Letture darwiniane

III

L’uomo secondo Darwin

L’azzardo di Darwin
Differenze quantitative e qualitativa tra uomo e animale
La psicologia evoluzionistica
L’istinto sociale
Adam Smith e Darwin
L'uomo tra Socialità e Individualità
Il progresso culturale e morale dell'umanità
L’evoluzione della famiglia ominide

L’azzardo di Darwin

Ai tempi di Darwin si conosce un solo reperto umano fossile, scoperto nel 1856: la calotta cranica e alcune ossa del tronco e degli arti trovate a Neanderthal. Darwin cita questo dato appena di sfuggita e non dà ad esso una particolare importanza, anche perché alcuni anatomo-patologi dell’epoca ritengono che i resti siano di un homo sapiens affetto da una malattia delle ossa.
Solo a partire dal 1880 la paleoantropologia prende slancio e, nel giro di alcuni decenni, scopre un’incredibile quantità di reperti fossili umani e pre-umani, che conferma, tra l’altro, non solo l’esistenza dell’Uomo di Nenderthal, ma che esso è convissuto con l’Homo sapiens in Europa per migliaia di anni.

Così com’è accaduto per la genetica, anche sul terreno paleantropologico Darwin procede, dunque, praticamente senza dati.

Ne L'origine della specie egli, di fatto, dedica all'origine all'uomo solo un accenno scrivendo, nella penultima pagina: “Per l'avvenire vedo campi aperti a ricerche molto più importanti. La psicologia sarà necessariamente basata su nuove fondamenta, quella della necessaria acquisizione di ciascuna facoltà e capacità mentale per gradi. Molta luce sarà fatta sull'origine dell'uomo e sulla sua storia” (p. 7)

Le poche righe bastano a capire che Darwin è convinto che la selezione naturale, con il suo gradualismo, possa rappresentare una spiegazione necessaria e sufficiente della comparsa dell'uomo con il suo cervello e le sue singolari funzioni psichiche. E’ evidente che questa convinzione implica l’esistenza di un numero indefinito di anelli intermedi di ominidi, vale a dire di specie con caratteristiche psicofisiche progressivamente meno scimmiesche e più umane. Implicitamente, Darwin ne ammette l’esistenza anche se difetta di qualsivoglia dato a riguardo.

L’assenza completa di fossili paleantropologici è il punto dolente dell’evoluzionismo ai suoi albori. Esso, infatti, sembra sottolineare l’abisso che si dà tra l’uomo e gli altri animali. E’ in conseguenza di questo che A. Wallace, nel 1864, pubblica sulla "Anthropological Review" un saggio (L’origine delle razze umane e l’antichità dell’uomo dedotte dalla teoria della “selezione naturale") nel quale afferma che la selezione naturale non può spiegare la comparsa della mente, che va assunta come un principio spirituale.

Non è attestato che il libro di Wallace, oltre ad addolorare Darwin, lo abbia indotto ad accelerare la stesura de L’origine dell’uomo, che compare nel 1871, a dodici anni di distanza dal suo capolavoro. E’ probabile, però, che, nella stesura del saggio, egli ne abbia tenuto conto e abbia inteso temerariamente anticipare gli sviluppi futuri della psicologia preconizzati ne L’origine delle specie.

Parlo di temerarietà non solo perché Darwin si avventura su di un terreno del tutto nuovo - quello di una psicologia evoluzionistica -, ma soprattutto perché, inoltrandovisi, egli non si rende conto della carenza degli strumenti di cui dispone.

Occorre considerare che, all’epoca, le scienze umane e sociali (psicologia, antropologia culturale, sociologia) sono agli albori e, nonostante l’entusiasmo positivistico che le connota, non hanno ancora messo a fuoco un criterio epistemologico destinato solo successivamente a diventare centrale e che ancora oggi si può ritenere problematico. Nell’ambito di tali scienze, infatti, a differenza di quanto accade per la fisica, per la chimica e per la biologia (eccezion fatta per l’evoluzionismo), il soggetto e l’oggetto coincidono: l’uomo, insomma, studia se stesso. Questa coincidenza implica il pericolo che l’interpretazione dei “fatti” sia, in misura più o meno rilevante, interferita da punti di vista soggettivi, da presupposti ideologici radicati nella profondità dell’inconscio e da valori culturali naturalizzati.

All’epoca in cui Darwin scrive L’origine dell’uomo questo pericolo si sta realizzado nell’ambito della nascente antropologia culturale, che esplora le culture con cui l’Occidente viene a contatto nella sua fase di colonizzazione imperialistica alla luce di una teoria evolutiva della civiltà umana che ipotizza, con Lewis H. Morgan, fasi necessarie e progressive di passaggio tra la condizione originaria del barbaro/selvaggio/primitivo e civile/evoluto/sviluppato.

Darwin, come si è detto nella precedente lettura, è un liberale umanitarista, ma è pur sempre un liberale vittoriano. La sua adesione ad una visione del mondo che, pur considerando gli esseri umani appartenenti ad una stessa specie, comporta la distinzione tra selvaggio e civile è del tutto evidente nel Diario di un naturalista intorno al mondo, e soprattutto nelle riflessioni e nelle considerazioni che egli è indotto a fare sugli abitanti della Terra del Fuoco, i fuegini: una popolazione primitiva ormai scomparsa. Rimando alla lettura dell’estratto pubblicato sul sito, e mi limito qui solo a due cenni.

Il primo riguarda uno dei tre fuegini che Fitz Roy, il capitano del Beagle, aveva “catturato” in una spedizione precendente, portato in Inghilterra per tentare di civilizzarli e, con Darwin a bordo, riportava in patria. Si tratta di Jemmy Button che più di tutti sembrava essersi lasciato influenzare dalla cultura inglese al punto che “portava sempre i guanti; aveva i capelli sempre tagliati con bel garbo, ed era desolato quando le sue lucide scarpe venivano inzaccherate.”. Quando Jemmy incontra i suoi parenti, Darwin rileva la apparente completa indifferenza affettiva reciproca. Più volte rileva che Jemmy giudica severamente i suoi compatrioti, ed esprime implicitamente il desiderio di tornare in Inghilterra. Di fatto, poi, Jemmy non solo decide di restare con i suoi, ma ne riacquista le abitudini comparendo, dopo qualche tempo, come “un selvaggio macilento, stralunato, coi lunghi capelli arruffali e tutto nudo, tranne un pezzo di vecchia coperta intorno alla cintola”. Il giudizio di Darwin, che vede Jemmy regredito allo stato selvaggio, non coincide con quello dello stesso, che ha deciso di rimanere con la sua gente e afferma che “i suoi parenti erano brava gente.”.

Il disagio di Darwin di fronte ai selvaggi, che oscilla tra la pena e l’abominio, è del tutto evidente. Egli non comprende che ogni cultura ha i suoi limiti e i suoi valori. Tra i valori praticati tra i fuegini c’è per esempio una radicale uguaglianza all’interno del gruppo tribale. Darwin la commenta così:
“La perfetta uguaglianza che esiste fra gli individui componenti le tribù degli abitatori della Terra del Fuoco ritarderà per lungo tempo il loro incivilimento. Come vediamo che gli animali i quali sono spinti dall'istinto a vivere in società e ad obbedire ad un capo, sono più soggetti a miglioramenti, così vediamo la stessa cosa accadere nelle razze umane. Sia che noi consideriamo questo fatto come una causa od un effetto, le razze più civili hanno sempre governi più artificiali...

Nella Terra del Fuoco, finché non venga un qualche capo che abbia sufficiente forza per assicurarsi un qualche vantaggio che abbia conquistato, come per esempio gli animali domestici, non sembra quasi possibile che lo stato politico del paese possa venire migliorato. Presentemente anche una pezza di panno data ad un solo viene lacerata in strisce e queste distribuite; e nessun individuo diventa più ricco dell'altro. D'altra parte, è difficile comprendere come possa sorgere un capo finché non vi sia una proprietà qualunque per mezzo della quale egli possa manifestare la sua superiorità ed accrescere il suo potere.”

E’ evidente che, nonostante il suo genio e il suo umanitarismo, Darwin, dato il suo orientamento eurocentrico, non sarebbe stato un buon antropologo culturale.

Questa considerazione ha una certa importanza per l’analisi de L’origine dell’uomo, perché, anche se Darwin si inoltra sul terreno con molta prudenza, egli finisce poi con il farsi influenzare dalla sua cultura e dai suoi punti di vista.


Differenze quantitative e qualitative tra uomo e animale

Nell’Introduzione, Darwin esibisce al tempo stesso la sua proverbiale modestia e la sua orgogliosa e inesauribile fede nella Scienza:

“Il solo scopo di questo lavoro è di considerare, in primo luogo, se l’uomo, come ogni altra specie, sia disceso da qualche forma preesistente, in secondo luogo, il modo di questo sviluppo, ed in terzo luogo il valore delle differenze tra le cosiddette razze umane…
Quest’opera contiene solo qualcosa di originale riguardo all’uomo; ma, poiché le conclusioni cui sono giunto dopo aver tratteggiato un primo abbozzo mi sono parse interessanti, ho pensato che potessero interessare anche altri. E’ stato spesso e fiduciosamente asserito che l’origine dell’uomo non potrà mai essere conosciuta; ma l’ignoranza genera, più spesso della conoscenza, certe convinzioni: coloro che sanno poco e non quelli che sanno molto asseriscono tanto fermamente che questo o quel problema non sarà mai risolto dalla scienza.”
(p. 28)

Lo scopo del lavoro è, in realtà, un attacco frontale all’antropocentrismo teologico che la prima opera aveva messo implicitamente in crisi, in nome di un materialismo naturalistico radicale.

L'attacco verte essenzialmente sul minimizzare le differenze che si danno tra gli altri animali (compresi i primati) e l’uomo sotto il profilo psichico. Egli scrive:

“Se nessun altro essere vivente, tranne l’uomo, avesse posseduto una qualche facoltà mentale, o se i suoi poteri fossero stati di natura del tutto diversa da quella degli animali inferiori, allora non saremmo mai stati in grado di convincerci che le nostre elevate facoltà si sono sviluppate gradualmente. Ma si può dimostrare che non vi è nessuna fondamentale differenza di questo genere. Dobbiamo anche ammettere che vi è una differenza molto maggiore di capacità mentale tra uno dei pesci inferiori, come una lampreda o un anfiosso e una delle scimmie superiori, che tra questa e un uomo; tuttavia tale differenza è colmata da numerose gradazioni…

Il mio scopo in questo capitolo è di dimostrare che non vi è alcuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori per quanto concerne le loro facoltà mentali.” (p. 91-92)

Nell’intento di fornire questa dimostrazione, Darwin, non potendo avvalersi degli apporti di una Psicologia che sta facendo appena i primi passi sul terreno della psicofisiologia delle percezioni, prende in considerazione le più facoltà intellettive più varie: emozioni, memoria, curiosità, imitazione, attenzione, memoria, immaginazione, ragione, astrazione, autocoscienza, senso del bello, socialità e moralità. L'analisi, a dire il vero piuttosto aneddotica, in quanto fondata su osservazioni personali, testimonianze di altri, ecc., è suggestiva per alcuni aspetti, ma tutt’altro che convincente.

Fornisco due esempi che ritengo indiziari della volontà di Darwin di dimostrare il suo assunto di fondo.

Il primo concerne le emozioni. Darwin scrive:

“Gli animali inferiori manifestano piacere e dolore, felicità e tristezza esattamente come l'uomo. La felicità non è mai tanto dimostrata quanto ne dimostrano i giovani animali, quali i cuccioli, i gattini, gli agnelli, ecc. quando giocano insieme, esattamente come i nostri bambini...

Il terrore agisce su di loro alla stessa maniera che su di noi, facendo tremare i muscoli, palpitare il cuore, rilasciare gli sfinteri, raddrizzare i capelli. Il sospetto, derivato dalla paura, è soprattutto caratteristico della maggior parte degli animali selvaggi...

Il coraggio e la timidezza sono qualità estremamente variabili in individui della stessa specie, come vediamo chiaramente nei nostri cani. Alcuni cani e cavalli sono mal controllati e cambiano facilmente umore, altri sono ben controllati e queste qualità sono sicuramente ereditarie.

Ognuno sa quanto gli animali siano soggetti a rabbie furiose, e quanto facilmente le rivelino. Si sono pubblicati molti, e probabilmente veri, aneddoti, sulla procrastinata e astuta
vendetta di vari animali...

Moltissime delle emozioni più complesse sono comuni agli animali superiori e a noi stessi.
Chiunque ha visto quanto un cane sia geloso dell'affetto del suo padrone se dispensato a qualche altro essere, ed io ho osservato lo stesso fatto. nelle scimmie, il che dimostra che gli animali
non solo provano affetto, ma desiderano essere amati.

Gli animali sentono chiaramente l'emulazione. Amano l'approvazione e la lode, e il cane che porta un cestino per il suo padrone rivela, in alto grado, autocompiacimento ed orgoglio.

Penso che non possa esservi dubbio che un cane senta la vergogna come qualcosa di diverso dalla paura e di molto simile al pudore quando elemosina il cibo troppo spesso. Un cane grande
disdegna di azzuffarsi con un cane piccolo e ciò si può chiamare magnanimità.

Numerosi osservatori hanno narrato che alle scimmie non piace che si rida loro dietro, e talora inventano offese immaginarie. Nel giardino zoologico ho visto un babbuino che era sempre
preso da una rabbia furiosa quando il suo guardiano tirava fuori una lettera o un libro e glielo leggeva ad alta voce, e la sua rabbia era così violenta che, come ho visto, una volta si
morse una zampa a sangue.”
(pp. 95-96)

Nessuno pone ormai in dubbio che gli animali superiori siano dotati di un rilevante corredo emozionale e che gli uomini abbiano ereditato da essi le emozioni di base. Il modo con cui un uomo reagisce ad un forte rumore improvviso, di fatto, è identico quello di una scimmia, di un cane, di un gatto. Senza volere entrare nel merito di una teoria delle emozioni, non è però possibile non cogliere la differenza tra l’allarme o la paura degli animali e l’ansia esistenziale umana, che si definisce nel corso dell’evoluzione della personalità e rimane stabilmente depositata nell’inconscio.

Non appare sostenibile che la differenza sia dovuta solo all’acquisizione della capacità cognitiva. In realtà, nell’uomo le strutture cognitive e quelle emozionali si sono, per alcuni aspetti, integrate: l’ansia esistenziale è qualitativamente diversa dalla paura degli altri animali.

Il secondo esempio riguarda, invece, l'astrazione e la capacità concettuale:

“Se si può giudicare dai vari articoli, pubblicati ultimamente, sembra che venga sottolineata la supposta e completa incapacità di astrazione degli animali, o di formazione di concetti generali. Ma quando un cane vede un altro cane a distanza, è spesso evidente che percepisce astrattamente che è un cane, poiché quando si fa più vicino tutto il suo comportamento cambia improvvisamente, se l'altro cane è un amico. Uno scrittore ha recentemente osservato che in tutti questi casi è un semplice presupposto asserire che l'atto mentale non sia necessariamente della stessa natura nell'animale e nell'uomo. Se l'uno riferisce ciò che percepisce con i sensi a un concetto mentale, l'altro fa altrettanto.

Quando dico al mio terrier con voce aspra (e ho fatto il tentativo molte volte): «Ehi, chi, dov'è?», esso immediatamente lo prende come segnale che si deve dar la caccia a qualche cosa e generalmente per prima cosa si guarda intorno, poi si getta nel boschetto più vicino, per sentire se c'è odore di selvaggina, ma non trovando nulla, si volge a un albero vicino per cercare uno scoiattolo. Ora queste azioni non mostrano chiaramente che esso ha nella mente un'idea generale o il concetto che qualche animale va scoperto e cacciato?

Si può liberamente ammettere che nessun animale è autocosciente, se con questo termine si implica che esso riflette su ogni punto: da dove viene e dove andrà o che cosa è la vita e la morte e così via. Ma come possiamo essere sicuri che un vecchio cane con una memoria eccellente e con qualche potere di immaginazione, come è mostrato dai suoi sogni, non rifletta mai sui suoi piaceri o dolori passati nella caccia? Questa sarebbe una forma di autocoscienza. D'altra parte, come osserva Buchner, assai, poco può esercitare la propria autocoscienza o riflettere sulla natura della sua esistenza, l'indefessa lavoratrice, moglie del rozzo selvaggio australiano, che usa pochissime parole astratte e non sa contare oltre il quattro.

Si ammette generalmente che gli animali superiori sono dotati di memoria, attenzione, associazione e anche di una certa immaginazione e ragione Se questi poteri, che differiscono molto nei diversi animali, sono passibili di sviluppo allora non sembra troppo improbabile per le facoltà più complesse che le più alte forme di astrazione, l'autocoscienza, ecc., si siano evolute attraverso lo sviluppo e la combinazione delle più semplici.

E stato sostenuto contro le opinioni avanzate qui che è impossibile dire a che punto nella scala ascendente, l'animale divenga capace di astrazione, ecc.; ma chi può dire a che età ciò avviene nei nostri ragazzi? Vediamo infatti che tali poteri si sviluppano nei bambini per gradi impercettibili.” (pp. 109-110)

Anche a riguardo, nessuno nega che gli animali superiori siano dotati di un’intelligenza associativa. Questo tipo di intelligenza non comporta, però, alcun concetto o idea generale perché essa è del tutto sprovvista di capacità simbolica. Gli animali hanno di certo memorie e immagini mentali, ma non rappresentazioni astratte.

En passant, occorre ricordare il famoso caso Washoe, un esemplare femmina di scimpanzè alla quale due ricercatori - Allen e Beatrice Gardner - hanno tentato di insegnare a comunicare con l’uomo utilizzando un particolare linguaggio di segni. I Gardner hanno sostenuto che Washoe alla fine era in grado di utilizzare 250 segni. I risultati da essi conseguiti, però, non sono stati scientificamente convalidati, perché nulla prova che Washoe sia andata al di là di un’associazione tra segni e cose, che abbia cioè sviluppato una comprensione simbolica dei segni stessi.

Riesce assolutamente evidente che, nell'assumere il ruolo di etologo e di psicologo comparato, Darwin confida un po' troppo nella sua capacità di osservazione e nella sua intelligenza di ricercatore. Anche se il suo intento di ridurre le differenze psichiche tra gli altri animali e l'uomo, esasperate al massimo grado dalla tradizione religiosa, è comprensibile, egli si fa prendere un po' la mano da esso e giunge ad una conclusione opinabile:

“Credo che sia stato dimostrato che l’uomo e gli animali superiori, specialmente i primati, hanno alcuni istinti in comune. Tutti hanno i medesimi sensi, le intuizioni e le sensazioni, le stesse passioni, affezioni ed emozioni, anche le più complesse, come la gelosia, il sospetto, l’emulazione, la gratitudine e la magnanimità; praticano l’inganno e sono vendicativi; talora sono soggetti al ridicolo e hanno anche il senso dell’umorismo; provano meraviglia e curiosità; possiedono le stesse facoltà di imitazione, attenzione, decisione, scelta, memoria, immaginazione, associazione di idee, e la ragione, anche se a livelli molto diversi. Gli individui della stessa specie sono graduati, per l’intelletto, dall’assoluta imbecillità alla eccellenza. Ancora: sono soggetti alla follia, anche se di gran lunga meno spesso che nel caso dell’uomo.” (p. 105)

La differenza, dunque, sarebbe di ordine quantitativo, non qualitativo. Le stesse facoltà hanno avuto semplicemente uno sviluppo diverso negli animali e nell'uomo in conseguenza della crescita di dimensioni del cervello umano che ha prodotto l'avvento della capacità di astrazione simbolica.

Affermazioni del genere sono difficilmente condivisibili.

Del resto non è un caso che la sociobiologia e la psicologia evoluzionistica, che si sono fatte carico, a dire il vero un po’ rozzamente, delle ipotesi darwiniane, cercando di dimostrare che il cervello umano è stato selezionato per esseri che vivevano di caccia e di raccolta, sono finite rapidamente in un vicolo cieco.

 

Sociobiologia e Psicologia evoluzionistica

Nel 1975 E. O. Wilson pubblica un saggio (Sociobiologia. La nuova sintesi) che diventa rapidamente famoso. In esso si afferma che “la psicologia senza la genetica è lo stesso paradosso della chimica senza la fisica o della biologia senza la chimica”. Il punto focale della indagine sociobiologica è, in effetti, il rapporto genotipo-fenotipo, assunto però in termini di determinismo genetico.

In questa ottica, i tratti più caratteristici del comportamento umano si sarebbero sviluppati sotto l'influsso della selezione naturale e sono condizionati geneticamente; l'attività dell'individuo umano non sarebbe altro che un anello dell'evoluzione biologica, nel corso della quale avviene la riproduzione del materiale genetico; e le scelte individuali avrebbero come scopo principale (inconscio) l'immortalità dei geni, poiché la vita è essenzialmente "bios".

Al di là del riduzionismo biologista, che è implicito nell’assunzione della vita, anche umana, come espressione dell’egoismo dei geni, la sociobiologia ha due lacune insormontabili: la prima va ricondotta al fatto che essa accoglie in toto il paradigma neodarwinista, trasformandolo in “dogma, senza tenere conto delle critiche che sono state ad esso portate da parte di biologi evoluzionistici. La seconda è che essa assume la relazione gene/comportamento o genotipo/fenotipo in termini estremamente semplificati che non sembrano scientificamente condivisibili.

Queste stesse lacune sono riconoscibili nella psicologia evoluzionistica, che si può ritenere una filiazione della sociobiologia.

Ufficialmente, la psicologia cognitivo evoluzionistica è nata nel 1992 sulla base di un lungo articolo di J. Tooby e L. Cosmides (The psychological foundation of culture) nel quale si legge: “Darwin […] ha mostrato come, con tutta probabilità, il mondo mentale […] possiede la sua complessa organizzazione in virtù dello stesso processo di selezione naturale che spiega l’organizzazione fisica delle cose viventi [sicché] nel vasto paesaggio della causazione è ora possibile identificare il posto dell’uomo nella natura.”

Il problema è che è nata con il piede sbagliato: acquisendo dall’evoluzionismo il criterio per cui tutte le funzioni cerebrali vanno ricondotte alla selezione naturale e dal cognitivismo l’idea che la mente è un insieme di moduli specializzati ciascuno dei quali svolge funzioni adattive.

Il “manifesto” della psicologia cognitivo-evoluzionistica rimane ancora oggi Come funziona la mente (Mondadori, Milano 2002) di Steven Pinker, il cui “argomento... è la complessa struttura della mente” (p. 25) e la cui “idea chiave può essere espressa in una frase: la mente è un sistema di organi di computazione designato per selezione naturale a risolvere i problemi posti ai nostri antenati dalla loro condizione di cacciatori-raccoglitori, in particolare come capire e sfruttare oggetti, animali, piante e altre persone.” (p. 25)

Tale sintesi “è scomponibile in più affermazioni. La mente è ciò che il cervello fa; in particolare, il cervello elabora informazione, e pensare è una sorta di computazione. La mente è organizzata in moduli, o organi mentali, dotati ognuno di una specializzazione che ne fa un esperto in un singolo terreno d'interazione con il mondo. La logica base dei moduli è specificata dal nostro programma genetico. Il loro funzionamento si è modellato per selezione naturale in modo da risolvere i problemi della vita di cacciatori e raccoglitori condotta dai nostri antenati durante la maggior parte della nostra storia evoluzionistica. I vari problemi dei nostri antenati erano sottocompiti di un unico grande problema dei loro geni: massimizzare il numero di copie capaci di giungere alla generazione successiva.

In quest'ottica, la psicologia è ingegneria inversa. Nell'ingegneria normale si costruisce una macchina e per un certo scopo; nell’ingegneria inversa si cerca di capire per quale scopo una macchina è stata costruita.” (p. 25-26)

Lo scopo in questione non è ovviamente finalistico:

“Benché il processo della selezione naturale non abbia in sé uno scopo, esso ha evoluto entità che (come l'automobile) sono altamente organizzate per raggiungere certi scopi e sottoscopi. Per fare ingegneria inversa della mente bisogna discernerle e identificare nel suo progetto lo scopo ultimo. La mente umana è stata in ultima istanza progettata per creare bellezza? Per scoprire la verità? Per l'amore e il lavoro? Per l'armonia con gli altri esseri umani e con la natura?

La risposta è fornita dalla logica della selezione naturale. Lo scopo ultimo per raggiungere il quale è stata progettata la mente è la massimizzazione del numero di copie dei geni che l'hanno creata. La selezione naturale si preoccupa soltanto del destino a lungo termine di entità che si replicano, di entità cioè che mantengono un'identità stabile attraverso molte generazioni di copie. Essa predice solo che i replicatori i cui effetti tendono ad aumentare la probabilità della loro propria replicazione finiranno per predominare. Quando poniamo domande tipo «Chi o che cosa si suppone che tragga beneficio da un adattamento?», o «Un progetto nelle cose viventi è un progetto per che cosa?», la risposta della teoria della selezione naturale è: replicatori stabili a lungo termine, geni.” (pp. 47-48)

Di fatto la psicologia evoluzionistica riduce la mente umana ad una serie di moduli innati e specializzati per svolgere determinate funzioni dirette ad un migliore successo riproduttivo, unico motore dell’evoluzione. Essa è una versione contemporanea della sociobiologia di Wilson che soffre tutti i difetti del riduzionismo genetico, il maggiore dei quali è che se il cervello è stato selezionato originariamente solo per permettere ai nostri progenitori cacciatori e raccoglitori di sopravvivere gran parte delle sue disfunzioni dipendono dal suo assetto arcaico.

Sulla base del riduzionismo genetico, e ancora più dell’egoismo genetico che riduce la selezione naturale alla competizione tra geni per essere rappresentati nella generazione successiva, non è sorprendente che il capitolo VII di Come funziona la mente, che concerne i legami sociali, si inaugura con la triste constatazione che “le storie delle nostre vite sono in larga parte storie di conflitti: di offese, colpe e rivalità di cui si rendono responsabili genitori, fratelli, figli, coniugi, amati, amici e concorrenti.” (p. 456) Il problema, in un’ottica evoluzionistica, è che le persone, coltivando i loro interessi, esprimendo i loro bisogni e affermando i loro diritti, - agendo, insomma, sulla base di motivazioni consce o inconsce, non sanno di fare il gioco dei loro geni.

In un denso saggio (La mente non funziona così, Laterza, Bari 2001), Jerry A. Fodor, che pure ha sostenuto a lungo la teoria computazionale della mente e l’ha arricchita di contributi originali, sottopone ad una serrata e impietosa analisi le pretese trionfalistiche della nouvelle vague psicologica cognitivo-evoluzionistica giungendo alla conclusione che ”finora ciò che la nostra scienza cognitiva ha scoperto sulla mente è stato soprattutto che non sappiamo come essa funziona.” (p. 127)

Di fatto, una psicologia evoluzionistica non potrà darsi se non integrando i principi dell’evoluzionismo in una nuova cornice, che prescinda dall’ipotesi che tutte le funzioni del cervello in tanto esistono in quanto sono state selezionate originariamente e approfondisca il nesso tra natura e cultura.

Il saggio di Pinker, apparentemente ortodosso sotto il profilo darwiniano, in realtà non sembra tenere conto della valorizzazione che Darwin ha fatto dell’aspetto più arcaico del cervello: l’istinto sociale.


L'istinto sociale in Darwin

Se si considera che L'origine dell'uomo è stato scritto nel contesto di una cultura che stava gettando le basi dell'individualismo borghese e tendeva a considerare la società come null'altro che la somma di singoli individui, il punto di vista di Darwin sull'istinto sociale risulta del tutto controcorrente.

Nella polemica allora avviata, e che persiste tuttora, sulla discendenza dell’uomo dalla scimmia, questo aspetto è stato in una certa misura oscurato nonostante sia assolutamente esplicito.

Darwin scrive:

“La seguente proposizione mi sembra estremamente probabile; cioè che qualsiasi animale, dotato di istinti sociali ben marcati, compresi quelli verso i genitori e i figli, acquisterebbe inevitabilmente un senso morale o una coscienza, non appena i suoi poteri intellettuali fossero divenuti tanto sviluppati, o quasi altrettanto che nell’uomo.

Infatti, per prima cosa, gli istinti sociali portano un animale a compiacersi della compagnia dei suoi simili, a sentire un certo grado di simpatia per loro, e a compiere per essi vari servizi. I servizi possono essere di natura definita e chiaramente istintiva, o può essere solo il desiderio e la sollecitudine, come avviene nella maggior parte degli animali sociali superiori, di aiutare i propri simili in modo generico. Ma questi sentimenti e compiti non sono affatto estesi a tutti gli individui della stessa specie, ma solo a quelli dello stesso gruppo.
In secondo luogo, appena le facoltà mentali si saranno sviluppate abbastanza notevolmente, immagini di tutte le azioni passate e i loro motivi ritorneranno incessantemente nel cervello di ogni individuo. Nascerà così quel senso di insoddisfazione e anche di tristezza che invariabilmente deriva, come vedremo appresso, da ogni istinto insoddisfatto, ogni volta che gli istinti sociali permanenti e sempre presenti sembreranno essersi arresi a qualche altro istinto, momentaneamente più forte, che però per sua natura non è durevole, né lascia dietro di sé una impressione troppo profonda. E’ chiaro che molti desideri istintivi, come quello della fame, sono nella loro natura di breve durata, e dopo essere stati soddisfatti non costituiscono oggetto di immediato e profondo ricordo.

In terzo luogo, dopo che si è acquisita la facoltà della parola e possono essere espressi i desideri della comunità, l’opinione generale che ciascun membro dovrebbe agire per il bene comune dovrebbe naturalmente guidare in maggior misura l’azione. Ma si dovrebbe tener presente che per quanto peso si possa attribuire all’opinione pubblica, la nostra considerazione per l’approvazione o la disapprovazione dei nostri simili si basa sulla simpatia che, come vedremo, forma una parte essenziale dell’istinto sociale, ed è perciò il suo fondamento.
Infine, l’abitudine dell’individuo giocherebbe in definitiva un ruolo molto importante nel guidare la condotta di ogni membro; infatti l’istinto sociale insieme alla simpatia, è, come ogni altro istinto, molto rafforzato dall’abitudine, e quindi significherebbe obbedienza ai desideri e al giudizio della comunità…”
(p. 124-125)

Il riferimento alla simpatia è mutuato da filosofi inglesi, ma non per questo è meno interessante:

“Adam Smith tempo addietro ha detto, come ha fatto recentemente Bain, che la base della simpatia si trova nella nostra forte memoria di precedenti stati di pena o di piacere. Donde: «la vista di un’altra persona che soffre la fame, il freddo, la fatica, fa rivivere in noi qualche ricordo di tali stati, che sono penosi anche nel pensiero ». Siamo così spinti ad alleviare le sofferenze altrui, in modo da alleviare nello stesso tempo i nostri sentimenti dolorosi. Allo stesso modo siamo portati a partecipare alle gioie altrui.

Ma non riesco a vedere come questa teoria spieghi il fatto che la simpatia sia suscitata a un livello di gran lunga superiore, da una persona amata piuttosto che da una che è indifferente. La semplice vista di una persona che soffre, indipendentemente dall’amore, sarebbe sufficiente a richiamare in noi vividi ricordi e associazioni. La spiegazione può trovarsi nel fatto che, in tutti gli animali, la simpatia è diretta solo verso i membri della stessa comunità e perciò verso membri conosciuti e più o meno benvisti, ma non a tutti gli individui della stessa specie. Ciò non è più sorprendente del fatto che i timori di molti animali sarebbero rivolti contro i nemici particolari. Le specie che non sono sociali, come i leoni e le tigri, senza dubbio provano simpatia per la sofferenza di un loro piccolo, ma non per quella di ogni altro animale.

Nel genere umano, l’egoismo, l’esperienza e l’imitazione probabilmente si aggiungono, come ha dimostrato Bain, alla facoltà della simpatia; infatti noi siamo spinti dalla speranza di essere contraccambiati, nel compiere azioni di simpatia e benevolenza, verso gli altri, e la simpatia viene rafforzata dall’abitudine. Tuttavia, per quanto complessamente questo sentimento possa essersi originato, poiché è di notevole importanza per tutti quegli animali che si aiutano e si difendono reciprocamente, si sarà potenziato con la selezione naturale. Infatti quelle comunità che comprendono il maggior numero di membri legati da simpatia, prospereranno di più e alleveranno il maggior numero di prole.” (p. 132)

Il significato evoluzionistico dell'istinto sociale per Darwin è ovvio:

“Giudicando dalle abitudini dei selvaggi e dal maggior numero dei quadrumani, gli uomini primitivi e anche i loro progenitori somiglianti alle scimmie, probabilmente vissero in società. Negli animali fortemente socievoli, la selezione naturale talora agisce sull’individuo attraverso la conservazione di mutamenti che sono benefici alla comunità. Una comunità che include un largo numero di individui ben dotati cresce di numero ed è vittoriosa su quelle meno favorite, sebbene spesso ogni membro separato non si avvantaggi affatto sugli altri della sua stessa comunità...
Per quanto riguarda gli animali sociali superiori, non mi consta che qualche struttura si sia modificata unicamente per il bene della comunità, sebbene alcune siano di utilità secondaria per essa. Per esempio, le corna dei ruminanti e i grandi canini dei babbuini sembrano essere stati acquisiti dai maschi come armi per le discordie sessuali, ma sono usate in difesa delle mandrie o del gruppo. Riguardo a certe facoltà mentali, il caso è del tutto diverso; infatti queste facoltà si sono ottenute principalmente o quasi esclusivamente per il bene della comunità e nello stesso tempo gli individui ne hanno ottenuto un vantaggio indiretto.”
(p. 89)

La valorizzazione in Darwin dell’istinto sociale implica il problema del conflitto tra il legame empatico che si dà tra gli esseri umani, il suo essere ristretto al gruppo di appartenenza e la pressione dell’egoismo individuale. Si tratta di un problema di enorme portata, che ancora oggi comporta interrogativi di ogni genere.

Se l’istinto sociale ha la potenza che ad esso attribuisce Darwin come è possibile che gli uomini, non solo nel rapporto con gli “estranei”, ma anche all’interno del gruppo di appartenenza e persino nell’ambito dei rapporti privati, agiscono spesso comportamenti asociali o antisociali?

Per porre le premesse al fine di rispondere a questo quesito, e anticipato che una possibile risposta potrà essere formulata solo alla fine dei cicli di lettura, occorre aprire una parentesi sui presupposti ideologici, consci e inconsci, sulla base dei quali gli uomini, compresi gli scienziati, si confrontano con i problemi umani.

 

Adam Smith e Darwin

Uno dei critici più astiosi di Darwin, il Prof. Roberto Fondi, docente all'Istituto di Geologia e Paleontologia dell'Università di Siena, in un articolo apparso sul numero di aprile 1982 del mensile Scienza & Vita, ha scritto riguardo all’elaborazione della teoria della selezione naturale:

“Può stupire di dover constatare che i principali autori utilizzati non furono biologi, ma un sociologo (Robert Malthus), un economista (Adam Smith) e uno statistico (Adolphe Quételet); ma lo stupore svanisce, non appena si riflette che, in definitiva, la teoria dell'evoluzione per selezione naturale altro non è se non un'estensione alla biologia del principio del laissez-faire economico di Adam Smith.

Per Smith, infatti, se si vuole un'economia ordinata e assicuratrice del massimo benessere per tutti, bisogna lasciare che gli individui competano liberamente fra di loro e combattano l'uno contro l'altro per il proprio tornaconto. Il risultato, dopo aver eliminato gli inefficienti e favorito i più efficienti, sarà una politica stabile ed armonica. L'ordine e l'armonia, insomma, sorgerebbero spontaneamente dalla lotta fra gli individui e non discenderebbero da una 'autorità' predestinata o da controlli effettuati dall''alto'.”

C’è del vero in questa affermazione, anche se, come noto, la corrispondenza tra la teoria darwiniana e il sistema sociale in cui essa è stata elaborata risale a Marx.

La verità, però, è più profonda rispetto al riduzionismo operato dal Prof. Fondi.

Darwin scrive in un periodo in cui lo sviluppo del capitalismo si è già ampiamente avviato ed ha raggiunto un apogeo. Il capitalismo inglese di sicuro segue le tracce del modello economico liberale fondato sulla concorrenza illustrato da Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni. Il suo evolvere, però, con il duro sfruttamento operaio e con il colonialismo, nella direzione “selvaggia” analizzata da Marx, ha poco a che vedere con Smith.

Prima di scrivere La ricchezza delle nazioni, che si può ritenere il saggio che ha avviato la scienza economica, Smith aveva già pubblicato La teoria dei sentimenti morali.

Con questo libro, Smith prende posizione in rapporto al conflitto sulla natura umana che, nell’ambito della filosofia inglese, ha visto contrapporsi Hobbes, che nega all’uomo qualsivoglia istinto sociale, e Hume, che non solo glielo attribuisce ma lo caratterizza riconducendolo a naturali sentimenti di simpatia verso le gioie e i dolori degli altri uomini, che poi si precisano, a seconda delle contingenze storiche, in criteri generali di giustizia, di rispetto dei patti e di obbedienza nei confronti delle istituzioni sociali.

Smith sta chiaramente dalla parte di Hume. Seguendo l'approccio basato sui sentimenti, inaugurato per l’appunto da Hume, Adam Smith descrive nel suo saggio dedicato all’etica un sistema morale fondato sul principio di simpatia che comporta l'immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui e che differisce dalla benevolenza e dall'altruismo pur non sostituendosi all'egoismo. In conseguenza della simpatia, le norme sociali non possono che spingere verso modelli di solidarietà e integrazione sociale. Da questo sentimento gli individui deducono regole morali di comportamento. La coscienza morale non è allora un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo.

Il contrasto tra La teoria dei sentimenti morali e La ricchezza delle nazioni è solo apparente. Il principio di simpatia non viene abbandonato da Adam Smith nella redazione della Ricchezza delle nazioni, al contrario questo soggiace allo scambio e al mercato: il produttore produce un bene non per farne dono (benevolenza), ma per venderlo (perseguimento del proprio interesse). Tuttavia, esso - pur mosso dal proprio interesse di vendere il prodotto del suo lavoro - lo produce sulla base del fatto che esso è desiderato e apprezzato, dal cliente.

La Mano invisibile di Smith comporta la concorrenza, ma in un quadro di regole tali per cui essa si trasforma in uno scambio reciprocamente proficuo, dunque in una forma di cooperazione e di solidarietà tra gli individui.

Tenendo conto degli sviluppi del capitalismo, la teoria di Smith può apparire ridicola. E’ ad essa, nel suo significato autentico, morale, che si riconduce Darwin.

Se si può fare un appunto all’autore de L’origine dell’uomo, esso non verte certo sul fatto che, insistendo sull’animalità della specie umana, Darwin azzera i valori morali, bensì piuttosto sul fatto che, non disponendo di strumenti di analisi ideologica, egli mescola, nell’analizzare la condizione umana, un po’ di tutto: le sue convinzioni scientifiche, i suoi punti di vista, i vissuti inconsci sottostanti la sua nevrosi, il senso comune dell’epoca, ecc.

Ciò nondimeno, le sue riflessioni sul conflitto tra l’istinto sociale e i desideri individuali non difettano. di spunti di interesse, al punto tale che non è azzardato parlare di un’etica darwiniana.


L'uomo tra Socialità e Individualità

Il punto di partenza è l’istinto sociale ereditato dagli animali, che comporta una tendenza naturale ad aiutare membri del gruppo cui si appartiene:

“Chiunque ammetterà che l’uomo è un essere sociale. Vediamo ciò nel suo odio per la solitudine e nel suo desiderio per l’inserimento nella società al di là della sua famiglia. La prigionia solitaria è una delle punizioni più severe che si possano infliggere. Alcuni autori suppongono che originariamente l’uomo vivesse in famiglie singole; ma al tempo presente, sebbene singole famiglie o anche due o tre insieme vaghino per i deserti di qualche terra selvaggia, esse, a quanto ne so, stringono sempre rapporti con altre famiglie che abitano negli stessi distretti. Tali famiglie occasionalmente si radunano e si uniscono per la difesa comune.

Non è un’obiezione alla società del selvaggio il fatto che le tribù che abitano in zone adiacenti, siano quasi sempre in guerra le une contro le altre; infatti gli istinti sociali non si estendono mai a tutti gli individui della stessa specie. Giudicando dall’analogia della maggioranza dei quadrumani, è probabile che i primi progenitori dell’uomo, somiglianti a scimmie, fossero ugualmente sociali, ma ciò non è di grande importanza per noi. Sebbene l’uomo, così come esiste ora, abbia pochi istinti particolari, avendone persi alcuni posseduti dai suoi primi progenitori, non vi è ragione per cui egli non possa aver conservato da un periodo estremamente remoto qualche grado di amore istintivo e di simpatia per i suoi simili. In verità noi siamo tutti consapevoli di possedere qualche sentimento di simpatia; ma la nostra coscienza non ci dice se sia istintivo, essendosi originato molto tempo fa allo stesso modo che negli animali inferiori, o se sia stato acquistato da ciascuno di noi durante i primi anni.

Poiché l’uomo è un animale sociale, è quasi certo che egli erediterebbe una tendenza, a essere leale verso i suoi compagni e obbediente al capo della tribù; infatti queste qualità sono comuni alla maggior parte degli animali sociali. Di conseguenza avrebbe anche qualche capacità di autocontrollo. Per tendenza ereditaria sarebbe pronto a difendere, insieme con gli altri, i suoi consimili, e sarebbe pronto ad aiutarli in ogni modo che non interferisse troppo con il suo benessere e i suoi desideri più forti.

Gli animali sociali che si trovano al fondo della scala zoologica sono guidati quasi esclusivamente, e quelli che si trovano alla sommità lo sono ampiamente, da particolari istinti nel dare aiuto ai membri della stessa comunità; ma nello stesso tempo sono, in parte, spinti da reciproca simpatia e amore, assistita apparentemente da una certa quantità di ragione. Sebbene l’uomo, come è stato appena osservato, non abbia istinti particolari che gli indichino come aiutare i suoi simili, egli ne ha tuttavia l’impulso, e, con le sue facoltà intellettuali migliori, sarebbe naturalmente guidato, per questo aspetto, dalla ragione e dall’esperienza. La simpatia istintiva lo porterebbe anche a valutare molto l’approvazione dei suoi compagni; infatti, come Bain ha chiarito, l’amore per la lode e il forte senso di gloria, e di più l’orrore per lo scorno e per l’infamia « dovuti ai processi simpatetici». Di conseguenza l’uomo sarebbe influenzato al massimo grado dai desideri,
dall’approvazione, e dal biasimo dei suoi simili, così come sono espressi dai gesti e dalla parola.

Così gli istinti sociali, che debbono essere stati acquisiti dall’uomo in una fase molto rozza e probabilmente anche dai suoi progenitori simili alle scimmie, danno ancora l’impulso a qualcuna delle sue azioni migliori; ma le sue azioni sono determinate in grado maggiore dai desideri espressi e dal giudizio dei suoi simili e sfortunatamente molto spesso dai suoi forti desideri personali. Ma, poiché l’amore, la simpatia e l’autocontrollo vengono rafforzati dall’abitudine e poiché il potere della ragione si fa più evidente, così che l’uomo sia in grado di valutare adeguatamente il giudizio dei suoi compagni, si sentirà spinto a certe linee di condotta, a prescindere da qualsiasi piacere o pena transitoria.” (p. 134-135)

L’istinto sociale, per quanto potente, deve fare i conti con le pulsioni individuali, ma Darwin pensa che esso sia destinato a prevalere sulla base del bisogno reciproco di aiuto e sulla necessità di sentirsi confermati dal gruppo cui si appartiene:

“Perché un uomo dovrebbe sentire che egli deve obbedire a un desiderio istintivo, piuttosto che a un altro? Perché si rammarica amaramente, se è stato spinto da un violento senso di autoconservazione e non ha rischiato la vita per salvare quella di un suo simile? E perché si duole di aver rubato cibo per fame?

E’ evidente in primo luogo che nel genere umano gli impulsi istintivi hanno diversi gradi di forza; un selvaggio rischierà la propria vita per salvare quella di un membro della stessa comunità, ma sarà del tutto indifferente verso uno straniero; una giovane e timida madre, spinta dall’istinto materno, correrà, senza un momento di esitazione il maggior pericolo per il proprio bambino, ma non altrettanto per un semplice suo simile. Nondimeno, come molti uomini civili, anche un ragazzo, che prima non aveva mai rischiato la sua vita per un altro, pieno di coraggio e simpatia, ha ignorato l’istinto di conservazione, si è gettato immediatamente in un torrente per salvare un uomo che affogava, sebbene estraneo. In questo caso l’uomo è spinto dal medesimo motivo istintivo che spinse la piccola ed eroica scimmia americana, descritta prima, a salvare il suo guardiano, attaccando il grosso e spaventoso babbuino. Tali azioni, come le precedenti, sembrano essere il semplice risultato della forza degli istinti sociali o materni, maggiori di qualsiasi altro istinto o movente. Infatti si compiono troppo rapidamente per esser dovuti a riflessione o a piacere e dolore; tuttavia, se impediti da qualche causa, si proverebbe dispiacere o anche angoscia. In un uomo vile, d’altra parte, l’istinto di conservazione potrebbe essere così forte, da renderlo incapace di sottoporsi a rischio, forse neanche per suo figlio.

So che alcune persone sostengono che le azioni compiute impulsivamente, come nei casi precedenti, non cadono sotto il dominio del senso morale e non possono quindi essere chiamate morali. Esse riservano questo termine per le azioni compiute deliberatamente, dopo una vittoria su desideri contrastanti, o quando sono suggerite da qualche motivo elevato. Ma sembra poco probabile tracciare qualche linea chiara di distinzione di questo genere. Per quanto può concernere i motivi elevati, sono stati ricordati molti esempi di selvaggi, privi di qualsiasi sentimento di benevolenza generale verso il genere umano e non guidati da alcun motivo religioso, che hanno deliberatamente sacrificato la loro vita da prigionieri, piuttosto che tradire i loro compagni: sicuramente la loro condotta si potrebbe considerare morale. Per quanto riguarda la deliberazione e la vittoria su motivi contrastanti, si possono vedere gli animali in dubbio su istinti opposti, nel soccorrere la prole o i compagni; tuttavia le loro azioni, sebbene fatte per il bene altrui, non sono chiamate morali. Inoltre, un’azione compiuta ripetutamente da noi, alla fine sarà fatta senza deliberazione o esitazione e difficilmente si potrà distinguere da un istinto; tuttavia di sicuro nessuno pretenderà che tale azione cessi di essere morale. Al contrario, tutti noi sentiamo che un’azione non si può considerare perfetta, o compiuta nel modo più nobile, se non lo è impulsivamente, senza decisione o sforzo, come se fosse compiuta da un uomo in cui le qualità richieste siano innate. Colui che è spinto a superare il suo timore o il suo bisogno di simpatia prima di agire, merita tuttavia più credito di colui che un’innata disposizione spinge ad agire giustamente senza sforzo. Poiché non possiamo distinguere tra i motivi, classifichiamo tutte le azioni di una certa classe come morali, se compiute da un essere morale. Un essere morale è colui che è in grado di paragonare le sue azioni e i motivi passati e futuri, e di approvarli o disapprovarli. Non abbiamo motivo di supporre che qualche animale inferiore abbia questa capacità; perciò quando un cane terranova salva un bambino dalle acque, o una scimmia affronta il pericolo per salvare una compagna o si prende cura di una scimmia orfana, non chiamiamo morale la sua condotta. Ma nel caso dell’uomo, che solo può essere classificato con certezza un essere morale, azioni di un certo tipo sono chiamate morali, se compiute deliberatamente, dopo una lotta con motivi contrastanti o impulsivamente attraverso l’istinto o per effetto di un’abitudine acquisita lentamente.

Ma torniamo al nostro argomento più immediato. Sebbene alcuni istinti siano più forti di altri e conducano così alle azioni corrispondenti, è tuttavia insostenibile che nell’uomo gli istinti sociali (compreso l’amore per la lode e il timore del biasimo) abbiano o abbiano acquisito attraverso un lungo uso una forza maggiore di quella degli istinti di conservazione, di fame, lussuria, vendetta, ecc. Perché allora l’uomo rimpiange, anche cercando di allontanare questo rimpianto, di aver seguito un impulso naturale piuttosto che un altro, e perché sente che potrebbe biasimare la sua condotta? L’uomo, per questo aspetto, differisce profondamente dagli animali inferiori. Nondimeno possiamo, penso, vedere con una certa chiarezza la ragione di questa differenza.

L’uomo per l’attività delle sue facoltà mentali, non può evitare la riflessione; le impressioni e le immagini passate scorrono incessantemente e chiaramente davanti alla sua mente. Ora in quegli animali che vivono permanentemente in gruppo, gli istinti sociali sono sempre presenti e persistenti. Tali animali sono sempre pronti a lanciare segnali di pericolo, a difendere la comunità e a portare aiuto ai compagni, secondo le loro abitudini; sentono sempre, senza lo stimolo di nessuna passione particolare o desiderio, qualche grado di amore o simpatia per essi; sono infelici se ne sono separati a lungo e sempre felici di essere di nuovo in loro compagnia. Così anche per noi. Anche quando siamo del tutto soli, quanto spesso dobbiamo pensare con piacere o dispiacere a ciò che gli altri pensano di noi, alla loro supposta approvazione o disapprovazione! E tutto ciò viene dalla simpatia, elemento fondamentale degli istinti sociali. Un uomo che non possedesse traccia di tali istinti sarebbe un mostro innaturale.

D’altra parte il desiderio di soddisfare la fame, o qualsiasi passione, come la vendetta, è per sua natura, temporaneo e può essere soddisfatto per un certo tempo. Né è facile, anzi forse a stento possibile, evocare con completa chiarezza il senso, per esempio, della fame, né in verità, come è stato spesso osservato, di qualsiasi sofferenza. L’istinto di conservazione non si sente che di fronte al pericolo; molti vigliacchi si sono considerati coraggiosi fino a che non si sono incontrati faccia a faccia con il nemico. Il desiderio per la proprietà di un altro è forse il desiderio più persistente che possiamo nominare, ma anche in questo caso la soddisfazione del possesso attuale è generalmente un sentimento più debole del desiderio stesso: molti ladri, a meno che non si tratti di uno abituale, si sono meravigliati per aver rubato un qualche oggetto.

Un uomo non può evitare che le impressioni passate scorrano spesso attraverso la sua mente; egli sarà così portato a fare un paragone tra le impressioni della fame passata, di una vendetta soddisfatta e di un pericolo evitato a spese di un altro uomo, con l’istinto, quasi sempre presente, di simpatia, e con la sua precedente conoscenza di ciò che gli altri considerano lodevole o biasimevole. Questa conoscenza non può essere bandita dalla sua mente, e per istintiva simpatia è stimata di grande valore. Egli sentirà allora di essere stato ostacolato nel seguire un istinto o un’abitudine presente, e ciò in tutti gli animali causerà soddisfazione o anche infelicità…

Al momento dell’azione, l’uomo non esiterà a seguire l’impulso più forte; e sebbene ciò possa occasionalmente suggerirgli le più nobili imprese, più comunemente lo porterà a soddisfare i suoi desideri a spese di altri uomini. Ma dopo la loro soddisfazione, quando le impressioni passate e più deboli sono giudicate dagli istinti sociali perduranti e dalla profonda considerazione per la buona opinione dei suoi compagni, sicuramente verrà il ripensamento. Egli allora proverà rimorso, pentimento, dolore o vergogna, il quale ultimo sentimento tuttavia si riferisce quasi esclusivamente al giudizio degli altri. Allora deciderà di agire differentemente per il futuro più o meno fermamente: questa è la coscienza. Infatti la coscienza guarda dietro e serve da guida per il futuro.
La natura e la forza dei sentimenti che chiamiamo rammarico, vergogna, pentimento o rimorso, dipende apparentemente non solo dalla forza dell’istinto violato, ma parzialmente dalla forza della tentazione e spesso ancora più dal giudizio dei nostri simili. Fino a che punto ogni uomo valuti il giudizio degli altri, dipende dalla forza del suo senso di simpatia, innato o acquisito, e dalla sua capacità di giudizio al di fuori delle conseguenze remote dei suoi atti.”
(p. 134-139)

"Un uomo spinto dalla propria coscienza, acquisterà, attraverso una lunga abitudine, un tale perfetto autocontrollo che i suoi desideri e le sue passioni alla fine cederanno immediatamente e senza lotta alla simpatia e agli istinti sociali, che comprendono la considerazione per il giudizio dei propri simili.” (p. 141)

“E’ ovvio che chiunque può con facile coscienza appagare i propri desideri, se non interferiscono con gli istinti sociali e con il bene degli altri; ma per essere del tutto libero dall’autorimprovero, o anche dall’ansietà, è quasi necessario per lui evitare la disapprovazione, ragionevole o meno dei suoi simili. Né deve rompere con le abitudini fissate della propria vita, specialmente se queste sono sorrette dalla ragione poiché, se lo facesse, proverebbe sicuramente insoddisfazione. Deve egualmente evitare la disapprovazione di un Dio o di divinità in cui, secondo la sua conoscenza o superstizione, può credere; ma in questo caso spesso sopravviene in più la paura della punizione divina." (p. 142)

La pressione operata dal gruppo sull’individuo potenzia l’istinto sociale e lo guida ad assumere una configurazione morale. Questa stessa pressione, peraltro, può avere anche conseguenze negative:

“I desideri e le opinioni dei membri della stessa comunità, all’inizio espressi oralmente, ma più tardi anche per iscritto, formano entrambi la sola guida alla nostra condotta, o rinforzano grandemente gli istinti sociali; tali opinioni tuttavia, talora, hanno una tendenza direttamente opposta a questi istinti. Quest’ultimo fatto è chiarito bene dalla legge d’onore, è la legge dell’opinione dei nostri pari, e non di tutti i nostri concittadini. La violazione di questa legge, anche quando si sa che essa si accorda strettamente con la vera moralità, ha causato a molti uomini più angoscia di un crimine reale. Riconosciamo la stessa influenza nel bruciante senso di vergogna che moltissimi di noi hanno provato, anche dopo un intervallo di anni, ricordandosi di qualche accidentale rottura di una leggera, sebbene rigida regola di etichetta. Il giudizio della comunità generalmente sarà guidato dalla stessa specie di esperienza di ciò che è meglio a lungo andare per tutti i membri; ma questo giudizio non di rado sbaglierà per l’ignoranza e la debole capacità di ragionare. Perciò i costumi e le superstizioni più strane, in completa opposizione al vero benessere e alla felicità del genere umano, sono divenuti assai potenti nel mondo.” (p. 146)

“Non sappiamo come tante assurde regole di condotta e tante assurde credenze religiose si siano originate, né come si siano così profondamente impresse, in tutte le parti del mondo nella mente degli uomini; ma è degno di nota che una credenza costantemente inculcata, durante i primi anni di vita, mentre il cervello è ricettivo, sembra acquistare quasi la natura di un istinto, e la vera essenza di un istinto è che è seguito quasi indipendentemente dalla ragione. Neppure possiamo dire perché certe ammirevoli virtù, come l’amore per la verità, siano molto più apprezzate da alcune tribù selvagge piuttosto che da altre, né perché simili differenze prevalgano anche tra nazioni altamente civilizzate. Sapendo come molti strani costumi e superstizioni si siano fortemente radicati, non è il caso di sorprenderci del fatto che le virtù che ci riguardano, sostenute come sono dalla ragione, ci appaiano tanto naturali da essere considerate innate, sebbene non siano state prese in considerazione dall’uomo nella sua condizione primitiva...

Col progredire dell’uomo verso la civiltà e l’unificarsi delle tribù in comunità più ampie, la più semplice ragione dovrebbe dire a ciascun individuo che egli dovrebbe estendere i suoi istinti sociali e le simpatie a tutti i membri della stessa nazione, anche se a lui personalmente ignoti. Raggiunto questo punto, vi è solo una barriera artificiale che gli impedisce di estendere le sue simpatie agli uomini di tutte le nazioni e razze! Se infatti tali uomini sono separati da lui da grandi differenze nell’aspetto o nelle abitudini, l’esperienza, disgraziatamente, ci mostra quanto ci vuole prima che egli li consideri come suoi simili. La simpatia oltre i confini umani, cioè l’umanità verso gli animali inferiori, sembra che sia una delle ultime acquisizioni morali.” (p. 147-148)
Sulla base dell’istinto sociale, Darwin ha pochi dubbi che l’effetto delle potenzialità cognitive e della cultura sia quello di assicurare un continuo progresso morale:

“Gli istinti sociali che senza dubbio furono acquisiti dall’uomo, come dagli animali inferiori, per il bene della comunità, per prima cosa gli avranno dato un qualche desiderio di aiutare i suoi simili, qualche sentimento di simpatia, e lo avranno spinto a considerare la loro approvazione o disapprovazione. Questi impulsi gli saranno serviti in un primissimo periodo come una rozza regola di giusto e di erroneo. Ma quando l’uomo gradualmente progredì in forma intellettiva, e fu in grado di prevedere le più lontane conseguenze delle sue azioni, quando acquistò conoscenza sufficiente da respingere costumi nocivi e superstizioni, quando considerò sempre di più, non solo il benessere, ma anche la felicità dei suoi simili, quando per abitudine, seguendo l’esperienza benefica, l’educazione e l’esempio, le sue simpatie divennero più dolci e ampiamente diffuse, estendendosi a uomini di tutte le razze, agli idioti, ai mutilati e a tutti gli altri membri inutili della società, e finalmente agli animali inferiori — allora il modello della sua moralità venne salendo sempre più in alto.” (p. 149)

“Perché l’uomo primitivo o i progenitori dell’uomo simili a scimmie possano diventare sociali, debbono aver acquistato le stesse sensazioni istintive che costringono gli altri animali a vivere in gruppo e senza dubbio hanno rivelato la stessa disposizione generale. Avrebbero dovuto sentirsi inquieti se separati dai loro simili, per i quali avrebbero dovuto nutrire un certo affetto, avrebbero dovuto avvertirsi reciprocamente del pericolo, fornirsi reciproco aiuto nell’attacco e nella difesa. Tutto ciò implica una certa simpatia, fedeltà e coraggio. Tali qualità sociali, la cui altissima importanza per gli animali inferiori non è messa in discussione da nessuno, senza dubbio è stata acquisita dai progenitori dell’uomo in modo simile, cioè tramite la selezione naturale, agevolata dalle abitudini ereditarie. Quando due tribù di uomini primitivi della stessa regione entra vano in lotta, se (a parità di circostanze) una comprendeva un gran numero di membri coraggiosi, legati da simpatia, fedeli, sempre pronti ad avvertirsi reciprocamente del pericolo e a prestarsi reciproco aiuto e difesa, avrebbe avuto più successo e avrebbe soggiogato l’altra. Si ricordi quanto debbano essere importanti nelle ininterrotte guerre di selvaggi, la fedeltà e il coraggio. Il vantaggio che truppe disciplinate hanno sulle orde indisciplinate deriva principalmente dalla fiducia che ciascun uomo ripone nei suoi compagni. L’obbedienza, come ha dimostrato ottimamente Bagehot, è del massimo valore in quanto una forma qualsiasi di governo è sempre meglio che nessuna. Persone egoiste e attaccabrighe non possono essere tenute insieme e, senza coesione, non si può portare nulla a compimento. Una tribù che eccella nelle sopraddette qualità può espandersi e riuscire vittoriosa sulle altre: ma nel corso del tempo potrebbe, a giudicare dalla storia passata, essere a sua volta sconfitta da altre tribù ancor più altamente dotate. Così le qualità sociali e morali potrebbero tendere lentamente ad avanzare e a diffondersi per il mondo.

Ma è lecito chiedersi come avvenga che, entro i limiti della propria tribù, un gran numero di membri acquisisca per primo queste qualità morali e sociali e come si formi uno standard di eccellenza. E’ estremamente incerto se i discendenti dei più legati e affettuosi genitori o di quelli più fedeli ai loro compagni, possano essere allevati in numero maggiore dei figli di genitori egoisti e sleali, appartenenti alla stessa tribù. Colui che è pronto a sacrificare la propria vita, come lo sono stati molti selvaggi, piuttosto che tradire i propri compagni potrebbe spesso non lasciare discendenti che ereditino la sua nobile natura. Gli uomini più coraggiosi, che in guerra sono sempre disposti ad andare in prima linea, e che liberamente rischiano la loro vita per gli altri, potrebbero in media morire in più largo numero degli altri. Perciò è poco probabile che il numero degli animali dotati di tali qualità o il livello della loro eccellenza, possa essere incrementato attraverso la selezione naturale, cioè attraverso la sopravvivenza dei più adatti; infatti qui non parliamo di una tribù che sia vittoriosa su un’altra.


Sebbene le circostanze, che portano ad un incremento di numero di quelli così dotati all’interno della stessa tribù, siano troppo complesse per essere chiaramente definite, tuttavia possiamo tracciare alcune delle probabili tappe. In primo luogo, mentre le facoltà di ragionamento e di previsione dei membri si perfezionavano, ciascuno doveva imparare rapidamente che, aiutando un suo compagno, ne avrebbe generalmente ricevuto aiuto in cambio. Da questo movente meschino egli poteva acquistare l’abitudine di aiutare i suoi simili; e l’abitudine di compiere azioni generose certamente fortifica il senso di simpatia che dà il primo impulso alle azioni generose. Inoltre, le abitudini seguite per più generazioni probabilmente tendono ad essere ereditarie.

Ma un altro e più potente stimolo allo sviluppo delle virtù sociali, è offerto dalla lode e dal biasimo dei nostri simili. All’istinto di simpatia, come abbiamo già visto, è dovuto in primo luogo il fatto che noi abitualmente concediamo sia lode che biasimo agli altri, mentre amiamo l’una e odiamo l’altro se riferiti a noi. Questo istinto, senza dubbio, fu acquisito in origine, come tutti gli altri istinti sociali, attraverso la selezione naturale. In quale remoto periodo i progenitori dell’uomo, nel corso del loro sviluppo, siano divenuti capaci di sentire e siano stati stimolati dalla lode o dal biasimo dei loro simili, non possiamo certamente dirlo…

Possiamo quindi concludere che l’uomo primitivo, in un periodo assai lontano, era influenzato dalla lode e dal biasimo dei suoi simili. E’ naturale che i membri della stessa tribù approveranno della condotta ciò che sembra loro riguardare l’interesse generale e rifiuteranno ciò che sembra dannoso. Fare del bene agli altri — fare agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te — è la pietra angolare della moralità. Difficilmente quindi si può esagerare nell’attribuire importanza al desiderio di lode e al terrore del biasimo nei riguardi dei primitivi. Un uomo che non fosse spinto da qualche profondo istintivo sentimento, a sacrificare la sua vita per il bene degli altri, e tuttavia fosse stato spinto a tali azioni dal senso della gloria, avrebbe, con il suo esempio, stimolato lo stesso desiderio di gloria in altri uomini ed avrebbe rinsaldato con l’esercizio il nobile sentimento dell’ammirazione. In tal modo egli probabilmente avrebbe fatto molto più bene alla sua tribù che non generando figli con una tendenza a ereditare il suo nobile carattere.

Con l’incremento dell’esperienza e della ragione, l’uomo percepisce le più remote conseguenze delle sue azioni, mentre le virtù riguardanti se stesso, come la temperanza, la castità, ecc., che durante i primi periodi sono, come abbiamo visto prima, del tutto ignorate, giungono a essere fortemente stimate o anche stimate sacre. Non c’è bisogno tuttavia di ripetere ciò che ho detto su questo argomento nel quarto capitolo. Infine il nostro senso morale o coscienza diviene un elevato e complesso sentimento, che ha origine negli istinti sociali, largamente guidati dall’approvazione dei nostri simili, regolato dalla ragione, dall’interesse di sé e, in tempi più recenti, da profondi sentimenti religiosi, e confermato dall’educazione e dall’abitudine.” (p. 155-158)


    Si può facilmente intravedere in molte di queste affermazioni una miscela di intuizioni sottili, di deduzioni legittime e di luoghi comuni. Darwin ha maggior ragione di quanto oggi gliene viene attribuita nel sottolineare l'influenza sulla mente umana del gruppo sociale di appartenenza e del suo bisogno di essere riconosciuto e confermato dagli altri. E' a partire da questo bisogno che ogni società fa valere i suoi codici normativi e orienta “naturalmente” i soggetti che ad essa appartengono verso l'omologazione.

Che però il progresso culturale coincida inesorabilmente con un'estensione universale dell'istinto sociale, tal che l'uomo evoluto supera le barriere etniche, linguistiche e culturali, e giunge a riconoscere tutti i suoi simili come dotati della stessa natura e degli stessi diritti non sembra solo un'astrazione utopistica, ma un'affermazione del tutto contrastante con la società in cui Darwin vive.

All'epoca, l'Inghilterra è sicuramente la nazione più evoluta e ricca del mondo. Ma, intanto, al suo interno, lo sviluppo industriale ha lacerato il corpo sociale producendo masse sterminate di proletari che, ammassati nei suburbi urbani, vivono in condizioni disumane senza che questo susciti la minima “simpatia” nei ricchi. In secondo luogo, essa si è avviata a colonizzare una vastissima parte del mondo sulla base di un regime di sfruttamento e di oppressione giustificato dal fatto che se i nativi non sono in grado di valorizzare le risorse di cui dispongono, è perché di fatto si tratta di esseri umani inferiori.

Da ultimo, il modello dell'uomo civilizzato e morale di Darwin sembra un po' troppo schiacciato sullo stereotipo del tipico Borghese inglese di stampo vittoriano dissociato tra il culto dei valori tradizionali e un ipercontrollo emozionale che può giungere ad una sorta di insensibilità sociale, molto meno nobile di quella che Darwin attribuisce a se stesso nell'Autobiografia.

Rimane il fatto che il “materialismo” di Darwin è tutt’altro che volgare e privo di spessore morale. Nell’ottica evoluzionistica la moralità, per quanto interferita dall’interesse privato, è una conseguenza della socialità, della consapevolezza di un destino comune e della pietas che l’uomo prova per la sua e l’altrui condizione precaria e vulnerabile.

Detto questo, occorre riconoscere che, nonostante l'impegno posto da Darwin nel minimizzare le differenze psichiche tra l'uomo e gli altri animali, il compito che egli si è prefisso non si può ritenere raggiunto. La continuità dell’uomo con gli animali è indubbia per quanto concerne la sua organizzazione biologica. Le facoltà mentali umane, però, sia per quanto riguarda le capacità cognitive che il corredo emozionale, segnalano viceversa una discontinuità irriducibile al gradualismo evoluzionistico.

Tale discontinuità, peraltro, è confermata ormai anche dalla paleoantropologia, della quale parleremo approfonditamente nel prossimo incontro. Occorre, però, almeno fare un accenno al quadro generale che da essa affiora.


Gradualismo e singolarità


    Anche se si danno ancora molte lacune e molte incertezze, i fossili paleantropologici hanno in gran parte fornito dati di estremo interesse sull’evoluzione della famiglia ominide.
Il problema è che, di consueto, i dati vengono rappresentati per suggerire una transizione graduale e lineare da una specie all’altra.
Si osservino queste due figure:

 




La prima rappresenta l'aumento delle dimensioni cerebrali negli ominidi nel corso dell'evoluzione. La curva, inizialmente piatta, sembra indicare negli ultimi due milioni di anni un ampliamento costante del cervello negli ominidi; la seconda, invece, l’evoluzione della specie ominide.
E’ evidente che le figure si accordano con il gradualismo darwiniano ma non con il creazionismo: pur perseguendo un progetto lineare culminato nella creazione dell'uomo, che rappresenta l'ultima tappa, Dio avrebbe avuto troppo numerose incertezze.
Il problema però è che le cose non sono andate così. Si osservi quest’altra figura:

 


 

Essa rappresenta i rapporti filogenetici all'interno della famiglia ominide disposti secondo un asse temporale verticale. Ogni linea continua evidenzia una sequenza stratigrafica. Lo schema, che ha la forma di un cespuglio, mostra che di regola diverse specie di ominidi hanno convissuto in un dato periodo di tempo L'homo sapiens, dunque, unico ominide esistente sulla faccia della terra da alcune decine di migliaia di anni, non è la regola, ma un'eccezione straordinaria.

Paradossalmente, questa eccezionalità è poco compatibile sia con il creazionismo che con il gradualismo darwiniano.

Come la si può ricondurre entro un’ottica naturalistica? Una possibile risposta è affidata alla prossima lettura.