E. Hobsbawm

Il trionfo della borghesia 1848-1875

Laterza, Bari

 

Cap. XIV pp. 309-340

SCIENZA, RELIGIONE, IDEOLOGIA

1.

La società borghese dell'ultimo venticinquennio del secolo XIX era fiduciosa di sé e fiera delle sue realizzazioni; e non lo era in nessun campo delle fatiche umane più che in quello del sapere, della “scienza”. Gli uomini colti dell'epoca non erano soltanto orgogliosi delle loro scienze, ma pronti a subordinare ad esse ogni altra forma di attività intellettuale. Nel 1861, lo statistico ed economista Cournot osservava che la fede nella verità filosofica si è raffreddata al punto che né il pubblico né le accademie amano più ricevere o salutare opere di questa specie, se non come prodotti di pura erudizione o come curiosità storiche.

Non fu certo un periodo felice, per i filosofi. Persino nella loro patria tradizionale, la Germania, non v'era nessuno di statura comparabile a prendere il posto dei grandi personaggi del passato. Lo stesso Hegel, che il suo ex ammiratore francese Hippolyte Taine (1828-1893) considerava uno dei “palloni sgonfiati” della filosofia tedesca, tendeva a passare di moda nel suo paese natale, e il modo in cui lo trattavano “i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che ora dominano nella Germania” spingeva Marx negli anni Sessanta a professarsi “apertamente discepolo di quel grande pensatore”.

Le due correnti dominanti in filosofia - il positivismo francese, legato alla scuola del bizzarro Auguste Comte, e l'empirismo inglese, legato a John Stuart Mill, per tacere del mediocre pensatore allora più influente di chiunque altro in tutto il mondo, Herbert Spencer (1820-1903) - si subordinavano alla scienza. “La filosofia positiva” di Comte poggiava sulle due basi dell'immutabilità delle leggi naturali e dell'impossibilità di ogni conoscenza assoluta ed infinita e, nei limiti in cui superava i confini della setta piuttosto eccentrica della comtiana “religione dell'umanità”, si riduceva a poco più di una giustificazione filosofica del metodo convenzionale delle scienze sperimentali: analogamente, per la maggioranza dei contemporanei, Mill era, per dirla ancora una volta con Taine, l'uomo che aveva aperto «la buona vecchia strada dell'induzione e dell'esperimento”. Ma questa concezione implicava una visione storica del progresso evolutivo, sulla quale, anzi, era esplicitamente basata in Comte e Spencer.

Il metodo positivo o scientifico era (o voleva essere) il trionfo dell'ultimo degli stadi attraverso i quali doveva passare l'umanità - nella terminologia di Comte, quello teologico, quello metafisico e quello scientifico; ciascuno con le sue istituzioni, delle quali Mill e Spencer erano almeno d'accordo che il liberalismo (nel senso più lato) fosse l'espressione adatta. Con una certa esagerazione, si potrebbe dire che, in questa ottica, il progresso della scienza rendeva inutile la filosofia, se non come una specie di laboratorio intellettuale in appoggio allo scienziato.

Inoltre, con una simile fiducia nei metodi della scienza, non stupisce che gli uomini colti della seconda metà del secolo subissero il fascino enorme delle sue conquiste fin quasi al punto di pensare che fossero non solo impressionanti, ma definitive. Il celebre fisico William Thompson, lord Kelvin, riteneva che tutti i problemi fondamentali della fisica fossero ormai risolti, anche se restava da chiarire un certo numero di questioni relativamente minori. Aveva, come sappiamo, profondamente torto.

L'errore, tuttavia, era insieme significativo e comprensibile. Nella scienza come nella società, vi sono periodi rivoluzionari e non-rivoluzionari, e mentre il secolo XX è rivoluzionario in entrambe, e in grado anche superiore all'era della rivoluzione (1789-1848), il periodo di cui tratta il presente volume non fu rivoluzionario (con alcune eccezioni) né nell'una né nell'altra. Ciò non significa che gli uomini convenzionalmente intelligenti e dotati pensassero che la scienza e la società avessero ormai chiarito tutti i problemi, benché sotto certi aspetti, come in quelli concernenti il quadro fondamentale dell'economia da un lato e dell'universo fisico dall'altro, alcuni dei migliori sentissero che tutti i problemi di fondo erano stati risolti. Significa però che essi non nutrivano seri dubbi circa la direzione nella quale si muovevano e dovevano muoversi, e sui metodi intellettuali o pratici per approdarvi. Nessuno contestava il fatto del progresso sia materiale che intellettuale: esso sembrava troppo ovvio per poterlo mettere in discussione. Era anzi il concetto dominante dell'epoca, sebbene una linea di divisione abbastanza netta corresse fra coloro secondo i quali il progresso sarebbe stato più o meno continuo e lineare, e coloro i quali (come Marx) sapevano che doveva essere e sarebbe stato discontinuo e contraddittorio.

Dubbi potevano sorgere soltanto su questioni, per così dire, di gusto, come i costumi e la morale, dove la pura e semplice accumulazione quantitativa non fornisce una guida. Era indiscutibile che nel 1860 gli uomini conoscevano più di quanto avessero mai conosciuto prima; ma non si poteva dimostrare allo stesso modo che fossero “migliori”. Comunque, questioni simili preoccupavano i teologi (che non godevano di reputazione eccessiva), i filosofi e gli artisti (che erano ammirati, ma un po' al modo in cui i ricchi ammirano i diamanti che possono concedersi il lusso di offrire alle loro donne) e i critici sociali di destra o di sinistra, che non amavano il genere di società in cui vivevano, o nel quale si trovavano costretti a vivere. E questi, fra le persone colte, nel 1860 erano una netta minoranza.

Un massiccio progresso era visibile in tutti i rami del sapere; era tuttavia evidente che alcuni si erano spinti più innanzi, e alcuni avevano raggiunto una forma più completa, di altri. Sembrava per esempio che la fisica fosse più matura della chimica, e si fosse già lasciata alle spalle lo stadio di progresso effervescente ed esplosivo in cui quest'ultima continuava ad essere così visibilmente impegnata. A sua volta la chimica, perfino la “chimica organica”, era notevolmente più avanzata delle scienze della vita, che sembravano appena alle soglie di un'era di eccitanti progressi. In effetti, se una singola teoria scientifica deve rappresentare i balzi in avanti compiuti dalle scienze naturali nel nostro periodo, ed era riconosciuta cruciale, è la teoria dell'evoluzione, e se una singola figura dominava l'immagine pubblica della scienza, è quella rude e un tantino scimmiesca di Charles Darwin (1809-1882).

Il mondo strano, astratto e logicamente fantastico dei matematici rimaneva in certo modo isolato dal pubblico generico come da quello scientifico; anzi lo era forse più che in passato, perché a questo stadio sembrava che la sua principale forma di contatto con entrambi, la fisica (attraverso la tecnologia fisica), avesse meno bisogno delle sue più audaci astrazioni che ai giorni gloriosi della costruzione di una meccanica celeste. Il calcolo, senza il quale sarebbero tuttavia state impossibili le opere di ingegneria e di tecnica delle comunicazioni del periodo, restava molto al di qua della mobile frontiera della matematica. Questa ebbe forse il suo miglior rappresentante nei matematico più insigne del nostro periodo, Georg Bernhard Riemann (1826-1866), dalla cui tesi per l'esame di abilitazione su “Le ipotesi che sono alla base della geometria” non si può prescindere in una discussione della scienza del secolo XIX, più che dai Principia di Newton in una discussione di quella del secolo XVII. Essa gettò le fondamenta della topologia, della geometria differenziale assoluta, della teoria dello spazio-tempo e della gravitazione. Riemann anticipò perfino una teoria della fisica compatibile con la moderna teoria dei quanta. Ma questi ed altri sviluppi matematici profondamente originali non si affermarono prima della nuova era rivoluzionaria della fisica, apertasi alla fine del secolo.

Comunque, in nessuna scienza della natura sembravano regnare gravi incertezze sulla direzione generale in cui progrediva la conoscenza, o sui quadro concettuale e metodologico del suo progredire. Le scoperte erano numerosissime, le teorie a volte nuove ma, si direbbe, non inaspettate. La stessa teoria darwiniana dell'evoluzione impressionò non perché il concetto di evoluzione fosse insolito (era ormai familiare da decenni), ma perché offrì per la prima volta un modello esplicativo soddisfacente dell'origine delle specie, e lo fece in termini pienamente accessibili anche ai non-scienziati, in quanto echeggiava il più noto concetto dell'economia liberale, quello di concorrenza. Non solo, ma un numero eccezionale di grandi scienziati - Darwin, Pasteur, i fisiologi Claude Bernard (1813-1878) e Rudolf Virchow (1821-1894), il fisico e fisiologo Helmholtz (1821-1894) per tacere di lord Kelvin - scriveva in una terminologia tale da permetterne e facilitarne la volgarizzazione. I modelli fondamentali o “paradigmi” delle teorie scientifiche sembravano saldamente stabiliti, benché grandi scienziati come James Clerk Maxwell (1831-1879) formulassero le loro versioni con l'istintiva cautela che doveva renderle compatibili con dottrine ulteriori basate su modelli profondamente diversi.

Nell'ambito delle scienze della natura, non si assisteva quasi mai al dibattito appassionato e denso di interrogativi fecondi che si verifica quando lo scontro non è fra ipotesi diverse, ma fra modi diversi di considerare lo stesso problema, quando cioè una delle parti suggerisce una risposta non solo difforme, ma giudicata inammissibile o “impensabile” dalla controparte. Uno scontro del genere si ebbe nel piccolo mondo remoto della matematica, quando H. Kronecker (1839-1914) attaccò K. Weierstrass (1815-1897), R. Dedekind (1831-1916) e G. Cantor (1845-1918) sui problema della matematica dell'infinito. Una simile Methodenstreite (controversia metodologica) divideva il mondo degli scienziati sociali; ma, nei limiti in cui questi invadevano il campo delle scienze della natura - anche di quelle biologiche, sul punto sensibile dell'evoluzione -, più che un dibattito professionale vi si rispecchiava un'intrusione di preferenze ideologiche. Non v'è motivo scientifico convincente perché quel genere di scontro non dovesse verificarsi. Così, il più tipico degli scienziati medio-vittoriani, lord Kelvin (tipico per la sua combinazione di grandi, seppur convenzionali, doti teoretiche, di enorme fertilità tecnologica e di conseguente successo negli affari), non guardava certo con simpatia l'apparato matematico della teoria elettromagnetica della luce di Clerk Maxwell, da molti ritenuta il punto di partenza della fisica moderna (la sua non lo è); ma, trovando possibile riformularla nei termini del suo tipo essenzialmente tecnico di matematica, evitò di metterla in discussione.

Lo stesso Thompson credette di poter dimostrare che, in base a note leggi fisiche, il sole non può avere un'età superiore ai 500 milioni d'anni, il che priverebbe l'evoluzione geologica e biologica sulla terra dell'arco di tempo necessario (conclusione più che gradita a un cristiano ortodosso quale egli era). In realtà, stando alla fisica del 1864, Thompson aveva ragione; solo la scoperta di sorgenti allora ignote di energia nucleare permetterà ai fisici di supporre per il sole e quindi anche per la terra un tempo di vita molto più lungo. Ma egli non si chiedeva se la sua fisica, laddove urtava con la geologia accettata, potesse essere incompleta, e a loro volta i geologi se ne andavano semplicemente per la loro strada non curandosi della fisica. Il dibattito, per quel che concerne gli sviluppi ulteriori delle due scienze, avrebbe potuto indifferentemente verificarsi o no.

Così il mondo delle scienze procedeva sui propri binari intellettuali, e i suoi sviluppi ulteriori, come quelli delle stesse ferrovie, sembravano aprire la prospettiva della posa di un maggior numero di binari dello stesso genere attraverso nuovi territori. Non sembrava che i cieli contenessero molte cose atte a sorprendere gli astronomi della più vecchia generazione, a parte una folla di osservazioni nuove mediante telescopi e strumenti di misura più potenti (gli uni e gli altri, in gran parte, opera di tedeschi) e l'uso della nuovissima tecnica della fotografia, oltre che dell'analisi spettroscopica, applicata per la prima volta alla luce stellare nel 1861 e poi rivelatasi a sua volta un poderoso strumento di ricerca.

Le scienze fisiche avevano celebrato sviluppi clamorosi nel mezzo secolo precedente, quando fenomeni a prima vista diversi come il calore e l'energia erano stati unificati dalle leggi della termodinamica, mentre l'elettricità, il magnetismo e la stessa luce convergevano verso un unico modello analitico. Nel nostro periodo la termodinamica non fece passi da gigante, benché Thompson completasse il processo di conciliazione delle nuove teorie del calore con quelle più antiche della meccanica nel 1851 (The Dynamical Equivalent of Heat). Il modello matematico della teoria elettromagnetica della luce, formulato dal progenitore della moderna fisica teorica, James Clerk Maxwell, nel 1862, era insieme profondo e anticipatore; lasciava aperta la via alla scoperta dell'elettrone. Eppure, forse per non aver mai fornito l'esposizione adeguata di quella che chiamava la sua “un po' scomoda teoria” (non la si ebbe prima del 1941!)8, egli non riuscì a convincere contemporanei di primo piano come Thompson e Helmholtz, e neppure il brillante austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906), la cui memoria del 1868 inaugurò in pratica la meccanica statistica come disciplina a sé stante.

Probabilmente la fisica della metà del secolo XIX non era spettacolare come quella dei periodi precedente e successivo, ma i suoi progressi teorici restavano imponenti. E tuttavia, prese insieme, la teoria elettromagnetica e le leggi della termodinamica sembravano, come scriveva Bernal, “implicare un certo carattere definitivo” . Gli inglesi, comunque (guidati da Thompson), e altri fisici che avevano svolto opera creativa nel campo della termodinamica, si lasciavano fortemente tentare dall'idea che l'uomo avesse ormai raggiunto una conoscenza definitiva delle leggi di natura (un Helmholtz o un Boltzmann, però, non ne erano, a giusta ragione, altrettanto convinti). Forse, la notevole fertilità tecnologica della fisica di impianto meccanico rendeva più convincente l'illusione del suo carattere conclusivo.

Non presentava lo stesso carattere, evidentemente, la seconda grande scienza naturale, forse la più fiorente di tutte nel secolo XIX, la chimica. La sua espansione fu poderosa, specialmente in Germania, anche perché i suoi usi industriali erano così molteplici - dai candeggianti, coloranti e fertilizzanti fino ai medicinali e agli esplosivi. I chimici erano ormai in procinto di formare oltre la metà del totale di persone dedite per professione alle scienze

Le basi della sua maturità erano state gettate nell'ultimo terzo del secolo XVIII; da allora essa era fiorita, e andava svolgendosi in una fonte perenne di idee e scoperte entusiasmanti.

I processi elementari e di base della chimica erano ben compresi e si disponeva già degli essenziali strumenti analitici; l'esistenza di un numero limitato di elementi chimici, composti di diversi numeri di fondamentali unità multi-atomiche di molecole, e una certa idea delle regole di queste combinazioni, erano familiari, come dovevano esserlo, per i grandi balzi avanti nell'attività essenziale dei chimici, l'analisi e la sintesi di diverse sostanze. Il campo speciale della chimica organica era già fiorente, benché restasse confinato alle proprietà - in genere, le proprietà utili nella produzione - di materie prime derivanti da fonti che un tempo erano state vive, come il carbone. Si era ancora molto lontani dalla biochimica, cioè dalla conoscenza del modo di funzionare di queste sostanze nell'organismo vivente. Tuttavia, i modelli della chimica rimanevano più o meno imperfetti, e sostanziali progressi nella loro comprensione avvennero nell'ultimo veriticinquennio del secolo. Essi gettarono luce sulla struttura dei composti chimici, che fin allora era stata vista soltanto in termini quantitativi (cioè in quelli del numero degli atomi in una molecola).

Si poté quindi stabilire il numero esatto di ogni specie di atomo in una molecola mediante la legge già disponibile di Avogadro, del 1811, sulla quale un chimico italiano richiamò l'attenzione ad un simposio internazionale sulla questione nel 1860, l'anno dell'unità d'Italia. Inoltre nuovo prezioso prestito dalla fisica - nel 1848 Pasteur scoprì che sostanze chimicamente identiche potevano essere fisicamente distinte, cioè ruotare a destra o a sinistra il piano di polarizzazione di un fascio di luce polarizzata, dal che seguiva, fra l'altro, che le molecole avevano una forma nello spazio tridimensionale; e il brillante chimico tedesco Kekulé (1829-1896), nella situazione tipicamente vittoriana di un passeggero seduto in cima a un bus londinese nel 1865, immaginò il primo dei modelli strutturali molecolari complessi, la famosa catena chiusa ad anello di sei atomi di carbonio, a ciascuno dei quali è collegato un atomo di idrogeno, componente il benzene. Si potrebbe dire che il concetto di un modello proprio dell'architetto o dell'ingegnere sostituì quello che era stato fin allora il modello del contabile - C6H6, la mera conta degli atomi - nella formula chimica.

Forse ancor più notevole fu la massima generalizzazione prodotta da questo periodo nel campo della chimica, la Tavola Periodica degli elementi (1869) di Mendeleev (1834-1907). Grazie alla soluzione dei problemi del peso atomico e della valenza (il numero di legami che l'atomo di un elemento possiede con altri atomi), la teoria atomica, un po' trascurata dopo la sua fioritura nei primi anni del secolo, dal 1860 in poi riguadagnò il terreno perduto nell'atto stesso in cui la tecnologia nella forma dello spettroscopio (1859) permetteva di scoprire vari nuovi elementi.

Inoltre, gli anni Sessanta furono un grande periodo di standardizzazione e misurazione. (Assistettero, fra l'altro, alla fissazione delle note unità di misura elettrica, i volt, gli ampère, i watt e gli ohm). Vennero perciò compiuti diversi tentativi di riclassificazione degli elementi chimici in base alla valenza e al peso atomico. Quello di Mendeleev e del tedesco Lothar Meyer (1830-1895) poggiò sul fatto che le proprietà degli elementi variano in maniera periodica coi loro pesi atomici, e la sua originalità consistette nell'assumere che, in base a tale principio, certi posti nella Tavola Periodica di tutti i novantadue elementi fossero ancora vuoti, e nel predire le proprietà degli elementi finora non scoperti che dovevano riempirli. La Tavola di Mendeleev parve a tutta prima concludere lo studio della teoria atomica fissando un limite all'esistenza di tipi fondamentalmente diversi di materia. In realtà, essa doveva trovare la sua piena interpretazione in un nuovo concetto della materia non più fatta di atomi immutabili, ma di associazioni relativamente instabili di un piccolo numero di particelle fondamentali, passibili a loro volta di mutamento e trasformazione.

All'epoca, tuttavia, Mendeleev, come Clerk Maxwell, sembrò piuttosto l'ultima parola in una vecchia discussione, che la prima in una nuova.

La biologia rimaneva molto indietro alle scienze fisiche, frenata anche dal conservatorismo dei due gruppi principali di persone interessate alla sua applicazione pratica, i contadini e specialmente i medici. Retrospettivamente, il più grande dei primi fisiologi appare Claude Bernard, la cui opera costituisce la base di tutta la fisiologia e della biochimica moderne, e che inoltre scrisse una delle più acute analisi dei processi scientifici mai scritti nella sua Introduzione allo studio della medicina sperimentale (1865). Ma, per quanto onorate, soprattutto nella sua terra natale, la Francia, le sue scoperte non furono immediatamente applicabili, e quindi la sua influenza contemporanea risultò minore di quella del suo conterraneo Louis Pasteur, che divenne con Darwin lo scienziato della metà dell'Ottocento forse più largamente conosciuto dal pubblico comune. Egli fu attirato nel campo della batteriologia, di cui divenne il grande pioniere (insieme a Robert Koch, 1843-1910, un medico di campagna tedesco), attraverso la chimica industriale e, più precisamente, l'analisi del perché a volte la birra e l'aceto vanno a male, per ragioni che l'analisi chimica non era in grado di svelare. Sia le tecniche della batteriologia - il microscopio, la preparazione di colture e strisci, ecc. - sia la sua applicabilità immediata - la guarigione delle malattie di uomini ed animali - resero accessibile, comprensibile e affascinante la nuova disciplina. Tecniche come l'antisepsi (sviluppata da Lister, 1827-1912, intorno al 1865), la “pastorizzazione” o altri metodi di preservazione di prodotti organici dall'azione di microbi, e l'inoculazione, erano così disponibili, e gli argomenti e i risultati abbastanza tangibili per vincere perfino la radicata ostilità della classe medica. Lo studio dei batteri doveva fornire alla biologia un approccio estremamente fecondo alla natura della vita, ma in questo periodo non sollevò questioni teoriche che lo scienziato più convenzionale non fosse pronto a riconoscere immediatamente.

Il progresso più significativo e più drammatico, in biologia, fu uno di rilievo soltanto marginale, all'epoca, per lo studio della struttura fisica e chimica e del meccanismo della vita. La teoria dell'evoluzione mediante selezione naturale si spinse ben al di là della biologia, e in ciò risiede la sua importanza. Essa ratificò il trionfo della storia su tutte le scienze, benché in materia i contemporanei generalmente confondessero “storia” e “progresso”, mentre, inserendo lo stesso uomo in uno schema di evoluzione biologica, aboliva la netta linea divisoria fra le scienze naturali e le umane, o sociali. Da allora l'intero cosmo, o almeno l'intero sistema solare, doveva concepirsi come un processo di costante mutamento storico. Il sole e i pianeti erano al centro di una simile storia, e lo era altrettanto, come avevano già stabilito i geologi, la terra. In questo processo vennero ora inclusi gli esseri viventi, benché restasse insoluta e, soprattutto per motivi ideologici, estremamente sensibile la questione se la vita stessa fosse o no evoluta dalla non-vita. (Il grande Pasteur credeva di aver dimostrato che non era possibile). Darwin inserì nello schema evolutivo non soltanto gli animali ma l'uomo.

La difficoltà, per la scienza della metà del secolo XIX, risiedeva non tanto nell'ammettere una simile storicizzazione dell'universo - nulla era più facile da concepire, in un'era di mutamenti storici così evidenti e grandiosi -, quanto nel combinarla con il modus operandi uniforme, continuo e non-rivoluzionario, di leggi naturali immutabili. Queste considerazioni non andavano esenti da una sfiducia nelle rivoluzioni sociali, così come da una parallela sfiducia nella religione tradizionale che i suoi testi sacri vincolavano all'idea di un cambiamento discontinuo (la “creazione”) e di un'interferenza nella regolarità della natura (i “miracoli”). Ma, a questo stadio, sembrava pure che la scienza dipendesse dall'uniformità e dall'invarianza, e che le fosse essenziale il riduzionismo. Solo pensatori rivoluzionari come Marx non avevano difficoltà ad immaginare situazioni in cui 2+2 possa non più essere eguale a 4 ma a qualcos'altro (o anche a qualcos'altro) La grande impresa dei geologi era consistita nello spiegare come l'azione esattamente delle stesse forze visibili oggi possa spiegare l'enorme varietà di quanto è osservabile sulla terra inanimata, passata e presente, dato un tempo sufficiente. La grande impresa della selezione naturale consistette nello spiegare l'ancor più grande varietà delle specie viventi, compreso l'uomo. Questo successo doveva esporre, ed espone tuttora, alcuni pensatori alla tentazione di negare o sottovalutare i processi nuovi e ben diversi che governano il mutamento storico, e di ridurre le trasformazioni nella società umana alle regole dell'evoluzione biologica - con conseguenze e, a volte, intenzioni politiche importanti (“social-darwinismo”). La società in cui vivevano gli scienziati occidentali - e tutti gli scienziati appartenevano al mondo occidentale, anche quelli abitanti ai suoi margini, come in Russia - combinava la stabilità e il mutamento; e così le loro teorie evoluzionistiche.

Esse erano comunque drammatiche, o meglio traumatiche, perché entravano per la prima volta in conflitto aperto e dichiarato con le forze della tradizione, del conservatorismo e, specialmente, della religione, e abolivano il posto eccezionale dell'uomo nell'universo, come lo si era concepito fin allora. La violenza con la quale venne combattuta la teoria dell'evoluzione era di natura ideologica. Come poteva l'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, essere nulla più che una scimmia modificata? Posta la scelta fra scimmie ed angeli, gli avversari di Darwin prendevano la parte degli angeli. La forza di questa resistenza dimostra quella del tradizionalismo e della religione organizzata anche fra i gruppi più emancipati ed istruiti delle popolazioni occidentali, perché la polemica rimase confinata alle persone di cultura superiore.

Ma ciò che stupisce altrettanto, e forse più, è la prontezza degli evoluzionisti a sfidare pubblicamente le forze della tradizione - e la loro relativamente rapida vittoria. Gli evoluzionisti erano stati legione, nella prima metà del secolo; ma quelli di essi che erano dei biologi avevano trattato l'argomento con cautela e con un certo timore personale. Lo stesso Darwin esitò ad esporre le idee che si era già fatte. La situazione cambiò non perché le prove della discendenza dell'uomo da animali fossero ormai troppo schiaccianti per poter essere smentite (nel 1850-1860 esse si accumularono rapidamente; benché testimonianze decisive si fossero già scoperte prima del 1848, il cranio scimmiesco dell'uomo di Neanderthal, venuto in luce nel 1856, era adesso una realtà inoppugnabile), ma per il felice concorso di due circostanze: la rapida avanzata di una borghesia liberale e “progressista” e l'assenza di rivoluzioni. L'attacco alle forze della tradizione prese quindi vigore, ma non sembrava più che implicasse sovvertimenti sociali. Lo stesso Darwin illustra questa combinazione di fattori diversi e antitetici. Borghese, uomo della sinistra liberale moderata e, dai tardi anni Cinquanta (benché non prima), indubbiamente pronto a combattere le forze del conservatorismo e della religione, egli respinse tuttavia cortesemente l'offerta di Karl Marx di dedicargli il Libro Secondo del Capitale. Dopo tutto, non era un rivoluzionario.

Così le fortune del darwinismo vennero a dipendere, più che dal suo successo nel convincere gli scienziati, cioè dai pregi intrinseci de L'origine delle specie, dalla congiuntura politica e ideologica di tempi e paesi. Esso fu, naturalmente, adottato subito dall'estrema sinistra, che da tempo forniva una poderosa componente del pensiero evoluzionistico. Alfred Russel Wallace (18231913), che scoprì la teoria della selezione naturale indipendentemente da Darwin e ne condivise la gloria, veniva dalla tradizione di scienza artigianale e radicalismo, che ebbe una parte così importante ai primordi del secolo XIX, e che trovava così congeniale la “storia naturale”. Formatosi nell'ambiente del cartismo e delle owenite “Halls of Science”, egli rimase un uomo dell'estrema sinistra e, in anni più tardi, riprese ad appoggiare attivamente la nazionalizzazione della terra e perfino il socialismo, pur conservando la fede nelle altre dottrine caratteristiche dell'ideologia eterodossa e plebea: la frenologia e lo spiritualismo. Marx salutò immediatamente l'Origine come “il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere”, e la socialdemocrazia divenne fortemente - e, in alcuni discepoli di Marx come Kautsky, esageratamente - darwiniana.

L'evidente affinità dei socialisti per il darwinismo biologico non impedì alla dinamica e progressista borghesia liberale di salutarlo e addirittura di propagandarlo. Esso trionfò rapidamente in Inghilterra e nell'atmosfera liberale e fiduciosa di sé della Germania del decennio dell'unificazione. In Francia, dove la borghesia preferiva la stabilità dell'impero napoleonico, e gli intellettuali di sinistra non sentivano il bisogno di idee importate da stranieri non-francesi e quindi arretrati, il darwinismo non fece rapidi progressi prima della fine dell'impero e della sconfitta della Comune parigina. In Italia i suoi partigiani temevano le sue implicazioni socialrivoluzionarie più che i fulmini pontifici, ma erano abbastanza fiduciosi. Negli Stati Uniti, non solo il suo trionfo fu rapido, ma ben presto esso si trasformò in una ideologia di capitalismo militante. Inversamente, ad opporsi all'evoluzione darwiniana furono, anche nelle file degli scienziati, i gruppi e gli individui socialmente conservatori.

2.

L'evoluzione getta un ponte fra le scienze naturali e le scienze umane o sociali, benché l'ultimo aggettivo sia anacronistico. Tuttavia, allora per la prima volta si sentì seriamente il bisogno di una scienza specifica e generale della società (in quanto distinta dalle varie discipline speciali che già trattavano di faccende umane). La British Association for the Promotion of Social Science (1857) non aveva se non lo scopo modesto di applicare alle riforme sociali metodi scientifici. Ma si parlava già molto di sociologia, termine inventato nel 1839 da Auguste Comte e divulgato da Herbert Spencer (autore di un libro prematuro sui principi di questa come di numerose altre scienze: 1876). Alla fine del nostro periodo, non ne era nata né una disciplina riconosciuta, né una materia di insegnamento universitario; d'altra parte, il campo più vasto ma connesso dell'antropologia stava rapidamente emergendo, come scienza riconosciuta, dal seno del diritto, della filosofia, dell'etnologia, della letteratura di viaggi, dello studio della lingua e del folklore, e delle scienze mediche (tramite il tema allora popolare dell'“antropologia fisica” che inaugurò una moda della misurazione e raccolta dei crani di diversi popoli). Il primo ad insegnarla ufficialmente fu probabilmente Quatrefages nel 1855, dalla cattedra già esistente in questa materia al Musée National di Parigi. La fondazione della Société Anthropologique di Parigi (1859) fu seguita da un'esplosione di interesse per l'argomento negli anni Sessanta, quando associazioni simili vennero fondate a Londra, Madrid, Mosca, Firenze e Berlino. La psicologia (altro vocabolo di conio recente, questa volta ad opera di John Stuart Mill) era ancora legata alla filosofia - in Mental and Moral Science (1868) di A. Bain, la si trova combinata con l'etica -, ma ricevette un orientamento sempre più sperimentale con W. Wundt (1832-1920), che era stato assistente del grande Helmholtz. Negli anni Settanta, essa era ormai una disciplina accettata, in ogni caso nelle università tedesche; invadeva il campo sociale e antropologico, e una rivista specializzata, fondata fin dal 1859 13, la collegava alla linguistica.

Al metro delle “scienze positive”, particolarmente di quelle sperimentali, i progressi di queste nuove scienze sociali non erano straordinari, sebbene tre potessero vantare già prima del 1848 realizzazioni scientifiche importanti e sistematiche: l'economia, la statistica e la linguistica. Il nesso fra economia e matematica divenne ora intimo e diretto (con A. A. Cournot, 18011877, e L. Walras, 1834-1910, entrambi francesi), e l'applicazione della statistica ai fenomeni sociali era già abbastanza progredita da promuovere analoghe applicazioni alle scienze fisiche, come almeno sostengono studiosi delle origini della meccanica statistica esplorata per la prima volta da Clerk Maxwell. E certo, comunque, che la statistica sociale fiorì come mai prima, e i suoi cultori trovarono aperta la via a numerosi impieghi pubblici. Dal 1853, si tennero ad intervalli dei congressi internazionali di statistica, e il prestigio scientifico della materia trovò il suo riconoscimento nell'elezione del celebre e ammirevole dr. William Farr (1807-1883) alla Royal Society. Come vedremo, la linguistica seguì una linea di sviluppo differente.

Eppure, nell'insieme, questi risultati non erano di grande rilievo, se non sul piano metodologico. La scuola marginalistica dell'economia, sviluppatasi simultaneamente in Inghilterra, Austria e Francia intorno al 1870, era formalmente elegante e sofisticata, ma molto più chiusa ed angusta della vecchia “economia politica” (o perfino della recalcitrante “scuola storica” tedesca), e in questi limiti suggeriva un approccio meno realistico ai problemi economici. A differenza delle scienze della natura, in una società liberale le scienze sociali non traevano impulso nemmeno dal progresso tecnico. Poiché il modello fondamentale dell'economia sembrava del tutto soddisfacente, esso non lasciava nessun grande problema da risolvere, come quelli della crescita, delle possibili crisi economiche, o della distribuzione dei redditi. Nella misura in cui questi problemi non avevano già trovato soluzione, nella misura in cui non esulavano dalle possibilità di chiarimento umane, avrebbero provveduto a risolverli le operazioni automatiche dell'economia di mercato (sulla quale perciò da allora si concentrò l'analisi). Comunque, le cose tendevano chiaramente a migliorare e progredire, e in questa situazione non era probabile che la mente degli economisti si concentrasse sugli aspetti più profondi della loro disciplina.

Le riserve dei pensatori borghesi sui loro mondo erano di natura più sociale e politica che economica, specialmente laddove persisteva il ricordo del pericolo di rivoluzione, come in Francia, o dove ci si trovava di fronte all'ascesa di un movimento operaio, come in Germania. Ma se i pensatori tedeschi, che non accettarono mai senza riserve la teoria liberista nella sua forma estrema, si preoccupavano, come tutti i conservatori in ogni paese, che la società prodotta dal capitalismo liberale si dimostrasse instabile e pericolosa, essi avevano ben poco da suggerire, a parte alcune riforme sociali preventive. L'immagine fondamentale del sociologo era quella biologica dell'“organismo sociale”, della collaborazione funzionale di tutti i gruppi della società, così diversa dalla lotta di classe. Era il vecchio conservatorismo in panni ottocenteschi, difficile da combinare, sia detto per inciso, con l'altra immagine biologica di un secolo votato alla causa del mutamento e del progresso, cioè l“evoluzione”. In realtà, era una base più adatta per la propaganda che per la scienza.

Il solo pensatore del periodo che abbia svolto una teoria comprensiva e, come tale, degna di considerazione, della struttura e del cambiamento sociali fu quindi il rivoluzionario sociale Karl Marx, che gode tuttora dell'ammirazione o almeno del rispetto di economisti, storici e sociologi. Il fatto è tanto più notevole, in quanto i suoi contemporanei (eccettuato un piccolo numero di economisti) sono oggi dimenticati anche dagli uomini e dalle donne di cultura superiore, o hanno resistito così male alle bufere del secolo intercorso che solo degli archeologi intellettuali possono scoprire nelle loro opere meriti caduti in oblio. Ma il fatto sorprendente non è che Auguste Comte e Herbert Spencer fossero, dopo tutto, persone di una certa statura intellettuale, bensì che uomini un tempo considerati come gli Aristotele del mondo moderno siano praticamente scomparsi dalla vista. Ai loro giorni, essi erano incomparabilmente più famosi ed influenti di Marx, del cui Capitale un anonimo esperto tedesco scriveva nel 1875 come dell'opera di un autodidatta, ignaro dei progressi compiuti negli ultimi venticinque anni. All'epoca, in Occidente, Marx era preso sul serio solo nell'ambito del movimento operaio internazionale, e soprattutto del sempre più vigoroso movimento socialista tedesco; ma anche qui la sua influenza intellettuale continuava ad essere minima. Quelli che lo lessero immediatamente e con avidità furono invece gli intellettuali di una Russia percorsa sempre più da fremiti rivoluzionari. La prima edizione tedesca del Capitale (1867) - un migliaio di copie - non si esaurì che in cinque anni; nel 1872, le prime mille copie dell'edizione russa si vendettero in meno di due mesi.

Il problema postosi da Marx fu quello stesso che gli altri scienziati sociali cercavano di risolvere: la natura e la meccanica della transizione da una società precapitalistica ad una società capitalistica, i modi di operare specifici di quest'ultima e le sue tendenze future di sviluppo. Poiché le sue risposte sono relativamente familiari, non è necessario ricapitolarle in questa sede, benché valga la pena di osservare che Marx reagì alla tendenza, altrove sempre più diffusa, a separare l'analisi economica dal suo contesto storico e sociale. Il problema dello sviluppo storico della società ottocentesca portava non soltanto i teorici ma perfino gli uomini pratici a scavare in un passato più remoto. Giacché, sia all'interno dei paesi capitalistici, sia nei punti in cui la società borghese in espansione si scontrava con altre società, e le distruggeva, il passato vivente e il presente in nascita entravano in conflitto aperto. Pensatori tedeschi vedevano l'ordine gerarchico degli “stati” nella loro patria cedere il posto ad una società divisa in classi antagonistiche. Giuristi inglesi, soprattutto se con esperienze indiane, paragonavano l'antica società di status con la nuova società di “contratto”, e nel passaggio dalla prima alla seconda vedevano lo schema fondamentale dello sviluppo storico. Scrittori russi vivevano simultaneamente nei due mondi - il tradizionale comunalismo contadino, che tanti conoscevano per le lunghe estati trascorse sui loro fondi padronali, e la cerchia di un'intelligentsija occidentalizzata e giramondo. Per l'osservatore della metà del secolo, tutta la storia coesisteva nello stesso tempo, eccettuata quella delle civiltà e degli imperi antichi - come l'antichità classica che, rimasta (letteralmente) sepolta, attendeva le vanghe di H. Schliemann (1822-1890) a Troia e Micene, o di Flinders Petrie (1853-1942) in Egitto, per rivedere la luce.

Ci si sarebbe potuti aspettare che la disciplina più strettamente connessa al passato fornisse un contributo particolarmente importante allo sviluppo delle scienze sociali: in realtà, la storia come specializzazione accademica non fu per esse quasi di nessuno aiuto. Coloro che la coltivavano erano prevalentemente assorbiti da re e governanti, battaglie, trattati, eventi politici e istituzioni politico-legali; insomma dalla storia retrospettiva, se non addirittura dalla politica corrente in falsa veste storica; elaboravano una metodologia della ricerca in base ai documenti degli archivi pubblici, ora mirabilmente ordinati e conservati, e organizzavano sempre più le loro pubblicazioni (sulle orme dei tedeschi) intorno ai due poli delle tesi universitarie e delle riviste erudite specialistiche: la “Historische Zeitschrift” cominciò ad uscire nel 1858, la “Revue Historique” nel 1876, l'inglese “English Historical Review” nel 1866 e l'“American Historical Review” nel 1895. Ma quelli che esse pubblicavano erano, nell'ipotesi più favorevole, monumenti perenni di erudizione sui quali noi ci curviamo tuttora, e pamphlets in formato gigante che leggiamo, seppure li leggiamo, soltanto per il loro interesse letterario, nella più sfavorevole. La storia accademica, malgrado il liberalismo moderato di alcuni dei suoi cultori, tendeva per impulso naturale a preservare il passato e a sospettare, se non a deplorare, il futuro. E le scienze sociali, a questo stadio, avevano la tendenza diametralmente opposta.

Tuttavia, se gli storici accademici seguivano la loro via traversa della pura erudizione, la storia restava la componente essenziale delle nuove scienze della società, come era chiaro soprattutto nel campo straordinariamente fertile - e, come tante altre discipline scientifiche, preminentemente tedesco - della linguistica o, per usare il termine contemporaneo, della filologia. Al centro del suo interesse stava la ricostruzione dell'evoluzione storica delle lingue indo-europee, che, forse perché note in Germania come “indo-germaniche”, attraevano l'attenzione nazionale, se non nazionalistica, di quel paese. Si cercò pure di stabilire una molto più vasta tipologia evolutiva del linguaggio - ad opera soprattutto di H. Steinthal (1823-1899) e A. Schleicher (18211868). Ma l'albero genealogico così costruito rimase in alto grado speculativo, e i rapporti fra i diversi “genera” e “species” estremamente dubbi. In realtà, con l'eccezione dell'ebraico e delle lingue semitiche in generale, che attiravano studiosi israeliti o biblici, e di un certo lavoro sulle lingue ugro-finniche (che, guarda caso, avevano un loro rappresentante centro-europeo in Ungheria), non molto si era studiato sistematicamente, fuori delle lingue indo-europee, nei paesi in cui la filologia medio-ottocentesca fioriva.

D'altra parte, vennero ora sistematicamente applicate le fondamentali intuizioni della prima metà del secolo, svolgendole in una filologia evoluzionistica indo-europea. Vennero studiati a fondo e specificati molto più accuratamente i moduli regolari di mutamento del suono scoperti da Grimm per il tedesco (legge della rotazione consonantica), vennero stabiliti metodi di ricostruzione di antiche forme non-scritte di parole, e di costruzione di modelli di “alberi genealogici” linguistici, vennero suggeriti altri modelli di evoluzione (come la teoria “ondulatoria” di Schmidt) e sviluppato l'uso dell'analogia, con speciale riguardo all'analogia grammaticale; perché la filologia era e doveva essere comparata. Negli anni Settanta, la scuola di avanguardia degli Junggrammatjker (giovani grammatici) si riteneva ormai in grado di ricostruire l'originario indo-europeo da cui erano discese tante lingue fra il sanscrito ad Est e il celtico ad Ovest, e il temibile Schleicher scrisse addirittura dei testi in questo idioma ricostruito.

La linguistica moderna ha preso una via completamente diversa, respingendo forse con violenza eccessiva gli interessi storicistici ed evoluzionistici della metà del secolo scorso, e, in questa misura, gli sviluppi fondamentali della filologia nel nostro periodo elaborarono principi noti più che non ne anticipassero di nuovi. Ma si trattava di una scienza sociale tipicamente evoluzionistica e, al metro contemporaneo, di grande successo sia fra gli studiosi, sia nel pubblico generale. Purtroppo, in quest'ultimo (malgrado le specifiche ripulse di studiosi come F. Max-Muller, 1823-1900, di Oxford) incoraggiò la credenza nel razzismo, nell'identificazione di coloro che parlano lingue indo-europee (concetto puramente linguistico) con la “razza ariana”.

Il razzismo ebbe una parte decisamente centrale in un'altra scienza sociale in rapido sviluppo, l'antropologia, in cui si fusero due discipline in origine affatto distinte, l'“antropologia fisica” (che derivava essenzialmente da interessi anatomici e simili) e l'“etnografia”, o descrizione di varie comunità, generalmente arretrate o primitive. Entrambe si trovavano inevitabilmente di fronte al problema, dal quale erano anzi dominate, delle differenze fra diversi gruppi umani, e (una volta adottato il modello evoluzionistico) al problema dell'origine dell'uomo e dei diversi tipi di società, di cui il mondo borghese appariva incontestabilmente come il più elevato. L'antropologia fisica portò per deduzione inevitabile al concetto di “razza”, poiché le differenze fisiche fra bianchi, gialli o neri, caucasici, mongoli o negri (o qualunque altra classificazione si potesse usare) erano innegabili. Ciò non implicava di per sé alcuna credenza nell'ineguaglianza, nella superiorità o inferiorità, razziale, sebbene, sposato allo studio dell'evoluzione dell'uomo sulla base dei reperti fossili preistorici, finisse per implicarla. Era infatti chiaro che i remoti progenitori identificabili dell'uomo - a cominciare dall'uomo di Neanderthal - erano nello stesso tempo più simili alle scimmie e culturalmente inferiori ai loro scopritori. Ma, se si poteva dimostrare che alcune razze esistenti erano più vicine alle scimmie di altre, non si sarebbe così provata la loro inferiorità?

L'argomento è debole, ma esercitò un fascino più che naturale su quanti erano ansiosi di provare l'inferiorità razziale, per esempio, dei neri - o, in definitiva, di chiunque rispetto ai bianchi. (Con l'occhio del pregiudizio, si poteva discernere la forma della scimmia anche nei cinesi e giapponesi, come ne fanno fede molti moderni fumetti). E, se l'evoluzione biologica darwiniana suggeriva una gerarchia delle razze, altrettanto faceva il metodo comparativo in quanto applicato all'“antropologia culturale”, di cui l'opera di E. B. Tylor, Primitive Culture (1871), fu il principale punto di riferimento.

Per E. B. Tylor (1832-1917) come per tanti credenti nel “progresso” che osservavano comunità e culture che, diversamente dall'uomo fossile, non si erano estinte, queste non tanto erano inferiori per natura, quanto rappresentavano uno stadio primordiale dell'evoluzione verso la civiltà moderna, qualcosa di analogo all'infanzia o alla fanciullezza nella vita dell'individuo. Ciò implicava una teoria degli stadi che Tylor, influenzato com'era da Comte, applicò (con la solita cautela delle persone “rispettabili” nel battere su questo tasto ancora esplosivo) alla religione. Dall'“animismo” primitivo (parola inventata da lui) la strada conduceva alle più alte religioni monoteistiche, e infine al trionfo della scienza, che, potendo spiegare aree di esperienza sempre più vaste senza riferirsi allo spirito, “avrebbe sostituito in un settore dopo l'altro, all'azione volontaria indipendente, l'operato di leggi sistematiche”.

Intanto, però, si potevano distinguere dovunque “sopravvivenze” storicamente modificate di stadi primordiali di civiltà, anche in parti evidentemente “arretrate” di nazioni civili, come nelle superstizioni e nelle costumanze delle campagne. Così, il contadino divenne un anello di congiunzione fra il selvaggio e la società civile. Naturalmente Tylor, che vedeva nell'antropologia “essenzialmente una scienza di riformatori”, non pensava che ciò indicasse una incapacità dei contadini a diventare membri di pieno diritto della società civile. Ma nulla era più facile che supporre che i rappresentanti dello stadio della fanciullezza o dell'adolescenza nello sviluppo della civiltà fossero a loro volta “fanciulleschi” e che li si dovesse trattare come i “genitori” maturi trattano i loro bambini.

Come il tipo dei negri - scriveva l'“Anthropological Review” - è fetale, così quello dei mongoli è infantile. E, in stretto accordo con questo, troviamo che anche il loro governo, la loro letteratura e la loro arte sono infantili. I mongoli sono fanciulli imberbi la cui vita è un compito e la cui virtù principale consiste in un'obbedienza assoluta.

Ovvero, come scriveva nel 1860, in bruschi modi navali, il capitano Osborn: “Trattateli come bambini. Fateli fare ciò che sappiamo è per il loro come per il nostro bene, e tutte le difficoltà in Cina cesseranno”

Le altre razze erano quindi “inferiori”, o perché rappresentavano uno stadio primordiale dell'evoluzione biologica o di quella socio-culturale, o per entrambe le ragioni. E la loro inferiorità era provata dal fatto che, al metro della sua società, la “razza superiore” era effettivamente superiore: più avanzata sul piano tecnico, più potente sul piano militare, più ricca, quindi più “di successo”. L'argomento era insieme lusinghiero e comodo, tanto comodo che la borghesia era incline a prenderlo a prestito dagli aristocratici (i quali da tempo si immaginavano d'essere una razza superiore) per usi sia interni che internazionali: i poveri erano poveri perché biologicamente inferiori; inversamente, se dei cittadini appartenevano alle “razze inferiori”, nessuna meraviglia che restassero poveri e arretrati. L'argomento non era ancora vestito nei panni della genetica moderna, che in pratica attendeva ancora d'essere inventata: gli esperimenti ora famosi del monaco Gregor Mendel (1822-1884) sui piselli dolci dell'orto del suo monastero in Moravia (1865) passarono del tutto inosservati finché non vennero riscoperti intorno al 1900. Ma, in un modo primitivo, l'idea che le classi superiori fossero un tipo più alto di umanità, sviluppante per endogamia la propria superiorità e minacciato dalla mescolanza con gli ordini «più bassi” e, peggio ancora, dal più rapido aumento degli inferiori, era largamente diffusa. Inversamente, come pretendeva di dimostrare la scuola (prevalentemente italiana) dell’“antropologia criminale”, il delinquente, l'antisociale, il socialmente sottoprivilegiato, appartenevano a un ceppo umano diverso dal “rispettabile” e ad esso inferiore, e per riconoscerlo come tale bastava misurarne il cranio.

Il razzismo imbeve il pensiero del nostro periodo in una misura oggi difficile da valutare, e non sempre facile da capire. (Perché, ad esempio, l'orrore diffuso dell'incrocio fra razze, e la credenza pressoché generale fra i bianchi che i “misti” ereditassero appunto i caratteri peggiori delle loro razze genitrici?). A parte la sua utilità come legittimazione del dominio del bianco sull'uomo di colore, del ricco sul povero, forse lo si spiega meglio come un meccanismo grazie al quale una società fondamentalmente inegualitaria, basata su una ideologia fondamentalmente egualitaria, razionalizzava le sue ineguaglianze e cercava di giustificare e difendere i privilegi che la democrazia implicita nelle sue istituzioni doveva inevitabilmente mettere in discussione. Il liberalismo non aveva alcuna difesa logica contro la democrazia e l'eguaglianza; ecco perché si elevava la barriera illogica della razza. La stessa scienza, l'asso nella manica del liberalismo, poteva dimostrare che gli uomini non sono eguali.

Ma, naturalmente, la scienza del nostro periodo non fornì questa prova, per quanto alcuni scienziati potessero augurarselo. La tautologia darwiniana (“sopravvivenza del più adatto”, dove la prova dell'idoneità era la sopravvivenza) non poteva dimostrare che gli uomini fossero superiori ai vermi, dal momento che entrambi riuscivano assai bene a sopravvivere. La “superiorità” veniva letta nei reperti mediante l'equazione del tutto ipotetica fra storia evolutiva e “progresso”. E la storia evolutiva dell'uomo, se aveva ragione di scorgere il progresso in un certo numero di settori importanti (soprattutto la scienza e la tecnica), pur trascurandone altri, non rendeva, né poteva rendere permanente e irreparabile l'“arretratezza”. Infatti, essa si basava sull'assunto che gli esseri umani, almeno fin dalla comparsa dell'homo sapiens, erano gli stessi, che il loro comportamento ubbidiva alle medesime leggi uniformi, benché in circostanze storiche diverse. La lingua inglese differiva dall'indoeuropeo originario, ma non perché gli inglesi moderni operassero in modo linguisticamente diverso dalle tribù ancestrali nel centro (come allora si credeva comunemente) dell'Asia.

Il paradigma fondamentale dell'“albero genealogico”, che ricorre nella filologia come nell'antropologia, implica proprio l'opposto dell'ineguaglianza genetica o di altre forme permanenti di ineguaglianza. I sistemi di parentela degli aborigeni australiani, degli abitanti delle isole del Pacifico e degli indiani irochesi, che i progenitori della moderna antropologia sociale, come Lewis Morgan (1818-1881), cominciavano allora a studiare seriamente benché più in biblioteca che “sul campo” -, erano visti come “sopravvivenze” di stadi primordiali nell'evoluzione di quella che era infine divenuta la famiglia ottocentesca. Ma il punto, in essi, è che erano comparabili; diversi ma non necessariamente inferiori . Il “socialdarwinismo” e l'antropologia o la biologia razziste non appartengono alla scienza del secolo scorso, ma alla sua politica.

Se ci volgiamo indietro a considerare le scienze sia naturali che sociali del periodo, siamo colpiti soprattutto dalla loro fiducia in se stesse; una fiducia meno ovviamente ingiustificata nelle prime che nelle seconde, ma egualmente viva. I fisici che sentivano di aver lasciato da chiarire ai loro successori poco più di un piccolo numero di problemi minori, esprimevano lo stesso stato d'animo di August Schleicher, il quale era sicuro che gli antichi ariani avessero parlato esattamente il linguaggio putativo da lui ricostruito. Tale sentimento si basava, più che su veri e propri risultati quelli delle discipline evoluzionistiche non erano comunque passibili di falsificazione sperimentale -, su una fede nell'infallibilità del “metodo scientifico”, La scienza “positiva”, che lavorava su fatti obiettivi ed accertati, connessi fra loro da rigidi legami di causa ed effetto, e stabiliva “leggi” generali invarianti ed uniformi, al riparo da contestazioni od arbitrii, era la chiave-maestra all'universo, e il secolo XIX la possedeva. Non solo, ma, dischiusosi il mondo dell'Ottocento, gli stadi primordiali ed infantili dell'uomo, caratterizzati dalla superstizione, dalla teologia e dalla speculazione astratta, erano per sempre superati; si era aperto il “terzo stadio” della scienza positiva annunziato da Comte.

E’ ora facile prendersi gioco di questa fiducia sia nell'adeguatezza del metodo, sia nella permanenza dei modelli teorici; ma il fatto d'essere mal collocata, come avrebbero potuto osservare filosofi di epoche trascorse, non la rendeva meno potente. E, se gli scienziati sentivano di poter parlare con sicurezza, ciò valeva a maggior ragione per i pubblicisti e ideologi minori, tanto più convinti delle certezze degli esperti in quanto erano in grado di capire la maggior parte di ciò che gli stessi esperti dicevano, almeno nei limiti in cui lo si poteva dire senza servirsi del complesso apparato della matematica superiore. Persino nella fisica e nella chimica, quelle certezze sembravano ancora alla portata dell'“uomo pratico” diciamo, dell'ingegnere civile. L'Origine delle specie di Darwin era completamente accessibile al profano colto. Mai più il semplice buonsenso, per il quale il mondo trionfante del progresso liberai-capitalistico era comunque il migliore dei mondi possibili, avrebbe trovato così facile mobilitare l'universo a rincalzo dei suoi pregiudizi.

I pubblicisti, i volgarizzatoti e gli ideologi si trovavano adesso in tutto ii mondo occidentale, o dovunque esistesse un'élite locale attratta dalla “modernizzazione”. Gli scienziati e studiosi originali - quelli, in ogni caso, che godevano e godono tuttora di reputazione fuori dei rispettivi paesi - erano distribuiti in modo assai meno uniforme: erano, in pratica, confinati ad alcune parti dell'Europa e dell'America del Nord. Opere di qualità notevole e di interesse internazionale venivano pubblicate in quantità rilevanti anche nell'Europa centrale ed orientale, soprattutto in Russia, e in questo si deve forse riconoscere il cambiamento più significativo nella mappa “universitaria” o “accademica” del mondo occidentale verificatosi nel nostro periodo, benché non si possa scrivere una storia della scienza in quegli anni senza accennare ad alcuni studiosi americani, eminente fra tutti il fisico Willard Gibbs (1839-1903). Sarebbe tuttavia difficile negare che, mettiamo nel 1875, quanto avveniva nelle università di Kazan e di Kiev era più importante di ciò che accadeva a Yale e Princeton.

La mera distribuzione geografica non basta però a mettere nella solita luce il fatto sempre più dominante nella vita universitaria del periodo, cioè l'egemonia dei tedeschi, spalleggiata com'era dalle numerose università che ne usavano la lingua (incluse quelle della maggior parte della Svizzera, di quasi tutto l'impero asburgico e delle regioni baltiche della Russia) e dalla forte attrazione esercitata dalla cultura tedesca in Scandinavia e nell'Europa orientale e sudorientale. Fuori del mondo latino e della Gran Bretagna, e perfino, in una certa misura, in entrambi, era generalmente adottato il modello tedesco di università. Il predominio germanico era soprattutto quantitativo: nel nostro periodo, è probabile che si pubblicassero più riviste scientifiche nuove in quella lingua che in francese e in inglese messi insieme.

A prescindere da certi settori della scienza naturale, come la chimica e probabilmente la matematica, che i tedeschi chiaramente dominavano, l'altissimo livello qualitativo del loro apporto era forse meno evidente, perché (a differenza dei primi anni del secolo) non esisteva un tipo specificamente tedesco di filosofia naturale. Mentre, eccettuate poche celebrità, i francesi, forse per ragioni nazionalistiche, si attenevano al loro stile - con conseguente isolamento della scienza naturale francese (benché non della matematica) -, non altrettanto facevano i tedeschi. Forse il loro stile, che diverrà dominante nel secolo XX, non emerse come tale prima che le scienze entrassero nella fase della teoria e della sistematizzazione, alle quali (per cause piuttosto oscure) essi erano mirabilmente predisposti. Comunque, le scienze naturali britanniche, che poggiavano su una base molto più ristretta ma godevano del punto di vantaggio di un vasto foro pubblico sia di specialisti sia di profani borghesi e perfino operai di concetto - continuavano a produrre scienziati di grandissima fama come Thompson e Darwin.

Salvo nella storiografia e nella linguistica universitarie, i tedeschi non vantavano una posizione altrettanto dominante nelle scienze sociali. L'economia era ancora in larga misura inglese, benché retrospettivamente si possano scoprire opere analitiche di alto livello in Italia, Francia ed Austria. (L'impero asburgico, sebbene parte, in un certo senso, dell'area culturale germanica, seguì una traiettoria intellettuale assai diversa.) La sociologia, per quel tanto che valeva, era legata essenzialmente alla Francia e all'Inghilterra, ed era accolta con entusiasmo nel mondo latino.

In antropologia, gli inglesi godevano del vantaggio considerevole di legami con l'intero pianeta. L'“evoluzione” in generale questo ponte fra le scienze naturali e le scienze sociali -aveva il suo centro di gravità in Inghilterra. La verità è che le scienze sociali rispecchiavano i preconcetti e i problemi del liberalismo borghese nella sua forma classica, e questa non si trovava in Germania, dove la società borghese si inseriva nell'intelaiatura bismarckiana di un mondo di aristocratici e di burocrati. Lo scienziato sociale più eminente del periodo, Karl Marx, lavorò in Inghilterra, e trasse lo schema fondamentale della sua analisi concreta dalla scienza non-tedesca dell'economia, e la base empirica della sua opera dalla forma “classica”, sebbene non più inattaccata, di società borghese - quella britannica.

3.

La “scienza” era al centro di quell'ideologia laica del progresso, liberale o, in misura piccola ma crescente, socialista, la cui natura dovrebbe emergere ormai chiara da questa rievocazione storica, e che quindi non richiede una discussione speciale.

In confronto a tale ideologia, la religione nel nostro periodo presenta scarso interesse e non merita una trattazione estesa. Merita però una certa attenzione non solo perché rappresentava ancora l'idioma in cui pensava la maggioranza schiacciante della popolazione della terra, ma perché la società borghese, malgrado la sua crescente secolarizzazione, era chiaramente preoccupata delle conseguenze possibili delle proprie audacie. Una pubblica professione di miscredenza divenne relativamente facile alla metà del secolo XIX, in ogni caso nel mondo occidentale, visto chele scienze, storiche, sociali e soprattutto naturali, avevano minato alle fondamenta o addirittura smentito tante delle affermazioni verificabili contenute nelle Sacre Scritture giudaico-cristiane.

Se Lyell (1797-1875) e Darwin avevano ragione, allora il Genesi aveva, nel suo significato letterale, semplicemente torto; e gli avversari di Darwin e Lyell uscivano dallo scontro visibilmente battuti. Nelle classi superiori, almeno fra gli uomini, il libero pensiero era da tempo familiare. Una novità non era neppure l'ateismo borghese e intellettuale, che divenne attivo ed impegnato via via che cresceva l'importanza politica dell'anticlericalismo. In campo operaio, infine, il libero pensiero, benché commisto a ideologie rivoluzionarie, prese una sua forma specifica man mano che, da un lato, le più vecchie ideologie rivoluzionarie declinavano lasciandosi dietro solo i loro aspetti più direttamente politici, dall'altro nuove ideologie del genere, ma saldamente basate su una filosofia materialistica, guadagnavano terreno. Il movimento “secolarista” in Gran Bretagna, che discendeva in linea diretta dai vecchi movimenti operai radicali, cartisti e oweniti, esisteva ora come corpo indipendente, ed esercitava un'attrazione particolare su uomini e donne che reagivano ad un background religioso eccezionalmente intenso. Dio non era soltanto rinnegato, ma attivamente combattuto.

Questo attacco militante alla religione coincise, senza identificarvisi completamente, con il filone non meno impegnato dell'anticlericalismo, che abbracciava tutte le correnti intellettuali, dal liberalismo moderato al marxismo e all'anarchismo. L'attacco alle Chiese, e nel modo più aperto alle Chiese di Stato ufficiali e a quella internazionale cattolica - che rivendicavano il diritto di definire la verità, o il monopolio di funzioni interessanti il cittadino, come il matrimonio, le esequie, l'istruzione - non implicava di per sé l'ateismo. In paesi con più religioni, potevano sferrarlo i membri di una confessione religiosa contro un'altra: in Inghilterra, erano soprattutto i membri di sètte non-conformiste a battersi contro la Chiesa anglicana; in Germania, Bismarck, che nel 1870-1871 si lanciò in un aspro Kulturkampf contro la Chiesa cattolica, non intendeva certo, da luterano ufficiale qual era, che fosse in gioco l'esistenza di Dio o la divinità del Cristo.

In paesi di una sola religione monolitica, particolarmente in quelli cattolici, l'anticlericalismo implicava invece di norma il ripudio di qualunque religione. Nell'ambito stesso del cattolicesimo, v'era bensì un'esile corrente “liberale” che si opponeva all'ultra-conservatorismo sempre più rigido della gerarchia romana, formulato negli anni Sessanta (cfr. il cap. IV per il Syllabus errorum) e ufficialmente vittorioso al Concilio Vaticano del 1870 con la sua proclamazione dell'infallibilità pontificia; ma sconfiggerlo all'interno della Chiesa non risultò difficile, malgrado l'appoggio di alcuni sacerdoti ansiosi di salvaguardare l'autonomia relativa della propria Chiesa cattolica nazionale; che probabilmente erano più forti che altrove in Francia. D'altra parte, chiamare “liberale” nel senso corrente del termine il “gallicanismo” è impossibile, anche se, per motivi insieme dottrinari e anti-romani, esso era più disposto a scendere a patti coi moderni Stati laici e liberali.

L'anticlericalismo era attivamente laicista in quanto voleva privare la religione di qualunque status ufficiale nella società (“separazione di Chiesa e Stato” o, nella terminologia anglosassone, “disestablishment of the Church”) lasciandola come faccenda meramente privata. Essa doveva trasformarsi in una o più organizzazioni puramente volontarie, analoghe ai club di filatelici, anche se indubbiamente più vaste; e ciò sulla base non tanto della falsità della credenza in Dio o di una sua particolare versione, quanto sulla capacità amministrativa, l'area di competenza e l'ambizione crescenti dello Stato laico che - anche nella sua forma più liberale e laissez-faire - non poteva non espellere le organizzazioni private da quello che ora considerava il suo campo di azione specifico.

Ma, fondamentalmente, l'anticlericalismo era politico, perché la passione essenziale che lo animava era la credenza che le religioni stabilite fossero ostili al progresso. E lo erano, in realtà, in quanto istituzioni sia sociologicamente che politicamente ultraconservatrici. La Chiesa cattolica, anzi, aveva scritto decisamente sulla sua bandiera l'ostilità a tutto ciò che la metà del secolo propugnava. Alcune sètte, o gli eterodossi, potevano essere liberali e perfino rivoluzionari, certe minoranze religiose potevano lasciarsi attrarre dalla tolleranza religiosa; le Chiese e le ortodossie, no. E, in quanto le masse - specialmente le masse rurali erano ancora nelle mani di queste forze dell'oscurantismo, del tradizionalismo e della reazione politica, in nome e in difesa del progresso il loro potere doveva essere infranto. Perciò l'anticlericalismo era tanto più impegnato, quanto più il paese era “retrogrado”. In Francia i politici discutevano sulla posizione delle scuole cattoliche nello Stato; in Messico, nella lotta dei governi laici contro il clero era in gioco molto di più.

Il “progresso”, l'emancipazione dalla tradizione - per la società come per gli individui - sembrava quindi implicare una rottura aperta con le credenze antiche, che trovava espressione appassionata nel comportamento sia dei militanti di movimenti popolari, sia degli intellettuali borghesi. Un libro intitolato Mosé o Darwin trovava un pubblico più vasto di lettori nelle biblioteche operaie e socialdemocratiche tedesche, che le opere di Marx. Nella mente degli uomini comuni, i grandi educatori ed emancipatori erano alla testa del progresso - anche del progresso socialista -, e la chiave all'emancipazione intellettuale dai ceppi di un passato oscurantista e di un presente oppressivo era la scienza (logicamente sviluppata in “socialismo scientifico”). Gli anarchici europeo-occidentali, che rispecchiavano con grande fedeltà gli istinti spontanei di tali militanti, erano violentemente anticlericali: non a caso un fabbro radicale romagnolo chiamò suo figlio Benito Mussolini dal nome del presidente anticlericale del Messico, Benito Juarez.

Una nostalgia della religione, tuttavia, persisteva anche fra liberi pensatori. Ideologi borghesi valutanti al giusto peso il ruolo della religione come istituto atto a mantenere uno stato di doverosa modestia fra i poveri, e come garanzia di ordine, sperimentavano a volte, benché senza molto successo, forme di neo-religione come la “religione dell'umanità” di Auguste Comte, che sostituiva al Pantheon o al calendario dei santi una galleria di grandi uomini. Ma v'era anche una tendenza sincera a riscattare e far rivivere nell'era della scienza le consolazioni della fede. La “Christian Science” fondata da Mary Baker Eddy (1821-1910), che pubblicò i suoi articoli di fede nel 1875, rappresenta uno di questi tentativi.

Con le stesse cause si spiega probabilmente la notevole popolarità dello spiritualismo, la cui voga risale fino agli anni Cinquanta, e che era legato da vincoli di parentela politica e ideologica al progresso, alla riforma, alla sinistra radicale e, non ultima, all'emancipazione della donna, specialmente negli Stati Uniti, che erano il suo principale centro di irradiazione. Ma, a parte le altre sue attrattive, esso aveva il notevole vantaggio che sembrava poggiare la sopravvivenza dopo la morte sulla sana base della scienza sperimentale, forse anche (come tendeva a provare la nuova arte della fotografia) su quella dell'immagine obiettiva. Quando non sono più accettati i miracoli, la parapsicologia allarga il suo pubblico potenziale. A volte, tuttavia, essa non indicava probabilmente nulla più della generale sete umana per il rituale fastoso e colorito che, di norma, la religione tradizionale appaga così bene. La metà del secolo XIX è piena di riti laici inventati, specialmente nei paesi anglosassoni, dove le trade unions ideavano bandiere e certificati allegorici elaboratissimi, le società di mutuo soccorso (“Friendly Societies”) si circondavano nelle loro “logge” di tutto un armamentario di mitologie e rituali, il Ku-Klux-Klan, gli Orangemen e altri ordini “segreti” meno politici sfoggiavano i loro paramenti. La più antica, comunque la più influente, di queste sette segrete, ritualizzate e gerarchiche, la Massoneria, era in realtà votata al libero pensiero e all'anticlericalismo, almeno fuori dei paesi anglosassoni. Non sappiamo, benché sia probabile, se il numero dei suoi aderenti crebbe in questo periodo; certo aumentò la sua importanza politica.

Ma i liberi pensatori, se aspiravano ad alcune almeno delle consolazioni spirituali del genere tradizionale, sembravano tuttavia inseguire un nemico in ritirata. Perché - come attestano in modo eloquente gli scritti vittoriani degli anni Sessanta - i fedeli, specie se intellettuali, avevano i loro “dubbi”. La religione era indiscutibilmente in declino, non solo fra gli intellettuali, ma nelle grandi città in rapido incremento, dove la fornitura di servizi di culto, come di servizi sanitari, era in ritardo sulla popolazione, e le pressioni comunitarie per attenersi alla pratica e alla moralità religiose erano solo debolmente sentite.

Eppure, i decenni intorno alla metà del secolo non videro un declino della religione come fenomeno di massa, paragonabile alla sconfitta intellettuale della teologia. Il grosso della borghesia anglosassone rimaneva credente e, in genere, praticante, o almeno ipocrita. Dei grandi milionari americani soltanto uno (Andrew Carnegie) faceva pubblica professione di ateismo. Il tasso di espansione delle sette protestanti non-ufficiali rallentò, ma, almeno in Gran Bretagna, la “coscienza non-conformista” che rappresentavano divenne tanto più influente sul piano politico, quanto più esse diventavano borghesi. Nelle nuove comunità di emigranti transmarini, la religione non declinò: in Australia, la percentuale di frequenza alle funzioni religiose nella popolazione complessiva dai quindici anni in su crebbe dal 36,5 a quasi il 59% fra il 1850 e il 1870, e si stabilizzò sul 40-50% negli ultimi decenni del secolo 21 Gli Stati Uniti, malgrado il celebre ateo col. Ingersoll (1833-1899), erano un paese molto meno miscredente che la Francia.

Per quanto riguarda la borghesia, il declino della religione trovava ostacolo, come si è visto, non solo nella tradizione e nella palese incapacità del razionalismo liberale di fornire un sostituto emotivo al culto e al rituale religioso collettivi (se non, forse, attraverso l'arte - cfr. cap. XV), ma nella riluttanza ad abbandonare un pilastro così utile e forse indispensabile di stabilità, moralità e ordine sociale. Quanto alle masse, è possibile che la sua espansione sia stata dovuta principalmente ai fattori demografici sui quali la Chiesa cattolica amava sempre più far leva per il suo trionfo finale: la migrazione in massa di uomini e donne da ambienti più tradizionali, cioè pii, in nuove città, regioni e continenti, e la maggior fecondità dei poveri timorati di Dio in confronto ai non-credenti corrotti dal progresso (incluso il controllo delle nascite). Nulla prova che gli irlandesi siano divenuti più religiosi nel nostro periodo, e v'è qualche testimonianza che l'emigrazione allentò la presa della fede su di essi: ma non v'è dubbio che la loro dispersione e il loro tasso di natalità contribuirono alla crescita assoluta e relativa della Chiesa cattolica in tutto il mondo cristiano. Ma non v'erano, in seno alla stessa religione, forze atte e rianimarla e diffonderla?

Certo, a questo stadio il missionarismo cristiano non registrava successi notevoli, sia che mirasse a recuperare il proletariato perduto in patria, o i pagani e, meno ancora, i credenti in religioni rivali, all'estero. Tenuto conto delle spese ingenti - fra il 1871 e il 1877 gli inglesi fornirono da soli alle missioni 8 milioni di sterline - i risultati erano estremamente modesti. Il cristianesimo di qualunque confessione non riusciva a competere seriamente con la sola religione in autentica espansione, l'Islam. Questa continuava a diffondersi irresistibilmente, senza l'appoggio né di un'organizzazione missionaria, né di capitali né del sostegno di grandi potenze, nell'entroterra africano e in parti dell'Asia, indubbiamente assistito non solo dal suo egualitarismo, ma dalla coscienza della propria superiorità sui valori dei conquistatori europei. Nessun missionario incrinò mai la compattezza di una popolazione musulmana.

Le missioni fecero solo qualche esile breccia in popolazioni non-islamiche, in quanto in genere mancavano ancora dell'arma principale della penetrazione cristiana, cioè la conquista coloniale di fatto, o almeno la conversione ufficiale dei sovrani che si trascinavano dietro i sudditi, come avvenne nel Madagascar, che si proclamò isola cristiana nel 1869. Il cristianesimo fece qualche progresso nell'india meridionale (soprattutto fra gli strati inferiori del sistema dl casta) malgrado la mancanza di entusiasmo del governo, e in Indocina a seguito della conquista francese, ma nessun progresso importante in Africa finché l'imperialismo non moltiplicò il numero dei missionari (da forse 3.000 protestanti verso la metà del decennio 18801890 a forse 18.000 nel 1900) e non rafforzò il potere spirituale del Redentore con un potere infinitamente più solido e materiale'. anzi possibile che, nei giorni d'oro del liberalismo, gli sforzi dei missionari abbiano perduto un p0' del loro slancio. Solo tre o quattro nuovi centri missionari cattolici vennero aperti in Africa in ognuno dei decenni fra il 1850 e il 1880, contro i sei degli anni Quaranta, i quattordici degli anni Ottanta, i diciassette degli anni Novanta. cristianesimo riusciva ad imporsi soprattutto quando l'ideologia religiosa locale ne assorbiva certi elementi sotto forma di culti sincretistici di tipo “nativista”. Il movimento dei T'ai-p'ing in Cina (cfr. cap. VII) fu il più grande e di gran lunga il più influente di tali fenomeni.

E tuttavia, nell'ambito del cristianesimo, non mancavano segni di contrattacco all'offensiva della laicizzazione - più fra i cattolici, a dire il vero, che nel mondo protestante, dove la formazione e l'espansione di nuove sette non-ufficiali sembravano aver perduto molto del dinamismo caratteristico degli anni prima del 1848, forse con l'eccezione dei negri nell'America anglosassone. Il culto del miracolo a Lourdes, inaugurato dalla visione di una pastorella nel 1858, si diffuse con rapidità straordinaria; a tutta prima, forse, spontaneamente; poi, senza dubbio, grazie ad attivi appoggi ecclesiastici. (Nel 1875, una specie di succursale di Lourdes venne aperta in Belgio). In forma meno drammatica, I 'anticlericalismo suscitò un forte movimento di evangelizzazione tra i fedeli e un sensibile consolidamento dell'influsso del clero. Nell'America Latina, la popolazione rurale era stata in gran parte cristiana senza preti; fin dopo il 1860, il clero messicano era in enorme maggioranza urbano. Contro l'anticlericalismo ufficiale, la Chiesa procedette quindi a conquistare sistematicamente, o a riproselitizzare, le campagne. In un certo senso, di fronte alla minaccia di una riforma secolare, reagì, come aveva fatto nel secolo XVI, con una controriforma. Dopo il Concilio Vaticano del 1870, il cattolicesimo, ora totalmente intransigente, ultramontano, sprezzante di qualunque compromesso intellettuale con le forze del progresso, dell'industrializzazione e del liberalismo, divenne una forza più temibile di prima - ma a costo di abbandonare molto terreno ai suoi avversari.

Fuori del cristianesimo, le religioni contavano essenzialmente sulla forza del tradizionalismo per arginare l'erosione dell'era liberale o dello scontro con l'Occidente. I tentativi di “liberalizzarle” erano visti di buon occhio dalla borghesia semi-assimilata (come il giudaismo riformato, emerso nei tardi anni Sessanta), con esecrazione dagli ortodossi, e con disprezzo dagli agnostici. Le forze della tradizione erano ancora soverchianti, e spesso rinvigorite dalla resistenza al “progresso” e all'espansione europea. Come si è visto, il Giappone creò addirittura con elementi tradizionali una nuova religione di Stato, lo shintoismo, in gran parte in funzione anti-europea. Anche gli occidentalizzatori e i rivoluzionari nel Terzo Mondo dovevano imparare che la via più facile al successo, come politici fra le masse, passava per l'assunzione del ruolo o almeno del prestigio del monaco buddhista o del santone hindù. E tuttavia, benché nel nostro periodo il numero degli atei dichiarati rimanesse relativamente piccolo (dopo tutto, nella stessa Europa la metà femminile del genere umano era ancora inaccessibile all'agnosticismo), essi dominavano un mondo essenzialmente laico. Tutto ciò che la religione poteva fare per difendersene, era di rifugiarsi nelle proprie fortificazioni, indubbiamente solide e massicce, e prepararsi a un assedio prolungato.