Quando l'Homo sapiens sapiens (dotato di un cervello biologicamente identico al nostro) compare, come ultimo arrivato, sul Pianeta (circa 150-100mila anni fa), si trova immerso in una realtà caratterizzata da un'estrema varietà di forme viventi vegetali e animali, ciascuna delle quali, nonostante la diversità tra individui, sembra fissa e immutabile. Su questa base non c'è da sorprendersi che, non appena acquisisce una capacità cognitiva, l'uomo avverte il bisogno di mettere ordine nel caos classificando tutte queste forme. E' ancora oggi motivo di sorpresa constatare che tali classificazioni, nella misura in cui sono reperibili ancora oggi presso le popolazioni primitive, coincidono per molti aspetti con quelle prodotte dalla botanica e dalla zoologia.
Indubbiamente, lo sforzo di classificare e di distinguere le specie corrisponde originariamente ad esigenze concrete, per esempio identificare cibi commestibili e non commestibili, cibi salutari e cibi potenzialmente tossici. Giustamente, però, Lévi-Strauss rileva che le esigenze concrete non bastano a spiegare la “mania” della classificazione, che sembra un tratto distintivo del rapporto della mente umana con il mondo: un tentativo di mettere ordine nel caos.
Se questa “mania” è comune a tutta l'umanità, è pur vero che osservare, distinguere, classificare ciò che esiste non significa spiegarne le origini. Mettere ordine nel caos, implica anche dare un senso a ciò che si classifica. Tentativi di spiegazione dell'origine del mondo, degli animali e dell'uomo si trovano in tutte le culture note. Pur nella loro diversità, essi sembrano riconducibili a due principi: l'intervento di una “forza” creatrice e l' “eccezionalità” dell'uomo, che rappresenterebbe il vertice della piramide della vita.
Nella Bibbia si trova l'espressione più famosa di questi due principi in una versione originale per cui la “forza” in questione è un Dio unico, personale, onnipotente e distinto dal mondo, il quale crea un'indefinita quantità di specie fisse e immutabili e la conclude con la creazione di un essere fatto a sua immagine e somiglianza. Dato che l'estrema varietà delle specie e la loro immutabilità coincide con ciò che appare ad occhio nudo alle generazioni degli esseri umani che si succedono, non c'è da sorprendersi che questa “gabbia ideologica” abbia irretito per secoli l'umanità (come, fino a Galilei, il sistema geocentrico).
Con la nascita della botanica e della zoologia, questa “gabbia” riceve una sorta di consacrazione scientifica con Linneo e Cuvier.
Carlo Linneo (1707–1778), un naturalista svedese, pubblica nel 1735 un'opera (Il sistema della natura) nel quale delinea il suo metodo di classificazione, che riconosce specie, generi, famiglie, ordini, classi, phyla e regni.
Fervidamente religioso, Linneo crede che studiando ciò che Dio ha creato sia possibile comprenderne la saggezza. A suo parere lo studio della natura rivelerebbe l'ordine divino della creazione di Dio: un ordine fisso e immutabile. Il principio “filosofico” che governa l’opera di Linneo è il seguente: “numeriamo tante specie quante in principio furono create dall’Ente infinito”.
Il sistema della natura è, dunque, l’espressione dei modelli o tipi ideali originariamente presenti nella mente di Dio.
La classificazione di Linneo si basa sul sistema binomiale che identifica ogni specie sulla base del nome del genere cui la specie appartiene (scritto in maiuscolo) e di un altro nome (scritto in minuscolo) che caratterizza e distingue quella specie dalle altre appartenenti al quel genere.
In questa ottica, per esempio, l’uomo appartiene alla specie Homo sapiens, al genere homo, alla famiglia degli ominidi, all'ordine dei Primati, alla classe dei Mammiferi, al phylum dei Cordati e al regno degli Animali.
George Cuvier (1769-1832), anatomista e zoologo, riconducendosi a Linneo, del quale condivide l’impostazione filosofico-teologica pubblica tra il 1815 e il 1817 un'opera (Il regno animale classificato secondo la sua organizzazione), nella quale esplicitamente contesta le ipotesi evoluzionistiche che stanno affiorando e, per conciliare la visione tradizionale, fissista con la realtà di fossili diversi dalle forme viventi attuali, elabora l'ipotesi del catastrofismo, secondo la quale, posta la creazione divina, catastrofi naturali, quali inondazioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, ecc. avrebbero periodicamente distrutto gli esseri viventi di una regione che sarebbe stata poi ripopolata dalle specie provenienti dalle aree geografiche circostanti.
Il prestigio di Cuvier sembra porre fine al dibattito sull'origine delle specie. In particolare, Cuvier critica in maniera aspra J.-B. Lamarck, il quale ha pubblicato nel 1809 un libro (Philosophie zoologique) nel quale sostiene esplicitamente che le specie sono il risultato di un processo graduale di trasformazione che avviene sulla base di due fattori - una tendenza alla perfezione, intrinseca alla vita, e la pressione esercitata sugli organismi dai fattori ambientali – e di un meccanismo ereditario in virtù del quale gli adattamenti intervenuti nei genitori si trasmettono direttamente ai discendenti.
Nonostante l'ingegnosità di Lamarck, la sua teoria evoluzionistica ha molti punti deboli. Basta pensare al suo esempio più famoso, quello secondo il quale la giraffa si sarebbe originata da un antilope in conseguenza dello sforzo di arrivare a cibarsi delle foglie degli alberi, che avrebbe prodotto l'allungamento del collo e delle zampe. Cuvier ha buon gioco nel rilevare che l'ipotesi lamarckiana non è in grado di spiegare la trasformazione della pelle dell'antilope, che è uniforme, in quella maculata della giraffa.
Non è superfluo rilevare che il lamarckismo è stato di recente recuperato nell'ottica dell'evoluzionismo come adeguato a spiegare non già l'evoluzione naturale, ma quella culturale. I tempi delle trasformazioni genetiche che producono la speciazione, di fatto, sono straordinariamente lunghi; le “idee” invece si trasmettono rapidamente a livello sociologico e da una generazione all'altra.
R. Dawkins, ne Il gene egoista (Mondadori, Milano ), riprende esplicitamente il pensiero di Lamarck avanzando l'ipotesi dei memi – idee o complessi di idee che hanno la stessa capacità dei geni di trasmettersi di generazione in generazione per via, però, dell'apprendimento.
All’epoca di Darwin, dunque, il fissismo, vale a dire il riferimento a specie vegetali e animali immutabili in quanto create da Dio, è un paradigma ritenuto incontestabile. Esso, tra l’altro, coincide con le apparenze superficiali con cui la natura si offre all'occhio umano.
Lo sguardo di Darwin è particolarmente penetrante in quanto in grado di leggere nel presente gli indizi del passato, dell'evoluzione storica della vita, ma, come accennato, esso deve fare i conti sia con l'ideologia corrente fissista sia con la visione personale del mondo di Darwin – ispirata al liberalesimo – che rifiuta le discontinuità, i salti evoluzionistici, le “rivoluzioni.
Questi due fattori spiegano il valore quasi assoluto che egli accorda, nella prima edizione de L'origine delle specie, al principio della selezione naturale, le cui conseguenze sono il gradualismo e il funzionalismo. Secondo il gradualismo, l'evoluzione naturale avviene in virtù di impercettibili cambiamenti morfologici che riguardano gli individui all'interno di una specie, i quali promuovono la varietà e, ad un certo punto, la nascita di nuove specie. Il funzionalismo è una conseguenza del gradualismo. Le strutture organiche di un organismo, infatti, sono selezionate sulla base della loro utilità, vale a dire della loro funzionalità adattiva.
L'evoluzione degli esseri viventi basata sulla selezione giunge , dunque, ad attribuire ad essi la stessa perfezione implicita nel fissismo creazionista.
Darwin è consapevole dei limiti della ipotesi della selezione naturale. Nell'ultima edizione de L'origine delle specie (1872), egli scrive:
“Poiché le mie conclusioni sono state recentemente travisate, e si è detto che io attribuisco la modi-ficazione delle specie esclusivamente alla selezione naturale, mi permetto di sottolineare che nella prima edizione di questo lavoro, e anche successivamente, ho collocato in una posizione preminente – cioè alla fine dell'Introduzione – le seguenti parole: «Sono convinto che la selezione naturale sia stato il principale, ma non esclusivo, mezzo di modificazione». Ciò non è stato di alcuna utilità. La portata del costante fraintendimento è ancora grande.”
Ne L’origine dell’uomo (1871), c’è poi un brano che fornisce la prova del fatto che Darwin, pur non riuscendo a superare il presupposto gradualistico, che ritiene essenziale per l’ipotesi della selezione naturale, è consapevole dei problemi che esso comporta:
“Si può sicuramente dare un’ampia se pure indefinita estensione ai risultati diretti e indiretti della selezione naturale; ma ora ammetto, [...], che nella prima edizione del mio Origine delle specie forse ho dato eccessiva importanza all’azione della selezione naturale o alla sopravvivenza dei più adatti. Ho mutato la quinta edizione dell’Origine in modo da limitare le mie osservazioni a quei mutamenti di struttura passibili di adattamento, ma sono convinto, in base alle conoscenze raggiunte negli ultimi pochi anni, che di moltissime strutture, che ora ci appaiono inutili, si potrà dimostrare appresso l’utilità e quindi rientreranno nell’ambito della selezione naturale. Nondimeno precedentemente non ho considerato a sufficienza l’esistenza di quelle strutture che, per quanto possiamo giudicare al momento, non sono né benefiche né dannose; credo che questo sia uno dei maggiori errori, tuttora evidenti, nella mia opera.
Mi si deve permettere di dire, come scusa, che avevo in mente due argomenti distinti; il primo che le specie non sono state create separatamente, il secondo che la selezione naturale è stato l’agente principale dei mutamenti, anche se largamente aiutato dagli effetti ereditari delle abitudini e chiaramente dall’azione diretta delle condizioni ambientali. Non sono stato tuttavia capace di annullare l’influenza della mia primitiva opinione, allora quasi universale, che ogni specie è stata creata intenzionalmente e ciò ha portato al tacito assunto che ogni particolare della struttura, tranne i rudimenti, fosse di una determinata, anche se ignota, utilità. Chiunque, con tale assunto in mente, potrebbe naturalmente estendere molto l’azione della selezione naturale sia nel presente che nel passato. Alcuni di coloro che ammettono il principio dell’evoluzione, ma respingono la selezione naturale, sembrano dimenticare, quando criticano il mio libro, che avevo almeno due obiettivi in mente, per cui, se ho sbagliato nell’attribuire alla selezione naturale una eccessiva importanza, che oggi sono ben lunghi dall’ammettere, o nell’aver esagerato il suo potere, che è in se stesso probabile, spero almeno di aver reso un buon servizio nell’aiutare a rovesciare il dogma delle creazioni separate. ” (p. 86-87)
Il rovesciamento del dogma di fatto si è realizzato, ma al prezzo esorbitante di negare le imperfezioni e i limiti della selezione naturale, che implicano la necessità di associare ad essa altri meccanismi evoluzionistici.
La verità è che in ogni organismo si danno strutture che appaiono quasi perfette associate ad evidenti “imperfezioni”, che sottolineano il lavoro di bricolage della natura.
Consideriamo quattro diverse situazioni
* In Inghilterra esiste una farfalla notturna chiamata Biston Betularia, che ha le ali grigio-chiaro, solita riposare sui tronchi delle betulle, che sono chiari per natura e solitamente ricoperti da licheni di colore analogo. Il mimetismo era perfetto. Raramente compariva una Biston scura, facile preda per gli uccelli. Con lo sviluppo delle industrie e l'inquinamento, i tronchi delle betulle cominciarono a scurirsi nella seconda metà dell'800, rendendo quasi tutte le farfalle ben visibili. Lentamente, la selezione naturale ha fatto aumentare le farfalle scure, che , verso la fine dell'Ottocento, rappresentavano il 90 % della popolazione.
Negli ultimi decenni, i provvedimenti anti-inquinamento hanno restituito ai tronchi delle betulle il loro colore naturale. Ciò ha prodotto di nuovo la selezione di una maggioranza di farfalle di colore chiaro.
Il cambiamento della Biston Betularia attesta che gli organismi dispongono di un patrimonio ereditario ridondante, tale da assicurare ad essi una riserva di potenzialità adattive da usare in caso di necessità. In condizioni normali il carattere grigio- chiaro ha quasi sempre la meglio su quello scuro. Quest'ultimo, però rimane nel patrimonio genetico della Biston betularia e, all’occasione, com’è avvenuto, può essere utilizzato.
* Il panda gigante è dotato di uno pseudopollice che gli consente di maneggiare con destrezza le canne di bambù di cui si nutre. Il panda, in realtà, ha regolarmente cinque dita. Il pollice non è per nulla un dito. Esso si è sviluppato da un osso del polso (sesamoide radiale) che si è ingrandito sino a raggiungere la lunghezza delle dita vere. Anche i muscoli che ne permettono la funzione, che nella maggior parte dei carnivori si attaccano alla base del vero pollice, nel panda sono ristrutturati per fare funzionare lo pseudopollice. Il vero pollice del panda ha un ruolo determinato ed è troppo specializzato in una funzione diversa per potersi trasformare in un dito opponibile adatto alla manipolazione. Così il panda deve utilizzare quanto ha a disposizione ed accontentarsi di un osso del polso ingrandito, e di una soluzione forse un po' rozza ma abbastanza efficace. Il pollice sesamoide è una bizzarra invenzione dell'evoluzione.
Con il panda gigante ci troviamo di fronte ad una “bizzarria” che funziona, confermando che l'evoluzione procede sulla base del bricolage: utilizza, in maniera talvolta strana, quello che già c'è. Basta il pollice del panda ad invalidare il creazionismo. Volendo Dio avrebbe potuto produrre un animale con sei dita o concedere al pollice del panda l'opposizione.
* Esistono molte specie di insetti che hanno forma, colore e dimensioni tali da renderli pressoché indistinguibili dai ramoscelli delle piante. Si tratta di un sorprendente fenomeno di mimetismo, analogo a quello di Biston betularia, che serve a ridurre la probabilità che l'insetto possa essere identificato dai predatori.
L’insetto-stecco pone di fronte ad un cambiamento morfologico che si è stabilizzato. Solo in Europa si contano venti diverse specie di Insetto-stecco. E' evidente, però, che il cambiamento intervenuto deve essersi realizzato gradualmente, attraverso la progressiva selezione di individui che, casualmente, avevano una forma o un colore simile ai ramoscelli.
* In un lago limitrofo a Città del Messico vive un animale - l'axolotl - che somiglia ad un girino gigante ma, a differenza del girino, è in grado di riprodursi. Si tratta cioè di un essere immaturo nell'aspetto, ma adulto nelle funzioni. Che si tratti di una specie neotenica è certo. Basta in laboratorio aggiungere un po' di iodio nell'acqua e si trasforma in salamandra. Se si immergono nel lago in questione girini di rana o di salamandra, essi muoiono. Lo iodio è il costituente essenziale dell'ormone che produce la metamorfosi. L'axolotl dunque è in grado sia di trasformarsi in salamandra se le acque in cui vive sono ricche di iodio, sia di rimanere allo stato embrionale e continuare a riprodursi sotto forma di girino, se le acque sono prive di iodio. Evidentemente è intervenuta una mutazione genetica che ha bloccato la crescita ma non la maturazione sessuale.
L’axolotl attesta che l'influenza dell'ambiente può modificare i ritmi di crescita di un organismo, e, in determinate situazioni, arrestarli. Si tratta di un animale neotenico, che raggiunge la maturità sessuale prima di diventare una salamandra.
In tutti e quattro i casi sono entrati in azione i geni: i fattori scoperti da Mendel che Darwin ignorava. Tenere conto di questa ignoranza, pone maggiormente in luce la genialità di Darwin, che si è però piegata al principio funzionalista, per cui, di fronte a cambiamenti di strutture, egli si pone la domanda che governerà, fino ad epoca recente, l'evoluzionismo: a che serve?
Il funzionalismo non è ovviamente infondato. Molte strutture organismiche intanto esistono e sono state selezionate in quanto hanno un valore evidentemente adattivo. Il problema è se tutte le strutture – compreso il cervello umano – possano essere ricondotte al principio funzionalista, vale a dire se l’origine storica delle strutture organismiche corrisponde in toto alla loro funzione attuale.
Quando Darwin si imbarca sul Beagle, portando con sé il libro di Lyell, non ha alcuna idea precisa sul suo futuro. Nel corso del viaggio, come già detto, egli prende una quantità enorme di appunti corredati da schizzi. Uno dei fenomeni più sorprendenti che annota riguarda i fringuelli delle isole Galàpagos.
Visitando queste isole, Darwin scopre che esse ospitano ben tredici “varietà” di fringuelli, diversi per taglia, colore e morfologia del becco, che non si trovano in altri luoghi del mondo. Egli intuisce che i diversi becchi rappresentano adattamenti rispetto all’alimentazione dei fringuelli. Così il fringuello terrestre dal becco grande (magnirostris) si alimenta di semi grandi e duri; il fringuello arboreo grande (psittacula) mangia insetti grandi; il fringuello canterino (olivacea) si nutre di piccoli insetti; il fringuello terrestre piccolo (fuligginosa) mangia semi piccoli e duri.
Per quanto sorpreso dalla varietà delle “razze”, l'evidente somiglianza tra i fringuelli impedisce a Darwin di prendere atto di tredici specie diverse, isolate riproduttivamente. Solo al ritorno in Inghilterra, con l'aiuto di un ornitologo, egli si rende pienamente conto di questo e comincia a riflettere sullo strano fenomeno.
Il suo ragionamento è facile da ricostruire. Perché mai Dio avrebbe dovuto creare tante specie di fringuelli nelle Galàpagos? Per spiegare scientificamente un fatto del genere, basta ammettere
che una specie originaria sia giunta su di un’isola in epoca remota riuscendo ad adattarsi alle condizioni insulari. La specie poi si diffonde nelle varie isole, trovando nuovi ambienti e sviluppando nuovi adattamenti. L’isolamento dei vari gruppi dà luogo, infine, alla definizione di nuove specie che sono isolare riproduttivamente.
La varietà individuale, dunque, ha promosso l'adattamento ad ambienti diversi producendo cambiamenti morfologici che si sono trasmessi ai figli e determinando, infine, l'isolamento riproduttivo, vale a dire una speciazione.
Non è inopportuno, a questo punto, sottolineare che la speciazione, vale a dire la comparsa di una nuova specie rispetto a quelle precedenti, come attesta il titolo dell’opera maggiore, è il nodo centrale della teoria darwiniana.
L’analisi dei becchi dei fringuelli è una conferma della teoria della selezione naturale. Darwin, però, se non minimizza, non dà un dovuto rilievo al fattore geografico, cioè alla migrazione dei fringuelli su diverse isole e all’incidenza della separazione geografica sull’evoluzione. Vedremo successivamente l’importanza di questo fattore.
Dall’analisi dei dati raccolti nel corso del viaggio, Darwin ricava tre principi che sono stati giustamente denominati come i pilastri della sua teoria:
* il principio di variabilità
Tutti gli organismi di una specie sono diversi l’uno dall’altro.
* il principio di ereditarietà
I “figli” somigliano ai “genitori”. Le variazioni sono almeno in parte ereditate.
* il principio di prolificità
Tutti gli organismi producono più prole di quella che può sopravvivere fino al momento della riproduzione.
Si tratta di principi sostanzialmente semplici ed evidenti. Solo il terzo, però, è immediatamente spiegabile. Gli organismi che non sopravvivono sono i più deboli o i più “sfortunati”.
In realtà, come sappiamo, solo dopo avere letto l'opera di Malthus Darwin ha l'illuminazione: se gli organismi variano e non tutti possono sopravvivere, coloro che lo faranno saranno quelli che possiedono le variazioni ereditarie che aumentano il loro adattamento all’ambiente locale.
Questo è il principio della selezione naturale ovvero della sopravvivenza del più adatto.
Cosa c'è di straordinario nell'ipotesi della selezione naturale darwiniana?
Anche i creazionisti pre-darwiniani, in fondo, la ammettono. Essi, però, la interpretano come meccanismo la cui finalità è la “purificazione del tipo”, cioè l'eliminazione degli individui devianti che si scostano eccessivamente dal modello ideale ed immutabile, presente nella mente di Dio all'atto della creazione. E' evidente che se un animale viene al mondo con una grave malformazione, e quindi con uno scostamento rilevante da quel modello, esso ha scarse chances di sopravvivere.
Per Darwin – questa è la novità - il tipo ideale non esiste. La selezione naturale non scarta ciò che si allontana dalla volontà divina. Essa funziona come un artigiano creativo o un bricoleur: presiede, cioè, al processo di modificazione organica accumulando le variazioni favorevoli poco a poco e generazione dopo generazione. Le variazioni sono favorevoli, peraltro, non perché avvicinano l'organismo individuale ad un'astratta perfezione, ma semplicemente perché, in quel determinato contesto ambientale, consentono ad esso di sopravvivere e di riprodursi. Non è, insomma, necessariamente il “migliore” che viene selezionato, ma il più “fortunato”, quello cioè il cui corredo genetico risponde meglio, casualmente, ai cambiamenti ambientali.
Se questo è vero, Dio semplicemente non serve più: è morto. Darwin non osa esplicitare quest’affermazione, come farà alcuni decenni dopo Nietzsche. Essa è però implicita nell’ipotesi della selezione naturale. Il suo radicalismo permette di comprendere le esitazioni per cui Darwin ha rimandato di venti anni la pubblicazione dell’esito delle sue ricerche.
Del tutto esplicito, invece, è il riferimento ad un inesorabile “struggle of life”. Darwin ha usato questa espressione per titolare il terzo capitolo de L'origine delle specie. Ho già fatto cenno al fatto che esso è stato equivocato e applicato impropriamente all'uomo.
La visione “gladiatoria” della selezione naturale non va ricondotta a Darwin, ma a Huxley, il quale
in Evolution and Ethics (1893), giunge ad affermare che etica ed evoluzione biologica sono fra loro incompatibili e pertanto è necessario che l'uomo combatta la sua natura per favorire il progresso della società civile. Egli era un materialista, fieramente ateo e anticlericale, fortemente impegnato sul terreno delle riforme sociali, che però, dando una versione pessimistica della natura umana del tutto diversa da quella di Darwin, non pensava certo di aprire la strada al darwinismo sociale.
Ho già accennato al fatto che Darwin aderiva ideologicamente al liberalesimo smithiano, un liberalesimo temperato dal riferimento alla socialità dell'uomo che comporta un orientamento al tempo stesso competitivo e solidale. Tale orientamento sicuramente è stato ereditato dalla famiglia: sia il nonno - il famoso Erasmus - che il padre stavano dalla parte dei Whigs, il cui programma politico, originariamente incentrato su di una monarchia costituzionale, vale a dire sull'egemonia del potere parlamentare rispetto a quello del re, nel corso del XIX secolo giunge a sostenere il libero scambio, l’abolizione dello schiavismo, e l’ampliamento del suffragio elettorale.
Il liberalesimo di Darwin non è però solo una replicazione di un modo di vedere familiare. Esso ha un impianto in una personalità ricca di valenze umanitaristiche. Si ha una prova di questo leggendo i taccuini redatti da Darwin durante il viaggio sul Beagle. In più momenti, infatti, il giovane naturalista esprime la sua avversione nei confronti della schiavitù.
In Brasile, visitando una collina, scrive: “Questa collina è famosa perché per lungo tempo fu il rifugio di alcuni schiavi fuggiaschi i quali, coltivando un po’ di terreno vicino alla cima, riuscivano a trovare quanto era loro sufficiente per vivere. Ma poi furono scoperti e venne inviato uno squadrone di soldati che li prese tutti, eccetto una vecchia che preferì morire sfracellata, buttandosi dalla montagna, piuttosto che cadere di nuovo in servitù. Se fosse stata una matrona romana sarebbe stato esaltato il suo nobile amore per la libertà, ma poiché era una povera negra, questo suo comportamento fu giudicato solo come bestiale cocciutaggine".
Assiste ad una vendita all'asta di schiavi e commenta: “Io credo che al proprietario non passasse nemmeno per la testa che fosse disumano smembrare trenta famiglie costituite da tanti anni”.
Esulta quando riceve la notizia della riforma elettorale in Inghilterra, che allargava il numero degli elettori: “Il mio cuore si rallegra nell’apprendere ciò che avviene in Inghilterra. Hurrà per i buoni whigs! Spero che presto attaccheranno quella mostruosa macchina della nostra tanto vantata libertà: la schiavitù nelle colonie. Ho visto quanto basta per essere nauseato dalle bugie e dalle sciocchezze che si sentono dire a questo riguardo in Inghilterra. Grazie a Dio, i tories dal freddo cuore che hanno entusiasmo solo per combattere l’entusiasmo hanno subito per il momento un arresto”.
In Patagonia vede le truppe del dittatore Rosas compiere stragi di indiani con una ferocia inaudita e così commenta: “Chi crederebbe che ai nostri tempi si possano commettere tali atrocità in un paese civile e cristiano?”.
In Cile si interessa delle condizioni dei lavoratori nelle miniere di rame e così li descrive: “Viene loro concesso solo un breve intervallo per i pasti, e poi, estate o inverno, cominciano alle prime luci dell’alba e smettono a buio fatto. Sono pagati una sterlina al mese, e vengono nutriti in questo modo: per colazione ricevono sedici fichi e due piccole pagnotte di pane, a pranzo fave bollite, a cena frumento triturato e arrostito”
In Australia, prendendo atto della condizione degli aborigeni, scrive: “ovunque l’europeo ponga piede, ecco la morte infierire fra gli indigeni. Si considerino le vaste distese dell’Australia e dell’Africa del Sud si troveranno dappertutto i medesimi risultati.”
Certo, Darwin ha una mentalità eurocentrica, che lo porta a giudicare gli abitanti della Terra del Fuoco – i fuegini – in maniera drastica (oggi diremmo non antropologica): “Non avrei mai pensato che ci fosse tale abisso fra un uomo civilizzato e un selvaggio. C’è una differenza più grande che tra un animale domestico e il suo equivalente selvaggio, proprio perché nell’uomo v’è maggiore capacità di miglioramento.” L'incomprensione della cultura fuegina non ha però alcun accento razzistico. Essa, anzi, dà luogo ad un commento singolare: “La perfetta eguaglianza tra i membri delle tribù fuegine ritarderà di molto la loro civilizzazione: come accade a quegli animali che, obbligati dall’istinto a vivere in società e a obbedire a un capo, sono capaci di maggior progressi, così accade alle razze della specie umana. [...] D’altra parte è difficile immagiìnare come un capo possa imporsi finché non vi sia qualche forma di proprietà, mediante la quale possa manifestare la propria superiorità e accrescere il proprio potere”.
Tanto è vero che Darwin ricusa il razzismo che, a contatto con gli abitanti di Tahiti, scrive: “Credo che in Europa sia difficile vedere tra la gente neppure la metà delle allegre e felici facce dei tahitiani”.
Alla luce di queste affermazioni, scritte tra l’altro da un giovane di poco più di venti anni, accusare Darwin di razzismo è ridicolo. Egli non intendeva, di certo, la lotta per la sopravvivenza nei termini della legge della giungla (ove peraltro gli individui appartenenti alla stessa specie competono lealmente senza sopprimersi vicendevolmente).
Il fraintendimento dello “struggle of life”, nella cornice di un liberalesimo “selvaggio”, ha prodotto, a partire dal 1870, la teoria del darwinismo sociale.
Un punto importante di riferimento a riguardo è Herbert Spencer (1820-1903) le cui opere (Primi principi, 1862; Principi di biologia, 1864-1867; Principi di psicologia (1870-1872); Principi di sociologia 1876-1896; Principi di etica 1879) ebbero un singolare successo ed influenzarono la cultura del tempo in maniera tale da fare dell’autore il filosofo più noto e importante dell’ultimo quarto del XIX.
A posteriori questa fama sorprende. E’ sicuramente merito di Spencer di avere integrato il darwinismo e il lamarckismo estendendo il concetto di evoluzione alla storia del cosmo, della vita, della società e della cultura: di avere, insomma, prodotto una filosofia evoluzionistica totalizzante.
L’intento di Spencer, però, di gran lunga superiore alle sue capacità filosofiche, ha determinato almeno due conseguenze che si possono ritenere culturalmente deleterie.
Per un verso, infatti, Spencer si può ritenere precursore di quell’ampio movimento culturale che vede nell’evoluzionismo cosmico il continuo passaggio «da una omogeneità indefinita e incoerente a un'eterogeneità definita e coerente», vale a dire una crescente complessificazione che implica un un Disegno Intelligente e un Fine.
Per un altro, però, pur dando grande valore alla cultura umana, egli ritiene che le leggi dell’evoluzionismo biologico debbano essere applicate alla società. Rifacendosi a Malthus, Spencer dunque si fa acceso propugnatore di un liberismo assoluto e di una totale astensione da parte dello Stato di qualunque intervento assistenziale che impedisca alla selezione naturale di funzionare.
Il pensiero di Spencer è più liberista che razzista. Fatto si è che da esso ha preso spunto il cosiddetto darwinismo sociale il quale, in conseguenza dell’estensione dei principi evoluzionistici biologi alla società, riconduce la diversità tra le varie culture, la differente potenza degli Stati e l’inuguale distribuzione del reddito all’interno del corpo sociale ricondotte a maggiori o minori potenzialità adattive di origine biologica.
Dall’epoca della sua comparsa, il darwinismo sociale ha giustificato, sostanzialmente, il razzismo, il colonialismo e la disuguaglianza sociale, giungendo ad affermare che ogni tentativo da parte dello Stato o della cultura di contrastare o inibire la selezione naturale – attraverso l’assistenza ai più deboli o agli individui ereditariamente “inferiori” - comporterebbe una “degenerazione” della popolazione.
E' superfluo rilevare la pesante incidenza di questa ideologia sulla cultura e sulla politica del Novecento. Il nazismo ne ha rappresentato l'espressione più estrema e tragica.
Il darwinismo sociale, di fatto, allargava la darwiniana lotta per l'esistenza a un più ampio programma eugenico, che considerava necessario e giustificava il declino dei soggetti meno capaci, socialmente inadatti.
L’Eugenetica e la Xenofobia sono due conseguenze storiche del darwinismo sociale, confluite entrambe nel nazismo e ancora vive nei movimenti di destra.
Anche il neoliberismo, che ha governato il mondo negli ultimi venti anni, si può ritenere una conseguenza, solo apparentemente temperata, del darwinismo sociale.
Posta nei termini dei tre principi cui ho fatto cenno (variabilità, ereditarietà, prolificità), la teoria darwiniana sembra di una sorprendente semplicità. Questo è uno dei motivi che ne ha assicurato il successo. A differenza di altre teorie scientifiche, come per esempio la fisica quantistica, che richiede conoscenze matematiche di livello superiore, quella di Darwin può essere spiegata, sia pure semplificandola al massimo, anche ai bambini delle elementari. E' ovvio che questo la pone in diretta competizione con il catechismo creazionista.
In realtà, nella sua formulazione essenziale, si tratta di una teoria solo apparentemente semplice, che, come accade spesso nel corso della storia della scienza, implica numerosi problemi che Darwin non è in grado di spiegare.
Due di questi sono di assoluta importanza.
Il primo riguarda la variazione individuale.
Perché la selezione individuale abbia, infatti, un ruolo “creativo”, occorre postulare che:
1) la variazione deve essere casuale e non indirizzata verso adattamenti favorevoli.
Se la variazione si verificasse in modo preferenziale nelle direzioni vantaggiose, la selezione naturale sarebbe un semplice esecutore in quanto eliminerebbe i non adatti mentre gli adatti aumenterebbero di numero anche senza selezione: in questo caso la selezione sarebbe non-darwiniana.
2) la variazione si deve verificare a tappe relativamente piccole.
Se le specie si originassero all'improvviso, per il verificarsi fortuito di una grande mutazione che le rende immediatamente adatte al nuovo ambiente, la selezione non sarebbe una forza capace di dirigere in quanto gli adattamenti nascerebbero all'improvviso e senza il suo aiuto.
3) le popolazioni devono contenere una quota notevole di variabilità genetica.
Se le variazioni ereditarie si producessero raramente e la maggioranza dei membri di una popolazione fosse geneticamente uniforme, la velocità dell'evoluzione sarebbe limitata dalla variabilità anziché dalla selezione; in altre parole il cambiamento adattativo dovrebbe attendere che si producesse una quota di variabilità tale che la selezione vi possa agire.
Come si produce, però, l’elevata variabilità postulata dalla teoria della selezione naturale? Per rispondere a questa domanda, Darwin riflette a lungo sulla coltura delle piante e sull’allevamento degli animali. Cosa fanno gli allevatori? Identificano in alcuni individui dei caratteri (per esempio la lunghezza e il colore del pelo, la robustezza, ecc.), li incrociano tra loro e spesso riescono ad ottenere un certo numero di figli che presentano quel carattere. A livello di allevamento, la “tecnica” per cui alcuni caratteri vengono selezionati e resi stabili nei discendenti è chiara, ma essa corrisponde ad un’intenzione e ad un progetto. Come si realizza la stessa cosa in natura?
In difetto di conoscenze genetiche, Darwin può ricondurre le variazioni ereditarie solo alla teoria della “pangenesi”, secondo la quale in tutte le cellule vi sarebbero “gemmule” che contengono i caratteri ereditari che si mescolerebbero negli organi sessuali e sarebbero, dunque, presenti nei gameti. Il “mescolamento” delle gemmule, però, comporta un tasso di variabilità molto inferiore a quello richiesto dalla teoria.
Ugualmente misterioso rimane per Darwin il problema dell'eredità dei caratteri. La teoria del “mescolamento” permette, infatti, di capire perché da una generazione all’altra un carattere scompare, ma non come fa a ricomparire in quella successiva.
La teoria originaria darwiniana comporta, dunque, almeno due principi che Darwin non è in grado di spiegare scientificamente. Questa lacuna è immediatamente colta dai suoi critici ostili (in gran parte creazionisti), che la definiscono, paradossalmente, come un “dogma”. Come mai, dunque, la teoria dell’evoluzione darwiniana riesce ad affermarsi nella seconda metà dell’Ottocento?
La risposta è che essa può vantare delle prove che, per alcuni aspetti, sono paradossali.
In sé e per sé l'evoluzione fondata sull'adattamento non è incompatibile con il creazionismo.
Per i creazionisti l'adattamento riflette la sapienza di Dio e l'armonia del mondo da lui creato. Gli adattamenti più spiccati sono quelle particolarità degli organismi che si avvicinano di più alla perfezione e in quanto tali non hanno alcuna necessità di avere una storia. Se un adattamento è il migliore disegno costruttivo che possa essere immaginato, allora esso deve essere stato creato così come noi lo osserviamo.
Le prove dell'adattamento darwiniano, fondato su processi casuali, non sono fornite però dalla perfezione degli adattamenti, bensì, al contrario, dalle imperfezioni, cioè da quegli aspetti della distribuzione e della forma degli organismi che nell'ipotesi di un mondo perfetto ed ottimale non avrebbero alcun senso. Le imperfezioni dimostrano che le condizioni imposte dalla storia hanno impedito di avvicinarsi alla perfezione.
Le “prove dell'evoluzione” , che Darwin stesso elenca negli ultimi capitoli de L’origine delle specie, sono ricavabili dallo studio dei fossili, dall'embriologia, dalla biogeografia e dall'osservazione delle strutture degli organismi viventi. Altre sono sopravvenute ulteriormente. Mi limito a pochi cenni essenziali
1) Testimonianze fossili
La paleontologia ha dimostrato che non tutte le specie attualmente esistenti sulla terra erano presenti nel passato e che, al contrario, molte specie un tempo esistenti si sono estinte.
Straordinario, per esempio, è il caso dell'Archeopterix, un rettile-uccello fornito di ali e di artigli, di cui sono stati trovati ben dieci esemplari.
Per alcuni gruppi di animali i reperti fossili sono tanto abbondanti e ben distribuiti nel tempo, da formare delle serie complete che consentono di ricostruire in modo dettagliato le tappe del loro intero processo evolutivo.
Per quanto riguarda i vertebrati la paleontologia testimonia come i primi vertebrati a comparire siano stati i pesci, seguiti dagli anfibi, dai rettili e, infine, dagli uccelli e dai mammiferi.
2) Organi rudimentali
Gli organi rudimentali sono strutture che prima avevano una funzione e adesso non l'hanno più: strutture, dunque, che appaiono come assolutamente accessorie e perfettamente omologhe a quelle presenti e ben funzionanti in gruppi affini.
Boa e pitone, quantunque non abbiano arti posteriori, conservano, seppur fortemente ridotti, un femore e le ossa del bacino.
I cavalli hanno un osso del piede ridotto ad una fibula e situato in un punto della zampa lontano dal contatto col suolo.
Anche nell'uomo si danno organi rudimentali: l'appendice dell'intestino, ad esempio, che funzionava nei nostri lontani antenati come parte essenziale dell'apparato digerente, oggi non ha funzioni particolari; la ridotta plica semilunare in corrispondenza dell'angolo sinistro dell'occhio umano che è un rudimento della membrana nittitante che in altri mammiferi, negli uccelli, nei rettili e negli anfibi è molto più sviluppata e può essere abbassata come una tendina trasparente che protegge e lubrifica gli occhi senza impedire la visione.
3) Dati embriologici
Se si considerano gli stadi dello sviluppo embrionale dei vertebrati, ci si accorge che essi procedono seguendo un modello unico, a tal punto che se si confrontano tra loro embrioni non molto avanzati di un pesce, di un anfibio, di un rettile e di alcuni mammiferi, compreso l'uomo, ci si accorge che sono sorprendentemente simili tra loro e un embrione precoce di anfibio è difficilmente distinguibile da un embrione precoce di mammifero.
Tutti gli embrioni dei vertebrati, per esempio, presentano le fessure branchiali, le quali vengono mantenute allo stato adulto soltanto dai pesci nei quali assumono la funzione di organi respiratori.
4) Omologie
Se si osserva l'arto anteriore di pesci, degli anfibi, dei rettili, degli uccelli e dei mammiferi, si può notare come questo sia in tutti i casi costituito dagli stessi pezzi, più o meno sviluppati: omero, radio, ulna, ossa carpali, ossa metacarpali e falangi. Per il diverso utilizzo che le specie ne hanno fatto, l'arto si è notevolmente modificato, ma in queste diverse classi di vertebrati ricorre sempre la stessa struttura.
5) Biogeografia
La biogeografia è la distribuzione geografica degli organismi.
Se la distribuzione geografica delle specie non fosse in qualche modo determinata dall'evoluzione dovremmo aspettarci di trovare una determinata specie ovunque essa possa adattarsi e sopravvivere.
Di fatto aree diverse del nostro pianeta, che pure hanno condizioni climatiche simili, come per esempio l'Africa centrale e il Brasile, ospitano animali e piante diverse
Regioni della Terra come l'Australia e la Nuova Zelanda, che sono state separate dal resto del mondo in epoca molto antica, presentano flora e fauna particolari.
I grandi mammiferi originari dell'Australia sono tutti marsupiali (mammiferi dotati di una tasca come il canguro). Pressoché tutti i grandi mammiferi degli altri continenti sono invece placentati (mammiferi dotati di una placenta completa, che portano i giovani fino ad uno stadio di sviluppo avanzato, come l'uomo).
6) L'orologio molecolare
L'orologio molecolare è una tecnica utilizzata per stimare il tempo che è trascorso dalla separazione tra due specie, a partire dallo studio delle differenze esistenti nelle sequenze amminoacidiche di alcune proteine.
Tale tecnica si basa sulla ipotesi che i geni si evolvano attraverso mutazioni casuali che si verificano con frequenze pressoché costanti nel tempo. Se si considera valido questo assunto, diventa possibile stimare il tempo trascorso dal momento in cui si è verificata la divergenza tra due specie che discendono dallo stesso antenato comune, semplicemente valutando il numero delle differenze presenti in sequenze di DNA correlate o nelle corrispettive proteine.
L'orologio molecolare è alquanto impreciso e ha un valore approssimativo.
7) Geni in comune
L'epoca di separazione tra due specie può essere stabilita anche sulla base dei geni che esse hanno in comune. La presenza degli stessi geni attesta l'esistenza di un antenato comune.
E' stato confermato che l'animale più vicino geneticamente all'uomo è lo scimpanze, che condivide con esso il 98,5% dei geni. La separazione tra le due specie sarebbe intervenuta tra 6 e 5 milioni di anni fa.
Le prove dell’evoluzione sono poco confutabili. Ora occorre considerare il fatto che l'avvento della genetica ha dato luogo ad una integrazione della teoria darwiniana.
Come si è detto, Darwin non poteva risolvere i problemi della variabilità e dell'ereditarietà in difetto della genetica. L'avvento di questa disciplina ha di gran lunga corroborato la teoria darwiniana. L’integrazione, però, non è stata affatto semplice. Quando si è realizzata, poi, intorno agli anni ‘40 del secolo scorso, ha dato luogo ad un nuovo paradigma – la teoria sintetica dell'evoluzione o neodarwinismo – che, purtroppo, ha mutuato da Darwin il principio del gradualismo e quello del funzionalismo, approdando ad un'ideologia adattamentista o ultradarwinista. Approfondiamo questi aspetti.
Nel 1900 viene “riscoperto” l'articolo di Gregorio Mendel e se ne comprende immediatamente la portata. La trasmissione ereditaria, su cui Darwin si è invano affaticato, avviene sulla base di “fattori” presenti in tutte le cellule dell’organismo, ciascuno dei quali ha una ben precisa identità.
Il problema, però, è che la genetica mendeliana, attestando una notevole costanza del patrimonio ereditario, sembra quasi smentire un concetto di fondo della teoria darwiniana: quello per cui, all’interno di ogni specie, si deve dare una elevata variabilità.
Solo dopo alcuni decenni, grazie ai lavori di Th. Dobzshansky (L'evoluzione della specie umana), Ernst Mayr (Sistematica e Origine delle specie) e George Gaylord Simpson (Tempi e modi dell'evoluzione), il dissidio si ricompone e si avvia un'integrazione tra le due discipline destinata a diventare sempre più intensa, all'insegna della genetica della popolazione.
La genetica delle popolazioni fa riferimento al fatto che ogni specie (o ogni popolazione che ad essa appartiene) ha un patrimonio genetico comune che si definisce pool genetico. Il pool genetico è fisso, ma contiene una grande varietà.
Qualunque gene di un pool genico, infatti, può esistere in numerose varianti, tutte dovute a mutazioni prodottesi a un certo punto della storia evolutiva di quel gene. Le varianti di uno stesso gene sono dette alleli e, a seconda della frequenza o rarità di ciascun allele all'interno del pool genico, si parla di alta o bassa frequenza allelica.
Nel pool genico, ogni nuovo gene si originerebbe a causa della ricombinazione del materiale genetico che avviene quando si formano i gameti e a causa di mutazioni.
Le mutazioni sono cambiamenti stabili che avvengono a carico di uno o più geni. Esse possono avvenire spontaneamente nel corso dei processi di replicazione o di duplicazione di un gene o possono essere indotte da agenti mutageni (radiazioni ionizzanti, sostanze chimiche). Una volta che, mediante tali mutazioni, si è formata una nuova variante di un gene, questa entra a far parte del pool genico della popolazione perché, mediante la riproduzione sessuale, essa può venire trasmessa ad altri individui.
L'effetto delle mutazioni è vario. Alcune di esse sono neutrali, nel senso che non comportano alcuna conseguenza, altre sono letali, non permettendo all'individuo di raggiungere l'età riproduttiva; altre ancora, il cui numero è minimo, sono vantaggiose nel senso che aumentano la capacità adattiva dell'individuo.
Oltre che spontaneamente o in conseguenza di mutazioni, la frequenza allelica può essere modificata a causa di fattori diversi quali: la mortalità e l'emigrazione; la riproduzione e l'immigrazione; il caso o deriva genetica.
Quest'ultimo fattore sembra avere una particolare importanza. Essa fa riferimento al fatto che se una popolazione rimane isolata rispetto ad altri individui della sua specie, la possibilità che le mutazioni che intervengono aumentino la varietà della frequenza allelica si incrementano, e quindi che i cambiamenti morfologici determinati dai geni mutati si trasmettano ai figli.
Sulla base di queste nozioni si definisce il paradigma neodarwinista che accoglie in toto il gradualismo darwiniano e anzi lo porta ad una esasperazione dogmatica che non ha riscontro in Darwin. In questa ottica, la speciazione si riduce ad una questione di mutamento genetico nell'ambito di popolazioni sotto la guida della selezione naturale. Le specie si evolvono lentamente in altre specie mediante la somma di piccolissimi cambiamenti. Le trasformazioni da una specie ad un'altra si compiono senza senza che si formi alcun confine fra specie parentale e specie discendente. Le discontinuità si presentano semplicemente come un caso speciale dello stesso processo continuo, e si verificano quando un accidente geografico divide una popolazione (deriva genetica) e le mutazioni ambientali la indirizzano verso vie gradualmente divergenti, da cui alla fine si originano nuove specie.
Sulla base della variabilità si fonda il processo della “microevoluzione”, vale a dire l’evoluzione che avviene all’interno delle specie viventi (genesi di varietà e di sottospecie) ed i processi di speciazione (nascita di nuove specie da specie ancestrali). La nascita di una nuova specie si fonda su lentissimi, impercettibili cambiamenti che avvengono in periodi di tempo molto lunghi e danno luogo infine alla comparsa di organismi le cui strutture e le cui funzioni sono diverse rispetto alle specie ancestrali e che si isolano riproduttivamente, vale a dire si riproducono solo incrociandosi tra loro.
Nell’ottica del neodarwinismo, eccezion fatta per rari casi di speciazione dovuti alla deriva genetica (speciazione allopatrica, vale a dire dovuta ad un ambiente diverso e separato da quello originario), la speciazione è sostanzialmente filetica, vale a dire dovuta ad una successione di forme che si susseguono ed infine esitano nella comparsa di una nuova specie.
La speciazione filetica, come per alcuni aspetti anche in Darwin, riconosce nell’individuo portatore di alleli varianti il motore dell’evoluzione.
Dawkins, cui ho fatto cenno, ha portato all’estremo il neodarwinismo, riconoscendo addirittura nei geni i fattori che competono tra loro per assicurarsi la sopravvivenza. Si parla per questo di riduzionismo genetico.
Dawkins si è spinto sino al punto di interpretare come espressioni di egoismo genetico anche fenomeni di altruismo e di solidarietà presenti negli animali sociali.
Nell’ottica del neodarwinismo, la “macroevoluzione”, vale a dire l’evoluzione su grande scala che, nel corso di circa quattro miliardi di anni, ha portato, dalle cellule primordiali, fino alla biodiversità attuale, non è altro che lo sviluppo nel tempo della microevoluzione.
Il neodarwinismo conferma e radicalizza due principi fondamentali in Darwin: la casualità dell'evoluzione naturale e il gradualismo con cui compaiono nuove specie.
Il riferimento alla casualità è addirittura aumentato con il neodarwinismo, perchè sia le mutazioni che la deriva genetica sono fattori assolutamente casuali.
Il gradualismo è diventato un dogma trasformandosi nell'ideologia adattamentista, secondo la quale tutte le strutture morfologiche e le funzioni che esse adempiono nelle varie specie sono state selezionate naturalmente in conseguenza del loro valore adattivo.
Sulla base del principio gradualista l'assioma per cui la macroevoluzione non è altro che lo sviluppo nel tempo della microevoluzione è dato per scontato.
Il problema, che mantiene ancora aperto un vivace dibattito, è se i modi di evoluzione sinora accertati, che possono spiegare i piccoli salti evolutivi, cioè l'origine di razze nel seno di una specie, o di specie tra loro affini, siano sufficienti a spiegare i grandi corsi dell'evoluzione che ci sono rivelati dalla paleontologia, vale a dire l'origine dei grandi gruppi, quali, per esempio, pesci, rettili, uccelli e mammiferi.
E' superfluo aggiungere che questo dibattito raggiunge il suo acme in rapporto alla comparsa dell'homo sapiens.
Gradualismo filetico e comparsa dell’uomo
La genetica attesta poco confutabilmente che la natura è proceduta come un bricoleur. Ha utilizzato quello che già c'era e quello che di nuovo è stato prodotto dalle mutazioni, assemblando organismi che, superata la prova dell'adattamento, si sono stabilizzati sotto forma di nuove specie.
Il risultato è incredibile. Il Pianeta è abitato da oltre due milioni di forme viventi, delle quali solo poco più della metà è conosciuta.
Ad occhio nudo, è difficile sfuggire all'impressione che la vita sia andata incontro ad un processo di progressiva complessificazione. Dal punto di vista darwiniano, però, come già accennato, la complessità degli organismi è del tutto accessoria: un protozoo (come l'ameba, che è costituita da una sola cellula), un batterio, un moscerino, un cavallo e l'uomo in tanto esistono in quanto sono perfettamente adattati all'ambiente in cui vivono.
E' l'adattamento il “nodo” della teoria evoluzionistica, non la minore o maggiore complessità di un organismo. Ma è proprio intorno all’adattamento e ai concetti ad essi associati di gradualismo e di funzionalismo che è ancora aperto un vivace dibattito all’interno dell’evoluzionismo tra neodarwinisti, riduzionisti genetici e post-darwinisti.
Sarebbe difficile esporre i nodi del dibattito, che fa capo ad aspetti teorici estremamente complessi.
Occorre, però, dire almeno l’essenziale.
Ho già accennato che per molti neodarwinisti la macroevoluzione è lo sviluppo della microevoluzione.
Sulla base della variabilità, che oggi come si è detto, va attribuita alla frequenza degli alleli, si definiscono di continuo all'interno di una specie impercettibili cambiamenti di strutture e di funzioni. Se tali cambiamenti sono svantaggiosi, coloro che li portano rischiano di essere eliminati. Se sono, invece, vantaggiosi, aumentano le possibilità di sopravvivenza e di riproduzione. Via via che, nel corso di tempi lunghissimi, i cambiamenti vantaggiosi si sommano, si definiscono diverse varietà all'interno di una specie. Alla fine, però, una di queste varietà può differenziarsi dalle altre e sviluppare un isolamento riproduttivo, dando luogo ad una nuova specie.
Il gradualismo evolutivo postula, dunque, il continuismo, vale a dire una serie indefinita di anelli intermedi tra le varie specie.
Se all’epoca di Darwin, la carenza di reperti paleontologici poteva essere attribuita allo stato ancora nascente di questa nuova disciplina, oggi le cose sono diverse. Ci sono troppi vuoti nella ricostruzione paleontologica, ed essi, tra l’altro, sono distribuiti in in maniera tale da denotare fasi piuttosto lunghe di ristagno e fasi di brusche accelerazioni evolutive.
La macroevoluzione sembra contrassegnata dal catastrofismo piuttosto che dal gradualismo.
Le prime tracce di vita (batteri fossili) risalgono a circa 3,4 miliardi di anni fa. Per almeno 2 miliardi di anni la vita è rappresentata solo da organismi unicellulari. Le prime testimonianze di animali pluricellulari risalgono alla fine del Precambiano. All’inizio del periodo Cambriano, in un intervallo di soli 10 milioni di anni, si realizza una vera e propria esplosione di diversificazione: compaiono tutti i principali gruppi di invertebrati con scheletro.
Circa 225 milioni di anni fa, nel periodo permiano, una metà delle famiglie di invertebrati marini di acque basse si estingue nell'arco di pochi milioni di anni. Nella scala dei grandi eventi della storia della vita questa "grande morìa" è seconda solamente all'esplosione cambriana.
Un’altra grande estinzione avviene nel tardo Cretaceo e provoca la morte dei dinosauri, dei rettili volanti, dei rettili marini giganti, ecc., aprendo la via alla diversificazione dei mammiferi e alla loro radiazione planetaria.
In breve, il passaggio dal Precambriano al Paleozoico segna l'inizio dell'esplosione cambriana, il passaggio dal Paleozoico al Mesozoico l'estinzione permiana e quello fra il Mesozoico e il Cenozoico la seconda grande estinzione.
Questa ricostruzione, su cui concordano ormai gran parte dei paleontologi, è nettamente in contrasto con il gradualismo darwiniano.
L’importanza di questo aspetto, sotto il profilo della filosofia naturale, non può essere minimizzato. Se, infatti, la microevoluzione non richiede alcun altro meccanismo al di la della selezione naturale, vale a dire del caso e dell’interazione tra individui dotati di un determinato corredo genetico e un determinato ambiente, i vuoti in questione, se non giustificano, permettono di comprendere che essi possono essere usati dai creazionisti come un grimaldello. La comparsa repentina di nuove specie a partire da lunghi periodi di stagnazione può essere, infatti, ricondotta, con un po’ di fantasia, ad interventi divini dilazionati nell’arco di miliardi di anni.
Prima di accennare alla possibile soluzione di questo problema nell’ottica dell’evoluzionismo, è salutare prendere atto, come si è visto, che l’onestà di Darwin lo ha portato a rendersi conto di questo problema, che egli non era in grado di risolvere. Lo spirito scientifico si differenzia da quello dogmatico non tanto perché esso procede sulla base del metodo sperimentale (che riferito alla storia dell’evoluzione, ovviamente, non è applicabile), bensì perché lo scienziato, se si imbatte in qualche lacuna della sua teoria, non stenta a riconoscerla e a farsene carico.
L'onestà di Darwin è, dunque, elevata al punto che egli ammette di avere commesso l'errore di attribuire alla selezione naturale un potere simile a quello divino nel produrre strutture e funzioni perfette.
Egli, però, come si è accennato, non rinuncerà mai al principio gradualistico. Rendendosi conto che tale principio appare incredibile soprattutto in rapporto all’uomo, non c’è da sorprendersi che abbia dedicato parecchio tempo alla stesura de L’origine dell’uomo.
Il secondo problema è proprio questo. Che l'uomo sia il prodotto di un processo evoluzionistico è fuori di dubbio. Che la sua struttura cerebrale e le singolari funzioni che si realizzano in virtù di essa possano essere ricondotte solo alla selezione naturale è, invece, poco probabile.
Anche all’ominazione, come vedremo, si possono applicare il modello filetico e quello cladico, che fa riferimento ad una ramificazione di specie indipendenti tra loro.
Darwin, però, intendendo cooptare l'uomo nella cornice della sua teoria, è stato costretto ad un azzardo di cui dobbiamo valutare i risultati.