6.Il linguaggio dell'arte


Non vi è dubbio che le immagini raffiguranti uomini e animali realizzate negli ultimi 30.000 anni - incisioni, dipinti o sculture - siano tra le testimonianze più importanti della preistoria umana. A quell'epoca l'uomo anatomicamente moderno era già comparso e occupava gran parte del Vecchio Mondo, ma probabilmente non ancora il Nuovo Mondo. Ovunque si trovasse - in Africa, in Asia, in Europa, in Australia - egli rappresentò il proprio mondo creando immagini che, nate da una profonda necessità interiore, erano ora fortemente evocative ora enigmatiche.

Una delle esperienze più memorabili della mia carriera di antropologo fu la visita di alcune caverne dipinte della Francia sudoccidentale. Nel 1980 stavo realizzando una serie di filmati per la Bbc ed ebbi così il raro privilegio di poter accedere alla famosa grotta di Lascaux, vicino a Les Eyzies-de-Tayac, in Dordogna. Questa grotta, la più fittamente decorata fra quelle europee dell'era glaciale, era stata chiusa al pubblico nel 1963 per proteggere l'integrità delle sue pitture; oggi il numero di visitatori ammessi è rigorosamente limitato a cinque al giorno, ma da poco è stata ultimata una riuscitissima copia delle pareti dipinte. La visita del 1980 mi richiamò alla memoria quella che circa trentacinque anni prima avevo compiuto insieme ai miei genitori e a Henri Breuil, il più famoso preistorico francese. Le figure di tori, cavalli e cervi mi lasciarono stupefatto, in questa occasione come allora, per l'impressione di movimento che riuscivano a comunicare.

Tanto Lascaux è spettacolare, quanto Le Tue d'Audoubert, nella regione dell'Ariège, in Francia - una delle tre grotte dipinte situate sul terreno di proprietà del conte Robert Bégouën - è avvincente per la sua unicità. Attraverso una galleria stretta e sinuosa lunga alcuni chilometri si passa dalla luce del sole alla più profonda oscurità. La torcia illumina le pareti creando giochi di ombre danzanti, mentre il pavimento di argilla si accende di arancione. Dopo un po' raggiungiamo una piccola sala rotonda all'estremità del passaggio e il conte illumina con studiata solennità un punto al centro della camera; poco oltre, la volta inizia a digradare verso il suolo. In quel punto, contro una roccia, si vedono le figure di due bisonti superbamente scolpite nell'argilla.

Ovviamente queste famose raffigurazioni mi erano già note, ma mi trovai del tutto impreparato a vederle dal vero. Di dimensioni circa sei volte inferiori a quelle naturali, sono perfettamente realistiche e, piene di movimento pur nella loro immobilità, sembrano dotate di vita. L'abilità degli artisti che le eseguirono 15.000 anni or sono è sorprendente, soprattutto se si pensa alle condizioni in cui essi dovettero lavorare. Utilizzando semplici lucerne riempite di grasso animale, trasportarono l'argilla da una camera vicina e modellarono le figure degli animali con le dita e con spatole rudimentali, mentre occhi, narici, bocche e criniere vennero incisi con bastoncini appuntiti o strumenti in osso. Finito il lavoro, essi ripulirono con cura il terreno circostante lasciando solo qualche pezzo di argilla dal curioso aspetto di un salsicciotto. In un primo tempo interpretati come forme falliche o rappresentazioni di corna, questi «salsicciotti» si sono ora rivelati i campioni su cui lo scultore sperimentava la plasticità del materiale.

Le ragioni che spinsero a creare la coppia di bisonti e le circostanze in cui essi vennero eseguiti sono ormai perdute nel tempo. Una terza figura è sommariamente incisa sul suolo accanto ai due bisonti, e a queste si aggiunge una statuetta, anch'essa in argilla. Intorno alle figure vi sono curiose impronte di piedi, probabilmente di bambini, che ci inducono a supporre che questi giocassero intorno agli artisti al lavoro. Ma se è così, perché non si osservano anche le orme degli artisti? E possibile che siano state lasciate nel corso di cerimonie rituali e che quindi rappresentino una testimonianza di qualche aspetto della mitologia del Paleolitico superiore in cui la raffigurazione del bisonte aveva un ruolo centrale? Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai. Come disse l'archeologo sudafricano David Lewis-Williams a proposito dell'arte preistorica, «il senso va ricercato nella cultura».

Lewis-Williams, che lavora alla University of the Witwatersrand, ha studiato l'arte dei !Kung del Kalahari ritenendo che potesse fare luce sul significato dell'arte preistorica, compresa quella europea dell'era glaciale. Egli aveva notato che l'espressione artistica è talvolta un filo sottile ed enigmatico che percorre l'intricata trama del tessuto culturale di una società. Anche la mitologia, la musica e la danza ne fanno parte: ciascun filo concorre a formare il significato dell'insieme, ma presi uno per uno possono fornire solo indicazioni incomplete.

Se anche potessimo essere testimoni di un momento della vita del Paleolitico superiore in cui le pitture rupestri avevano una funzione, ne comprenderemmo il significato complessivo? Ne dubito. Basta pensare alle narrazioni contenute nelle religioni moderne per rendersi conto dell'importanza di simboli criptici che, decontestualizzati dalla cultura di appartenenza, sembrano non avere senso. Per un cristiano l'immagine di un uomo con un bastone in mano e un agnello ai piedi è carica di significato, ma per chi non conosce il cristianesimo ne è totalmente priva.

Il mio non vuole essere un messaggio di rinuncia, ma solo un appello alla cautela. Le immagini del passato giunte fino a noi sono frammenti di una storia antica e, sebbene il desiderio di decifrarle sia forte, è saggio ammettere i limiti delle nostre possibilità di comprensione. Per di più, la nostra percezione dell'arte preistorica è inevitabilmente viziata dai pregiudizi della mentalità occidentale. Una prima conseguenza è stata la scarsa attenzione rivolta alle forme d'arte preistorica dell'Africa orientale e meridionale, antiche quanto e talvolta più delle nostre. In secondo luogo abbiamo giudicato l'arte preistorica con l'ottica occidentale, come se la si potesse paragonare ai dipinti appesi alle pareti dei musei, o a oggetti esistenti al solo scopo di essere guardati. Il grande preistorico francese André Leroi-Gourhan affermò che le immagini prodotte nell'era glaciale rappresentano «le origini dell'arte occidentale». Questo è palesemente erroneo perché alla fine di quell'epoca, intorno a 10.000 anni or sono, l'arte figurativa che aveva trovato la sua espressione nelle pitture e nelle incisioni rupestri era quasi del tutto scomparsa per lasciare il posto a immagini stilizzate e a composizioni geometriche. Molte delle soluzioni tecniche applicate a Lascaux - prospettiva, impressione di movimento - dovettero essere reinventate dall'arte rinascimentale.

Prima di intraprendere il tentativo di esplorare la vita del Paleolitico superiore attraverso le immagini prodotte in quel periodo, cercheremo di dare una visione generale delle sue espressioni artistiche. Il periodo in questione è compreso fra 35.000 e 10.000 anni or sono e si conclude con la fine dell'era glaciale. E' bene ricordare che le prime testimonianze di una tecnologia sofisticata nell'Europa occidentale, che evolsero con la stessa rapidità delle mode, risalgono a questo arco di tempo. Il ritmo dei cambiamenti è segnato dalle denominazioni date alle nuove tecnologie succedutesi nel Paleolitico superiore, che tutte insieme compongono una sequenza applicabile anche all'arte paleolitica.

Il Paleolitico superiore inizia con l'Aurignaziano, fra 34.000 e 30.000 anni or sono. Non si conoscono dipinti in caverna risalenti a quel periodo, ma sappiamo che venivano fabbricate grandi quantità di perline in avorio, usate probabilmente per decorare le vesti, e di raffinate figurine umane e animali, anch'esse intagliate nell'avorio. Nel sito di Vogelherd, in Germania, è stata ritrovata una mezza dozzina di queste figurine rappresentanti mammut e cavalli, una delle quali, come molte altre risalenti al Paleolitico superiore, è eseguita con estrema perizia. Come ho già detto, anche la musica rivestiva un ruolo molto importante nella vita di queste popolazioni, e un piccolo flauto in osso ritrovato ali'Abri Blanchard, nella Francia sudoccidentale, potrebbe esserne una testimonianza.

Gli uomini del Gravettiano, fra 30.000 e 22.000 anni or sono, furono i primi a plasmare figurine in argilla, raffiguranti di volta in volta uomini o animali. Le pitture rupestri risalenti a quel periodo sono rare, ma in alcune caverne sono state rinvenute impronte in negativo, realizzate probabilmente applicando le mani alle pareti e soffiando il colore tutt'intorno. (Un esempio un po' macabro di questa pratica è quello del sito di Gargas, nei Pirenei francesi, dove si contano più di duecento impronte di mani, quasi tutte mancanti di una o più falangi.) La grande novità del Gravettiano resta comunque quella delle figure femminili, spesso mancanti del volto e degli arti inferiori. Realizzate in argilla, avorio o calcite, le «veneri» (così vengono convenzionalmente denominate) sono diffuse in gran parte dell'Europa e da principio si riteneva che incarnassero un culto della fertilità femminile esteso a tutto il continente. Un più recente e approfondito studio ha tuttavia rilevato grandi differenze fra queste figure, tanto che gli studiosi tuttora convinti del legame con il culto della fertilità rimangono pochi.

Le pitture rupestri, che generalmente catturano gran parte della nostra attenzione, ebbero inizio nel Solutreano, fra 22.000 e 18.000 anni or sono. In questo periodo vi furono altre importanti forme di espressione artistica: le popolazioni solutreane eseguirono - spesso nel sito stesso in cui vivevano - grandi bassorilievi di forte impatto visivo. Uno splendido esempio è costituito dal lungo fregio raffigurante cavalli, bisonti, renne, stambecchi e un uomo intagliati nella roccia di un riparo presso il sito di Roc-de-Sers, nella regione della Charente. Per alcune di queste figure la profondità dell'intaglio è di una quindicina di centimetri.

L'ultimo periodo del Paleolitico superiore - il Magdaleniano, fra 18.000 e 11.000 anni or sono - fu quello in cui venne realizzato l'80 per cento delle pitture in caverna. Lascaux fu dipinta a quel tempo, come lo fu Altamira, una caverna altrettanto spettacolare che si trova in Cantabria, nella Spagna settentrionale. I magdaleniani furono anche scultori di talento e realizzarono numerosi oggetti intagliati nella pietra, nell'osso e nell'avorio, alcuni dei quali palesemente di uso pratico (come i propulsori per zagaglie) e altri di interpretazione meno chiara (come i cosiddetti «bastoni di comando»). La figura umana, considerata molto rara nell'arte dell'era glaciale, non lo fu durante il Magdaleniano. Le popolazioni di questo periodo incisero nella grotta di La Marche, nella Francia sudoccidentale, più di cento profili di volti umani, tutti così ben caratterizzati da sembrare veri e propri ritratti.

La spettacolare volta dipinta di Altamira sarebbe forse rimasta sconosciuta se non fosse stato per Maria, la figlioletta di Marcelino Sanz de Sautuola, proprietario del terreno su cui si trova il complesso preistorico. Un giorno del 1879, padre e figlia si introdussero nella caverna, che era stata scoperta circa dieci anni prima. Maria entrò in una camera molto bassa, già esplorata in precedenza da de Sautuola; in seguito ricorderà: «Scorrazzavo per la caverna, e mi fermavo qua e là a giocare. Improvvisamente riconobbi delle forme e delle figure sulla volta. "Guarda, papà, dei buoi!" strillai». Alla luce incerta di una lampada a petrolio la piccola aveva notato ciò su cui per 17.000 anni più nessuno aveva posato lo sguardo: la rappresentazione di un gruppo di ventiquattro bisonti e, lungo il margine esterno, due cavalli, un lupo, tre cinghiali e tre cerve. Il rosso, il giallo e il nero della pittura erano talmente vivi da sembrare appena stesi.

Il padre di Maria, un entusiasta archeologo dilettante, fu colpito dalla scoperta della figlia, che a lui era sfuggita, e ne riconobbe subito l'enorme importanza. Purtroppo non fu lo stesso per gli archeologi professionisti dell'epoca, secondo i quali pitture dai colori tanto vividi e smaglianti dovevano essere recenti. Le raffigurazioni, a loro avviso, apparivano troppo riuscite, troppo realistiche per essere il prodotto di menti primitive, e dovevano esser state eseguite da un artista itinerante contemporaneo.

A quell'epoca erano già stati rinvenuti parecchi esempi di arte mobiliare - oggetti incisi e intagliati su osso e su palco di cervide - e si era giunti ad ammettere l'esistenza di un'arte preistorica, ma questo concetto non era ancora stato esteso alle raffigurazioni rupestri. Per una strana coincidenza, appena prima che venissero scoperte le immagini di Altami- ra, l'insegnante Léopold Chiron aveva rinvenuto numerose incisioni sulle pareti della grotta di Chabot, nella Francia sudoccidentale. Le immagini, tuttavia, erano difficilmente decifrabili e gli studiosi di preistoria si erano dimostrati riluttanti ad accettarle come testimonianza artistica del Paleolitico superiore. Come ha osservato l'archeologo inglese Paul Bahn, «le pitture di Chabot erano troppo modeste per suscitare interesse, mentre quelle di Altamira erano troppo belle per essere credibili».

Nel 1888, alla morte di de Sautuola, Altamira era ancora considerata un lampante tentativo di frode. Soltanto dopo che analoghe scoperte, benché di minore importanza, cominciarono a farsi più frequenti, soprattutto in Francia, fu finalmente accettata l'idea che i dipinti di Altamira fossero realmente preistorici. Il ritrovamento più importante avvenne nella caverna di La Mouthe, nella regione della Dordogna, dove gli scavi iniziati nel 1895 e proseguiti fino alla fine del secolo rivelarono esempi di arte rupestre, come l'immagine scolpita di un bisonte e parecchie altre raffigurazioni. Depositi del Paleolitico superiore avevano ricoperto alcune figure, attestandone l'antichità. Inoltre nella caverna era stata rinvenuta la prima lucerna paleolitica, ricavata da un blocco di arenaria e utilizzata dagli artisti rupestri durante il loro lavoro. L'opinione degli studiosi iniziò a cambiare e presto il concetto di un'arte figurativa paleolitica venne accettato. E' rimasto famoso uno scritto di Emile Carthailac, personaggio di punta nella contestazione dell'autenticità delle pitture, intitolato Mea culpa d'un sceptique, pubblicato nel 1902: «Non abbiamo più alcuna ragione di dubitare di Altamira», ammise. Lo scritto di Carthailac, che pure è divenuto un esempio classico di ritrattazione scientifica, risente di un certo tono forzato e di una residua volontà di difendere il precedente scetticismo dell'autore.

Innanzitutto, sostiene Bahn, si pensava che le pitture dell'era glaciale fossero «inutili scarabocchi, graffiti, un passatempo: decorazioni senza senso fatte dai cacciatori durante i periodi di inattività». Sempre secondo Bahn, questa interpretazione deriva dalla concezione dell'arte diffusa nella Francia dell'epoca: «Per arte si intendeva ancora quella degli ultimi secoli, fatta di ritratti, paesaggi e narrazioni visive. L'unica funzione attribuita all'arte era di intrattenere e decorare». Inoltre alcuni influenti studiosi di preistoria erano fortemente anticlericali e non gradivano che agli uomini del Paleolitico superiore venisse attribuito un sentimento religioso. Poiché i primi esempi di attività artistica - costituiti dagli oggetti di arte mobiliare - sembravano davvero elementari, in un primo momento questa interpretazione apparve ragionevole, ma con il successivo ritrovamento delle raffigurazioni parietali dovette essere modificata. La consistenza numerica degli animali dipinti sul soffitto e sulle pareti non rispecchiava la realtà; inoltre vi erano immagini enigmatiche, segni geometrici non immediatamente riconducibili a un significato evidente.

John Halverson della University of California, Santa Cruz, ha recentemente affermato che i preistorici dovrebbero tornare all'interpretazione dell'«arte per l'arte». Secondo lui non si può pensare che la coscienza umana sia sbocciata all'improvviso e in tutta la sua pienezza a un certo punto del processo evolutivo, per cui è probabile che i primi esempi di arte preistorica fossero semplici quanto la mente che li aveva prodotti. Le pitture di Altamira, in effetti, sembrano elementari: i cavalli, i bisonti e gli altri animali sono raffigurati come individui isolati o tutt'al più in gruppi, ma raramente in un contesto anche vagamente naturalistico. Questo, sostiene Halverson, dimostra che gli artisti dell'era glaciale si limitavano a raffigurare qualche frammento del loro ambiente, pur senza attribuire alla propria opera alcun significato mitologico.

Questa tesi non mi pare convincente. Bastano poche immagini per dimostrare che quest'arte rispecchia molto di più che non l'incerto lavorio di una mente primitiva. Un esempio è costituito da una delle caverne che si trovano sul terreno del conte Bégouën, quella dei Trois-Frères, dove si vede l'immagine di una chimera dalla doppia natura umana e animale chiamata «lo Stregone». La creatura si regge sugli arti posteriori e i suoi occhi fissano un punto esterno alla parete, ha grandi corna e il suo corpo è composto di parti anatomiche di vari animali, uomo compreso. Non si tratta certamente di un'immagine elementare, «non mediata da alcun processo cognitivo», come vorrebbe farci credere Halverson. Ed elementare non è neppure la figura principale della Camera dei Tori nella grotta di Lascaux: nota come Unicorno, essa può essere interpretata sia come uomo camuffato da animale che come creatura chimerica. Questa e altre raffigurazioni indicano che ci troviamo in presenza di immagini ampiamente mediate da un processo cognitivo.

E' molto significativo anche il fatto che le immagini siano più complesse di quanto sostenesse Halverson. Come ho già detto, le pitture e le incisioni non rappresentano scene naturalistiche dell'era glaciale. Intanto non vi compare mai alcun elemento che ricordi un vero e proprio paesaggio; inoltre, a giudicare dai resti di animali rinvenuti nei siti abitativi, non sembra esservi alcun riferimento diretto all'alimentazione quotidiana. In sintesi, la mente dei pittori del Paleolitico superiore era occupata da cavalli e bisonti, ma il loro stomaco conteneva carne di renna e pernici bianche. Fra l'altro, si è constatato che la frequenza di una specie nei dipinti parietali era spesso superiore a quella della stessa specie in natura, e ciò lascia ritenere che alcuni animali dovessero rappresentare qualcosa di molto particolare per le popolazioni paleolitiche che li raffiguravano.

La prima importante spiegazione del perché delle raffigurazioni paleolitiche si richiamava ai riti propiziatori della caccia. Alla fine del secolo gli antropologi scoprirono che le immagini dipinte dagli aborigeni australiani avevano proprio questo importante ruolo legato a rituali magici e totemici. Nel 1903 lo storico delle religioni Salomon Reinach ipotizzò che l'arte del Paleolitico superiore potesse avere la stessa funzione: in entrambe le società alcune specie animali venivano rappresentate molto più frequentemente di altre, secondo un rapporto che non corrispondeva alle proporzioni esistenti in natura. Quindi era possibile che le popolazioni paleolitiche, proprio come quelle australiane, dipingessero per assicurarsi la protezione di più animali totemici e una maggiore quantità di prede.

Henri Breuil apprezzò l'intuizione di Reinach e per tutta la sua lunga carriera si dedicò a svilupparla e a promuoverne la diffusione: per quasi sessantanni registrò, copiò, contò e fece rilevamenti delle immagini contenute nelle caverne di tutta l'Europa, stendendo anche una cronologia dell'evoluzione artistica nel Paleolitico superiore. Per tutto questo tempo Breuil, come la maggior parte dell''establishment archeologico, continuò a interpretare l'arte paleolitica come rituale di caccia.

Un limite evidente di questa ipotesi era che molto spesso le immagini non riflettevano l'alimentazione degli uomini dell'epoca. In un'occasione l'antropologo francese Claude Lévi-Strauss fece notare che sia nell'arte dei San del Kalahari che in quella degli aborigeni australiani alcuni animali venivano rappresentati non in quanto «buoni da mangiare» ma in quanto «buoni da pensare». Nel 1961, alla morte di Breuil, André Leroi-Gourhan avanzò una nuova ipotesi che per la preistoria francese avrebbe avuto un'importanza non inferiore a quella di Breuil.

Leroi-Gourhan si dedicò alla ricerca del significato d'insieme delle immagini studiandone la struttura, e non, come aveva fatto Breuil, analizzando le singole figure. Dopo lunghi e pazienti sopralluoghi nelle caverne dipinte, egli giunse a individuare schemi compositivi ricorrenti in cui alcuni animali occupavano determinati settori ben precisi dello spazio. Il cervo, per esempio, compariva spesso nei corridoi d'entrata, mentre era raro nelle sale principali, dove invece predominavano il cavallo, il bisonte e l'uro; i carnivori si trovavano perlopiù nei cunicoli. Inoltre alcuni animali - cavallo, cervo, stambecco - rappresentavano il principio maschile e altri - bisonte, mammut, uro - il principio femminile. Secondo Leroi-Gourhan l'ordine che informava le raffigurazioni rispecchiava l'ordinamento di una società umana del Paleolitico superiore, basato sulla divisione dei sessi. L'archeologa Annette Laming-Emperaire, anch'essa francese, sviluppò un analogo concetto del dualismo maschio-femmina, ma spesso i due studiosi non riuscirono a concordare sull'attribuzione delle figure. Questa divergenza di opinioni contribuì all'abbandono finale di questo schema interpretativo.

Recentemente è stata riproposta l'ipotesi, affrontata però secondo un'angolatura assai inusuale, per cui le caratteristiche morfologiche della caverna avrebbero influenzato l'espressione artistica. Gli archeologi francesi Iégor Reznikoff e Michel Dauvois hanno condotto approfonditi studi di tre caverne dipinte della regione dell'Ariège, nella Francia sudoccidentale. A differenza dei loro colleghi, essi non andarono alla ricerca di strumenti litici, oggetti incisi o nuove pitture, ma... cantarono. Per essere più esatti, si spostarono lentamente all'interno delle caverne fermandosi qua e là per saggiare la risonanza di ciascuna sezione. Utilizzando note che coprivano tre ottave, essi disegnarono una mappa dell'acustica di ciascuna caverna scoprendo che le zone con una maggiore risonanza erano anche quelle che più spesso ospitavano pitture o sculture. Nel loro rapporto, pubblicato alla fine del 1988, Reznikoff e Dauvois fecero notare quanto sia forte l'impatto emotivo di un effetto di risonanza in un ambiente sotterraneo e quanto questo potesse essere accresciuto dalla luce guizzante delle rudimentali lucerne paleolitiche.

Non è difficile immaginare un gruppo che recita incantesimi dinanzi alle pitture parietali all'interno di una caverna. La strana natura delle immagini e il fatto che spesso si trovassero nelle profondità più inaccessibili avvalorano l'ipotesi di un loro significato rituale. Quando si trova di fronte a un'opera creata in tempi così remoti, un osservatore moderno sente affollarsi nella mente antiche voci forse accompagnate da tamburi, flauti e fischietti, come successe a me dinanzi al bisonte di Le Tue d'Audoubert. Quella di Reznikoff e Dauvois è una scoperta affascinante che, come all'epoca commentò l'archeologo della Cambridge University Chris Scarre, «focalizza l'attenzione sulla probabile importanza della musica e del canto nei riti dei nostri progenitori».

Nel 1986, alla morte di Leroi-Gourhan, i preistorici erano di nuovo pronti a rivedere le loro interpretazioni, esattamente com'era avvenuto dopo la morte di Breuil. Oggi essi sono disposti a prendere in considerazione spiegazioni diverse, ma in ogni caso si tende a privilegiare quelle che si collocano in un contesto culturale, mentre ci si rende sempre più conto di quanto sia rischioso applicare concetti moderni a società paleolitiche.

Quasi sicuramente alcuni aspetti dell'arte del Paleolitico superiore erano connessi con il modo in cui gli uomini di quel periodo organizzavano il proprio sistema di idee riguardo al mondo, ed erano quindi un'espressione del loro universo spirituale. Più avanti torneremo su questo punto. Ma può darsi che nel modo in cui essi organizzavano il loro mondo sociale ed economico vi fossero aspetti più pratici. Margaret Conkey, un'antropologa della University of California, Berkeley, ha ipotizzato che Altamira fosse un luogo di ritrovo autunnale capace di accogliere centinaia di persone provenienti da tutta la regione. L'abbondanza del cervo elafo e di molluschi marini come le patelle potrebbe fornire una spiegazione di ordine economico a una simile aggregazione di bande. Ma, come ci ha insegnato lo studio dei cacciatori-raccoglitori attuali, tali aggregazioni sono solo apparentemente dettate da ragioni economiche e da questioni pratiche e rispondono piuttosto alla necessità di incontrarsi per creare alleanze politiche e sociali.

L'antropologo inglese Robert Laden ritiene che nei siti in caverna della Spagna cantabrica vi sia qualche indizio della possibile struttura di tali aggregazioni. I siti più importanti, come Altamira, sono spesso circondati da altri più piccoli distribuiti entro un raggio di circa 16 km, suggerendo l'idea di un centro politico o sociale: una trentina di chilometri, infatti, potrebbe essere proprio la dimensione ottimale per il mantenimento di alleanze.

Purtroppo, nei siti in caverna francesi non è ancora stato riconosciuto lo stesso modello organizzativo.

Può darsi che la disposizione delle immagini di bisonti e di altri animali sulla volta dipinta di Altamira rifletta in qualche modo il ruolo centrale del sito. La parte principale è costituita da ventiquattro immagini policrome di bisonti, i quali, secondo Margaret Conkey, potrebbero rappresentare i diversi gruppi che si riunivano in quel luogo. E' significativo che la gamma di oggetti rinvenuti ad Altamira sembri un campionario delle diverse forme decorative locali. Nella Spagna settentrionale dell'epoca esisteva una gran varietà di elementi decorativi usati per gli oggetti di utilità pratica: fasce a V, mezzelune, cerchi concentrici e altri ancora. Sono stati identificati circa quindici segni e, poiché tendono a essere geograficamente circoscritti, li si ritiene interpretabili come stili locali o segni distintivi di bande. Il fatto che ad Altamira vi sia una concentrazione di esempi dei vari stili locali rafforza l'ipotesi che si trattasse di un sito aggregativo di una certa importanza sociale e politica. Per il momento a Lascaux non sono state riscontrate tracce di un'organizzazione analoga. E' tuttavia ragionevole pensare che il sito non fosse la manifestazione locale di un'arte spontanea ma rivestisse una considerevole importanza per le popolazioni residenti in un vasto territorio circostante. Forse a Lascaux si era verificato un importante evento spirituale, come l'apparizione di una divinità della cosmologia paleolitica. Questo, per esempio, è il caso di parecchi luoghi che, pur trovandosi in un contesto ambientale del tutto sterile, sono attivamente frequentati dagli aborigeni australiani.

Abbiamo detto che le immagini prodotte durante l'era glaciale rappresentavano animali estrapolati dal loro contesto ambientale in proporzioni che non ne rispecchiavano la reale consistenza numerica. Questa constatazione, di per sé, ci fa riflettere sulla natura enigmatica dell'arte. Ma nell'arte paleolitica, oltre alle immagini figurative, vi è una profusione di strutture geometriche, o «segni» - punti, reticoli, fasce a V, curve, zigzag, cerchi concentrici e rettangoli - che ne costituiscono gli elementi più elusivi. A essi, a seconda dell'ipotesi prevalente al momento, sono stati attribuiti di volta in volta significati diversi legati a rituali propiziatori della caccia o alla contrapposizione fra universo maschile e universo femminile. David Lewis-Williams ha recentemente formulato una spiegazione inedita e molto interessante secondo la quale si tratterebbe di segni rivelatori di un'arte sciamanica, di immagini prodotte in stato di allucinazione.

Lewis-Williams ha studiato per quarantanni l'arte delle popolazioni San dell'Africa meridionale, risalente perlopiù a circa 10.000 anni or sono, ma in alcuni casi a tempi recenti. Poco per volta egli ha iniziato a capire che l'arte dei San non era un'ingenua rappresentazione della loro vita, come gli antropologi occidentali avevano sempre pensato, ma che veniva creata dagli sciamani in stato di trance: le immagini rappresentano quindi una connessione con il mondo spirituale dello sciamano e raccontano le sue visioni durante lo stato di allucinazione. A un certo punto della loro ricerca, Lewis-Williams e il collega Thomas Dowson intervistarono una vecchia che viveva nel distretto di Tsolo della regione di Transkei, in Sudafrica. Figlia di uno sciamano, ella descrisse ai due studiosi alcuni rituali ormai scomparsi.

Gli sciamani, spiegò la donna, potevano raggiungere la trance attraverso varie tecniche, tra cui l'assunzione di droghe e l'iperventilazione ma, comunque venisse raggiunta, era quasi sempre accompagnata da canti ritmati, danze e dal battimani delle donne. Man mano che la trance diventava più profonda, gli sciamani venivano scossi da violenti tremiti delle braccia e del corpo intero. Durante il suo viaggio nel mondo degli spiriti lo sciamano spesso «muore» contorcendosi come in preda a grandi sofferenze. A volte egli utilizza il sangue del taurotrago, l'antilope dalle corna a spirale, che nella mitologia San è dotato di grande forza. Questo viene prelevato praticando tagli nel collo e nella gola dell'animale per poi strofinarlo su tagli praticati nei punti corrispondenti di una persona e conferirle potenza. In seguito lo sciamano usa lo stesso sangue per dipingere i ricordi del suo viaggio onirico nel mondo degli spiriti. Le immagini, affermò la donna, possiedono una forza intrinseca che nasce dal contesto in cui vengono dipinte, e posandovi la mano è possibile acquisire un po' del loro potere.

Il taurotrago è l'animale più spesso raffigurato nelle pitture dei San e la sua potenza si manifesta in forme diverse. Lewis-Williams si domandò se anche il cavallo e il bisonte avessero per l'uomo del Paleolitico superiore un analogo significato, e se anch'essi fossero considerati in grado di conferire energia spirituale a chi li invocasse o li toccasse. Per affrontare questo interrogativo aveva bisogno di stabilire con certezza se l'arte paleolitica fosse legata allo sciamanismo, e un importante indizio era costituito dalle figure geometriche.

Secondo le opere di psicologia che Lewis-Williams aveva consultato, esistono tre stadi allucinatori, ognuno dei quali è più profondo e complesso del precedente. Durante il primo stadio il soggetto vede forme geometriche come reticoli, zigzag, punti, spirali e curve; queste immagini - sei forme in tutto - sono scintillanti, incandescenti, cangianti, possenti. Talora vengono definite «immagini entoptiche» in quanto sono generate dal tessuto nervoso del cervello. Lewis-Williams, in un articolo apparso nel 1986 su «Current Anthropology», osservò: «Poiché le immagini entoptiche sono generate dal sistema nervoso umano, sono percepibili da chiunque entri in uno stato di coscienza alterato, quale che sia la cultura cui appartiene». Nel secondo stadio della trance la persona comincia a percepirle come oggetti reali: le curve diventano elementi del paesaggio, per esempio colline, le V diventano armi e così via; la natura delle visioni dipende dalle esperienze culturali e soggettive dei singoli individui. Gli sciamani San - essendo le api il simbolo del potere sovrannaturale che viene imbrigliato entrando in trance - spesso trasformano mentalmente le forme circolari in immagini di alveari.

Il passaggio al terzo stadio allucinatorio è spesso accompagnato dalla sensazione di attraversare un vortice o di essere risucchiati in un tunnel e in alcuni casi provoca visioni, talora del tutto comuni e talaltra straordinarie. Un importante tipo di immagine percepibile durante il terzo stadio è l'essere chimerico dalla duplice natura umana e animale, da alcuni definito «teriantropo». Queste creature, frequenti nell'arte sciamanica dei San, sono anche un elemento enigmatico dell'arte del Paleolitico superiore.

La presenza di immagini entoptiche del primo stadio nell'arte dei San può essere considerata una riprova della sua natura sciamanica. Ma le stesse immagini possono essere individuate anche nell'arte del Paleolitico superiore, talvolta sovrapposte a quelle di animali e talvolta isolate. In combinazione con la presenza dei misteriosi teriantropi esse provano che, almeno in parte, anche l'arte del Paleolitico superiore era sciamanica. Come ha fatto notare John Halverson, in passato le figure chimeriche venivano considerate come il prodotto di «una mentalità primitiva incapace di stabilire confini precisi fra uomo e animali». Se invece è vero che esse nascevano durante la trance, allora per il pittore del Paleolitico erano reali quanto un cavallo o un bisonte.

Di solito si tende a pensare che la pittura debba necessariamente essere eseguita su una superficie, non importa se una tela o una parete. Per l'arte sciamanica, invece, non è così perché lo sciamano ha spesso la sensazione che le immagini emergano dalla superficie della roccia. «Essi le vedono come se fossero state trasferite sulle pareti dagli spiriti e, nel dipingerle, sono convinti di limitarsi a toccare e a evidenziare qualcosa che già esiste» spiega Lewis-Williams. «Non si trattava quindi di immagini referenziali così come le intendiamo noi, ma di qualcosa che l'artista riportava da un altro mondo.» Egli fa notare che la stessa parete rocciosa rappresenta il punto di passaggio fra il mondo reale e quello degli spiriti, ed è quindi parte essenziale del rituale, qualcosa di più di un mezzo su cui dar forma alle immagini. L'ipotesi di Lewis-Williams è stata oggetto di grande attenzione ma anche, inevitabilmente, di un certo scetticismo. Il suo pregio consiste nell'averci permesso di guardare all'arte con occhi diversi. Sia nell'esecuzione che nelle sue ragioni di essere, l'arte sciamanica è così lontana da quella occidentale da aprire nuove interpretazioni anche per il Paleolitico superiore.

Questo è quanto sta facendo anche l'archeologo francese Michel Lorblanchet. Per parecchi anni egli ha praticato l'archeologia sperimentale riproducendo raffigurazioni da siti in caverna per cercare di comprendere il metodo di lavoro e il tipo di esperienza vissuta da un artista dell'era glaciale. Il suo progetto più ambizioso fu la riproduzione dei cavalli di Pech-Merle, una caverna della regione del Lot, in Francia. I due cavalli, raffigurati nell'atto di allontanarsi l'uno dall'altro, presentano la parte posteriore parzialmente sovrapposta e sono alti circa 120 cm; ricoperti di punti rossi e neri, sono circondati da impronte di mani. Poiché la superficie su cui sono dipinti è molto irregolare, sembra che gli artisti, invece di usare pennelli, avessero dato il colore soffiandolo attraverso un segmento di canna.

Lorblanchet ha trovato una superficie rocciosa analoga in una caverna vicina e ha deciso di riprodurre i cavalli utilizzando una tecnica simile a quella descritta. Un giornalista di «Discover» ha raccolto la sua testimonianza: «Ho lavorato sette ore al giorno per una settimana, soffiando, soffiando e soffiando. Un'esperienza che mi ha sfinito, soprattutto perché nella caverna c'era del monossido di carbonio. Ti sembra di infondere la vita all'immagine sulla roccia, di trasferire il tuo spirito dalle profondità del tuo corpo alla parete rocciosa». Certo questo non è un metodo molto scientifico, ma forse è proprio così che bisogna perseguire un obiettivo di ricerca tanto vago e sfuggente. Lorblanchet è stato, all'epoca, un pioniere dell'archeologia sperimentale, un metodo che ancora oggi merita di essere preso in considerazione. Se i dipinti dell'era glaciale facevano parte della mitologia del Paleolitico superiore, gli artisti infondevano il loro spirito nella parete indipendentemente dalla tecnica di colorazione usata.

Forse non sapremo mai cosa avessero in mente gli scultori che crearono il bisonte del Tue d'Audoubert o gli artisti che dipinsero l'Unicorno di Lascaux, ma possiamo dire con certezza che quelle immagini avevano per loro un profondo significato, e che lo ebbero anche per le generazioni successive. Il linguaggio dell'arte invia messaggi vigorosi per chi è in grado di intenderli e sconcertanti per chi non lo è. Ma una cosa è certa: la mente degli artisti paleolitici era quella dell'uomo moderno, capace di astrazioni e di costruzioni simboliche come solo Homo sapiens sa fare. Non conosciamo ancora con esattezza le tappe evolutive che condussero all'uomo attuale, ma siamo sicuri che esse passarono attraverso la formazione di un universo mentale analogo a quello di cui oggi siamo in possesso.