giustificazione nell'obbedienza a una legge di Dio, che vale per tutti gli esseri umani in quanto sue creature, bensì è il risultato della nostra istintiva partecipazione alle condizioni di coloro che riconosciamo come simili e che può estendersi - come molti, da Bentham a Singer, hanno sottolineato - anche agli animali capaci di provare piacere e dolore.
Un'etica senza Dio può proporsi come antidoto all'atrofizzazione dei nostri sentimenti morali, all'impossibilità di correggerli, allargarli e rivederli sulla base delle nostre esperienze particolari delle condizioni effettive dei nostri simili.” (p. 37)
L’empatia, che è il fondamento dell’etica laica, può essere ricondotta alla nascita stessa della specie umana in un’ottica darwiniana:
“La spiegazione evoluzionista rende conto […] dell'origine della morale, che sembra una peculiarità eccezionale della specie umana. Essa può essere spiegata naturalisticamente come un graduale stabilizzarsi nella cultura umana di comportamenti casuali e reiterati che, avendo prodotto conseguenze positive, si sono trasformati in regole favorevoli alla sopravvivenza della nostra specie nelle condizioni ambientali in cui si trova ad agire. Peter Singer, più volte e da ultimo nel suo libro Una sinistra darwiniana (2000), ha fatto il punto sulla possibilità di fornire una spiegazione evoluzionistica tanto di quelle condotte umane governate dalla logica dello scambio e dalle regole della reciprocità, quanto della tendenza ad approvare condotte di tipo altruistico e donativo. Ciò che, a nostro parere, non va perso di vista è l'emozione, il sentimento che accompagna le condotte che si conformano a regole morali e, in modo altrettanto significativo, il sentimento che si accompagna alle condotte che a queste regole non si conformano. Coloro che sono impegnati nel fornire una spiegazione epidemiologica dell'ampia diffusione tra gli esseri umani di regole morali che impediscono le condotte che provocano sofferenze agli altri hanno mostrato come tale spiegazione sia confortata proprio dal riferimento alla risonanza emotiva che si accompagna a tali regole e che le fa preferire rispetto ad altre.”
(pp.40-41)
Sulla stessa linea di Lecaldano si muove S. Pollo (La morale della natura, Laterza, Bari 2008), il quale ripete più o meno le stesse argomentazioni, ma aggiunge:
“[Un] fatto del quale un'etica darwiniana dovrebbe tenere positivamente conto riguarda l'importanza della nozione di «benessere» per il meccanismo dell'evoluzione biologica. Come lo stesso Darwin aveva chiaramente riconosciuto, la logica della selezione naturale è anche una logica del benessere . L'organismo che ha possibilità di successo nella competizione per la sopravvivenza è un individuo che sta bene, vale a dire che sfugge le sofferenze e «fiorisce». Questo fatto, anzitutto, dovrebbe avere come conseguenza l'affermazione della centralità del benessere per la stessa etica normativa, che dovrebbe vedere in questa nozione uno strumento concettuale importante per l'articolazione concreta della responsabilità morale. In secondo luogo, la rilevanza del benessere dovrebbe indurre legittimi sospetti verso tutte quelle etiche che identificano il valore morale con forme di rigorismo, rinuncia e sacrificio.”
Sul piano teorico, il pensiero degli autori è poco confutabile.
Se non si vuole però rimanere ad un livello accademico, ci si deve chiedere perché l’istinto sociale e la simpatia (empatia) non abbiano realizzato sinora il mondo cooperativo e solidale che ci si sarebbe potuti attendere.
Una prima risposta è che nell’uomo l’istinto sociale e la simpatia tendono a confinarsi all’interno del gruppo, e che essi stessi si traducono naturalmente in una percezione negativa dell’estraneo, non familiare e pertanto potenzialmente pericoloso.
La risposta è del tutto congruente con la teoria darwiniana. L’istinto sociale originariamente era funzionale alla coesione e alla solidarietà del gruppo e dei gruppi limitrofi, costretti ad imparentarsi scambiandosi le donne. La capacità dimostrata dagli esseri umani di adattarsi all’ambiente ha permesso, sia pure lentamente, la diffusione della specie sul pianeta, inducendo la differenziazione somatica, linguistica e culturale: in pratica, estraniando i gruppi tra loro.
Per quanto vero, questo però non basta a spiegare la storia travagliata dell’umanità. Occorre aggiungere almeno un altro fattore: l’etnocentrismo, vale a dire la tendenza intrinseca ad ogni gruppo di ritenere la propria cultura superiore a tutte le altre. L’etnocentrismo aggiunge alla paura dell’estraneo un certo disprezzo per i suoi costumi e i suoi comportamenti, ritenuti inferiori.
Da questo punto di vista, il problema non sembra quello di enfatizzare o negare l’istinto sociale e l’empatia depositate nel genoma umano quanto piuttosto di identificare e analizzare i fattori culturali che li potenziano o li depotenziano, sino all’anestetizzazione.
L’etica darwiniana può, insomma, assumere un pieno valore solo se inserita nella cornice più ampia di una panantropologia, vale a dire di una nuova disciplina che studia le interazioni tra biologia e cultura nello spazio e nel tempo.
Il creazionismo comporta la presenza nell’uomo di un principio spirituale irriducibile alla materia. Costitutiva della nostra civiltà, le cui matrici originarie sono cristiane, la distinzione tra corpo e mente ha trovato, come noto, un radicale testimone in Cartesio, il cui pensiero ha influenzato la cultura moderna.
Il progresso delle scienze biologiche, umane e sociali ha posto i presupposti perché tale distinzione fosse messa in gioco e superata. Il superamento ha però prodotto la contrapposizione frontale tra innatisti o deterministi genetici e empiristi o deterministi ambientali (nature versus nurture), che ha assunto in alcuni periodi il tono di una guerra di religione.
Mentre negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, soprattutto per influenza della cultura marxista, il determinismo ambientale è sembrato prevalere sino al punto di diventare egemone, a partire dagli anni ‘80, con i progressi della genetica e della neurobiologia, si è verificata una lenta ma massiccia inversione di tendenza la cui espressione estrema è stata la sociobiologia wilsoniana.
Di recente, la sterile opposizione è sfumata dando luogo a molteplici tentativi di trovare una mediazione scientificamente credibile. Non è paradossale che questo tentativo sia avvenuto più ad opera di genetisti che di umanisti. E’ più facile, evidentemente, oggi per chi ha una formazione scientifica aprirsi alla valutazione dell’incidenza della cultura sull’esperienza umana, individuale e collettiva, che non viceversa.
In un bel libro (Il gene agile, Adelphi, Milano 2005), Matt Ridley, sperimentatore e docente di genetica, tenta di operare tale mediazione. Egli scrive:
“Intendo dimostrare che la conoscenza del genoma ha effettivamente cambiato tutto. Non lo ha fatto mettendo definitivamente una pietra sopra le polemiche o conquistando la vittoria per l'uno o l'altro dei due schieramenti, ma arricchendo i termini della disputa su entrambi i fronti, fino a farli incontrare nel mezzo. La scoperta dei reali meccanismi grazie ai quali i geni influenzano il comportamento umano, e di come il comportamento umano influenzi a sua volta i geni, ci costringe a reimpostare il dibattito in chiave del tutto nuova. Non si tratta più di contrapporre eredità e ambiente - non più nature versus nurture -, ma di considerare invece come la prima si esprima attraverso il secondo: nature via nurture. I geni sono fatti per raccogliere i suggerimenti dell'ambiente. Per comprendere che cosa sia accaduto nell'arena del dibattito, dovremo […] entrare in un mondo nel quale i geni non sono burattinai che muovono i fili del nostro comportamento, ma piuttosto burattini alla mercé di quel comportamento; un mondo in cui l'istinto non è opposto all'apprendimento e a volte le influenze ambientali sono meno reversibili di quelle genetiche; ancora, un mondo dove la «natura» incontra l'ambiente, l'esperienza e la cultura.” (p. 17)
“Sono i geni che mettono la mente umana in condizioni di apprendere, ricordare, imitare, «imprintarsi», assorbire cultura ed esprimere istinti. I geni non sono burattinai - e nemmeno progetti. Né sono semplicemente i veicoli dell'informazione ereditaria. Essi sono attivi durante la vita; si attivano e disattivano reciprocamente; reagiscono all'ambiente. Possono dirigere la formazione del corpo in generale e del cervello in particolare già nel grembo materno; poi, però, in risposta all'esperienza, si accingono quasi immediatamente a smantellare e ricostruire quanto hanno appena edificato. I geni sono al tempo stesso causa e conseguenza delle nostre azioni. In qualche modo, coloro che nella controversia sono a favore dell'influenza dell'ambiente, si sono fatti scioccamente spaventare dal potere e dall'inevitabilità dei geni, lasciandosi sfuggire la cosa più importante, e cioè che anch'essi, i geni, sono schierati dalla loro parte.” (p. 21)
Non è un caso che Matt Ridley parte da Darwin e dalla rivoluzione che il suo pensiero ha prodotto, la cui espressione più avanzata non è la psicologia evoluzionistica ma la genetica comportamentale, vale a dire la disciplina che tenta di capire il ruolo dei geni nell’organizzazione del comportamento umano. Riguardo a questo, Ridley scrive:
“La principale conclusione della genetica comportamentale è estremamente inattesa: essa ci dice che la biologia ha un ruolo importante nel determinare la personalità, l'intelligenza e la salute - in altre parole, i geni contano. Non dice, invece, che essa esercita questo ruolo a spese dell'ambiente. Se non altro, dimostra in modo decisamente impressionante che l'ambiente conta quanto i geni, sebbene si riveli inevitabilmente meno incisiva nel discernere come...
Le due influenze non sono in competizione, non sono rivali; non c'è alcuna contrapposizione nature versus nurture.” (p. 147)
La conclusione è inconfutabile. Posto, però, che nel determinare i comportamenti umani contano sia i geni che l’ambiente, il problema sta nel capire quanto contano. A questo riguardo, per ora, si può fare riferimento solo agli studi sui gemelli monozigoti, i cui risultati vengono così sintetizzati:
“Nella società occidentale, quasi tutte le misure della personalità hanno dimostrato un'elevata ereditabilità: in altre parole, quando sono allevati separatamente, i gemelli monozigoti sono molto più simili dei gemelli dizigoti. La differenza fra un individuo e l'altro va dunque attribuita più alle differenze genetiche che a fattori riconducibili all'ambiente familiare.
Oggi gli psicologi definiscono la personalità servendosi di cinque dimensioni: i cosiddetti « cinque grandi fattori»: apertura mentale, coscienziosità, estroversione, amabilità e nevroticismo - in inglese openness, conscientiousness, extroversion, agreeableness e neuroticism, condensati nell'acronimo OCEAN. I questionari possono ricavare punteggi per ciascuna di tali dimensioni, che sembrano variare in modo indipendente. Un individuo può avere una mente aperta (O), essere pignolo (C), estroverso (E), invidioso (A) e tranquillo (N).
In ciascun caso, poco più del 40 per cento della variazione nella personalità è da ascriversi a fattori genetici diretti, meno del 10 per cento alle influenze ambientali condivise (principalmente alla famiglia) e circa il 25 per cento a influenze ambientali che rappresentano esperienze esclusive dell'individuo (comprendenti di tutto: dalle malattie e gli incidenti, alle compagnie frequentate a scuola). Il restante 25 per cento costituisce, semplicemente, l'errore di misura.
In un certo senso, questi studi sui gemelli hanno dimostrato che la parola «personalità» significa effettivamente qualcosa. Quando si descrive qualcuno dicendo che ha una certa personalità, si intende far riferimento a una particolare componente intrinseca della sua natura, che va oltre l'influenza delle altre persone - il contenuto del suo carattere, tanto per prendere a prestito un'espressione famosa. Per definizione, si intende qualcosa che è esclusiva di quell'individuo. D'altra parte, dopo un secolo di certezze freudiane, va contro alle normali aspettative scoprire quanto poco quel carattere intrinseco sia influenzato dalla famiglia in cui l'individuo è cresciuto." (p. 132)
E’ difficile accettare questa conclusione, ma per un motivo cui fa riferimento lo stesso Ridley accennando poco dopo al problema della variabilità genetica, che, come noto, ha assillato anche Darwin, e la cui entità oggi si pone come “uno scandalo”:
“Perché mai esiste una tale variazione genetica «normale» - o per chiamarlo col suo vero nome, un tale polimorfismo? Di certo le varianti genetiche «intelligenti» dovrebbero a poco a poco condurre all'estinzione quelle «stupide», e le varianti «flemmatiche» dovrebbero avere lo stesso effetto su quelle «eccitabili». E’ inevitabile che uno dei due tipi sia superiore all'altro in termini di sopravvivenza o successo riproduttivo. Il possesso di una delle due varianti, pertanto, dovrebbe conferire una maggior capacità di diventare un riproduttore fecondo. D'altra parte, non esiste alcuna prova del fatto che i geni si estinguano in questo modo. Nella popolazione umana, sembra esserci una sorta di felice coesistenza fra le diverse versioni dei geni.
In modo alquanto enigmatico, nella popolazione umana esiste una variazione maggiore di quella che la scienza avrebbe ragione di aspettarsi...
Esistono moltissime teorie per spiegare l'enigma, sebbene nessuna di esse sia del tutto soddisfacente. Forse, noi esseri umani abbiamo a tal punto smorzato la pressione della selezione naturale, resistendole con l'aiuto della tecnologia, che le nostre mutazioni hanno potuto proliferare. Ma allora perché quella stessa variazione è presente anche negli altri animali? Forse esiste una delicata forma di selezione equilibratrice che favorisce sempre le varianti rare dei geni, impedendone così l'estinzione.” (pp. 148-150)
La natura ama evidentemente la ridondanza, che presumibilmente è massima a livello umano. Se questo è vero, però, il problema del rapporto tra genetica e ambiente va posto in un altro modo. La genetica implica dei vincoli, che possono essere ricondotti alla norma di reazione propria di un determinato corredo genetico. La norma di reazione comporta, entro un determinato range, possibilità molteplici di fenotipizzazione. Se ammettiamo che nella fase evolutiva circostanze ambientali apparentemente minimali possano determinare grandi effetti sull’evoluzione della personalità, il problema è risolto. Il 10% di esperienze condivise e il 25% di esperienze esclusive dell’individuo bastano e avanzano a far capire l’influenza dell’ambiente che può orientare una personalità in una direzione piuttosto che in un’altra (tra quelle geneticamente possibili).
La risposta più semplice, peraltro in parte scientifica in parte filosofica, è che, a differenza di altri animali, il progetto-uomo è ancora del tutto aperto e forse non si può ricondurre all’ideologia adattamentista: essa comporta anche potenzialità cerebrali exattate (nel gergo di Gould) delle quali l’uomo sta ancora cercando di capire cosa fare.
E’ evidente che le interazioni tra biologia e cultura nello spazio e nel tempo si chiariranno all’interno di un nuovo modello panantropologico.
Su questa via procede da tempo Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei genetisti di dichiarata fede darwiniana più famosi al mondo. Egli ha affidato di recente le sue riflessioni ad un agile e denso saggio (L’evoluzione della cultura, Codice edizioni, Torino 2008), nel quale tenta di stabilire una stretta analogia tra l’evoluzione genetica e quella culturale.
Riporto alcune citazioni che danno le coordinate di questa impresa:
“La genetica ha sviluppato la teoria dell'evoluzione biologica, ma tale teoria è del tutto generale e include anche quella dell'evoluzione culturale, perché vale per qualunque "organismo" capace di autoriproduzione...
Questo non vuole affatto dire che i geni controllino la cultura: la determinano solo nel senso che controllano gli organi che la rendono possibile e, in particolare, permettono il linguaggio, che è una caratteristica praticamente esclusiva degli uomini ed è la base necessaria per la comunicazione. Ma la cultura rimane profondamente separata e largamente indipendente dai geni: diviene addirittura capace di influenzare l'evoluzione genetica. Naturalmente, nell'estensione dalla biologia alla cultura, molte cose cambiano a cominciare dagli oggetti che evolvono: il DNA nella biologia, le idee nella cultura. Cambiano i nomi che diamo ai meccanismi evolutivi particolari, ma non cambiano i concetti teorici. Rimangono alcuni legami teorici sotterranei ma profondi e, fortunatamente, i termini scientifici di cui abbiamo bisogno sono pochi. Alcuni possono essere mantenuti invariati anche fra campi diversi come la biologia e la cultura perché sono estremamente simili.” (p. 7-8)
“L'evoluzione culturale, nel suo insieme, è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o, più esattamente, dall'accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società e da quali innovazioni vengono accettate. Vi è quindi un cambiamento continuo che è sempre di natura statistica, dato che è molto improbabile che tutti accettino le stesse scelte. Alcune innovazioni sono più fortunate di altre. La storia della cultura è quindi la storia delle innovazioni: quali sono state proposte, quali hanno avuto fortuna e perché.
La motivazione che conduce a creare o accettare un'innovazione è più o meno sempre la stessa: si osserva un bisogno e si cerca di andargli incontro” (p. 11)
“L’evoluzione culturale è di tipo lamarckiano, a differenza di quella biologica, e in realtà Lamarck non distingueva fra eredità biologica e culturale quando parlava di "eredità dei caratteri acquisiti". In biologia i caratteri acquisiti durante la vita di un individuo non sono ereditati dai suoi figli. Probabilmente, Lamarck raggruppava con i tratti biologici anche tutti i caratteri di natura psicologica, alcuni - anzi molti dei quali possono essere trasmessi culturalmente e quindi mostrare un'eredità di tipo lamarckiano. Vi è un altro fatto che collega l'evoluzione culturale al modello di Lamarck: egli insisteva sulla "volontà di evolvere". La mutazione culturale, cioè l'invenzione, a differenza di quella biologica, non è un fenomeno indipendente dalla nostra volontà, non è un fenomeno che si possa considerare "casuale", ma ha quasi sempre lo scopo di risolvere un problema pratico particolare. Questa è una grossa differenza tra l'evoluzione culturale e quella genetica, in cui le mutazioni sono invece casuali e non dirette a risolvere i problemi del momento. Inoltre, la trasmissione culturale non è, come quella biologica, legata al passaggio da genitori a figli. Essa può essere infinitamente più rapida, quasi istantanea, specialmente oggi Viceversa, la trasmissione genetica è condizionata dal processo di riproduzione che richiede una generazione: 25-30 anni nel caso umano...
Quindi vi sono differenze fondamentali fra l'evoluzione biologica e quella culturale e i due meccanismi vanno tenuti perfettamente distinti. Tuttavia essi possono influenzarsi reciprocamente e, per questa ragione, si parla anche di coevoluzione biologico-culturale.” (p. 26)
“Mendel parlava di "elementi" per definire quelli che oggi chiamiamo geni. Quali sono gli "elementi" della cultura? Che cosa sono gli equivalenti del gene nella cultura o, più in generale, del DNA? Si tratta, chiaramente, delle idee che ci trasmettiamo l'un l'altro, che trasmettiamo ai nostri figli, agli amici e a tutti coloro che vengono a contatto con le nostre parole. Possiamo trasmettere le idee nella forma in cui sono state trasmesse a noi, oppure possiamo trasmettere idee modificate o idee nuove...
Quando ci viene proposta un'idea e noi la accettiamo o la rifiutiamo, è già avvenuta una trasmissione culturale. La prima fase, la mutazione, è la creazione di un'idea nuova. Possiamo chiamarla "innovazione" o "invenzione". Se non vengono create idee nuove, vi è anche un'altra possibilità di mutazione: la perdita di un'idea, di un costume...
Chi conosce una nuova idea, o un'idea comunque non nota ai potenziali allievi, può avere il desiderio di insegnarla; oppure, chi non la conosce può avere il desiderio di apprenderla. Questo è l'atto della trasmissione, che però può non funzionare se vi è il rifiuto o l'incapacità di apprendere. Si può anche dire che la trasmissione passa attraverso due fasi: la comunicazione di un'informazione, di un'idea, da un insegnante (transmitter) a un allievo (transmitter), e la comprensione e acquisizione dell'idea. Questo è l'atto di riproduzione dell'idea che avviene quando l'idea passa da un cervello all'altro. Dato che consideriamo tale atto analogo alla generazione di un figlio, possiamo parlare di autoriproduzionc delle idee. E chiaro che i meccanismi sono profondamente diversi, in biologia e nella cultura, ma il risultato essenziale è lo stesso...
Dato che il passaggio di un'idea da un cervello a un altro è certamente una forma di autoriproduzione, esso determinerà selezione, sia culturale sia naturale, qualora vi siano idee diverse in competizione.” (pp. 71-72)
“Si può dire che la cultura sia un meccanismo biologico, in quanto dipende da organi, come le mani per fare gli strumenti, la laringe per parlare, le orecchie per udire, il cervello per capire, ecc., che ci permettono di comunicare fra di noi, di inventare e di costruire nuove macchine capaci di esercitare funzioni utili e speciali, di fare tutto quel che è necessario, desiderato e possibile. Ma è un meccanismo dotato di grande flessibilità che ci permette di applicare qualunque idea utile ci venga in mente, e sviluppare soluzioni per i problemi che nascono di volta in volta.
Oltre a questa totipotenza, un'altra caratteristica della cultura è la sua capacità di diffondersi rapidamente a tutta la popolazione: un meccanismo di adattamento reso possibile da una o più innovazioni, se la diffusione non è ostacolata da barriere geografiche, economiche o sociali...
Dato che la comunicazione fra i membri di una società è molto importante, i comportamenti che rendono più coesa e più efficiente una società hanno una certa tendenza a diffondersi nel gruppo, rendendolo culturalmente piuttosto omogeneo. D'altra parte, il linguaggio evolve rapidamente e i gruppi che hanno una necessità limitata o nulla da comunicare fra loro hanno pochi scambi culturali; quindi il linguaggio di gruppi anche relativamente vicini può sviluppare rapidamente delle differenze. Bastano mille o millecinquecento anni perché due lingue separate perdano la comprensibilità reciproca...
La differenziazione linguistica tende a ridurre gli scambi culturali e ad aumentare le differenze culturali tra i gruppi. In pratica, possiamo attenderci che le differenze culturali fra etnie diverse siano grandi, e quelle entro una medesima etnia piccole: il contrario di quanto avviene per la variazione genetica, dove la differenza fra popolazioni è piccola rispetto a quella all'interno delle popolazioni...
Diversamente da quelle genetiche, molte differenze culturali possono aumentare rapidamente; tuttavia esse non possono aumentare liberamente entro una popolazione, perché l'alta intensità di scambi culturali all'interno del gruppo sociale richiede un'elevata somiglianza di comportamento individuale affinché i contatti sociali possano essere mantenuti. Al contrario, fra popolazioni che hanno poco scambio culturale le differenze culturali possono svilupparsi facilmente...
Il fatto che la cultura sia un meccanismo di adattamento è visibile anche nella tendenza di molti fenomeni culturali ad aumentare la forza dei vincoli sociali. Esiste anche, e viene spesso discussa, la possibilità che si sviluppi un adattamento genetico in questa direzione in molti fenomeni culturali tipici come la facilità dell'adesione a molteplici ritualizzazioni - un'ipotesi difficile da provare rigorosamente, ma verosimile se si pensa a una forma di predisposizione che sorge in certe condizioni e si sviluppa magari in periodi critici o sensibili.” (pp. 79-80)
“La trasmissione culturale può determinare cambiamenti molto rapidi, ma qualunque attività culturale può anche avere una permanenza elevata. Quindi l'evoluzione culturale può essere molto rapida ma anche molto lenta, a seconda dei caratteri considerati, e può avvenire a tutti i gradi intermedi di velocità, dalla massima permanenza alla massima rapidità di cambiamento.” (p. 99)
“II fatto che la corteccia cerebrale sia molto più sviluppata nell'uomo rispetto agli animali fa pensare che questi ultimi siano effettivamente meno razionali di noi e che questa sia una differenza importante. Ma gli studi di psicologia animale mostrano che gli animali si comportano in media piuttosto razionalmente ed è difficile pensare che tutto il loro comportamento sia dovuto sempre e solo ai loro geni. Molte delle loro azioni sono chiaramente razionali. Invece, abbiamo molte ragioni per pensare che, più spesso di quanto vogliamo riconoscere, le nostre azioni siano reazioni apparentemente irrazionali, cioè dettate da emozioni provocate da eventi esterni, cui si aggiungono pulsioni interne spontanee che occorre distinguere dalle emozioni. Le nostre emozioni e pulsioni sono irrazionali, ma solo nel senso che non sono di solito provocate da ragionamenti coscienti o, comunque, completamente controllati da noi. Esse si trovano all'interno della parte più profonda e antica del nostro cervello. Senza dubbio sono predisposte dai geni, ma non ci si può attendere che la loro programmazione sia perfetta e che non sia alterata dagli eventi della nostra vita, che inevitabilmente influenzano la nostra personalità. Possiamo considerare le emozioni e le pulsioni come irrazionali, anche se in realtà la parte genetica è stata costruita nel corso dell'evoluzione e quindi ha una sua razionalità dettata dalla selezione naturale. Ciò però non è sufficiente a garantire la miglior prestazione in ogni situazione e sarebbe sempre meglio poter lasciare alla parte razionale di noi il tempo e il modo di controllare quel che facciamo...
Un grande problema di natura più generale, comunque, è che sarebbe molto interessante (ma non veramente importante dal punto di vista pratico) sapere se e in che misura queste tendenze razionali e irrazionali di un individuo abbiano un'origine genetica o socioculturale.” (pp. 116-118)
“Se un certo grado di razionalità del comportamento è necessario come base della routine quotidiana e del mantenimento della vita sociale, spesso l'irrazionalità e, qualche volta, una certa casualità - magari semplicemente qualche mutazione biologica o culturale importante - hanno avuto una parte significativa nel determinare le grandi svolte, nel bene e nel male. Queste grandi svolte possono essere considerate responsabili degli "equilibri punteggiati", cioè dei cambiamenti evolutivi rapidi, e non lenti come si riteneva fosse la regola, che si estendono su un'area vasta in un tempo relativamente breve, ma lasciando una situazione radicalmente mutata. Essi avvengono sia nell'evoluzione culturale sia in quella biologica.” (p. 119)
Il parallelismo tra evoluzione genetica ed evoluzione culturale è molto suggestivo, tanto più perché l’autore rileva con nettezza anche le differenze che si danno tra di esse. Nonostante la suggestione, però, almeno per un aspetto appare criticabile.
Si tratta della riconduzione in toto della cultura alla produzione di innovazioni (o idee) che vengono poi socialmente selezionate a seconda che esse rispondano o meno a bisogni umani sociali. In riferimento alla tecnologia, che ha un peso rilevantissimo nell’evoluzione della specie umana, l’affermazione è fuori di dubbio. Si può ipotizzare che qualche innovazione locale sia andata perduta, ma di sicuro gran parte delle innovazioni tecnologiche sono state acquisite e si sono trasmesse e diffuse.
La cultura, però, comprende anche modi di sentire, opinioni, pregiudizi, moduli di comportamento, valori che si trasmettono attraverso modalità consce e inconsce di generazione in generazione. Gli esseri umani codificano la realtà e organizzano la società con modalità complesse, che solo di rado sono riconducibili a criteri funzionali o ragionevoli. C’è insomma una casualità e un’arbitrarietà intrinseca ad ogni cultura, di cui non si può non tenere conto.
Dobbiamo essere grati a Darwin di avere ricondotto l'uomo nella cornice della natura e di avere riconosciuto in esso il prodotto di un'evoluzione delle forme viventi che, per essere spiegato, non ha bisogno dell'intervento di forze o principi sovrannaturali.
Dobbiamo anche essergli grati di avere validamente sottolineato la potenza dell'istinto sociale, che l'uomo ha ereditato dagli animali, e di avere identificato in esso la matrice dell'entrata in azione delle potenzialità cognitive intrinseche ad una struttura cerebrale complessa.
Con tutti i limiti legati alla funzione di un organo prodotto casualmente dalla selezione naturale, Darwin crede profondamente che l’uomo, in virtù della cultura, possa organizzare un mondo nel quale la competizione per sopravvivere ed affermare i bisogni individuali sia temperata dal riconoscimento della coscienza di specie e dalla solidarietà.
Il liberalesimo e il moderatismo di Darwin hanno in una certa misura temperato l’impatto filosofico della teoria evoluzionistica, che non va ricondotto solo alla critica in essa implicita all’antropocentrismo, la cui conseguenza è che l’uomo appartiene a pieno titolo alla natura e al mondo della vita, ma soprattutto al suo togliere ogni senso oggettivo, che trascenda la sopravvivenza, all’esperienza umana.
Gettato dal caso in un angolo remoto dell’Universo, costretto a competere con le altre specie e ad esplorare nuovi ambienti distanti tra loro, con la conseguenza di creare culture diverse che, in virtù della barriera linguistica, hanno progressivamente indotto a rimuovere la coscienza di specie, animato da un bisogno inesauribile di felicità la cui realizzazione è promossa e sottesa dall’ansia esistenziale, l’uomo darwiniano appare, un essere esistenzialmente e culturalmente, al tempo stesso, miserabile e sublime.
Questa visione, implicita nell’originaria teoria, si è in una certa misura accentuata via via che è risultato chiaro che sia la comparsa dell'uomo sia le vicissitudini cui è andata incontro la specie umana non possono essere fatti rientrare del tutto nella cornice del darwinismo e del neodarwinismo.
Casuale, in quanto riconducibile a mutazioni che rimangono ignote ma che di sicuro vanno ricondotte ad una modificazione dei geni regolatori che hanno rallentato il processo dello sviluppo, ritardandolo in maniera netta, la comparsa dell'uomo va considerata. per dirla con le parole di Gould, un glorioso accidente della storia. Se si considera poi che tale accidente, dovuto ad una serie indefinita di fattori congiunturali, va ricondotto in larga misura ad un ritardo dello sviluppo, cioè letteralmente ad un tornare dietro dell’evoluzione, la circostanza appare ancora più singolare.
La scoperta e la valorizzazione della neotenia si deve ad un anatomista – L. Bolk – che la espone in una conferenza nel 1926 (Il problema dell’ominazione, Deriva Approdi, Roma 2006). Con argomentazioni piuttosto complesse, Bolk giunge alla conclusione che la teoria darwiniana è insufficiente: essa, infatti, spiegherebbe l’adattamento dell’uomo all’ambiente, ma non l’adattamento dell’ambiente ai bisogni umani, vale a dire la sua trasformazione culturale.
A distanza di pochi anni, un altro studioso – A. Gehlen – riprende, senza citare l’autore, le intuizioni di Bolk e le integra in un quadro più compiuto, il quale sottolinea, con la neotenia, la sprovvedutezza e la carenza costitutiva della specie umana. La sprovvedutezza è dovuta all’allentamento dei meccanismi istintivi di regolazione del comportamento. La carenza, invece, fa capo alla perdita di strumenti protettivi e difensivi (la pelliccia, gli artigli, le zanne, ecc.).
Nell’ottica di Gehlen, la necessità di produrre cultura non è un optional, bensì una necessità da cui dipende la sopravvivenza della specie.
La cultura si può considerare un formidabile strumento adattivo nella misura in cui essa trasforma l'ambiente rendendolo adeguato ai bisogni umani. Il ritmo di sviluppo della cultura è indefinitamente più rapido rispetto alla genetica. Eccezion fatta per i primi cinquantamila anni dalla nascita dell'uomo, caratterizzati da un sorprendente ristagno culturale in rapporto ad un cervello già pronto per il “grande balzo”, dalla rivoluzione paleolitica in poi il progresso culturale ha avuto uno sviluppo esponenziale.
Ciò è dovuto al fatto che, mentre i geni si replicano di generazione in generazione, gli “oggetti” culturali – le idee, le scoperte, i prodotti dell'ingegno, i “valori”, ecc. - si trasmettono epidemicamente tra le popolazioni.
Se l'uomo è nato dal caso, in virtù di un'accelerazione contingente legata presumibilmente ad alcune variazioni genetiche che hanno modificato i geni che regolano il tasso di crescita del cervello, c'è da chiedersi come interpretare la cultura e la storia che essa contrassegna.
La cultura esprime la natura umana, le straordinarie potenzialità del cervello, e mira a promuovere un adattamento sempre maggiore dell'uomo al mondo. Ma essa procede sulla base del caso o permette di intravedere qualche obiettivo significativo? Qual è, insomma, l'adattamento migliore per la specie umana? Che cosa significa un mondo fatto a misura dell'uomo?
Darwin non avrebbe saputo rispondere ad una domanda del genere. Molti evoluzionisti di solida fede – da Dobzhansky a Luigi Luca Cavalli Sforza – hanno tentato di rispondere sottolineando, in un'ottica naturalistica, il “miracolo” dell'uomo proiettato, come afferma Telmo Piovani, “su uno stretto sentiero evolutivo in bilico fra gli splendori della creatività e l’abisso dell’autodistruzione.”
E’ stato S. J. Gould a impostare il problema della filosofia dell’evoluzionismo nel modo migliore. In una delle innumerevoli raccolte di saggi (Quando i cavalli avevano le dita) egli scrive:
“I biologi presentano i loro sistemi o come verità necessarie di logica superiore o come conclusioni ineluttabili tratte dai poteri ineguagliati dell'osservazione: in altri termini, come presentazioni obiettive della natura, non valutata finora in modo appropriato. In realtà questi sistemi hanno in comune una sola proprietà, la quale non è né l'obiettività né una sapienza superiore. Essi sono, fondamentalmente, tentativi di dare una risposta a una domanda centrale (forse la domanda centrale) della storia intellettuale: qual è il ruolo e lo status della nostra specie, Homo sapiens, in natura e nel cosmo?
I sistemi, nel loro tentativo di dare un senso al "posto dell'uomo in natura," per usare l'espressione di Thomas H. Huxley, seguono una delle due strategie seguenti. Una strategia, che ho designato come strategia della palizzata (picket fence) escogita un ordine che pervade l'intera natura tranne l'uomo, che sarebbe contraddistinto da un marchio intrinseco di superiorità. Così, Charles Lyell considerò un mondo in continua agitazione e in continuo mutamento, ma che rimaneva sempre sostanzialmente lo stesso: sostituzione senza miglioramento. Soltanto l'uomo, un'imposizione recente di perfezione morale su un mondo stabile, veniva a interrompere il modello del mutamento senza progresso. A. Wallace attribuì tutti i caratteri degli organismi al potere plasmante della selezione naturale, escludendone però un solo prodotto dell'ispirazione divina: il cervello umano.
La seconda strategia adotta una tattica opposta nel perseguimento dello stesso fine: una collocazione all'interno della natura che dia un qualche senso alla nostra vita. Questa strategia sostiene che non c'è alcuna separazione fra l'uomo e la natura. Queste teorie della continuità possono procedere nell'una o nell'altra direzione, e io esaminerò un esempio recente di ciascuna di esse come rappresentativo di una lunga tradizione di argomentazioni non ineccepibili.
La prima opinione - che chiamerò zoocentrica - costruisce principi generali a partire dal comportamento di altri animali e poi sussume completamente in questa categoria anche gli esseri umani, giacché anche noi, dopo tutto e innegabilmente, siamo animali. La seconda opinione - che chiamerò antropocentrica - cerca di sussumere la natura in noi, considerando le nostre peculiarità come il fine della vita sin dal principio.
La teoria evoluzionistica stessa ha un nucleo appropriatamente zoocentrico. Dal comportamento di una singola specie non possono sorgere principi generali, eppure tutte le specie devono conformarsi ai principi. II ruolo di questo moderato zoocentrismo nello spezzare le robuste palizzate che esistevano prima del tempo di Darwin può essere considerato un grande evento nella storia del pensiero umano. Può accadere però che la visione zoocentrica venga spinta troppo avanti sino a farne una caricatura, chiamata spesso la fallacia del "nient'altro che" (gli esseri umani non sono «nient'altro che" animali).
Le spiegazioni semplicistiche della sociobiologia umana che inondano oggi la letteratura popolare includono questa versione iperestesa dello zoocentrismo. La sociobiologia non è solo l'affermazione che la biologia, la genetica e la teoria dell'evoluzione hanno qualcosa a che fare col comportamento umano. La sociobiologia è una teoria specifica sulla natura degli apporti della genetica e dell'evoluzione al comportamento umano. Essa si fonda sull'opinione che la selezione naturale è un architetto virtualmente onnipotente, che costruisce organismi parte dopo parte come le soluzioni migliori a problemi della vita in ambienti locali. Essa frammenta gli organismi in "tratti," ne spiega l'esistenza come insiemi di soluzioni ottimali e sostiene che ogni carattere è un prodotto della selezione naturale operante "a favore" della forma o comportamento in questione. Applicata agli esseri umani, deve considerare comportamenti specifici (e non solo potenziali generali di comportamento) come adattamenti costruiti dalla selezione naturale e radicati in determinanti genetici, poiché la selezione naturale è una teoria del mutamento genetico. Così ci troviamo di fronte a speculazioni indimostrate e indimostrabili sulla base adattiva e genetica di comportamenti umani specifici: perché alcune persone (o tutte) sono aggressive, xenofobe, religiose, avide o omosessuali?
Lo zoocentrismo è la fallacia primaria della sociobiologia umana, poiché questa concezione del comportamento umano si fonda sul ragionamento che se le azioni di animali "inferiori" con sistema nervoso semplice sorgono come prodotti genetici della selezione naturale, allora anche il comportamento umano dovrebbe avere una base simile. Anche gli esseri umani sono animali, no? Sì, ma con una differenza. E tale differenza ha origine, in parte, come risultato di una flessibilità enorme, fondata sulla complessità di un cervello di dimensioni molto superiori e della base, potenzialmente culturale e non genetica, di comportamenti adattivi: aspetti che proibiscono di estrapolare dalle cause dell'uso di alcuni insetti di mangiarsi il loro partner alle cause dell'omicidio in famiglie umane.
Per una strana ironia, lo zoocentrismo della sociobiologia umana è spesso un'illusione che cela un modo di ragionare esattamente opposto. Io ho sostenuto in passato che i sistemi "obiettivi" sono spesso finzioni inconsce che riflettono i nostri pregiudizi e le speranze che riponiamo sulla natura. Gran parte della sociobiologia umana si fonda sull'idea che, se è possibile trovare comportamenti tipicamente umani, anche se in forma rudimentale, fra gli animali "inferiori," questi comportamenti devono essere "naturali" anche nell'uomo, un prodotto dell'evoluzione biologica. Spesso i sociobiologi si lasciano ingannare da una somiglianza esterna e superficiale sviante fra comportamenti presenti in esseri umani e in altri animali...
E' una storia vecchia. Noi vogliamo rispecchiare la natura e nello specchio vediamo noi stessi e i nostri pregiudizi...
I sistemi zoocentrici falliscono primariamente perché non sono mai quel che pretendono di essere. Il comportamento animale "obiettivo," sotto cui essi sussumono atti umani, è sin dal principio un'imposizione di preferenze umane.
I sistemi antropocentrici più venerabili hanno almeno la virtù di riconoscersi tali esplicitamente. Essi prendono sul serio Protagora quando dice che "l'uomo è la misura di tutte le cose" e peccano solo nella loro hybris di sostenere che l'evoluzione intraprese la sua complessa fatica iniziata circa tre miliardi e mezzo di anni fa solo per generare quel ramoscello che noi chiamiamo Homo sapiens. I sistemi antropocentrici sono stati fuori moda fra gli scienziati, almeno in Inghilterra e in America, dal tempo di Darwin, ma una nuova versione godette di una popolarità spettacolare alcuni anni fa: mi riferisco al sistema del padre gesuita ed esimio paleontologo Pierre Teilhard de Chardin...
Nella visione antropocentrica la vita ha senso solo in funzione del suo tendere verso l'uomo. Noi siamo inestricabilmente parte della natura perché la natura si è protesa verso di noi, desiderandoci intensamente, sin dal principio. In un manoscritto del 1952 sulla socializzazione umana, Teilhard affermò: “L'evoluzione umana non è altro che la prosecuzione naturale, a un livello collettivo, del processo perenne e cumulativo di quell'ordinamento "psicogenetico" della materia che chiamiamo vita...”
L'intera storia dell'umanità non è stata altro (e quindi non sarà mai altro) che una esplosione sempre crescente di cerebrazione... La vita, se viene intesa appieno, non è una bizzarria nell'universo, né l'uomo è una bizzarria nella vita. Al contrario, la vita culmina fisicamente nell'uomo, esattamente come l'energia culmina fisicamente nella vita.
Poiché l'evoluzione segue una via diretta, l'albero della vita non è una rete che si ramifica a caso, ma un fascio di rami, connessi fra loro dalla genealogia alla loro base, che divergono nel corso della loro storia, muovendosi però sempre nella medesima direzione fondamentale. L'energia della materia impone la divergenza; la forza della coscienza crescente impone un comune progresso verso l'alto. Le specie affini dovrebbero formare una serie di linee genealogiche multiple, parallele, ciascuna divergente e adattata a un ambiente locale, ma con un rapporto spirito/materia sempre crescente. Teilhard scrisse nel 1922 che "l'evoluzione.., si risolve in innumerevoli linee che divergono con tanta lentezza da apparire parallele."
Con la comparsa dell'uomo, l'evoluzione ha raggiunto il suo periodo cruciale. Lo spirito si è accumulato in misura tale da raggiungere infine l'autocoscienza. Un nuovo strato è apparso in effetti nella struttura concentrica della Terra. Teilhard elogiò il grande geologo austriaco Eduard Suess per avere introdotto il termine "biosfera" come aggiunta agli strati concentrici tradizionali della litosfera e dell'atmosfera. Ma la coscienza, aggiunse Teilhard, ha aggiunto un altro strato ancora: "la superficie umana psichicamente riflessiva.., la noosfera.” (pp. 243-250)
C’è una possibilità di sfuggire allo zoocentrismo e all’antropocentrsmo costruendo, nella cornice dell’evoluzionismo, una visione dell’uomo che riconosca al tempo stesso che egli è un essere naturale, ma con caratteristiche del tutto particolari, in termini sia positivi che negativi, e tenti in qualche modo di spiegarli?
“Nel libro citato, Gould, affrontando il problema del posto dell'uomo nella natura, ha scritto queste illuminanti parole:
"Forse il problema in tutte queste visioni - zoocentriche oltre che antropocentriche - sta nella nostra inclinazione a costruire innanzitutto sistemi generali che abbraccino tutto. Ma può darsi che tali sistemi non funzionino. Può darsi che vengano sconfitti inevitabilmente dall'intrinseca complessità e ambiguità del nostro posto nella natura. Come possiamo erigere una palizzata che ci separi da tutti gli altri esseri viventi, quando siamo così strettamente legati alla natura? Ma come possiamo optare per una continuità completa, o partendo dagli altri animali per salire verso l'alto (zoocentrismo) o discendendo dall'uomo verso gli altri animali (antropocentrismo) se gli esseri umani sono così speciali, nel bene o nel male?
Noi non siamo altro che un minuscolo ramoscello su un albero che comprende almeno un milione di specie di animali, ma la nostra grande invenzione evolutiva, la coscienza - un prodotto naturale dell'evoluzione integrato con una struttura corporea che non presenta alcun pregio particolare - ha trasformato la superficie del nostro pianeta. Osserviamo il paesaggio dal finestrino di un aereo. C'è qualcun'altra specie che abbia lasciato un così gran numero di segni visibili della sua inflessibile presenza? “Noi viviamo in una tensione essenziale e irresolubile fra la nostra unità con la natura e la nostra pericolosa unicità...
I sistemi che hanno tentato di assegnarci un posto nella natura e di dare un senso alla nostra esistenza concentrandosi esclusivamente o sull'unicità o sull'unità sono condannati all'insuccesso. Ma noi non dobbiamo smettere di chiedere e di cercare solo per il fatto che le risposte sono complesse e ambigue. Noi non possiamo far niente di meglio che seguire il consiglio di Linneo, incarnato nella sua descrizione dell'Homo sapiens all'interno del suo sistema. Egli descrisse altre specie fondandosi sul numero delle dita, sulla mole corporea e sul colore. Per noi, in luogo dell'anatomia, scrisse semplicemente il precetto socratico: "Nosce te ipsum" (conosci te stesso)." (op. cit., p. 252)
Si tratta, indubbiamente di indicazioni suggestive, ma del tutto insufficienti.
E’ a Telmo Pievani e al suo collega paleantropologo Ian Tattersal che si devono i due saggi più recenti (rispettivamente Homo sapiens e altre catastrofi e Il cammino dell’uomo) che tentano di ricavare dal darwinismo, dal neodarwinismo e soprattutto dal postdarwinismo (la teoria degli equilibri punteggiati) le estreme conseguenze filosofiche.
Pievani muove dal contestare la mitologia “eroica” intrinseca ad alcune correnti del neodarwinismo, che illustra in questi termini:
“La sceneggiatura, accademica e popolare, riguardo alle origini dell'umanità divenne quella di una progressiva conquista della perfezione, con la frontiera del progresso umano che avanza verso l'intelligenza e la coscienza affrancandosi dalla condizione animale: una marcia a tappe serrate, dettata dall'espansione continua delle capacità cerebrali, letta sempre attraverso lo sguardo del vincitore, cioè della sola specie sopravvissuta al filtro della selezione naturale.” (p. 43)
Come ormai noto, questa “sceneggiatura” si è arenata contro l’insolubilità del problema degli anelli mancanti e la scoperta che l’evoluzione degli ominidi non è avvenuta in maniera lineare e scalare bensì in virtù di una proliferazione di diverse specie umane, alcune delle quali sono convissute per lunghi periodi tra loro.
La soluzione del problema è avvenuta con l’elaborazione della teoria degli equilibri punteggiati, che non solo, però, ha accentuato il carattere casualistico, contingente e imprevedibile dell’evoluzione della vita, ma ha addirittura assunto la comparsa della specie umana e infine l’essere essa rimasta unica sul pianeta “come il risultato polimorfo e imprevedibile di percorsi contingenti, di adattamenti secondari e subottimali, di bricolage imprevedibili.” (p. 73) L’uomo, insomma, è null’altro che un glorioso accidente della storia, caratterizzato peraltro, in conseguenza del cervello di cui dispone, di potenzialità funzionali indefinitamente ridondanti che lo rendono un essere creativo, ma anche contraddittorio e costretto ad adottare meccanismi di mistificazione di ogni genere.
In conseguenza delle sue capacità culturali, la specie umana ha poi “colonizzato” il mondo. Nell’ottica di Pievani, questa planetarizzazione ha seguito, mutatis mutandis, le stesse leggi dell’evoluzione naturale:
“La diversità è frutto di storie uniche e contingenti, non espressione di essenze di qualsiasi natura o di evoluzioni necessarie. Questa unicità è frutto di una coevoluzione ogni volta differente fra le popolazioni e gli ambienti naturali, in altri termini di un'evoluzione ambientale delle società umane in cui hanno agito agenti prossimi e cause via via più remote. Questa storia planetaria appartiene alla stessa scienza dell'evoluzione umana che tenta di spiegare l'emergenza e il succedersi delle diverse forme ominidi: non vi è soluzione di continuità. E’ lo stesso, ininterrotto racconto di barriere ecologiche, di migrazioni e colonizzazioni, di dinamiche popolazionali, di difformità geografiche, di coevoluzione fra piante e animali, di modificazioni del clima e degli ecosistemi.
Il messaggio derivante da questa ricostruzione inedita della storia naturale dell'umanità è duplice. La nascita africana recente di Homo sapiens, conseguenza di una speciazione allopatrica in un contesto di instabilità ecologica, svuota di contenuto il concetto di razza umana e mostra come l'uguaglianza biologica e genetica di tutti i popoli della Terra sia un evento contingente e irreversibile. Dentro questa matrice evolutiva comune, l'uomo anatomicamente moderno ha sviluppato un tessuto di diversità etniche e culturali che deriva da una storia intricata di derive, migrazioni, colonizzazioni e ibridazioni anch'esse immerse in un crogiolo ecologico instabile e contingente. Tali diversità si sommano all'infinita gamma delle differenze individuali potenziali presenti all'interno di ogni gruppo umano, anch'esse figlie della contingenza dei processi di sviluppo e carburante indispensabile, come intuì Charles Darwin, per qualsiasi cambiamento evolutivo. Dunque, sia l'uguaglianza umana sia le disuguaglianze e le differenze umane sono fatti contingenti della storia.
La matrice evolutiva dell'uguaglianza umana ci permette di apprezzarne l'unicità e l'incommensurabile valore etico che ne deriva: su di essa potremo sempre fondare la difesa dei diritti fondamentali di libertà e di dignità che spettano a ogni essere umano in quanto appartenente alla stessa specie, diritti oggi dolorosamente negati e calpestati in molte regioni del pianeta. Inoltre, è solo grazie a questa inusuale e preziosa unità di specie che possiamo cogliere appieno la ricchezza delle sue affascinanti diversità culturali ed etniche (Gould 1998).” (pp. 216-217)
Affascinanti, ma anche indefinitamente inquietanti:
“La durata media della sopravvivenza di una specie animale sulla Terra si aggira intorno ai quattro milioni di anni. Homo sapiens ne ha compiuti 150.000. Quindi abbiamo trascorso meno del 4% dell'esistenza media che la natura concede a specie come la nostra. Se la vita di una specie fosse come la vita di un essere umano, noi avremmo da poco compiuto il nostro terzo anno d'età. Agli occhi della biosfera Homo sapiens è quindi una specie bambina che ha cominciato appena a balbettare qualche parola ma che già procura danni irreparabili: un autentico monello. Saremo così previdenti da raggiungere l'età adulta?
Questa specie bambina si è rivelata prodigiosa nel conquistare gli spazi terrestri. Li ha sottomessi in una manciata di millenni. Da alcuni anni ha raggiunto anche l'orbita della Terra, fotografando il globo dall'esterno. Alcuni suoi fortunati e coraggiosi esponenti hanno raggiunto il nostro unico satellite e hanno visto sorgere l'alba della Terra all'orizzonte lunare. La specie bambina ha già fatto esperienza della propria compiutezza territoriale, del proprio limite per ora invalicabile, del proprio isolamento cosmico. Ha lanciato Pioneer 10 ai confini del sistema solare. Ha deciso di costruire una stazione orbitante, abitata in modo permanente. Sta preparando la prima missione umana su Marte, il pianeta fratello lontano sei mesi di navigazione cosmica. Tuttavia, la Terra rimane la sola oasi di vita che sappiamo abitare. Per ora non c'è un pianeta di ricambio.
Mentre lo spazio esplorabile si esaurisce e il nostro habitat coincide con l'intero pianeta, il tempo profondo della storia naturale della specie umana rivela la natura fragile e preziosa della sua permanenza. Non ci siamo scelti un pianeta stabile e questo forse, come aveva intuito James Lovelock, è proprio il segreto della vita. Deriviamo da una serie di pulsazioni della biosfera che hanno sconvolto gli equilibri ecosistemici in più occasioni. Per di più, la funzione delle estinzioni di massa non è stata quella di eliminare i meno adatti, ma quella di regolare lo spazio disponibile per nuove speciazioni impedendo la saturazione degli ecosistemi. A seguito di tali ristrutturazioni radicali del biota terrestre, nuove proliferazioni di forme viventi hanno ripopolato tutte le nicchie ecologiche.
La natura ha un suo respiro millenario. Nello spazio ecologico lasciato libero dall'estinzione la vita sperimenta nuove strade, produce miriadi di specie dalla vita inizialmente breve e riaccende i motori della coevoluzione fra le popolazioni di organismi e gli habitat. Questa fase di instabilità e di proliferazione si esaurisce quando gli ecosistemi raggiungono equilibri accettabili.
Allora il numero di specie rimane standard, mentre le estinzioni di sfondo e la selezione naturale fanno il loro corso normale. Ma l'armonia e un privilegio che non regge in natura: ben presto imminenti perturbazioni appariranno minacciose all'orizzonte, aprendo nuovi campi di possibilità.” (pp. 343-344)
In questo quadro di ordine generale, l’uomo ha svolto e svolge un ruolo particolare
“Grazie a Homo sapiens anche l'evoluzione ha avuto un'evoluzione. La nostra specie è andata in fuga, per i sentieri accelerati della trasmissione culturale e del progresso tecnologico. Sta bruciando le tappe verso una meta ignota. L'evoluzione biologica ha trasceso se stessa, permettendo a una sola specie di modificare la propria identità biologica, di fare ingegneria con i codici genetici proprio e di altre specie, di sfruttare e manipolare la natura nel tentativo disperato di fare convivere in un ecosistema finito una popolazione in crescita indefinita. Quali saranno le condizioni sociali, igieniche ed economiche dell'umanità quando saremo dieci miliardi?
Come abbiamo già accennato, alcuni scienziati si sono chiesti se non vi sia una sorta di "necessità evoluzionistica" autolesionista, una sorta di parabola a boomerang, in questo abbandono degli ormeggi naturali (Wills 1998). L'evoluzione biologica produce complessità, la complessità produce l'intelligenza autocosciente e libera, questa intelligenza trascende l'evoluzione biologica e mette a repentaglio la sopravvivenza di sé e della natura (Wilson 1992). Sarebbe dunque insita nel processo evoluzionistico una torsione potenzialmente suicida, un avvitamento su di sé che blocca prima o poi l'esperimento di coscienza superiore, indipendentemente dalla specie in cui esso si realizza? Si tratterebbe, in tal caso, di una forma di "principio antropico" alla rovescia applicato alla vita sulla Terra...” (pp. 360-362)
Un principio negantropico, dunque, secondo il quale “l'evoluzione culturale e tecnologica di una specie come Homo sapiens sarebbe per definizione insostenibile rispetto agli equilibri sedimentati nel tempo profondo dell'evoluzione biologica. L'intelligenza acquisita dal nostro eroe nella sua marcia trionfale di progresso sarebbe allora un regalo avvelenato, un dono perfido della sorte, il mezzo attraverso il quale l'evoluzione, come gli dei cannibali delle cosmogonie arcaiche, divora i suoi figli prediletti.” (p. 363)
“Secondo questa ipotesi suggestiva (ma non priva di difetti deterministici) principio antropico e principio negantropico sarebbero in un certo senso due direttrici tragicamente complementari: l'universo presenta sì le caratteristiche uniche per la nostra emergenza e per il nostro successo, ma esattamente nello stesso modo in cui "ha previsto" la nostra nascita, al fine di essere studiato e osservato da un essere cosciente, esso prevederebbe anche la nostra autodissoluzione, il nostro annientamento per ipertrofia tecnologica...” (p. 363)
Cosa opporre a questa previsione catastrofica?
“La speranza di smentire lo scenario "negantropico" risiede nella comprensione dello stretto passaggio fra sviluppo e autodistruzione, con un occhio sempre molto attento alla lunga storia naturale della nostra specie: noi siamo solo la preistoria di infinite altre storie e i nostri successori fra diecimila anni vedranno la nostra epoca come uno sbiadito preambolo di altri eventi, di altri sconvolgimenti. Imbricate forse in una grande rete cognitiva globale, le loro menti penseranno di aver raggiunto un progresso incommensurabile nel comportamento e nella morale. Ma anche questa sarà una metafora rischiosa, una metafora sempre più pericolosa.
Il progresso contiene i semi della propria estinzione, perché produce generazioni di esseri umani sempre meno capaci di coesistere con la propria potenza. Il suo paradosso consiste nel fatto che più esso avanza più questi germi diventano prolifici: la forbice si allarga. Il progresso non ha dunque bisogno di "freni" quantitativi o di Cassandre inascoltate, ha bisogno di antidoti culturali che ne colgano le ambiguità radicali. La storia naturale di Homo sapiens, nelle sue evidenze squisitamente amorali e "negantropiche" (e proprio per questo genuinamente umanistiche), potrebbe insegnarci non a vivere meglio, né a vivere una volta per tutte in modo arcaico in mezzo a valli incontaminate, ma a prolungare il più possibile questa nostra permanenza insostenibile sul pianeta.
La cornice temporale dei milioni di anni, che ci ha accompagnato fin dall'inizio di questo libro, porta con sé una rivoluzione concettuale tanto semplice quanto profonda riguardo alla nostra coscienza di specie: per gran parte della storia naturale della Terra noi non c'eravamo; se le cose fossero andate in modo leggermente diverso noi oggi non ci saremmo, e, come ogni altra specie, verrà il giorno in cui comunque non ci saremo più.” (pp. 360-364)
Diversa solo per alcuni aspetti è l’impostazione di Tattersal, che sembra più sensibile di Pievani alla contraddittoria complessità dell’Uomo. Egli parte dal fatto che la condizione umana è molto più difficile da definire rispetto alle altre specie:
“La condizione di una specie deriva dalle sue capacità, e per diversi secoli gli interrogativi su quella umana hanno alimentato il dibattito di filosofi e teologi. C'è una certa ironia nel fatto pur inevitabile che proprio la specie che apparentemente ama arrovellarsi sulla propria condizione sia in realtà l'unica a esserne priva. Ma anche nell'eventualità in cui questa esistesse, sarebbe estremamente difficile da definire. Di qualunque condizione si tratti, è certamente più facile descriverla nel caso di un'ameba, di una lucertola, di un toporagno o addirittura di uno scimpanzé. Quest'ultimo è senza dubbio una creatura complessa, ma la gamma di possibilità che ha a disposizione è enormemente più limitata del ventaglio di opzioni con le quali un singolo Homo sapiens deve confrontarsi. Naturalmente noi dobbiamo misurarci anche con molte delle stesse realtà fondamentali con le quali hanno a che fare gli scimpanzé, e nessuna di queste va ignorata nei tentativi di definire la nostra condizione. Ma non c'è nulla di specificamente umano nei problemi che condividiamo con gli scimpanzé: ciò che ci rende differenti sono la nostra consapevolezza e il modo che abbiamo di affrontare le realtà della vita. Inoltre, per quanto stimiamo le nostre capacità di ragionamento, non è certo il libero esercizio della razionalità a caratterizzarci in questi frangenti. Dopotutto, la storia del genere umano è disseminata di buone occasioni sprecate, e continuerà a esserlo anche in futuro. No, la questione è molto più complessa.
Per l'uomo la vita non è soltanto un fatto economico: essa è sommersa da complessità sociali e simboliche di ogni tipo, e ci siamo inventati letteralmente migliaia di modi per crearle e per affrontarle. Ciascuna società ha elaborato metodi propri per far fronte non solo ai bisogni economici e sociali, ma anche alla consapevolezza della mortalità degli individui che la compongono. Inoltre, per quanto la relatività dei costumi possa turbarci, nessuna società è intrinsecamente migliore o peggiore delle altre secondo un principio morale universale. Non possiamo derivare alcun concetto di moralità (che è una costruzione sociale) o di “legge naturale” (che è una costruzione intellettuale) dalla contemplazione della natura o di qualunque altra entità materiale situata al di fuori di noi in quanto gruppo, poiché la natura non si cura delle sofferenze o dei successi dei singoli individui. Definire amorale tale indifferenza significherebbe solo “antropomorfizzare”. Quindi, per esempio, nonostante io sia fermamente convinto che qualunque sistema morale risulti profondamente incrinato se non assume che l'unità di sofferenza sia il singolo individuo, devo riconoscere che questo concetto non trova giustificazione in nulla al di fuori del contesto umano (o forse solo della percezione che io ne ho)...
È indubbio che i codici morali e le norme di comportamento rappresentino necessità fondamentali per esseri individualmente complessi, oscuramente motivati e tuttavia altamente sociali come noi. Inoltre, e ne ho già accennato in precedenza, per giustificarli dobbiamo necessariamente guardare dentro noi stessi piuttosto che fuori. Gli esiti di tale introspezione, tuttavia, variano in ampia misura a seconda di dove guardiamo esattamente; e certo non possiamo considerare le pratiche comuni di una determinata società come una violazione della condizione umana. Il risultato è che, come specie, Homo sapiens presenta una stupefacente varietà, quasi impossibile da condensare in un preciso resoconto di ciò che potrebbe essere descritto come la condizione umana, a meno di non farvi rientrare il linguaggio e il pensiero simbolico, fattori critici dei quali discuteremo in seguito, e che in ogni caso hanno probabilmente più attinenza con le cause che con gli effetti. Noi siamo creature sia individuali sia sociali e, a livello sociale, la componente basilare della nostra condizione il fattore che rende indispensabili i sistemi morali è la necessità di vivere gli uni con gli altri, pur complessi e imprevedibili quali siamo tutti.” (pp.176-178)
Posto che la condizione umana è sostanzialmente indefinibile, rimane il fatto che l’uomo non può fare a meno di interrogarsi su di essa:
“Chi siamo noi? Come è stato ormai riconosciuto da tempo, Homo sapiens è un intrico di paradossi, sia individualmente sia collettivamente. Lasciamo per il momento da parte le società, poiché ciascuna cultura ha semplicemente operato la sua selezione all'interno della vasta gamma di valori e comportamenti di cui Homo sapiens nel suo insieme dispone. Cosa possiamo dire sui comportamenti umani individuali? Essi possono essere descritti per mezzo di qualunque coppia di opposti: generoso/egoista, ingenuo/scaltro, aggressivo/timoroso, intelligente/stupido, compassionevole/crudele, timido/risoluto, e potremmo continuare a lungo. È ancora più significativo che queste contraddizioni possano coesistere nella stessa persona, anzi, in una certa misura lo fanno quasi invariabilmente...
Andare alla ricerca di un preciso concetto universale per definire la condizione umana è dunque chiaramente infruttuoso. Ciascuno di noi ha una gamma di possibilità pressoché infinita all'interno della quale scegliere i propri comportamenti. Non che la scelta sia necessariamente cosciente, anche se siamo in grado di modificare i nostri comportamenti esteriori quando la situazione lo richiede: per fare un esempio, di rado siamo sgarbati con i nostri capi, qualunque cosa pensiamo di loro, perché sappiamo che sarebbe poco saggio. Ma non sempre le situazioni sono così nette e ben delineate. Come mai alcuni si sentono tanto minacciati dalle convinzioni personali e dalle azioni altrui? Perché così tante persone manifestano un ingiustificato senso di superiorità? Perché sentiamo tanto spesso l'esigenza di ridicolizzare le idee assennate estremizzandole in maniera assurda? Come mai diventiamo aggressivi proprio quando sappiamo di avere torto? Perché proviamo piacere per la sofferenza altrui anche se non ci porta benefici concreti? Ciascuno di noi potrà avanzare una spiegazione razionale per reazioni di questo tipo, ma nella maggior parte dei casi avrà poco a che vedere con la fonte reale di tali sentimenti. In questi casi l'“occhio della mente”, così determinante ai fini della nostra unicità cognitiva, produce delle distorsioni, fondate sull'innata capacità che abbiamo di credere alle nostre stesse bugie, spesso inventate a partire da fatti reali allo scopo di soddisfare i nostri interessi. E se crediamo alle nostre bugie non dobbiamo stupirci se crediamo così spesso a quelle degli altri, specialmente quando ciò costituisce per noi un vantaggio o quando incarnano concetti ai quali, quantunque poco plausibili, vogliamo credere. Questo autoinganno innesca una sorta di retroazione a livello sociale, che dà origine a un insieme di miti i quali a loro volta rafforzano i comportamenti che ne derivano, c sui quali cosa ancora più distruttiva si basano tante credenze indiscusse e tante convenzioni comportamentali. Per quanto riguarda la società occidentale, pensiamo per esempio alla stregoneria, che in realtà non è mai stata praticata da nessuno e che, se esiste oggi, è un passatempo basato soltanto sul mito.
Il motivo principale per cui siamo riluttanti a riconoscere le contraddizioni della natura umana è, ovviamente, che siamo costretti a vivere gli uni con gli altri, e perciò dobbiamo adattarci almeno in pubblico a un insieme di norme comportamentali e di valori comuni che talvolta possono essere contrari alle nostre convinzioni o ai nostri impulsi personali. Ma a livello sociale la definizione dell'insieme di valori e di norme ammissibili è risultata un problema enorme, esacerbato dagli elementi di cui ho appena parlato.“ (pp. 179-180)
La contraddittorietà dell’uomo per altro può essere ricondotta alla complessità della struttura cerebrale che gli si trova ad amministrare:
“Noi siamo psicologicamente così complessi - stavo quasi per scrivere “nevrotici” - almeno in parte a causa del modo in cui il nostro cervello è cresciuto nel corso di milioni di anni, struttura su struttura. Ho già fatto osservare che l'antiquata nozione di conflitto innato fra le strutture e le funzioni cerebrali più vecchie e le più recenti va ormai considerata un'eccessiva semplificazione. Tuttavia è nel nostro organo di controllo - esso stesso il prodotto di una lunga storia evolutiva - che dobbiamo cercare le chiavi per interpretare le contraddizioni che tutti rileviamo ogni giorno. A un livello, le nostre facoltà ci dicono che la morte è definitiva, ma a un altro rifiutiamo l'idea e ci aggrappiamo alle alternative più improbabili. Siamo al contempo ammalati di nostalgia e amiamo tutto ciò che è nuovo. Odiamo nel nome di un Dio amorevole. Inventiamo cose che non sono vere e ci crediamo. Vogliamo l'autonomia nella nostra vita, ma interferiamo in quella altrui. Abbiamo meravigliose capacità razionali ma, nel migliore dei casi, seguiamo ciò che ci suggerisce la ragione solo di tanto in tanto. Gli esempi della nostra illogicità potrebbero andare avanti all'infinito. Perché?
Una possibile risposta è che tali contraddizioni si originano dalle complesse interazioni fra le aree corticali superficiali e le strutture più antiche sottostanti. Ma, come abbiamo visto, questa opinione non è facilmente sostenibile, poiché i sistemi più antichi e quelli più recenti sono strettamente interconnessi da un punto di vista funzionale, e ciò che ci rende al contempo inclini all'irrazionalità e capaci di progettare un supercomputer o di inviare una navicella spaziale su Marte è la struttura complessiva del nostro cervello. Inoltre sembra che anche in termini comportamentali fare una semplicistica distinzione fra funzioni emozionali e funzioni razionali sia gravemente fuorviante. Fra i due gruppi, infatti, esiste un livello intermedio costituito dalla funzione neurocomportamentale, partecipe di entrambi. Si tratta dell'intuizione, che opera in assenza di ragionamento conscio e che da tempo numerosi psicologi cognitivi ritengono radicata nella memoria emozionale. E ora si sta profilando sempre più fortemente la possibilità che l'intuizione abbia un ruolo importante anche nella maturazione delle decisioni razionali.
Quando un individuo prende una decisione, il suo cervello non si limita a utilizzare un algoritmo standard che analizza i dati e genera la soluzione ottimale. Al contrario, la valutazione dei dati è integrata dall'immissione di altri input d'ogni genere, che possono variare da un generico disagio o da una generica sicurezza alla vera propria paura, o essere semplicemente la fastidiosa sensazione che entrambe le decisioni potrebbero essere giuste (o sbagliate). La conclusione, sebbene sia stata raggiunta ponderando i fatti, può non essere del tipo che l'individuo è in grado di razionalizzare verbalmente; o, se può farlo, può trattarsi semplicemente di questo: una razionalizzazione...
Nel complesso è chiaro che la cognizione umana è composta da quelli che possiamo definire, in senso lato, come i processi emozionali, intuitivi e consciamente razionali. Ed è molto probabile che si debba aggiungere il ragionamento simbolico alle preesistenti funzioni di risposta emozionale e di intuizione che hanno caratterizzato il balzo finale verso la coscienza umana attuale.
Ma nel compiere il balzo avanti non ci siamo lasciati dietro il nostro passato. Poiché mentre i comportamenti conflittuali che segnano l'esperienza di ciascun individuo possono non derivare direttamente dalla dicotomia spesso artificiosa intelletto/emozioni, le intuizioni, basate su reazioni emotive a esperienze precedenti, spesso possono contraddire la valutazione razionale e simbolica dei dati disponibili. A questo proposito occorre osservare che sebbene noi siamo pronti ad acquisire capacità tecnologiche assimilando i risultati dell'esperienza altrui, là dove entrano in gioco le interazioni umane ci riveliamo più o meno incapaci di imparare secondo questo modello. Indipendentemente da quanta saggezza nella condotta delle cose umane i nostri progenitori ci abbiano trasmesso nei millenni, ciascuna generazione ha continuato a ripetere all'infinito gli stessi errori. Se aggiungiamo a questa inclinazione le limitazioni connaturate alle scelte umane, vediamo quanto sia facile capire perché la storia tende a ripetersi secondo cicli così brevi. Mentre siamo in grado di imparare prontamente e permanentemente da qualcun altro compiti tecnologici come la programmazione e l'uso di un videoregistratore (a quanto pare, non è un'impresa impossibile), nelle interazioni con il nostro prossimo non sembriamo capaci di imparare se non sotto l'azione di un pesante condizionamento. Solo dopo tristi esperienze personali comprendiamo veramente quali siano i modi migliori per trattare con gli altri; e anche allora troviamo difficile estendere l'esperienza tanto duramente acquisita a nuove situazioni. In questo caso il problema non è quale emisfero cerebrale sia coinvolto, nonostante sia proprio su questo che si focalizza l'attenzione generale. La questione essenziale è l'interazione di più modalità cerebrali che insieme formano la mente così come la conosciamo: una fonte potenziale di tensione dalla quale, come vedremo, non saremo mai liberi.
È qui, dunque, nelle intricate strutture del nostro cervello, che cadono i presupposti della psicologia evoluzionistica... I nostri cervelli non sono macchine tutte uguali, programmate dai geni per rispondere in modi specifici a stimoli specifici. Le molteplici differenze culturali in tutto il mondo sono sufficienti a provarlo, così come lo sono le straordinarie differenze fra individui della stessa società. Siamo invece esseri comportamentalmente complessi e altamente sensibili alle esperienze: tra noi i conflitti interni e i comportamenti compulsivi sono spesso la norma, e non l'eccezione. Non c'è dubbio che questa complessità comportamentale ci accompagni sin dalla comparsa di Homo sapiens anatomicamente moderno, ma i modi di vita dei nostri progenitori hanno poco a che vedere con quelli attuali.
La nostra mente razionale, inoltre, non è un'apparecchiatura perfetta, sempre allerta: anche nei momenti di maggiore obiettività commettiamo spesso errori matematici, oppure prendiamo decisioni sbagliate sul comportamento da tenere nel complesso universo che noi stessi ci siamo costruiti. L'errore è un'inevitabile realtà dell'esistenza umana...
Peggio ancora, anche quando in linea di principio sapremmo come agire nell'interesse nostro e altrui, pochissimi di noi riescono a mettere in pratica questa conoscenza in tutti i casi e nel migliore dei modi. Tutti possono agire razionalmente per parte del tempo, ma nessuno può farlo sempre e al massimo grado. Tuttavia credo che, nonostante gli evidenti aspetti negativi del nostro modo di essere, dovremmo rallegrarcene: l'amore e la compassione, dopotutto, non sono qualità puramente razionali...”(pp. 189-193)
I comportamenti contraddittori si originano, dunque, almeno in parte, in conseguenza della disordinata struttura del cervello umano, che è il prodotto di un lunghissimo processo evolutivo di accrescimento e riorganizzazione. Anche le nostre capacità linguistico-simboliche, però, sono una conseguenza della struttura cerebrale:
“Come e quando acquisimmo le nostre singolari capacità linguistico-simboliche? Come ho fatto osservare, nonostante la nostra ampia conoscenza della struttura del cervello umano, del modo in cui le informazioni vi fluiscono e di come certe parti funzionino in particolari comportamenti, i meccanismi attraverso i quali si genera la nostra complessa coscienza simbolica rimangono completamente oscuri. È chiaro, tuttavia, che dopo un paio di milioni di anni di irregolare espansione cerebrale e di altre acquisizioni avvenute nella linea umana, dovevano essere presenti gli exattamenti necessari per permettere il completamento dell'intero edificio attraverso una mutazione che in termini genetici era presumibilmente di minore entità. Nello stesso modo in cui la chiave di volta di un arco è solo una piccola parte dell'intera struttura, ma è vitale per la sua integrità, un cambiamento della struttura neurale relativamente modesto deve avere avuto questo notevole effetto emergente nel nostro cervello. E questa innovazione neurale deve essere stata acquisita nell'ambito di un'esigua popolazione nostra progenitrice quando tutte le strutture periferiche essenziali - l'apparato vocale, per esempio - erano già disponibili per permetterne l'espressione.
Tuttavia nessuno ha ancora capito esattamente perché l'espansione e l'aumento della complessità cerebrale siano stati così costantemente presenti, seppure in modo episodico, nella lunga storia evolutiva dell'uomo, anzi, in quella dei primati in generale. E non sappiamo nemmeno perché, al termine di questo processo, il cervello umano sia diventato così meravigliosamente exattato per il linguaggio e il ragionamento simbolico...
Sfortunatamente, sia la documentazione fossile sia quella archeologica sono incomplete per il periodo critico della nostra evoluzione durante il quale emerse la capacità umana simile a quella attuale. Vi sono convincenti testimonianze del fatto che l'uomo anatomicamente moderno sia comparso in Africa, ma per il momento sembra che questo sia stato un evento molto antico rispetto alle prime indicazioni di complessi comportamenti simbolici paragonabili ai nostri...
L'unica alternativa evidente è che l'anatomia ossea di tipo moderno sia giunta insieme con il cervello di tipo moderno exattato, e che questo sorprendente nuovo organo sia rimasto inattivo, così come effettivamente fu, fino a quando uno stimolo culturale (quasi certamente l'invenzione del linguaggio), lo mise all'opera nell'ambito di una popolazione locale. E’ addirittura possibile che la capacità umana si sia originata perlomeno in parte in un evento epigenetico, legato allo sviluppo, piuttosto che in un cambiamento di grande entità avvenuto nella struttura cerebrale geneticamente programmata...
E’ davvero frustrante arrivare alla fine della nostra storia e dover ammettere di sapere ben poco sul come, quando, dove o perché acquisimmo la nostra straordinaria coscienza. Sebbene tendiamo ad attribuire un'importanza eccessiva alle nostre capacità cognitive, di cui quelle linguistiche sono la sintesi, dobbiamo ammettere che esse fanno di noi qualcosa di diverso da tutti i milioni di altre creature del pianeta. Ma la latente capacità di formare ed elaborare simboli mentali non è chiaramente l'ineluttabile risultato di un processo durato coni, anche se i fondamenti vennero stabiliti durante il lungo passato evolutivo umano. Piuttosto, la sua acquisizione fu un evento emergente probabilmente di scarsa importanza in termini di innovazione fisica o genetica, relativamente improvviso, che si presentò molto tardi nella nostra storia evolutiva. Questo evento capitale, purtroppo, non ha lasciato tracce visibili sulle ossa e sui denti che costituiscono la nostra documentazione fossile, mentre quella archeologica, come abbiamo visto, è incompleta, altamente selettiva e rispecchia molto debolmente il comportamento dei nostri progenitori. Ma sebbene la probabilità iniziale che tutte le componenti necessarie per la coscienza umana di tipo moderno si trovassero riunite, così come in realtà accadde, fosse indubbiamente minima in termini statistici, altrettanto lo era la probabilità di comparsa di ciascuno dei milioni di specifici risultati del processo evolutivo. Visto sotto questa luce, l'evento in sé è molto meno notevole del suo risultato finale.” (pp. 206-209)
Tattersal ritiene dunque di poter giungere alle seguenti conclusioni provvisorie:
“Che cosa, dunque, dobbiamo pensare di noi stessi? Molto più di tre miliardi di anni da quando le prime forme di vita comparvero sulla Terra, noi, unici fra i milioni di discendenti del nostro progenitore comune, acquisimmo in qualche modo non solo un cervello voluminoso - anche i Neandertaliani lo avevano - ma una mente del tutto sviluppata. Questa mente è complessa, non nel senso in cui può esserlo un meccanismo, con numerosi componenti che lavorano insieme senza difficoltà nel perseguimento di uno scopo comune, ma nel senso che è un prodotto di antiche componenti riflessive ed emozionali, ricoperte di un sottile strato di raziocinio. La mente umana, quindi, non è un'entità del tutto razionale, ma ancora oggi è condizionata dalla storia evolutiva del cervello dal quale emerse. Per quanto lungo sia il balzo che abbiamo compiuto passando dal resto del mondo vivente all'acquisizione del pensiero simbolico, non ci siamo del tutto emancipati dalle strutture cerebrali che governarono il comportamento di alcuni dei nostri progenitori più remoti. Ed è precisamente quest'interazione del vecchio con il nuovo che ci rende non solo unici in parecchi modi degni della più grande ammirazione, ma anche pericolosi come nessun'altra specie riesce a esserlo, sia per noi stessi che per il resto del mondo vivente.
Poiché la documentazione fossile e quella archeologica dimostrano che il passo finale verso l'ominazione fu più di una semplice estrapolazione da tendenze precedenti, non è compito del paleontologo tentare una spiegazione delle complessità del comportamento dell'uomo attuale. Egli può solo fare osservare l'interazione del vecchio e del nuovo che avviene all'interno dei nostri cervelli elaboratori di simboli e che sostiene la nostra coscienza, di cui siamo tanto orgogliosi. Ma non può spingersi oltre. L'interpretazione critica della nostra condizione attuale è di pertinenza di psicologi, neurobiologi, filosofi cognitivi, romanzieri, drammaturghi eccetera. Come dovremmo condurre la nostra vita (e come veniamo indirizzati a viverla) è di pertinenza dei filosofi morali e, che Dio ci assista, dei legislatori. In pratica, il fato dell'umanità è nelle mani dei politici e di miliardi di persone comuni. Ciononostante, al paleontologo è concesso di fare osservare che la natura, mentre ha posto nelle mani di Homo sapiens una capacità unica e potenzialmente distruttiva, non è tenuta ad assicurarsi che egli la usi saggiamente. Tuttavia, poiché è innegabile che siamo il prodotto di una lunga serie di cambiamenti, diventa inevitabile domandarsi se se ne profilo altri che possano davvero aiutarci a meritare la nostra denominazione zoologica di ”Uomo saggio”. In sintesi, che cosa possiamo aspettarci dal nostro futuro evolutivo?..
Tanto per cominciare, è evidente che il cambiamento verificatosi durante il nostro passato è stato, nel migliore dei casi, sporadico. Anzi, in tutta la prima metà della nostra storia evolutiva non vi furono mutamenti con rilevanti conseguenze funzionali. Nemmeno i primi artefici di strumenti litici, a quanto sembra, apparivano molto diversi dai loro predecessori, e una volta che quei mutamenti si furono presentati, sarebbe trascorso un altro milione di anni prima che venisse compiuto un altro significativo progresso tecnologico. Ma questo non è l'unico esempio. Sia anatomicamente sia tecnologicamente la storia della nostra linea di discendenza è stata una storia di innovazione episodica, e non di graduale avvicinamento alla perfezione.
Per quanto ciò possa apparire deludente, si accorda piuttosto bene con il nostro emergente apprezzamento delle complessità del processo evolutivo. Se l'evoluzione comporta la diversificazione e la speciazione invece della costante accumulazione di piccoli cambiamenti, e se la storia delle singole specie è in gran parte routinaria, allora non dovremmo sorprenderci di scoprire che nella nostra linea di discendenza l'innovazione significativa è stata un fenomeno intermittente. Conseguentemente, sia che vogliamo affidarci alla teoria evoluzionistica oppure ai resti fossili del nostro passato come guida alla comprensione di quello che potrebbe essere il futuro biologico della nostra specie, l'interrogativo che dobbiamo porci è lo stesso: “Esistono le condizioni per nuovi sviluppi evolutivi a partire da Homo sapiens?”.
Abbiamo visto che sono le piccole popolazioni isolate, o quasi isolate, a essere sia il vero motore dell'innovazione evolutiva sia il bersaglio della speciazione. Queste antiche popolazioni umane erano sparse in gran parte del globo durante le crisi ecologiche e geografiche verificatesi nel corso delle glaciazioni, ed è in questo contesto che comparve Homo sapiens. Ma oggi la situazione e radicalmente diversa. La popolazione umana mondiale è già parecchio al disopra dei cinque miliardi di individui, e sta crescendo vertiginosamente. I mezzi di trasporto annullano le distanze e le barriere geografiche. La gente non ha mai conosciuto una mobilità pari alla nostra. L'isolamento delle popolazioni umane è ormai una cosa del passato, e mai come ora per le persone provenienti da aree geografiche disparate è stato così facile mescolarsi. Il risultato certo è che oggi non esistono più le condizioni per una vera e propria innovazione evolutiva all'interno della nostra specie. Noi formiamo un'unica numerosissima popolazione che si sposta sulla Terra, e mai nella storia di una specie le condizioni sono state meno propizie per l'affermazione di novità evolutive. E, a meno che intervenga qualche calamità, non è probabile che ciò possa avvenire.
Ma questa calamità potrebbe non essere molto lontana. Qualche virus terrificante quanto l'HIV ma più resistente e più facilmente trasmissibile potrebbe essere in agguato. La tecnologia potrà probabilmente fare poco per mitigare le conseguenze globali di un impatto meteorìtico simile a quello associato alla scomparsa dei dinosauri. Secondo la stima più recente, la probabilità di un simile evento è quasi zero per i prossimi centomila anni, ma a un certo punto esso si verificherà, inevitabilmente. Nell'immediato, una o più delle innumerevoli conseguenze dell'utilizzazione sempre più frequente delle alte tecnologie potrebbe sfuggirci di mano. Ugualmente preoccupante è la probabilità che l'esasperato sfruttamento dell'ecosistema mondiale conduca al suo collasso e alla nostra rovina. Le eventualità sono infinite, e qualsiasi fattore possa operare per ridurre e frammentare le popolazioni umane ripristinerebbe la possibilità di qualche mutamento evolutivo...
In sintesi, abbiamo una prospettiva buona e una cattiva. Quella cattiva è che se le cose continueranno ad andare più o meno come vanno attualmente, non possiamo aspettarci che né l'evoluzione né la tecnologia giungano in groppa a un destriero bianco, come è stato in passato, per salvare la specie umana dalle sue follie dotandola di un'intelligenza senza limiti o addirittura di buonsenso collettivo. Quella buona è che, se non interverrà qualche disastro, quasi certamente potremo continuare a essere in eterno creature contraddittorie, poco comprensibili e fortemente interessanti, come siamo sempre stati. A meno che non accada l'impensabile, non ci libereremo del nostro vecchio io familiare ma potenzialmente pericoloso. E dunque avremo urgente necessità di imparare a convivere con questo fatto nel migliore dei modi. La perfettibilità, come sempre, resta un'illusione.” (pp. 209-214)
Casualità, contingenza, imprevedibilità, complessità, contraddittorietà, mistificazione: sembrano questi gli attributi che la filosofia evoluzionistica contemporanea associa all’uomo, alla sua comparsa e alle sue vicissitudini storiche che si intrecciano, per un verso, con l’ambiente naturale e per un altro, con lo sforzo culturale dell’uomo di trasformarle a suo vantaggio. Per quanto tali attribuzioni siano strettamente pertinenti alla concezione dell’uomo e del suo singolare cervello emersa con la teoria dell’evoluzione e i suoi sviluppi, è fuor di dubbio che la filosofia evoluzionistica contemporanea, togliendo di fatto all’uomo l’orizzonte della trascendenza, richiamandolo al suo essere uno degli infiniti esseri viventi, mettendolo di fronte alla sua imprevedibilità - transitoria, tra l'altro, dacché a lungo termine le specie sono destinate a scomparire o a dare luogo ad altre specie - e alle inesorabili contraddizioni intrinseche all’indefinita complessità del suo cervello, sembra condensare, a partire dalla biologia, le influenze più diverse: il laicismo materialistico, il nichilismo nietzschiano, l’esistenzialismo heideggeriano (il primo Heidegger, mediato peraltro da Gehlen), lo storicismo marxiano (con Gould), e la psicoanalisi (con Tattersal).
Non è sorprendente che la ricchezza filosofica intrinseca all’evoluzionismo si stia dispiegando su di un piano di grande complessità. Il decentramento radicale dell’uomo dal preesistente antropocentrismo ha prodotto, di fatto, una serie di problemi di collocazione dell’uomo stesso nella storia della natura e nella cornice dell’ambiente artificiale che egli ha prodotto che richiederanno presumibilmente ancora tempo per giungere ad un paradigma panantropologico.
Il dramma degli esseri umani è di essere stati dotati dalla natura di un cervello capace di adattarsi all’ambiente, ma anche dotato di potenzialità ridondanti di ogni genere a livello cognitivo e a livello emozionale. L’esistenza di queste ultime potenzialità era del tutto estranea al pensiero di Darwin. Pure esse contengono il “mistero” di una specie capace di grandezze sublimi e di bassezze che eccedono quelle di qualunque altro animale. La ridondanza significa sostanzialmente ricchezza e plasticità funzionale. Il problema è come questa ricchezza e questa plasticità sono state, sono e saranno utilizzate.
In nome del cervello di cui dispone e dell’uso che ne fa, l’umanità può imboccare qualunque via che rientri nell’ambito della libertà (indefinita, ma non infinita) che esso le assegna. Questo, però, significa che essa può esplorare il mondo astratto dei simboli, ma anche incunearsi nel vicolo cieco dei pregiudizi, dell’etnocentrismo, del razzismo, della xenofobia; può ipotizzare un mondo utopistico fondato sull’uguaglianza, ma anche produrre, convalidare e razionalizzare iniquità di ogni genere.
Dal punto di vista emozionale, poi, la ridondanza del cervello comporta una gamma di esperienze indefinitamente più ampia rispetto agli animali (dall’angoscia alla gioia infinita); essa, però, obbliga anche l’essere umano a convivere con un’ansia esistenziale che lo “perseguita” dall’inizio (o quasi) alla fine della vita.
Dobbiamo dare per scontato che se gli uomini accettassero la loro condizione comune di esseri casuali, accidentali, oggettivamente insignificanti, e soggettivamente vulnerabili, precari, finiti e destinati tutti a finire (non solo sul piano individuale ma anche su quello di una specie transeunte), l’impresa del buon uso della libertà, vale a dire l’umanizzazione del mondo, potrebbe riuscire paradossalmente più semplice.
Solo la riflessione sulla storia potrà permetterci di capire perché questo nuovo "grande balzo in avanti" non è finora avvenuto e sembra di là da venire.
Il pensiero di Marx si avvia laddove finisce quello di Darwin: perché l’umanità non riesce a fuoriuscire dalla sua preistoria?