8. L'origine della mente


La storia della vita sulla Terra è stata segnata da tre grandi rivoluzioni. La prima fu l'origine stessa della vita, che viene fatta risalire a poco più di 3 miliardi e mezzo di anni or sono. La vita, sotto forma di microrganismi, divenne una forza possente in un mondo che in precedenza aveva conosciuto solo fenomeni chimici e fisici. La seconda rivoluzione è costituita dall'avvento degli organismi pluricellulari, datato a circa mezzo miliardo di anni or sono. Poi la vita si fece più complessa, e piante e animali di ogni forma e dimensione si evolsero e presero a interagire nell'ambito di fecondi ecosistemi. L'origine dell'autocoscienza umana, risalente a circa 2,5 milioni di anni or sono, fu il terzo evento. La vita divenne consapevole di sé e iniziò a trasformare il mondo naturale.

Che cosa è l'autocoscienza? E, più specificamente, a che cosa serve? Qual è la sua funzione? Interrogativi che potrebbero apparire strani, poiché ciascuno di noi sperimenta la vita attraverso l'autocoscienza, o consapevolezza di sé. Essa è una forza così possente da renderci impossibile immaginare la nostra esistenza privi di quelle sensazioni soggettive che chiamiamo coscienza autoriflessiva. Così possente soggettivamente, ma così elusiva oggettivamente, l'autocoscienza pone i ricercatori dinanzi a un dilemma che alcuni ritengono insolubile: il senso di autoconsapevolezza che ciascuno di noi sperimenta è tanto vivido da illuminare qualsiasi cosa pensiamo e facciamo; d'altra parte, per ciascuno di noi non esiste alcun modo oggettivo per sapere se gli altri sperimentino le nostre stesse sensazioni.

Scienziati e filosofi sono impegnati da secoli nel compito di afferrare questo fenomeno sfuggente. Le definizioni «funzionali» imperniate sulla capacità di controllare i nostri stati mentali possono essere oggettivamente corrette, ma non hanno a che vedere con i meccanismi attraverso i quali noi sappiamo di essere consci di noi stessi e del nostro essere. E' dalla mente che scaturisce il senso di sé, che è al contempo personale e condivisibile con altri. Ma la mente è anche il mezzo con cui, attraverso l'immaginazione, trascendiamo gli oggetti materiali della vita quotidiana, e inoltre ci offre la possibilità di trasformare mondi astratti in realtà multicolori.

Tre secoli fa Descartes tentò di penetrare l'inquietante mistero dei meccanismi che fanno scaturire il senso di sé nell'intimo di ciascuno di noi. I filosofi hanno definito questa dicotomia «contrapposizione corpo-mente». «E' come se fossi improvvisamente caduto in un gorgo che mi sballotta qua e là e mi impedisce sia di raggiungere il fondo che di riemergere» scrisse Descartes. La soluzione che egli propose fu di descrivere la mente e il corpo come entità completamente separate che tuttavia compongono un insieme. «Il sé era visto come una sorta di spettro che possiede e controlla il corpo nello stesso modo in cui noi possediamo e controlliamo la nostra auto» ha osservato il filosofo Daniel Dennett della Tufts University nel suo recente libro Coscienza.

Descartes, inoltre, riteneva che soltanto l'uomo possedesse una mente e che tutti gli altri animali fossero automi. Una visione analoga ha dominato la biologia e la psicologia nell'ultimo mezzo secolo. Noto con il nome di comportamentismo, questo indirizzo della psicologia moderna sosteneva che gli animali non umani sono in grado di rispondere solo in modo riflesso agli eventi che accadono nel loro universo e che sono incapaci di pensiero analitico. I comportamentisti erano convinti che gli animali non possedessero mente, ma che anche qualora l'avessero posseduta noi non avremmo modo di accedervi con mezzi scientifici, e quindi dovremmo ignorarla. Ultimamente è sorta una nuova interpretazione in gran parte per merito di Donald Griffin, un biologo comportamentista della Harvard University che da un paio di decenni tenta di capovolgere questa visione negativa del mondo animale. Griffin ha scritto tre libri sull'argomento, di cui l'ultimo, Animal Minds, è stato pubblicato nel 1992. Psicologi ed etologi, egli afferma, sono apparsi «fulminati dal concetto di coscienza animale». Questo atteggiamento, egli ritiene, è la conseguenza del costante influsso esercitato dal comportamentismo, che ha sempre gettato la propria ombra sulla ricerca scientifica. «In altri campi di ricerca ci troviamo ad accettare prove che non possono essere definite rigorose al cento per cento. Discipline come la cosmologia o la geologia ne sono un esempio. Lo stesso Darwin, d'altro canto, non fu in grado di spiegare in modo rigorosamente scientifico l'evoluzione degli organismi.»

Gli antropologi, tentando di spiegare l'evoluzione dela morfologia umana, non possono trascurare l'evoluzione della mente e più specificamente dell'autocoscienza, una materia al cui studio un biologo è meglio preparato. Inotre dobbiamo domandarci come questo fenomeno sorse nel cervello dell'uomo, il che equivale a domandarsi se la capacità di pensiero scaturì già pienamente sviluppata dal cervello di Homo sapiens senza avere alcun precursore nel resto del mondo naturale, come la visione dei comportamentisti implicherebbe. In altri termini, dobbiamo domandarci in quale momento, nel corso della nostra evoluzione, l'autocoscienza raggiunse lo stadio attuale: ebbe un'origine molto antica, per poi farsi sempre più viva con il progressivo sviluppo dell'uomo? E quali vantaggi evolutivi il possesso di una mente avrebbe conferito ai nostri progenitori? Occorre osservare che questi due interrogativi sono paralleli a quelli sull'evoluzione del linguaggio verbale. Certamente non si tratta di una mera coincidenza, poiché non vi è dubbio che il linguaggio e la coscienza autoriflessiva siano fenomeni strettamente correlati.

Nel ricercare le risposte, non possiamo evitare di chiederci a che cosa serva l'autocoscienza. Dennett ha formulato la domanda in questo modo: «Vi è qualcosa che un'entità cosciente possa fare per se stessa e che una simulazione non-cosciente (ma abilmente congegnata) di quell'entità non possa fare per sé?». Anche Richard Dawkins, zoologo della Oxford University, ha ammesso di esserselo domandato, ma formula l'interrogativo in termini di necessità sentita dagli organismi di prevedere il futuro, una capacità che il cervello esercita attraverso un meccanismo affine a quello della simulazione al computer. Secondo Dawkins, non occorre che questo processo sia conscio. Tuttavia, «l'evoluzione della capacità di compiere simulazioni sembra essere culminata nella coscienza soggettiva». Perché ciò sia accaduto, egli afferma, è il più profondo mistero cui la biologia moderna sia chiamata a rispondere. «Forse la coscienza sorge quando il cervello è in grado di compiere una simulazione del mondo tanto completa da imporgli di comprendervi anche un modello di sé.»

Ovviamente, vi è sempre la possibilità che l'autocoscienza non abbia uno scopo, e non sia altro che un sottoprodotto dell'attività di un cervello ben sviluppato. Ma la mia preferenza va a una visione evolutiva, secondo cui è ipotizzabile che un fenomeno mentale di così grande portata abbia accresciuto la nostra probabilità di sopravvivenza, e dunque sia stato frutto di processi di selezione naturale. Solo nel caso in cui non si possa individuare alcun beneficio si potrà considerare l'ipotesi opposta, secondo cui l'autocoscienza non ebbe alcuna funzione adattativa.

Il neurobiologo Harry Jerison ha compiuto un lungo studio dell'evoluzione cerebrale a partire dall'avvento della vita sulla terraferma. Il modello di variazione nel tempo non può non colpirci, poiché l'origine dei principali gruppi - e talora sottogruppi - di organismi animali è solitamente accompagnata da una sensibile espansione della dimensione relativa dell'encefalo, nota come «encefalizzazione». Circa 230 milioni di anni fa, ad esempio, i primi mammiferi arcaici disponevano di un encefalo quattro o cinque volte più grande di quello medio dei rettili, e un analogo balzo avanti si verificò più o meno 50 milioni di anni or sono con la comparsa dei mammiferi di aspetto moderno. Confrontati con l'insieme degli altri mammiferi, i primati appaiono i più fortemente encefalizzati, poiché il loro volume encefalico è circa il doppio di quello degli altri membri della loro classe. Anche nell'ambito dei primati non umani esiste lo stesso rapporto, in quanto il volume encefalico delle antropomorfe è circa due volte quello medio delle altre scimmie. Il volume encefalico dell'uomo, infine, è circa tre volte quello medio delle antropomorfe.

Pur accantonando per un momento ogni osservazione sull'uomo, possiamo affermare che i successivi incrementi encefalici registrati nel corso della storia evolutiva potrebbero essere interpretati come una progressione di fondamentale importanza biologica: encefalo più grande, in altri termini, si sarebbe accompagnato a un aumento delle capacità dell'organismo che lo possedeva. In assoluto ciò non può non essere vero, ma sarà utile studiare gli avvenimenti da un punto di vista evolutivo. Potremmo infatti ritenere che i mammiferi siano in qualche modo superiori ai rettili, cioè più capaci nello sfruttamento delle risorse di cui necessitano, ma i biologi si sono resi conto che non è così. Se i mammiferi avessero realmente delle capacità superiori di sfruttamento delle nicchie ecologiche, noi dovremmo osservare una maggiore diversità delle modalità di sfruttamento che si rifletterebbe in una maggiore diversità di generi. Al contrario, il numero di generi di mammiferi esistiti in vari momenti della loro storia recente è praticamente uguale al numero di generi di dinosauri, i possenti rettili che popolarono la Terra in epoche remote. Inoltre, il numero delle nicchie ecologiche che i mammiferi sono in grado di sfruttare è paragonabile a quello delle nicchie occupate dai dinosauri. E allora in che cosa consiste il vantaggio di possedere un cervello più grande?

Una delle forze motrici dei processi evolutivi è l'incessante competizione fra specie, nel corso della quale ciascuna si assicura un vantaggio temporaneo derivante da un'innovazione evolutiva che però verrà vanificato da una contro-innovazione, e così via. Il risultato è lo sviluppo di adattamenti all'apparenza sempre migliori - come la capacità di correre più velocemente, una vista più acuta, tecniche di difesa più efficaci, maggiore astuzia - che tuttavia non assicurano vantaggi permanenti. In altri termini, si innescano processi paragonabili a una corsa agli armamenti: entrambe le parti si dotano di armi sempre più numerose ed efficaci ma alla fine nessuna delle due riesce a prevalere sull'altra. I biologi hanno mutuato dal linguaggio militare il termine per descrivere l'analogo fenomeno osservato nel corso dell'evoluzione, e l'accrescimento encefalico può quindi essere considerato come una conseguenza della corsa agli armamenti.

Quando confrontiamo gli encefali più grandi con i più piccoli, invece, le cose stanno in modo diverso. Ma come arrivare a comprendere questa diversità? Secondo Jerison il cervello va considerato come l'artefice della versione della realtà propria di ciascuna specie. Il mondo che percepiamo come individui è essenzialmente una nostra creazione, determinata dalle nostre esperienze. Analogamente, la nostra percezione del mondo come specie è determinata dalla natura degli organi di senso che possediamo. Chiunque abbia un cane sa che vi è un intero mondo di esperienze olfattive cui l'uomo non ha accesso. Le farfalle sono in grado di vedere la luce ultravioletta, noi no. Il nostro universo mentale - e ciò vale indifferentemente per Homo sapiens, per il cane e per la farfalla - è dunque formato dalla qualità delle informazioni che vi confluiscono dall'esterno e dalla sua capacità di elaborarle. Vi è differenza fra il mondo reale, «esterno», e quello percepito dalla mente, «interno».

Nel corso dell'evoluzione, con l'accrescimento delle dimensioni encefaliche si accrebbe anche la quantità di informazioni convogliate dagli organi di senso di cui l'organismo poteva pienamente avvalersi, e gli stimoli indotti si integrarono in modo più completo. Di conseguenza la realtà «esterna» coincise sempre più con la realtà «interna» frutto di modelli mentali, sebbene, inevitabilmente, sussistessero lacune nelle informazioni acquisite. Possiamo anche sentirci orgogliosi delle nostre capacità di introspezione, ma dovremmo ricordare che siamo in grado di cogliere solo ciò che il nostro cervello è predisposto a captare. Sebbene molti studiosi considerino il linguaggio come un mezzo di comunicazione, argomenta Jerison, esso è anche un modo per affinare la nostra realtà mentale. Nello stesso modo in cui gli organi della vista, dell'olfatto e dell'udito sono essenziali per la costruzione del particolare universo mentale di determinati gruppi di animali, il linguaggio è la componente fondamentale del comportamento umano.

Vi è una ricca letteratura filosofica e psicologica in cui viene dibattuto se il pensiero dipenda dal linguaggio o viceversa. Senza dubbio, la maggior parte dei processi cognitivi si svolge senza ricorso al linguaggio e talora inconsapevomente. Le attività fisiche - giocare a tennis, per esempio - sono quasi del tutto automatiche, almeno nel senso che non ci chiediamo costantemente che cosa faremo l'attimo successivo. Ed è lo stesso per la soluzione di un problema che ci balza alla mente mentre stiamo pensando a qualcos'altro. Per alcuni psicologi, il linguaggio parlato è soltanto una sorta di «ripensamento» di cognizioni più profonde.

D'altra parte non vi è dubbio che il linguaggio dia forma ad aspetti del pensiero umano come una mente «muta» non è in grado di fare, il che avvalora l'argomentazione di Jerison.

Come ho già detto, il mutamento più evidente avvenuto durante l'evoluzione del cervello degli ominidi fu il triplicarsi del suo volume. Ma l'accrescimento encefalico non fu che un aspetto di tale mutamento, perché cambiò anche l'organizzazione cerebrale. L'architettura del cervello delle scimmie antropomorfe e dell'uomo segue un modello comune: entrambi sono suddivisi in due emisferi, destro e sinistro, in ciascuno dei quali si osservano quattro lobi: frontale, parietale, temporale e occipitale. Nelle antropomorfe, il lobo occipitale (che si trova nella parte posteriore del cranio) è più espanso di quello frontale, mentre nell'uomo il modello è rovesciato (lobo frontale grande, lobo occipitale piccolo).

Possiamo presumere che questa differenza nell'organizzazione cerebrale si collochi in qualche modo alla base della dicotomia fra mente umana e mente «scimmiesca». Se noi potessimo collocare l'affacciarsi di questa configurazione in un momento dell'evoluzione umana, potremmo formulare un'ipotesi anche sullo sviluppo della mente.

Fortunatamente per gli studiosi, la corteccia cerebrale lascia un'impronta sulla superficie interna delle ossa craniche, e mediante un calco endocranico è possibile ottenerne una copia affidabile. Le informazioni che scaturiscono da questo tipo di ricerca possono essere sorprendenti, come ha constatato Dean Falk durante lo studio di una serie di crani fossili provenienti dall'Africa meridionale e orientale. «L'organizzazione cerebrale delle australopitecine è fondamentalmente simile a quella delle scimmie antropomorfe» afferma la ricercatrice riferendosi alle dimensioni relative dei lobi frontale e occipitale. «Un'organizzazione di tipo umano è presente nelle più antiche specie di Homo.»

Come abbiamo visto, con la comparsa della prima specie del genere Homo mutarono numerosi aspetti della biologia degli ominidi, come la statura e i modelli di accrescimento corporeo. Tali cambiamenti, a mio parere, segnano il passaggio a una nuova nicchia adattativa, quella della dipendenza da attività di caccia e raccolta. A questo stadio evolutivo, un cambiamento dell'organizzazione e delle dimensioni del cervello è congruente con le altre informazioni in nostro possesso e, in termini biologici, ha senso. E' invece molto più difficile determinare in quale misura, a questo stadio, la mente umana si fosse già sviluppata. Ma prima di affrontare la questione dovremmo sapere qualcosa sulla mente delle scimmie antropomorfe, che in termini evolutivi sono i nostri parenti più prossimi.

I primati sono esseri spiccatamente sociali. Bastano poche ore di osservazione di un gruppo di scimmie per capire quanto le interazioni sociali siano importanti per i suoi membri: alleanze già intessute vengono costantemente messe alla prova e rafforzate, mentre la possibilità di stringere nuovi sodalizi non viene mai persa di vista, e poi ci sono gli amici da aiutare e i rivali da sfidare, il tutto in un clima di costante vigilanza per non lasciarsi sfuggire l'occasione di accoppiarsi.

I primatologi Dorothy Cheney e Robert Seyfarth, della University of Pennsylvania, hanno dedicato anni all'osservazione e allo studio di diversi gruppi di cercopiteci grigioverdi dell'Amboseli National Park, in Kenya. A un osservatore occasionale, le repentine esplosioni di attività, spesso aggressive, che caratterizzano questa specie possono apparire un indice di caos sociale. Cheney e Seyfarth, al contrario, conoscendone i singoli individui, le loro relazioni di parentela, le amicizie e le rivalità, sono stati in grado di dare senso a quel caos apparente. Ecco come essi descrivono un'interazione tipica. «Poniamo che una femmina, Newton, ne aggredisca un'altra, Tycho, con cui si trova in competizione per un frutto. Mentre Tycho si allontana, Charing Cross, sorella di Newton, accorre per partecipare all'inseguimento. Contemporaneamente Wormwood Scrubs, un'altra sorella di Newton, si precipita contro Holborn, la sorella di Tycho che sta mangiando a una ventina di metri, e la colpisce sulla testa.»

Quello che era iniziato come un episodio di ostilità fra due singoli individui si trasforma presto in una zuffa che oltre a coinvolgere parenti e amici può essere alimentata anche da conflitti recenti. «Ciascuna scimmia deve essere in grado non solo di prevedere il comportamento delle altre, ma anche di mettere alla prova i propri rapporti con gli altri membri del gruppo» osservano i due primatologi. «Un animale che debba affrontare una simile situazione di turbolenza non casuale non può accontentarsi di sapere chi è subordinato e chi è dominante nei propri confronti, ma deve avere presenti le alleanze e saper prevedere chi potrebbe accorrere in aiuto di un suo nemico.» L'esigenza di avere un quadro mentale delle alleanze nell'ambito di un gruppo sociale è la chiave di un paradosso primatologico, osserva Nicholas Humphrey, psicologo della Cambridge University.

Il paradosso è il seguente: «È stato più volte dimostrato in situazioni create in laboratorio che le scimmie antropoidi posseggono impressionanti capacità di ragionamento creativo,» spiega Humphrey «tuttavia queste brillanti manifestazioni di intelligenza non hanno riscontro nel comportamento degli stessi animali nel loro ambiente naturale. Le osservazioni condotte sul campo non menzionano esempi di scimpanzé che abbiano usato appieno le loro capacità deduttive per risolvere un problema, pratico di rilevanza biologica». Lo stesso si potrebbe dire dell'uomo, commenta l'autore. Supponiamo, per esempio, di osservare il comportamento di Einstein nello stesso modo in cui i primatologi osservano quello degli scimpanzé, cioè attraverso le lenti di un binocolo, e constateremmo che solo occasionalmente questo grande uomo è percorso da un lampo di genio. «Egli non faceva uso [del suo genio] perché, nell'ordinario svolgimento delle attività quotidiane, non ne aveva alcun bisogno.»

O la selezione naturale ha sprecato i propri doni permettendo che si evolvessero primati - uomo compreso - più capaci del necessario, o la loro vita quotidiana è intellettualmente molto più impegnativa di quanto appaia all'osservatore esterno. Humphrey si è convinto della validità di questa seconda ipotesi e, specificamente, che la spiccata socialità propria del modo di vita dei primati comporti veri e propri cimenti intellettuali. Il ruolo primario dell'intelletto creativo, secondo Humphrey, è quello di «mantenere la coesione sociale».

Ora i primatologi sanno che la rete di alleanze all'interno di un gruppo di primati è estremamente complessa e che il suo apprendimento - indispensabile al successo evolutivo dell'individuo - è alquanto laborioso ed è reso ancora più arduo dai continui mutamenti subiti dal gioco delle alleanze, via via rimescolate dai successivi tentativi dei membri del gruppo di accrescere il proprio potere politico. Costantemente all'erta per fare l'interesse proprio e quello dei parenti più prossimi, i membri del gruppo possono talvolta trovare vantaggioso sciogliere le alleanze del momento e formarne di nuove, talora anche con quelli che poco prima erano nemici. Humphrey ha definito questo gioco «gli scacchi sociali», e non vi è dubbio che esso richieda un intelletto molto acuto.

Chi gioca una simile partita a scacchi deve possedere capacità maggiori di chi giocava un tempo con regole più semplici, poiché deve far fronte non solo a imprevedibili cambiamenti di identità dei pezzi - cavalli che diventano alfieri, pedoni che diventano torri e così via - ma anche a occasionali cambi di campo in seguito ai quali gli alleati diventano nemici. I giocatori devono stare sempre all'erta, attenti a cogliere potenziali vantaggi e a proteggersi da potenziali pericoli. Ma attraverso quali meccanismi?

Nelle società di primati, l'individuo non può permettersi di non saper prevedere il comportamento degli altri. Uno dei mezzi potrebbe essere il possesso di un'immensa banca mentale in cui memorizzare ogni possibile azione dei propri compagni e le relative risposte. Questo è il modo in cui il programma di scacchi Deep Thought permette al computer di diventare Gran Maestro. Ma i computer riescono a passare in rassegna tutte le possibili combinazioni di un particolare insieme di circostanze molto più rapidamente di quanto possa fare un cervello, che quindi ha bisogno di poter contare su altri mezzi. Se, per esempio, gli individui fossero in grado di considerare criticamente il proprio comportamento invece di limitarsi a operare come automi computerizzati, svilupperebbero una capacità intuitiva di comportarsi in determinate circostanze e, per estrapolazione, potrebbero essere in grado di prevedere il comportamento degli altri nelle medesime circostanze. Questa capacità di vedere dentro di sé, cui Humphrey ha dato il nome di «occhio della mente», è una definizione dell'autocoscienza, e conferì un considerevole vantaggio evolutivo a quegli individui che la possedevano.

Una volta che l'autocoscienza si fu sviluppata non vi fu modo di tornare indietro perché gli individui meno dotati si trovarono in una situazione evolutivamente svantaggiata, mentre quelli che ne erano dotati in misura maggiore, anche di poco, furono ulteriormente favoriti. Ne seguì una sorta di corsa agli armamenti che spinse il processo ancora più avanti, accrescendo l'intelligenza e rendendo più acuta la consapevolezza di sé. A mano a mano che l'occhio della mente acuiva la propria capacità di osservazione sarebbe necessariamente emerso un vero e proprio senso del sé, una coscienza autoriflessiva sintetizzabile nel binomio «occhio interiore/io interiore».

Questa ipotesi, formulata nell'ambito del tentativo di spiegare lo sviluppo dell'intelligenza sociale, suscitò grande interesse e trovò diversi sostenitori. In una recensione di alcuni studi su gruppi di primati pubblicata nel 1986 su «Science», Dorothy Cheney, Robert Seyfarth e Barbara Smuts fecero osservare l'importanza dell'intelligenza nei contesti sociali rispetto a quella occorrente per far fronte a necessità tecnologiche. Robin Dunbar, invece, studiò la diversa quantità di corteccia cerebrale - la parte «pensante» del cervello - in diverse specie di primati, scoprendo che questa era più sviluppata nelle specie che vivono in gruppi numerosi, i cui membri devono giocare più complesse partite di «scacchi sociali». «Le mie conclusioni sono congruenti con l'ipotesi dell'intelligenza sociale» affermò Dunbar.

La comprensione del comportamento animale - che ha conosciuto una vera e propria rivoluzione capace di minare il dogma dei comportamentisti secondo cui gli animali non possiedono mente - si è avvalsa di due ordini di testimonianze particolarmente importanti. Uno è stato un insieme di esperimenti pionieristici aventi lo scopo di individuare l'autocoscienza - definita come capacità di riconoscere se stessi - in animali non umani. Il secondo si proponeva di individuare eventuali capacità tattiche di inganno in primati osservati nel loro habitat naturale.

Purtroppo un'esperienza così personale come l'autocoscienza è difficilmente comprensibile con gli strumenti di cui lo psicologo sperimentale solitamente dispone. Forse è per questo che tanti ricercatori hanno eluso la questione della mente e della coscienza negli animali non umani. Ma verso la fine degli anni Sessanta Gordon Gallup, uno psicologo della State University of New York, Albany, mise a punto il «test dello specchio» per accertare la presenza del senso di sé. Quando un animale era in grado di riconoscere la propria immagine riflessa in uno specchio si poteva affermare che possedesse la consapevolezza di sé, o autocoscienza. Chi possiede un gatto o un cane sa che questi animali reagiscono alla propria immagine riflessa nello specchio, ma spesso la interpretano come quella di un conspecifico il cui comportamento diviene in breve incomprensibile e privo di interesse. (Ciononostante, quasi tutti i padroni sarebbero diposti a giurare che il loro cane o il loro gatto ha coscienza di sé.)

L'esperimento - ideato da Gallup un mattino mentre si stava radendo - consisteva innanzitutto nel far familiarizzare l'animale con lo specchio e poi nel marcarne la fronte con una macchia rossa. Se l'animale avesse visto quello riflesso nello specchio come un altro individuo della sua specie, forse avrebbe trovato strana quella macchia rossa e forse avrebbe persino tentato di toccarla sullo specchio. Ma se si fosse reso conto che l'immagine riflessa era la sua, avrebbe probabilmente toccato la macchia sul proprio corpo. La prima volta Gallup provò con uno scimpanzé e l'animale reagì come se avesse saputo che l'immagine riflessa nello specchio era la sua, cioè toccandosi la fronte in cerca della macchia rossa. La relazione dell'esperimento di Gallup, da lui stesso pubblicata su «Science» nel 1970, rappresentò una pietra miliare per la nostra comprensione della mente animale, e gli psicologi iniziarono a domandarsi quanto il riconoscimento di sé si sarebbe rivelato ampio.

«Non molto ampio» fu la risposta. L'orango superò il test dello specchio, ma, sorprendentemente, il gorilla no. Alcuni hanno affermato di aver visto un gorilla comportarsi, in situazioni non di test, come se riconoscesse la propria immagine, il che può venire interpretato come un indicatore del senso di sé in questi animali. Un Rubicone mentale, con l'autocoscienza su una sponda e la sua totale assenza sull'atra, avrebbe avuto senso se sulla sponda dell'autocoscienza si fossero trovati l'uomo e le grandi antropomorfe, e sull'altra i restanti primati e altri animali. Ma alcuni primatologi la considerarono una divisione troppo drastica, soprattutto se valutata alla luce delle loro osservazioni sulla complessa vita sociale di molte specie di scimmie non antropomorfe. Recentemente è stato studiato un test che mette alla prova i confini di questa divisione, che ha preso il nome di «test dell'inganno tattico».

Il nome del test è stato coniato da Andrew Whiten e Richard Byrne, della University of St. Andrews, Scozia, ed esso si propone di accertare «la capacità di un individuo di utilizzare un "atto onesto" del proprio comportamento normale in un contesto diverso, tale da risultare fuorviante anche per individui che hanno familiarità con il suo autore». In altri termini, può accadere che un animale menta a un altro. Per essere in grado di perpetrare un inganno intenzionale, un animale deve sapere come le sue azioni appaiono a un altro individuo, e tale capacità richiede autocoscienza. Anche quando venga realmente messo in atto un inganno, l'animale non può farlo troppo spesso poiché, al pari del ragazzo che gridava «Al lupo, al lupo!», se lo fa una volta di troppo non verrà più creduto.

Richard Byrne e Andrew Whiten iniziarono a interessarsi allo studio dell'inganno dopo avere assistito a numerosi episodi che potevano essere interpretati come tale nelle loro osservazioni di una popolazione di babbuini che vive sui monti Drakensberg, in Sudafrica. Un giorno Paul, un maschio giovane, si avvicinò a Mei, una femmina matura, intenta a dissotterrare un tubero succulento. Paul si guardò intorno e si accertò che nessun altro babbuino fosse in vista, benché si rendesse certamente conto che gli altri non erano molto lontani. Poi lanciò un grido acutissimo, come se fosse stato in pericolo. La madre di Paul, dominante rispetto a Mei, reagì come avrebbe fatto qualsiasi altra madre protettiva:- si precipitò sulla scena e scacciò Mei, apparentemente colpevole. A quel punto Paul si mise in bocca il tubero con indifferenza. Forse Paul si era detto: «Hmm, se grido, mia madre penserà che Mei mi abbia aggredito, correrà a difendermi, e quel bel tubero succulento sarà mio». Se le cose andarono così, è un buon esempio di inganno tattico.

Byrne e Whiten ritennero che le cose fossero andate reamente così, e invitarono al loro campo altri primatologi che li coadiuvassero. Le osservazioni condotte da questo gruppo informale di ricerca fruttarono molte altre vicende analoghe anche se, a causa della loro natura aneddotica, soltanto acune trovarono posto nella letteratura scientifica. Nel 1985 e nel 1989 Byrne e Whiten intervistarono più di cento coleghi in cerca di possibili esempi di inganno tattico, raccogliendo più di trecento testimonianze. I soggetti osservati non erano solo le grandi antropomorfe, ma anche specie di scimmie comuni, ed è interessante notare come nessuno dei ricercatori abbia riferito esempi di inganno tattico praticato da primati «inferiori» come i galagoni e i lemuri.

Quando un primatologo cerca testimonianze di inganno deve sempre domandarsi se l'azione osservata sia realmente frutto del ragionamento - basato sul senso del sé - di un singolo individuo, o se non sia semplicemente un comportamento appreso che non richiede autococienza. Paul, per esempio, poteva forse avere imparato che in quella particolare circostanza emettere un grido gli avrebbe permesso di avvicinarsi al tubero di Mei, e in questo caso il suo comportamento si sarebbe dovuto interpretare non come un atto di inganno tattico ma piuttosto come una risposta appresa.

Quando Byrne e Whiten esaminarono i presunti inganni alla luce di criteri molto rigorosi con l'intento di escludere i comportamenti appresi, trovarono che dei 253 casi osservati nel 1989 solo 16 rispecchiavano un inganno tattico vero e proprio. Inoltre gli autori erano sempre antropomorfe, con una prevalenza di scimpanzé. Citerò un solo esempio, riferito dal primatologo olandese Frans Plooij della Gombe Stream Reserve, in Tanzania.

Uno scimpanzé maschio adulto si trovava solo in un'area di foraggiamento quando, con un sistema elettronico, gli venne aperta una scatola contenente delle banane. Proprio in quel momento sopraggiunse un altro scimpanzé, al che il primo si affrettò a richiudere la scatola e ad allontanarsi facendo finta di nulla. Dopo avere atteso fino a quando l'intruso se ne fu andato, lo scimpanzé riaprì rapidamente la scatola e prese le banane. Ma non era solo come credeva. L'intruso, infatti, non se n'era andato ma si era nascosto ed era rimasto in attesa di vedere che cosa sarebbe successo, ingannando quello che avrebbe voluto essere il suo ingannatore. Questo, secondo me, è un persuasivo esempio di inganno tattico.

Simili osservazioni aprono una finestra sulla mente dello scimpanzé. E' evidente che questo animale possiede un significativo grado di autocoscienza, una conclusione entusiasticamente appoggiata dai ricercatori che frequentano questi animali quotidianamente. Gli scimpanzé mostrano un alto grado di autocoscienza nelle loro interazioni reciproche e con l'uomo. Come quest'ultimo sono in grado di leggere la mente, e se ne differenziano solo per la limitatezza delle loro capacità di immedesimazione.

Nell'uomo, la lettura della mente non si limita alla semplice previsione di ciò che gli altri faranno in determinate circostanze, ma include la comprensione dei sentimenti altrui. Tutti noi siamo in grado di provare empatia per altre persone che si trovano in situazioni dolorose o penose. In modo mediato, noi sperimentiamo l'angoscia altrui, talvolta con tale intensità da soffrirne fisicamente. La più conturbante esperienza mediata che è possibile compiere nella società umana è la paura della morte, o anche, più semplicemente, la consapevolezza che dovremo morire, da cui il suo ruolo dominante nei miti e nelle religioni. Nonostante la loro autocoscienza, gli scimpanzé appaiono tutt'al più incuriositi dalla morte. I primatologi hanno riferito numerosi casi in cui singoli individui o intere famiglie rimasero turbati o disorientati dalla morte di un parente. Quando muore un piccolo, ad esempio, non è raro che la madre continui a portare con sé il cadaverino per alcuni giorni prima di abbandonarlo. Inoltre essa assume un'espressione non tanto di vero e proprio dolore quanto di disorientamento. Ma noi come facciamo a saperlo? Ancora più significativa, forse, è l'assenza di ciò che noi definiremmo empatia nei confronti della madre che ha perso il piccolo da parte degli altri individui del gruppo. Quale che sia il genere di sofferenza che può provare, essa soffre in solitudine. La limitazione dello scimpanzé a provare empatia per i suoi conspecifici si estende all'animale stesso come individuo: nessun ricercatore ha mai riscontrato che uno scimpanzé sia stato consapevole della propria mortalità o della morte imminente. Ma, anche in questo caso, come facciamo a saperlo?

Che cosa siamo in grado di dire sull'autocoscienza dei nostri progenitori? 7 milioni di anni ci separano dall'ultimo progenitore comune a uomo e scimpanzé, e quindi dobbiamo essere cauti quando presumiamo che gli scimpanzé siano rimasti immutati, e che studiando quelli attuali possiamo realmente sapere qualcosa sui nostri antenati. Da quando le linee evolutive di scimpanzé e uomo iniziarono a divergere, questo grande primate deve essere cambiato, ma è plausibile ritenere che il progenitore comune - simile alle scimmie antropomorfe, dotato di un cervello voluminoso e capace di una vita sociale complessa - abbia sviluppato un proprio livello di autocoscienza.

Supponiamo che il progenitore comune dell'uomo e delle antropomorfe africane possedesse un livello di autocoscienza equivalente a quello dello scimpanzé attuale. Da quanto abbiamo appreso sulla biologia e l'organizzazione sociale delle australopitecine possiamo affermare che esse erano essenzialmente antropomorfe con andatura bipede, e che la struttura sociale dei gruppi di australopitecine non comportava rapporti più stretti di quelli osservati fra i babbuini attuali. Non vi è dunque alcuna ragione specifica per ritenere che il loro livello di autocoscienza si sia accresciuto nei primi 5 milioni di anni di esistenza della famiglia umana.

E' probabile che i significativi cambiamenti avvenuti con l'evoluzione del genere Homo nelle dimensioni e nell'architettura dell'encefalo, nell'organizzazione sociale e nelle modalità di sussistenza avessero segnato anche l'inizio di un cambiamento del livello di coscienza. Certamente, l'inizio di un modo di sussistenza basato sulla caccia e la raccolta accrebbe la complessità del gioco di scacchi sociale che i nostri progenitori dovettero imparare a padroneggiare. I giocatori più dotati - quelli provvisti di un modello mentale più acuto e di una più penetrante consapevolezza - ebbero il maggior successo sociale e riproduttivo. Ciò fornì la materia su cui la selezione potè operare, portando l'autocoscienza a livelli sempre più alti. Questo graduale sviluppo ci mutò in un animale di nuovo tipo, un animale che stabilisce modelli arbitrari di comportamento basati sul proprio concetto di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.

Gran parte di quanto abbiamo esposto, naturalmente, è frutto di semplici illazioni. Come possiamo sapere in qual modo si evolse l'autocoscienza negli ultimi 2,5 milioni di anni? Come potremmo individuare il momento preciso in cui essa diventò quale la percepiamo oggi? La realtà è che un simile interrogativo potrebbe non trovare mai risposta. Se ho difficoltà a dimostrare che un altro essere umano possiede il mio stesso livello di coscienza, e se i biologi hanno difficoltà a determinare il livello di coscienza di animali non umani, come è possibile discernere i segni di una coscienza autoriflessiva in individui esistiti in un passato tanto remoto? La documentazione fossile, in cui è difficile ritrovare tracce di uso del linguaggio articolato, a questo riguardo non ci dice quasi nulla. Sappiamo con certezza che alcuni comportamenti umani - come per esempio le attività artistiche - riflettono sia la capacità di usare un linguaggio verbale sia l'acquisizione dell'autocoscienza. Altre attività - come la fabbricazione di strumenti litici - possono indicare l'esistenza di un linguaggio articolato ma non necessariamente di un certo grado di autocoscienza. Ciononostante vi è un'attività umana che ne indica la presenza e che talvolta lascia tracce nella documentazione fossile, ed è la sepoltura intenzionale dei defunti.

Le testimonianze di riti funerari parlano chiaramente di consapevolezza della morte, e quindi di consapevolezza di sé. Ciascuna società ha trovato il modo di collocare il concetto di morte nella propria mitologia e nella propria religione. Nel mondo attuale ciò viene fatto in molti modi, che variano dalla cura del cadavere per un lungo periodo, e che talora ne prevede lo spostamento da un luogo a un altro dopo un anno o anche più, fino al prestare al cadavere in sé un'attenzione minima. Talvolta, ma non spesso, il rito funerario comporta l'inumazione del defunto. I riti funerari accompagnati dall'inumazione, praticati dai membri di antiche società umane, hanno, in un certo senso, congelato nel tempo le tracce della cerimonia, permettendo agli archeologi di interrogarsi e di formulare ipotesi.

La prima testimonianza di inumazione intenzionale della storia umana è una sepoltura neandertaliana risalente a non più di 100.000 anni or sono. Una delle più significative è datata invece a circa 60.000 anni or sono ed è stata ritrovata sui monti Zagros, nell'Iraq settentrionale. Un maschio in età matura venne sepolto all'entrata di una caverna; il suo corpo, a quanto sembra, era stato deposto su un letto di fiori di piante medicinali, i cui pollini furono ritrovati al suolo tutt'intorno allo scheletro fossilizzato. Forse, hanno ipotizzato alcuni antropologi, si trattava di uno sciamano. Prima di 100.000 anni fa non vi è traccia né di riti indicanti uno sviluppo di coscienza autoriflessiva né, come abbiamo già visto nel capitolo 6, di manifestazioni artistiche. E' vero che l'assenza di simili testimonianze non dimostra in modo conclusivo l'assenza di autocoscienza, ma d'altra parte non ne dimostra nemmeno l'esistenza. Tuttavia mi sorprenderebbe che gli immediati progenitori delle popolazioni di Homo sapiens arcaico e delle ultime popolazioni di Homo erectus non possedessero un livello di autocoscienza significativamente più elevato di quello dello scimpanzé, che peraltro è indicato dalla complessità sociale raggiunta da questi gruppi umani, dall'accentuata espansione encefalica e, probabimente, dalle capacità di linguaggio articolato già acquisite.

Come ho già detto, l'uomo di Neandertal e probabilmente altre forme arcaiche di Homo sapiens erano consapevoli di dover morire, e avevano quindi un alto grado di autocoscienza. Ma essa era così vivida come la nostra attuale? Probabilmente no. Lo sviluppo di un linguaggio articolato e di un'autocoscienza pienamente moderni erano indubbiamente correlati e si alimentavano vicendevolmente. L'uomo anatomicamente moderno divenne tale quando imparò a parlare come noi facciamo oggi e quando pervenne ad avere un'esperienza di sé simile alla nostra. Le testimonianze di questo processo sono evidenti nell'arte europea e africana a partire da 35.000 anni or sono e nei complessi rituali che accompagnavano la sepoltura dei defunti nel Paleolitico superiore.

Ogni società umana ha elaborato un mito della propria origine, la storia primordiale. I miti attingono alla sorgente dell'autocoscienza, la voce interiore che ricerca una spiegazione per ogni cosa. Dal momento in cui questa iniziò a fiammeggiare nella mente umana, anche mitologia e religione entrarono nella storia dell'uomo, ed è probabile che continuino a farne parte anche nella nostra epoca dominata dalla conoscenza scientifica. Un tema comune nella mitologia è l'attribuzione di motivazioni e di emozioni umane non solo ad animali non umani ma anche a oggetti (come una montagna) e a forze fisiche (come una tempesta). Questa tendenza ad antropomorfizzare fluisce con naturalezza dal contesto in cui l'autocoscienza umana si è evoluta. Essa è lo strumento sociale per riuscire a comprendere il comportamento altrui modellandolo sui propri sentimenti. In altri termini, con una semplice e naturale estrapolazione è possibile attribuire queste stesse motivazioni ad aspetti del mondo che, pur non umani, sono importanti.

Animali e piante sono indispensabili per la sopravvivenza delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori quanto lo sono le forze naturali, che contribuiscono alla conservazione dell'ambiente. La vita, il risultato della complessa interazione di tutti questi elementi, è anche una complessa interazione di azioni intenzionali, e altrettanto lo sono i rapporti sociali. Non sorprende quindi che animali e forze naturali rivestano un ruolo importante nella mitologia delle popolazioni di raccoglitori di tutto il mondo. Le stesse considerazioni sono valide per il passato.

Una decina di anni fa, quando visitai gran parte delle grotte decorate francesi, questo pensiero continuava ad affacciarmisi alla mente. Le immagini che avevo davanti agli occhi - alcune delle quali erano semplici schizzi mentre altre rivelavano una cura artigiana per i dettagli - esercitavano sempre un potente impatto sulla mia mente ma il loro significato mi rimaneva oscuro. Le figure per metà umane e per metà animali, in particolare, stimolavano e al contempo frustravano la mia immaginazione. Ero certo di trovarmi in presenza di elementi del mito dell'origine di un'antichissima popolazione, ma non avevo modo di penetrarlo. La storia recente ci ha insegnato che i San del Kalahari attribuiscono una miriade di poteri spirituali al taurotrago, ma quanto al ruolo del cavallo e del bisonte nella vita spirituale delle popolazioni europee dell'era glaciale possiamo solo formulare ipotesi. Sappiamo che era un ruolo importante, ma non sappiamo con precisione quale fosse.

Davanti ai bisonti raffigurati a Le Tue d'Audoubert intravidi il filo che collega le menti umane attraverso i millenni: la mente degli scultori di quelle figure e la mia, quella di chi le osservava. E mi sentii frustrato per la distanza che mi separava dal mondo dell'artista, non per il divario cronologico ma per quello culturale. Questo è uno dei paradossi di Homo sapiens: la nostra sensazione di identità e al contempo di diversità rispetto a una mente foggiata da millenni di sopravvivenza basata sulla caccia e la raccolta. Il senso di identità ci proviene dal possesso comune della coscienza di sé e dal comune timore reverenziale provato dinanzi al miracolo della vita. Il senso di diversità ci proviene dalle differenze culturali - espresse dalla varietà di linguaggio, di costumi e di religione - che noi creiamo e dalle quali veniamo foggiati: un mirabile frutto dell'evoluzione di cui dovremmo gioire.