Letture darwiniane


IV

Con Darwin, oltre Darwin

La paleoantropologia come scienza storica
Il neodarwinismo come scienza normale
Al di là gradualismo. La teoria degli equilibri punteggiati
Neotenia e ritardo dello sviluppo
Neotenia, intersoggettività e nascita dell'autoconsapevolezza
L’acquisizione della capacità simbolica

La paleoantropologia come scienza storica

Ho già rilevato che l’evoluzionismo, in quanto ha come oggetto le vicissitudini degli organismi viventi da una forma primigenia unicellulare alla varietà e alla complessità attuale, vale a dire eventi accaduti in circa quattro miliardi di anni, è una scienza storica, e quindi non sperimentale, ma empirica, indiziaria e induttiva. Benché i biologi evoluzionisti, a partire da Darwin, siano in genere molto scrupolosi nella raccolta dei dati, essi ne dispongono sempre in una misura infinitesimale rispetto alla storia della vita. Ciò significa che inevitabilmente li interpretano, facendoli rientrare in una cornice teorica nella quale essi assumono un senso coerente, vengono cioè ad essere spiegati.

Il problema è che la costruzione di una teoria, quando l’oggetto di essa sono l’uomo o i fatti umani, non è mai del tutto neutrale, in quanto dipende da presupposti impliciti ed espliciti inerenti la visione del mondo dello scienziato, influenzata in parte dalla sua appartenenza culturale e in parte dalla sua storia personale (in breve, dall’inconscio).

In ogni teoria scientifica necessariamente si danno proposizioni vere associate a qualche mistificazione ideologica.

La consapevolezza di ciò, che è affiorata solo nel Novecento - vale a dire tre secoli dopo la rivoluzione scientifica avvenuta in Occidente - ha dato luogo alla nascita di una disciplina filosofica particolare - l’epistemologia - il cui obiettivo è di indagare i modi in cui si realizza la conoscenza scientifica e di mettere a fuoco criteri atti a depurarla dei suoi residui ideologici.

E’ un po’ paradossale che l’epistemologia stessa sia andata incontro ad una scissione tra due teorie in opposizione, che si riconducono a Karl Popper e a Thomas Khun.

K. Popper (1902-1994) ritiene che la scienza sia un’attività razionale criticamente controllata il cui fine è di esplorare la compatibilità e l’accordo tra i fatti e la loro teorizzazione. Dato che è sempre possibile trovare ciò che si cerca, adottando un meccanismo di selezione selettiva (che è il fondamento del senso comune), la scienza non deve preoccuparsi di verificare le teorie, accumulando dati che le corroborano, quanto piuttosto di falsificarle, di elaborare cioè ipotesi sperimentali il cui risultato, se positivo, le confuta. E’ la possibilità di falsificare una teoria che dà ad essa uno statuto scientifico.

Sulla base del razionalismo critico fondato sul falsificazionismo, ritenuto un carattere specifico della conoscenza scientifica in opposizione all’ideologia, Popper ritiene che la scienza evolva attraverso lenti e graduali cambiamenti che producono la transizione da una teoria ad un’altra.

In opposizione a Popper, invece, T. Khun (1922-1997) ritiene che il pensiero scientifico riconosca un’evoluzione caratterizzata dalla produzione di un modello che viene poi assunto dai ricercatori come paradigma di riferimento entro il quale essi elaborano le loro ipotesi e i loro esperimenti. La prevalenza di un paradigma dà luogo ad una lunga fase di normalizzazione della scienza finché qualche scienziato non ne coglie le lacune e le contraddizioni e, su questa base, avvia una rivoluzione scientifica inserendo i dati di cui si dispone entro un nuovo paradigma.

La scienza, insomma, secondo Khun, procede con una continuità graduale (fase di normalizzazione) che viene, più o meno repentinamente, interrotta da una discontinuità che dà luogo ad un salto o ad una rivoluzione paradigmatica.

Anche se l’epistemologia contemporanea sta tentando di integrare il pensiero di Popper e quello di Khun, è fuori di dubbio che l’opposizione tra i due modelli epistemologici trova un riscontro immediato nella storia dell’evoluzionismo. La teoria di Darwin rappresenta un’indubbia rivoluzione scientifica che ha dato luogo ad una fase di normalizzazione culminata nel connubio tra evoluzionismo e genetica esitato nella Teoria sintetica o neodarwinismo, che ha dominato la biologia evoluzionistica dagli anni 40 agli anni 70 del secolo scorso. Si è avviata a quell’epoca, prima sommessamente poi esplicitamente, una contestazione non già all’evoluzionismo, bensì al paradigma neodarwinista.

Il significato di questa contestazione, che gravita verso un nuovo paradigma, risulta chiaro soprattutto nell’ambito della paleoantropologia, che tenta di ricostruire le tappe attraverso le quali, a partire da un antenato comune, si è originata la specie Homo sapiens, rimanendo infine l’unica rappresentata sul Pianeta.

 

Il neodarwinismo come scienza normale

Come ho già accennato nella lettura precedente, Darwin procede senza il sostegno di dati fossili paleoantropologici. Il gradualismo che sottende la sua teoria implica, però, l’esistenza di una serie indefinita di anelli intermedi, vale a dire di specie dotate di caratteri sempre meno scimmieschi e sempre più umani, culminata nella comparsa dell’Homo sapiens.

E’ stato Ernst Haeckel (1834-1919) a recepire per primo il problema degli anelli intermedi su base speculativa, ipotizzando l’esistenza del Pitecantropo. Per quanto fondata solo su argomentazioni, l’opera di Haeckel ha dato il via alla ricerca sul campo di fossili paleantropologici atti a convalidare la teoria darwiniana. La storia della ricerca, che è ancora in corso, può essere letta in T. Pievani (Homo sapiens e altre catastrofi), chei non si limita solo a ricostruire le numerose scoperte avvenute con una progressione esponenziale a partire dai primi decenni del Novecento. Egli, che è per l’appunto un filosofo della scienza, sottolinea anche gli inesorabili limiti della paleoantropologia scrivendo:

“La componente interpretativa e narrativa è davvero centrale quando si tratta di immaginare la vita di un ominide partendo da qualche frammento isolato di mandibola e di cranio. Benché alcuni paleoantropologi siano stati spesso propensi a sostenere il contrario, i fossili non parlano da soli: hanno bisogno di uno scienziato, e del suo repertorio di idee e di preferenze teoriche, per acquisire un senso...

Nonostante l'apparente obiettività delle datazioni, le acque profonde della paleoantropologia sono agitate da correnti epistemologiche sotterranee e da opzioni ideologiche contrapposte...

La dimensione narrativa della disciplina paleoantropologica non è un incidente di percorso: è, al contrario, la fonte delle sue ambiguità generative, è la sua ricchezza e il suo fascino...

In paleoantropologia non soltanto le osservazioni sono cariche di teoria e di scelte pregiudiziali, ma le teorie stesse si configurano letteralmente come forme di narrazione (Landau 1991). Una buona teoria paleoantropologica convince quando è anche una buona storia.”

Nel precedente incontro, ho fatto riferimento alla possibilità di organizzare i dati paleoantropologici in due modi diversi.

Il primo modo, adottato sin dagli anni 40 del secolo scorso dai neodarwinisti, consiste nell’ordinare i fossili in maniera tale che l’evoluzione degli ominidi risulti lineare, vale a dire caratterizzata da una crescita graduale del cervello e da un progressivo ingentilimento fisionomico. “Le forme pre-umane - scrive Pievani - si sostituiscono l'una all'altra gradualmente sotto la spinta della selezione naturale e di adattamenti progressivi: la forma che viene dopo, in virtù di un miglior adattamento, sostituisce la precedente”.

In questa ottica l’evoluzione degli ominidi è graduale e filetica, vale a dire dovuta soprattutto alle combinazioni e alle mutazioni genetiche che innescano lentissimi cambiamenti i quali infine esitano nella comparsa di una nuova specie. Essa, sorprendentemente, è anche lineare: si presume che le specie ominidi si succedano l’una l’altra (Homo abilis, Homo erectus, Home neandertalensis, Homo sapiens arcaico) con una progressione che culmina nella comparsa dell’Homo sapiens sapiens.

In tale progressione, ovviamente, per i neodarwinisti, non si dà alcun finalismo. Essa, però, suggestiona, implicando un tendere linearmente verso l’Uomo che non ha alcun riscontro nelle altre specie viventi, che sono ricche di varietà e di razze. “Mentre tutti i gruppi di mammiferi studiati dai paleontologi - scrive ancora Pievani - presentano un grafico evolutivo ad albero, con serie ordinate di specie che si diversificano progressivamente, l'evoluzione umana segue un andamento del tutto eterodosso, di tipo lineare e scalare.”

Da questo quadro affiora inesorabilmente la mitologia eroica dell’Uomo, che Pievani illustra nel modo seguente: “La sceneggiatura, accademica e popolare, riguardo alle origini dell'umanità divenne quella di una progressiva conquista della perfezione, con la frontiera del progresso umano che avanza verso l'intelligenza e la coscienza affrancandosi dalla condizione animale: una marcia a tappe serrate, dettata dall'espansione continua delle capacità cerebrali, letta sempre attraverso lo sguardo del vincitore, cioè della sola specie sopravvissuta al filtro della selezione naturale.”

Questa “mitologia” trova la massima espressione in Dobshansky, il quale nel 1942 afferma “il principio secondo cui non sarebbe stato mai possibile rinvenire due forme ominidi allo stesso livello temporale.”

Ad onore del vero, occorre aggiungere che i fondatori della Sintesi Moderna (come Theodosius Dobzhansky, George Gaylord Simpson ed Ernst Mayr) non erano ciechi di fronte al fatto che in natura esistono indizi di profonde discontinuità evolutive. Sembrava, però, loro difficile ammettere una discontinuità nell’evoluzione degli ominidi.

Il secondo modo di organizzare i dati paleantropologici comporta, invece, il superamento del gradualismo filetico in nome del fatto che i fossili paleantropologici sembrano alludere ad una storia del tutto diversa da quella “narrata” dai neodarwinisti. Nonché scalare e lineare, l’evoluzione degli ominidi appare come un cespuglio di specie che si diversificano coesistendo per lunghi periodi di tempo.

Rispetto allo schema lineare dei neodarwinisti che, come si è visto, comporta solo quattro specie che si succedono, il cespuglio comporta da 12 a 14 specie distinte divise in quattro generi: “i quattro gradini classici verso la perfezione di Homo sapiens - scrive Pievani - sono andati in frantumi e al loro posto troviamo una selva di ominidi ramificati e dispersi in un areale molto ampio.”

Anche l’Homo sapiens sapiens, comparso tra 150mila e 100mila anni fa è convissuto con due specie umane: l’Homo floresiensis e l’Home neandertalensis.

E’ evidente che questa ricostruzione cladica (a cespuglio) dell’ominazione fuoriesce dal paradigma del neodarwinismo. Essa porta ad ammettere non solo un’evoluzione non lineare e non graduale, ma qualche altro fattore oltre alla pressione genetica. Il nuovo paradigma, che corrobora l’evoluzionismo senza stravolgere le ipotesi di fondo di Darwin, identifica tale fattore nell’interazione tra geni e ambienti diversi. Valorizza, insomma, al massimo grado il ruolo della deriva genetica, che isolando geograficamente gruppi appartenenti alla stessa specie e impedendo loro di incrociarsi, amplifica la selezione naturale dei geni varianti.

La deriva genetica può promuovere salti evolutivi che non rientrano nel gradualismo darwiniano.

In un certo qual modo è quello che ha scoperto Darwin, senza riuscire a capirne tutte le implicanze, con i suoi famosi fringuelli.

Facendo riferimento, però, alla comparsa dell’uomo come frutto imprevedibile, casuale e contingente di una somma di fattori interagenti, il nuovo paradigma - del quale parlerò tra poco - deve confrontarsi con nodi di difficile soluzione. L’unicità della specie umana è un fatto, come pure la sua dotazione di un cervello del tutto singolare. Si tratta, insomma, pur sempre di tentare di spiegare il mistero di questa unicità, che non ha riscontro nelle altre specie.

Il mistero dell’uomo

L'evoluzionismo darwiniano e il neodarwinismo sono funzionalisti. Di fronte ad un organo si pongono il quesito “a che serve?” e, se riescono a rispondere, danno per scontato che le funzioni cui esso assolve sono quelle per cui è stato selezionato. In questa ottica, la genesi storica di un organo e la sua funzione attuale coincidono; quindi, in riferimento al cervello umano, si esclude che una qualunque funzione psichica possa essersi realizzata o realizzarsi indipendentemente dalla selezione naturale.

Nell'ottica darwiniana e neodarwiniana, infatti, strutture e funzioni vengono selezionate sulla base della loro immediata utilità adattiva. E' l'esperienza di organismi tra cui si dà una quota rilevante di variabilità a decidere quali sono destinati a sopravvivere in quel determinato ambiente.

Per quanto riguarda l'uomo, questa ottica urta contro un dato che la confuta. Il cervello umano è stato selezionato tra centocinquantamila e centomila anni fa, ma, per decine di migliaia di anni è stato utilizzato, per dir così, a basso regime. Solo dopo questo lunghissimo periodo si è avviata la cosiddetta rivoluzione paleolitica, caratterizzata dallo sprigionarsi di capacità simboliche sotto forma di progresso culturale.

Riguardo a quest’ultimo aspetto, lo studioso che sembra avere le idee chiare è il paleoantropologo Ian Tattersal, che inaugura un suo libro (Il cammino dell’uomo, Garzanti, Milano 2004) facendo riferimento all’esplosione creativa intervenuta all’incirca 40mila anni fa e attestata dall’arte parietale. Descrivendo la grotta di Le Comberelles I, nella Francia sud-occidentale, riccamente affrescata, ma alla quale si accedeva attraverso uno strettissimo cunicolo (che attualmente è stato allargato per consentire l’accesso ai visitatori), egli si chiede: “Perché infilarsi in un cunicolo stretto, senz'aria, buio, scomodo e potenzialmente pericoloso, che si addentra nella roccia terminando in un antro cieco dove c'è a malapena lo spazio per rigirarsi? Perché creare un'arte che può essere vista solo affrontando grandi difficoltà? Perché ignorare la parte più esterna della grotta, per eseguire le incisioni solo nei suoi recessi più profondi? Perché sovrapporle e perché disseminare immagini così vive di disegni geometrici e di una profusione di segni dall'oscuro significato e apparentemente superflui?” (p. 8)

Non c’è ovviamente una risposta univoca. Quello che è certo è che l’esplosione creativa avviene dopo decine di migliaia di anni nel corso delle quali gli esseri umani dispongono già di un cervello strutturalmente identico al nostro.

Ciò significa, né più né meno, che, in contrasto con il darwinismo, la biologia ha preceduto la cultura. Ma com’è possibile che vengano selezionate strutture cerebrali che contengono una quantità incredibile di potenzialità ridondanti, che nell’immediato non sono utilizzate?

Il problema riguarda anzitutto l’acquisizione della capacità simbolica.

Riguardo ad essa Telmo Pievani scrive:

“A che cosa serve essere intelligenti? Più precisamente, a che cosa serve essere intelligenti nel modo tipicamente umano? La domanda ci sembra così banale da non meritare neppure di essere presa in considerazione. Essere intelligenti serve ovviamente per sopravvivere, per comprendere il mondo che ci circonda, per interpretare i pensieri degli altri, per immaginare il futuro, per suonare il piano, per dipingere un quadro, per ingannare. Tuttavia, è sufficiente spostare lo sguardo sulla storia profonda per complicare tutto. Anche la nostra intelligenza, come ogni altra caratteristica della natura umana, si è evoluta: un tempo non c’era. Siamo sicuri che la sua utilità attuale corrisponda alla sua origine storica? E soprattutto, “a che cosa serve” è la domanda giusta?

La famiglia ominide fa la sua comparsa in un luogo imprecisato del continente africano intorno a 6-7 milioni di anni fa. La specie Homo sapiens, ultimo virgulto di un lussureggiante cespuglio di antenati, muove i suoi primi passi, sempre in Africa, molto tempo dopo, fra 160 e 200mila anni fa. La sua anatomia slanciata è la stessa di oggi, è “moderna”, come del resto il grosso cervello. Il suo universo cognitivo da cacciatore-raccoglitore, invece, è lontano anni luce dal nostro. Si tratta di una specie ben adattata al clima africano, ma in grado di spostarsi e di adeguarsi a nicchie ecologiche eterogenee in virtù delle sue spiccate attitudini sociali e delle tecnologie avanzate. Ma per molti altri aspetti l’Homo sapiens è un ominide al pari di altri suoi predecessori o coetanei con i quali ha convissuto per decine di millenni, fino a poco meno di 30mila anni fa. I segni apparenti di attività simbolica, dalle sepolture rituali all’arte rupestre, sono scarsissimi fino a 50mila anni fa. Poi succede qualcosa di straordinario, che i paleoantropologi chiamano “rivoluzione paleolitica”, e nasce la mente umana moderna con l’intero equipaggiamento di facoltà attualmente in uso.

Come è possibile che a parità di strutture a disposizione, una specie possa evolvere verso capacità così diverse? Quale “gioco” avrebbe l’evoluzione se ciascuna struttura fosse costruita in vista di uno scopo ristretto e non potesse essere usata per altro? In che modo gli esseri umani potrebbero imparare a scrivere, a dipingere o a pianificare un attentato se il nostro cervello si fosse evoluto per la caccia, per la coesione sociale o per qualunque altra cosa, e non potesse trascendere i confini adattativi del suo fine originario?”

Analoghe sono le considerazioni di Ian Tattersall sulla capacità di astrazione simbolica:

“Gli esseri umani sono unici per il possesso del linguaggio e della coscienza simbolica. Eppure non ci sono dubbi che Homo sapiens discenda da un antenato non dotato di capacità linguistiche né simboliche. Come si è potuta verificare questa straordinaria transizione? La risposta non può essere una lenta messa a punto che ha richiesto millenni: l’apparente stabilità e regolarità dell’accrescimento del cervello degli ominidi negli ultimi due milioni di anni è probabilmente l’esito di un sistema di classificazione inadeguato, mentre le innovazioni comportamentali nell’evoluzione umana sono fortemente episodiche e non in sincronia con le innovazioni anatomiche.

I reperti che attestano l’espressione di comportamenti simbolici compaiono solo molto tardi - notevolmente più tardi rispetto alla comparsa di Homo sapiens in quanto entità anatomica. A quanto pare la principale riorganizzazione biologica all’origine di Homo sapiens ha implicato alcune innovazioni neuronali che hanno portato alla cooptazione funzionale per il pensiero simbolico di un cervello umano già estremamente evoluto. Tale potenziale ha poi dovuto essere «scoperto» a livello culturale, probabilmente attraverso l’invenzione del linguaggio.

L’origine della coscienza simbolica nell’uomo sembra dunque implicare un processo di emergenza, più che una selezione naturale: una coincidenza casuale di acquisizioni che hanno dato origine a un livello di complessità del tutto nuovo e imprevisto.”

Per quanto riguarda le capacità emozionali, il discorso è appena più complesso.

L’interesse di Darwin per le emozioni, attestato dalla pubblicazione nel 1872 di un saggio (L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo, Newton Compton, Roma 2006), è di antica data, come fanno fede i numerosissimi appunti a riguardo sparsi nei suoi taccuini. Tale interesse è facile da spiegare. Precorrendo la neurobiologia, Darwin ha intuito che l’espressione delle emozioni secondo modalità omologabili negli animali e nell’uomo rappresenta non solo una prova importante dell’evoluzione dell’Uomo da specie precedenti, ma anche della continuità delle funzioni psichiche.

Non potendo avanzare alcuna ipotesi sulla nascita del pensiero astratto, che, come si è visto nella precedente lettura, egli tenta vanamente di paragonare all’intelligenza associativa degli animali inferiori, Darwin cerca di risolvere il problema nell’ottica del gradualismo evoluzionistico con una sorta di éscamotage. L’attività mentale umana si fonda sul pensare e sul sentire. Se le espressioni delle emozioni sono omologabili in tutte le specie perché identificare, come fa Wallace, nell’intelligenza una funzione discontinua?

Il saggio di Darwin è ammirevole. Poco apprezzato all’epoca, esso è stato di recente ripreso da numerosi neurobiologi (Tomkins, Ekman, ecc.) nel quadro di una teoria psicoevoluzionistica delle emozioni. Il saggio contiene al solito un numero indefinito di osservazioni geniali, per esempio sulla tendenza all’imitazione e sul riconoscimento delle emozioni altrui. Ciò nondimeno la sua ipotesi di fondo è facile da criticare.

La continuità tra gli altri animali e l’Uomo esiste solo per quanto riguarda le emozioni semplici o di base, che sono meccanismi elementari di regolazione del rapporto dell'organismo con l'ambiente. Nell'uomo l'emozionalità, in sé e per sé e attraverso l'interazione con i livelli cognitivi, è diventata una funzione psichica enormemente complessa. L'esempio più semplice da fare riguarda l'ansia esistenziale, vale a dire la consapevolezza prima intuitiva poi riflessiva, che l'uomo ha del suo essere vulnerabile – esposto al rischio di soffrire -, precario – preda dei “capricci” del caso”, e finito - con potenzialità fisiche e psichiche che sono sempre al di sotto dei suoi desideri.

Come ricondurre l'ansia esistenziale ad una selezione naturale? Per un verso, è evidente che essa amplifica il sistema di allarme e di paura presente e attivo in ogni altro animale. Ma, intanto, mentre negli animali, quel sistema funziona in maniera adeguata alle circostanze, nell'uomo esso va incontro a molteplici eccessi. In secondo luogo, se anche si assume l'ansia umana come una dimensione previsionale che consente all'individuo di identificare i pericoli prima che essi si realizzino e di scongiurarli, ciò non vale per la consapevolezza ultima che essa comporta, quella di essere destinati a finire.

Certo, si può pensare che l'ansia esistenziale sia il prodotto dell'interazione della sfera emozionale con quella cognitiva, ma questo non risolve il problema. La potenziale disfunzionalità dell'ansia, infatti, rimane sia che se ne attribuisca l'origine ad un'emozionalità ridondante sia che la si riconduca ad una consapevolezza che schiaccia l'uomo sotto il peso della finitezza.

La continuità delle funzioni psichiche tra animali e uomo, evidenziata da Darwin, esiste, ma esiste anche una inquietante discontinuità.

Quale funzione adattiva può avere l’ansia esistenziale, soprattutto per quanto concerne la consapevolezza di essere destinati a finire. Escluso il carpe diem, che è un orientamento culturale piuttosto recente, si può pensare credibilmente che essa abbia contribuito ad incrementare originariamente la solidarietà di gruppo inducendo i suoi membri a sentire di essere tutti nella stessa barca. Se ciò è vero, però, come non pensare che si tratti, comunque, di una funzione a tal punto ridondante che, ancora oggi, sottende inquietantemente l’esperienza di ogni essere umano, obbligandolo a tentare di reprimere e di non pensare alla realtà della sua condizione?

Si può anche ipotizzare che l’ansia esistenziale non abbia promosso solo la solidarietà di gruppo, ma anche attivato l’ingegno umano orientandolo verso uno sviluppo tecnologico atto a sopperire alle sue carenze. Ma, se questo è vero, come non considerare che, arrivato ad un livello di sviluppo tecnologico avanzatissimo, l’uomo contemporaneo continua ad essere un animale mediamente inquieto e insoddisfatto?

L’ansia esistenziale potrebbe recuperare un significato adattivo solo se l’uomo riuscisse a sconfiggere definitivamente la morte. Ma, intanto, quest’obiettivo è del tutto remoto; in secondo luogo, se potesse magicamente realizzarsi, creerebbe un inesorabile problema di sovraffollamento planetario; infine - ed è la cosa più importante - non si vede quale significato adattivo esso potrebbe avere avuto per i cacciatori-raccoglitori la cui vita media era intorno ai trenta anni.

Sia sotto il profilo cognitivo che emozionale la discontinuità tra l’Uomo e gli altri animali è inconfutabile, anche se l’evoluzionismo consente di tenere conto anche di un’indubbia continuità la quale attesta la sua appartenenza al mondo naturale.

Il “salto” in questione è arduo da spiegare nella cornice del darwinismo e del neodarwinismo. Esso permette di comprendere il revival del creazionismo, che, però, rappresenta un’alternativa insostenibile. L’Uomo di Neanderthal e l’Homo sapiens sono convissuti per decine di migliaia di anni. Che senso ha che Dio abbia creato due specie umane destinandone una all’estinzione?

Spiegare questo salto porterebbe a capire il “mistero” dell'uomo. Forse è ancora presto per arrivare a tanto. A tal fine, però, occorre mettere definitivamente in gioco il gradualismo darwiniano, che rappresenta, come ho detto più volte, l’anello debole della teoria evoluzionistica.

Al di là del gradualismo. La teoria degli equilibri punteggiati

S. J. Gould, in stretta collaborazione con N. Eldredge, è stato il primo biologo evoluzionista a prendere atto che la teoria darwiniana richiede una “revisione” che va al di là della nuova sintesi neodarwiniana.

La sua elaborazione teorica, consegnata infine ad un'opera mastodontica (La struttura della teoria dell'evoluzione, Codice, Torino 2003), che egli ha terminato di scrivere prima di morire, affronta senza remore il dato su cui speculano i creazionisti: la carenza degli anelli intermedi fossili tra le specie che il darwinismo classico implica ipotizzando che l'evoluzione avviene in maniera graduale, con il passaggio di una specie all'altra quasi senza soluzione di continuità.

Gould sostiene che i dati paleontologici attualmente disponibili attestano che le specie rimangono stabili per lungo tempo ed evolvono in brevi periodi, criticamente.

Su questa base egli elabora la teoria degli equilibri punteggiati secondo la quale le specie animali, quando sono perfettamente adattate al loro ambiente, tendono a conservare le loro caratteristiche per lunghi periodi (anche per milioni di anni). Al mutare delle condizioni ambientali (per eventi climatici, geologici o astronomici), soprattutto se la popolazione non è molto numerosa e rimane confinata in un habitat ristretto, si possono avere cambiamenti morfologici notevoli, che avvengono nell'arco di pochi millenni.

In questa ottica la carenza degli anelli intermedi che dovrebbero mostrare la transizione da una specie all'altra può essere spiegata agevolmente: gli anelli non ci sono perché tali transizioni sono avvenute in tempi troppo rapidi, oppure hanno riguardato popolazioni molto limitate.

L’importanza della teoria degli equilibri punteggiati in rapporto alle facoltà psichiche umane è rilevante. Mentre, infatti, il gradualismo evolutivo darwiniano implica che le strutture e le funzioni la cui selezione (che avviene in tempi sterminatamente lunghi) determina la nascita di una nuova specie hanno un valore tout-court adattivo, nell’ottica del “saltazionismo” esse, oltre ad uno scopo adattivo immediato, possono avere potenzialità che solo successivamente vengono utilizzate per altri scopi. In questa ottica, l'evoluzione non è solo funzionalistica, ma ridondante: produce, insomma, strutture che possono avere un'utilità adattiva immediata ma contenere anche potenzialità funzionali prive nell'immediato di significato adattivo.

Gould ha definito la ridondanza con uno strano termine - exaptation (exattamento) - che fa riferimento ad un carattere formatosi per una determinata ragione, o anche per nessuna ragione funzionale specifica all’inizio, che diventa solo successivamente funzionalmente utile.

Si parla di exaptation in tutti i casi in cui vi sia l'uso, per una funzione attuale, di strutture impiegate in passato per funzioni diverse o addirittura per nessuna funzione (un’accezione radicale, quest’ultima, che non era prevista nella teoria del pre-adattamento darwiniano). Il concetto di exaptation non sostituisce quello di adattamento normale, ma lo integra aggiungendo altre possibilità di sviluppo, né pregiudica in alcun modo il ruolo della selezione naturale, la quale in ogni caso ha il compito di fissare nella specie la conversione funzionale exattativa.

Il concetto di exaptation sembra fornire una chiave di lettura importante per decifrare l’enigma della rivoluzione paleolitica. Attraverso la selezione naturale, il cervello umano potrebbe essersi ingrandito per assolvere a un numero limitato di funzioni legate alla sopravvivenza degli ominidi nella savana. Come conseguenza di questi adattamenti, potrebbero essersi creati alcuni spazi cerebrali liberi utilizzati per una pletora di nuove funzioni non previste dal progetto evolutivo di partenza.

Per chiarire meglio il concetto di exaptation, Gould ha utilizzato una singolare metafora, facendo riferimento all'esperienza che ha indotto in lui l'intuizione della ridondanza.

I pennacchi di S. Marco – vale a dire gli spazi triangolari affusolati formati all'intersezione di due archi a tutto sesto contigui e disposti in pianta ad angolo retto – sono necessari sottoprodotti architettonici dell'edificazione di una cupola su archi a tutto sesto. Ciascun pennacchio contiene illustrazioni ammirevoli e fitte nel suo spazio affusolato.

Il risultato è così elaborato, armonioso e denso di significati che si è tentati di vederlo come il punto di partenza di ogni possibile interpretazione, cioè come la causa in qualche senso di tutta l'architettura circostante. Ma questo capovolgerebbe la corretta modalità di analisi. Il tutto ha origine infatti da un vincolo architettonico: la necessità dei quattro pennacchi e la loro forma triangolare rastremata. Si tratta certamente di spazi utilizzati dai mosaicisti nel loro lavoro, ma ciò non toglie che siano semplicemente il risultato della struttura quadripartita al di sotto della cupola.

Esaminando la volta di S. Marco un osservatore può pensare che i pennacchi siano stati concepiti per essere dipinti. In realtà essi rappresentano una ridondanza architettonica, che solo successivamente è stata utilizzata pittoricamente.

In questa ottica, il cervello umano è un organo adattivo ma anche riccamente exattato, vale a dire fornito di potenzialità ridondanti che, alla loro origini, appaiono inutili e che, poi, vengono utilizzate. Quali sono le potenzialità adattive e quali quelle ex-attate è un problema complesso e non ancora risolto.

E' evidente che la teoria degli equilibri punteggiati permette di organizzare in maniera più coerente i dati paleantropologici attualmente disponibili. Scrive a riguardo Pievani: “Oggi molti dati convergono nel delineare un'immagine "puntuazionale" dell'evoluzione ominide del tutto simile a quella delle altre famiglie di mammiferi. Le specie sono emerse a causa della trasformazione di piccole popolazioni rimaste isolate in una nicchia ambientale anomala ai margini dell'areale di distribuzione delle specie madri. Questi eventi di ramificazione "punteggiano" le linee di discendenza che altrimenti tendono a rimanere stabilmente adattate ai loro habitat originari. Ne risulta un paesaggio di molteplici forme viventi organizzate "a cespuglio", senza un tronco principale, con specie più longeve e specie passeggere, con alcune linee stabili e poco prolifiche che convivono con linee di discendenza molto ramificate, con periodi di rapida diversificazione in tutte le linee e periodi di estinzione generale. Il fatto che numerose specie convivano durante la stessa epoca e anche sullo stesso territorio diventa una conseguenza normale del modello puntuazionale.”

Sarebbe ingenuo, però, non considerare che se la teoria degli equilibri punteggiati non contrasta affatto con il darwinismo, che integra rimediando ad alcune sue lacune, essa pone una serie di problemi teorici, due dei quali vanno approfonditi: il primo riguarda la comparsa stessa del cervello umano con le caratteristiche sue proprie, il secondo il suo essere entrato a regime solo tardivamente.

Neotenia e ritardo dello sviluppo

Un organo dotato di potenzialità exattate è senz'altro il prodotto dell'evoluzione naturale, ma non necessariamente della selezione naturale, dato che esso contiene potenzialità che nell'immediato servono a poco o a nulla. Se, però, non è prodotto dalla selezione naturale, cosa ne spiega la comparsa?

Ne L’origine dell’uomo, l'ossessione di ridurre la discontinuità tra gli altri animali e l'uomo induce Darwin a contestare un fenomeno già all’epoca rilevato: la “sprovvedutezza” dell'essere umano e il lungo periodo evolutivo richiesto perché egli raggiunga un minimo di autonomia:

“Si è spesso obiettato a queste opinioni e alle seguenti che l’uomo è una delle creature più prive di aiuto e di difesa del mondo, e che durante la sua primitiva e ancor meno sviluppata condizione egli doveva essere ancor più inerme. Il duca di Argyll, per esempio, insiste che «la struttura umana si è distaccata da quella dei bruti, evolvendosi verso una maggiore debolezza e gracilità fisica. Si tratta quindi di una divergenza che fra tutte più difficilmente si può ascrivere alla semplice selezione naturale». Egli adduce lo stato nudo e privo di protezione del corpo, l’assenza di grandi denti o artigli per la difesa, la piccola forza e velocità dell’uomo e il suo scarso potere di scoprire il cibo o di sfuggire il pericolo col fiuto. A queste mancanze se ne potrebbe aggiungere una ancora più grave, cioè che egli non può arrampicarsi velocemente e sfuggire così ai nemici. La mancanza di peli non sarebbe stata un gran danno per gli abitanti di paesi caldi. Infatti sappiamo che i nudi abitanti della Terra del Fuoco possono resistere a un clima crudo. Quando paragoniamo lo stato privo di difesa dell’uomo con quello delle scimmie, dobbiamo ricordarci che i grandi canini di cui queste ultime sono provviste sono posseduti in pieno sviluppo solo dai maschi, e sono da loro usati principalmente per combattere con i loro rivali; mentre le femmine, che non ne sono provviste, riescono egualmente a sopravvivere. Riguardo all’aspetto fisico o alla forza, non sappiamo se l’uomo discenda da qualche specie debole come lo scimpanzè o da una forte come il gorilla, e perciò non possiamo dire se l’uomo sia divenuto più grande e più forte o più piccolo e più debole dei suoi antenati. Dovremmo tuttavia tenere presente che un animale dotato di grandi dimensioni, forza e ferocia e che, come il gorilla, si potrebbe difendere da tutti i nemici, forse non sarebbe potuto divenire socievole; ciò avrebbe ostacolato efficacemente l’acquisizione di poteri intellettivi superiori, come la simpatia e l’amore verso i suoi compagni. Perciò potrebbe essere stato un immenso vantaggio per l’uomo essere derivato da qualche creatura comparativamente debole.

La scarsa forza e velocità dell’uomo, la sua penuria di mezzi naturali, ecc. sono più che controbilanciate, in primo luogo, dai poteri intellettivi, con i quali si è procacciato i mezzi, gli strumenti, ecc., mentre ancora si trovava in uno stato di barbarie e secondariamente, dalle sue qualità sociali che lo hanno portato a dare aiuto ai suoi compagni o a riceverne.” (p. 89-90)

Anche in questo caso, la genialità di Darwin è un po’ ottenebrata dal gradualismo, che lo porta a negare l’evidenza. Nessun animale come l’uomo viene al mondo nella condizione di prematurità e di sprovvedutezza caratteristica del neonato, nessuno ha un periodo evolutivo altrettanto sterminatamente lungo, nessuno, tra i mammiferi, manifesta la persistenza nell’adulto di caratteristiche fetali e infantili.

Tutti questi aspetti si riconducono alla neotenia, vale a dire ad un ritardo dello sviluppo che incide profondamente sulle caratteristiche fisiche e sulle funzioni psichiche.

L'uomo è un animale spiccatamente neotenico. Nell'anatomia dell'uomo adulto si osservano numerosi caratteri che l'uomo ha in comune coi primati allo stato fetale: il valore elevato del rapporto testa-corpo, l'assenza di peli, la pelle delicata, i denti piccoli, le ossa fragili, l'ortognatia, ecc.

Si può immediatamente capire il significato complessivo della neotenia osservando la seguente figura:

 

In alto sono rappresentati i due crani fetali di uno scimpanzè e di un feto umano. La somiglianza è notevolissima.

In basso sono rappresentati i crani di uno scimpanzé adulto e di un uomo adulto. La differenza è nettissima. Il cranio dello scimpanzé adulto si discosta molto da quello fetale, mentre il cranio dell'adulto umano appare molto più simile.

Se consideriamo l’affinità genetica tra uomo e scimpanzé, che hanno il 98,5% dei geni in comune, e le rilevanti differenze morfologiche e comportamentali, viene da chiedersi se non sia proprio la neotenia a produrre tali differenze.

L’ipotesi appare estremamente probabile e potrebbe porre fine alla giostra di interpretazioni succedutesi nel corso del tempo che argutamente il paleoantropologo Richard Leakey ha elecanto sottolinenando il fatto che esse rispecchiano lo spirito dell’epoca in cui sono state formulate: l'ipotesi della costruzione di armi (etica vittoriana); l'ipotesi dell'espansione cerebrale (ottimismo eduardiano); l'ipotesi dello sviluppo tecnologico (anni Quaranta); l'ipotesi della "scimmia assassina" (secondo conflitto mondiale); l'ipotesi delle società fondate sulla caccia (ecologismo degli anni Sessanta); l'ipotesi delle società fondate sulla raccolta femminile dei frutti della terra (femminismo degli anni Settanta).

La spiegazione che verte sulla neotenia sembra più solida, non fosse altro perché essa è in controtendenza rispetto allo spirito dell’epoca, che è marcatamente adultomorfo.

Occorre affrontare, però, due problemi: chiarire come si è prodotta la neotenia e quali cambiamenti essa ha determinato a livello di funzioni psichiche.

 

Neotenia, intersoggettività e nascita dell’autoconsapevolezza

Il primo problema non sembra ormai rappresentare un mistero. Tutti i genetisti concordano sul fatto che la neotenia dipende da mutazioni genetiche che incidono sui geni che regolano il ritmo della crescita (i promotori), soprattutto nelle fasi embrionali.

Allorché, nel corso della seconda lettura, ho esposto alcune nozioni di genetica, ne ho omesso una, che a questo punto può risultare importante.

La funzione dei geni – s’è detto – è di determinare i caratteri. Questo vale solo per i geni cosiddetti strutturali, quelli che veicolano informazioni sulla strutturazione delle cellule e degli organi. Oltre ai geni strutturali, esistono, però, anche i geni regolatori, la cui funzione è di determinare l’entrata in azione dei geni strutturali nel corso del tempo.

A livello genetico, la tempistica è di enorme importanza. La neotenia umana attesta, infatti, che i geni regolatori (quasi di sicuro frutto di mutazioni casuali) ritardano lo sviluppo.

La crescita ha un ritmo rilevante a livello embrionale: il mantenersi di questo elevato tasso di crescita determina l’aumento di volume della neocorteccia..

Anche a questo riguardo si può operare un confronto tra uomo e scimpanzé.

Scrive Desmond Morris (La scimmia nuda, Bompiani, Milano 2003): “Prima della nascita, il cervello del feto della scimmia aumenta rapidamente in dimensioni e in complessità. Quando l’animale nasce, il cervello ha già raggiunto il settanta per cento delle sue dimensioni definitive di adulto. Il rimanente trenta per cento della crescita viene completato rapidamente durante i primi sei mesi di vita… Nella nostra specie, invece, alla nascita il cervello è solo il 23% delle sue dimensioni adulte. Per altri sei anni dopo la nascita continua una crescita rapida e l’intero processo di accrescimento non è completo sino al ventitreesimo anno di vita. [Nell’uomo, dunque], la crescita del cervello continua per circa dieci anni dopo che abbiamo raggiunto la maturità sessuale, mentre per lo scimpanzé termina sei o sette anni prima che l’animale diventi attivo dal punto di vista della riproduzione.”

E' in virtù di questo elevato tasso di crescita che il cervello umano ha raggiunto le sue notevoli dimensioni.

Non si deve pensare, però, solo ad un’evoluzione quantitativa: le parti più giovani dell’encefalo (appartenenti alla cosiddetta “neocorteccia”) si sono aggiunte in modo non meccanico alle parti più primitive (sistema limbico, cervelletto, tronco encefalico), creando un’architettura anatomica complessa nella quale talvolta la coordinazione delle parti “superiori” è mediata da strutture presenti nelle parti più antiche. Si sa che le aree del cervello si sono sviluppate diversamente nel genere Homo, anche se non vi è stata la comparsa di alcuna struttura che non fosse già presente nelle scimmie antropomorfe: è stata una questione di organizzazione, di connessione fra le parti e di crescita differenziale.

Lo sviluppo della neocorteccia ha prodotto, insomma, una diversa organizzazione del rapporto tra strutture cognitive e strutture emozionali già ampiamente sperimentate nell'evoluzione animale.

E' in questa diversa organizzazione che risiede il mistero della “scintilla” che ha innescato il “grande balzo in avanti”, vale a dire l'avvio del progresso culturale avvenuto cinquantamila anni fa, con un ritardo – è bene ricordarlo – di alcune decine di migliaia di anni dal momento in cui è comparso il cervello umano.

Ho affrontato altrove il problema di come la neotenia ha inciso nell’organizzazione sociale e psicologica della specie umana. Riporto una citazione:

“Occorre tenere conto di tre effetti correlati tra loro e riconducibili al ritardo dello sviluppo, clamorosamente evidente nei bambini, e alla prolungata interazione tra bambini e adulti da esso provocato.

Il primo è l’effetto di “ingentilimento” che i bambini producono negli adulti, evocando di continuo una straordinaria gamma di reazioni emotive sul registro della tenerezza e della protezione, che fanno capo al diritto “naturale” del più debole.

Il secondo aspetto è il “contagio emotivo” reciproco. I bambini si identificano con gli adulti, li imitano, apprendono il linguaggio e le regole culturali. Le caratteristiche psichiche neoteniche infantili - la curiosità esplorativa, la fantasia, la tendenza al gioco – esercitano sugli adulti un’indubbia influenza, contribuendo a mantenere in essi una plasticità che le esigenze di adattamento all’ambiente tendono, in una certa misura, a reprimere.

Il terzo aspetto è in assoluto il più importante. Incrementando la vulnerabilità, l’inermità e la sprovvedutezza dei bambini, il ritardo dello sviluppo ha determinato di sicuro negli adulti un’intensificazione dell’empatia. Al tempo stesso, esso ha messo sotto i loro occhi aspetti che sono drammaticamente evidenti nei bambini, ma che, in qualche misura, sopravvivono negli adulti facendo capo tout court alla condizione umana.

Se ci riconduciamo alla condizione originaria degli esseri umani – strutturalmente carenti, sprovveduti, perennemente esposti al rischio di essere divorati, letteralmente zavorrati dalla necessità di difendere infanti inermi per molti anni - non ci vuole molto a capire che l’interazione perpetua e l’identificazione con i bambini ha concorso ad avviare la nascita dell’autoconsapevolezza esistenziale sul registro di una ansia arginata a mala pena dall’appartenenza, dal poter contare, in caso di bisogno, sull’aiuto degli altri...

Il ritardo dello sviluppo, del tutto manifesto nei bambini, ha determinato anche, originariamente, una dipendenza radicale degli adulti dal gruppo; una dipendenza che non pochi psicologi, oggi, definirebbero “patologica”, ma che di fatto è riconducibile alla carenza dell’individuo nell’affrontare da solo le avversità della vita.”

La citazione implica un’ipotesi sulla scintilla che ha prodotta la nascita della mente umana. Prima di approfondirla, però, occorre tenere conto che ne sono già state fornite altre due.

La prima, la più consueta, fa riferimento al linguaggio. Si danno anche a questo riguardo due diverse ipotesi.

Secondo alcuni paleoantropologi, il linguaggio sarebbe stata un’invenzione pressoché istantanea in termini evolutivi, legata alla circostanza che il cervello raggiunse un volume critico e che il cranio subì cambiamenti .

Secondo altri, viceversa, il linguaggio si sarebbe evoluto lentamente, per selezione naturale, a partire dalle prime specie di Homo.

Tali ipotesi non sono incompatibili. Esse, però, non sembrano sufficienti a spiegare il “grande balzo”, bensì piuttosto a spiegare l'accelerazione dell'interazione tra natura e cultura prodotta dal linguaggio, che ha reso possibile la trasmissione degli apprendimenti di generazione in generazione.

Il linguaggio, peraltro, implica un gruppo sociale impegnato a correlare l'universo dei suoni e quello dei contenuti mentali alla ricerca di un codice convenzionale condiviso. E' indubbio, dunque, che un'intensa interazione sociale va presunta per spiegare la nascita del linguaggio.

Perché l’interazione sociale possa produrre un linguaggio occorre, però, che gli esseri umani abbiano già un'esperienza interiore significativa, dei concetti cui manca letteralmente la parola.

Vediamo in azione qualcosa del genere nei bambini che cominciano a parlare “inventandosi” delle parole incomprensibili, che, però, dentro di loro, fanno riferimento a determinati oggetti. Essi, insomma, hanno il concetto, l'immagine mentale simbolica dentro di sé, ma, per giungere a comunicare, devono acquisire la forma fonetica giusta, quella convenzionale all'interno di una determinata comunità linguistica.

La seconda ipotesi fa appunto riferimento alla nascita dell'autocoscienza come presupposto dello sviluppo del linguaggio.

Scrive Telmo Piovani:

“Alcuni “paleoneurologi” e paleoantropologi sono convinti che “il grande balzo in avanti” del Paleolitico superiore sia connesso all’innesco di un anello ricorsivo fra l’evoluzione del linguaggio articolato e l’evoluzione della coscienza introspettiva.

La questione cruciale è proprio capire se l’evoluzione di un’intelligenza autocosciente sia strettamente dipendente dalla presenza del linguaggio articolato [...]; oppure se è possibile che le forme ominidi più antiche possedessero comunque un embrione di pensiero cosciente, una sorta di “attenzione incosciente”, come è stata definita da Stephen Toulmin. Secondo Toulmin sarebbe infatti possibile costruire arnesi attivando una forma di attenzione automatica, non cosciente. Questa si sarebbe poi evoluta, attraverso una serie di stadi, fino all’attenzione cosciente e all’articolazione del comportamento autocosciente, organizzato secondo piani stabiliti e condiviso con altri attraverso il linguaggio articolato.

Tuttavia, il quadro si complica se pensiamo che la deduzione dell’origine evolutiva del linguaggio dalla sua utilità attuale è stata posta in discussione da ricerche recenti. Il neurologo Harry Jerison ha delineato un modello dell’evoluzione del cervello da questo punto di vista estremamente interessante: il linguaggio ha avuto naturalmente un ruolo decisivo nella comunicazione umana, ma questa potrebbe essere una conseguenza del suo sviluppo e non la sua causa. Secondo Jerison, il linguaggio è nato come effetto collaterale di una facoltà diversa che il cervello aveva cominciato a sviluppare come adattamento: la coscienza introspettiva e immaginativa. È nei dialoghi interiori della incipiente coscienza umana, impegnata a creare un modello e un’interpretazione attendibili della realtà, che il linguaggio trova la sua origine.”

Come si origina, però, una coscienza introspettiva? Come l'uomo è giunto a rendersi conto di avere un mondo interiore di contenuti mentali – pensieri, emozioni – non riducibili alla percezione?

E’ nel tentativo di rispondere a questi quesiti che ho formulato l’ipotesi cui ho fatto cenno, che ora va approfondita.

 

L’acquisizione della capacità simbolica

L’introspezione, intesa non come raccoglimento sui propri vissuti e abbandono ad essi, bensì come autoconsapevolezza comporta la capacità di oggettivare i contenuti psichici, di rapportarsi a se stesso come ad un altro. La spia dell’autoconsapevolezza è la capacità di dialogare con se stesso dandosi del tu.

Essa implica dunque una struttura dialogica della personalità. E’ evidente che questa struttura non può essere che il prodotto di una lunga interazione intersoggettiva, che dà luogo infine all’interiorizzazione dell’Altro.

Se si tiene conto di questo, il ruolo svolto dalla neotenia risulta chiaro.

Pochi dubbi sussistono riguardo al fatto che un animale carente, sprovveduto e neotenico come l’uomo abbia corso, nell’ambiente originario della savana infestato di predatori, il rischio dell’estinzione. Se l’è cavata utilizzando l’intelligenza? Certo, ma sulla base di una solidarietà e una cooperazione di gruppo totale.

La socialità empatica prodotta dalla neotenia ha letteralmente obbligato gli esseri umani a coordinarsi, a comunicare, ad adottare strategie condivise, vale a dire ad interagire intersoggettivamente in una misura maggiore rispetto a qualunque altro animale.

L’intensa interazione intersoggettiva ha contribuito a sintonizzare i mondi di esperienza individuali rendendo la relazione con gli altri essenziali e costitutiva della soggettività.

Su questa base la possibilità che, in rapporto a potenzialità ex-attate, l’Altro sia stato interiorizzato è molto elevata. L’interiorizzazione dell’Altro ha dato luogo alla prima rappresentazione simbolica della realtà esterna, la cui conseguenza è stata la nascita dialogica dell’Io. La sperimentazione della capacità simbolica si sarebbe poi estesa al mondo esterno. Sulla base di un’intensa comunicazione intersoggettiva, gli uomini avrebbero cominciato a produrre segni convenzionali linguistici associati alle “cose”.

La psicologia evolutiva, soprattutto con gli studi di Colwin Trevarthen, conferma queste ipotesi. Trevarthen ha accertato che il neonato, sin dalle prime ore di vita, cerca di sintonizzarsi empaticamente con la madre. Lo sforzo di sintonizzazione reciproca produce nel giro di poche settimane una protoconversazione non verbale che assicura l’invio e la decodificazione dei messaggi. La protoconversazione dà luogo poi ad un linguaggio privato verbale tra il bambino e la madre (definito da Trevarthen motherese) che, pur non essendo convenzionale, funziona e rappresenta la base dell’acquisizione del linguaggio convenzionale.

La finalità della socializzazione empatica originaria non è però solo l’acquisizione del linguaggio, bensì la definizione dell’Io che interviene intorno al diciottesimo mese ed implica già l’interiorizzazione dell’Altro. L’io esiste in quanto esiste il Tu, ma non solo sul piano reale bensì anche nello spazio interiore.

Certo nell’evoluzione della personalità la nascita dell’Io avviene a seguito di un interesse molto vivo per gli oggetti, che il bambino manipola ed esplora precocemente, di cui chiede e apprende lentamente il nome. E’ probabile, però, che, alle origini dell’umanità, la simbolizzazione e la rappresentazione simbolica del mondo esterno abbiano fatto seguito alla nascita dell’Io autoconsapevole sulla base dell’interiorizzazione dell’Altro.

La psicoanalisi fornisce due prove a riguardo.

La prima riguarda tutti gli esseri umani ed è da ricondurre all’esperienza onirica.

Come noto, il sogno è un’esperienza allucinatoria che si realizza ogni notte in ogni cervello umano per circa un’ora e mezza. Tutti sanno l’importanza straordinaria che Freud ha assegnato a questo fenomeno. Freud stesso ha avuto un’intuizione che poi è stata soffocata dalla sua concezione pulsionale. Tale intuizione oggi può essere restaurata nel suo significato autentico e inquietante.

Costruendo un sogno, la mente umana appare in grado di rappresentare allucinatoriamente qualunque aspetto della realtà. Alcuni sogni sono fantasiosi, strani, assurdi, ma altri sono assolutamente realistici. Ora l’interpretazione dei sogni pone di fronte al fatto che tutto ciò che viene rappresentato a livello onirico non ha un significato realistico ma soggettivo e intersoggettivo: fa riferimento insomma all’Io, all’Altro e alla relazione tra Io e Altro. Volare, per esempio, sta per affrancarsi dalla relazione con l’Altro, precipitare nel vuoto perdere qualunque appiglio sociale, ecc.

L’analisi dei sogni attesta, né più né meno, che l’inconscio conosce una sola realtà - quella umana - che viene rappresentata attraverso gli oggetti: esso è dunque radicalmente antropomorfico. L’inconscio rappresenterebbe dunque la parte arcaica della mente che antropomorfizza tutto il mondo. La realtà oggettiva, a livello onirico, è simboleggiata esclusivamente in riferimento a quella soggettiva e intersoggettiva.

La seconda prova è fornita dalla psicopatologia e più precisamente da un’esperienza particolare: la vahnstimmung. Di cosa si tratta? Di uno stato d’animo particolare che precede spesso, di giorni o settimane, l’affiorare di un delirio ed è caratterizzato da una percezione del mondo inquietante. L’inquietudine, che talora raggiunge il livello dell’angoscia catastrofica, è riconducibile al fatto che il soggetto vive la realtà come se essa contenesse in tutti i suoi aspetti misteriosi messaggi e significati che sono rivolti a lui e che egli non riesce a decodificare: la targa di una macchina, il fumo di un camino, un lenzuolo steso che sventola, ecc. sono messaggi in codice che il soggetto si affanna a capire e vive.

La vahstimmung è riconducibile univocamente ad un conflitto psicodinamico tra l’Io e l’Altro, che non per caso esita spesso in un delirio persecutorio. Al di là di questo, c’è però da considerare che essa immerge il soggetto in una dimensione di rapporto con un mondo antropomorfico, nel quale non ci sono più oggetti ma solo soggetti umani che li utilizzano per comunicare qualcosa.

Mi rendo conto che, posta in questi termini, l’ipotesi è scarsamente comprensibile. Penso, però, che essa sia molto vicina alla verità, e la verità è che il cervello umano è letteralmente irretito nella relazione tra Io e Altro, e che l’Altro è rappresentato in forma generalizzata nella sfera dell’inconscio.

E’ l’interiorizzazione dell’altro che ha generato lo spazio mentale autoconsapevole e introspettivo.

La socialità empatica, prodotta dalla neotenia e da un'interazione prolungata nel rapporto tra adulti e bambini, sarebbe dunque il fattore critico che avrebbe innescato l'uso delle potenzialità ridondanti contenute in una struttura cerebrale cresciuta a dismisura, ben al di là delle esigenze adattive degli uomini primitivi.

L’empatia pone, dunque, in luce il nesso intrinseco all’emozionalità sociale umana tra funzione adattiva e funzione disadattiva. Essa, infatti, promuove la solidarietà e la cooperazione del gruppo, nonché la tutela degli esseri deboli e vulnerabili (bambini, anziani), ma al prezzo e in virtù di un’ansia esistenziale contro la quale non si dà che come parziale rimedio l’appartenenza.

In un certo senso, quest'ultima ipotesi, che sto elaborando ne Il mostro di belle speranze, riconduce a Darwin e alla sua intuizione che l'istinto sociale, associato ad elevate potenzialità cognitive, ha avviato la cultura umana.

Sarebbe ingenuo, però, non considerare ciò che di nuovo essa apporta al paradigma evoluzionistico.