Quando Linneo tentò di classificare tutti gli organismi, nel 1758, intitolò la sua grande opera Systema Naturae, il "Sistema della Natura." Biologi di tutte le generazioni successive hanno inondato la letteratura scientifica di sistemi alternativi, ma ugualmente vasti. Il contenuto cambia, ma la passione per la costruzione di sistemi rimane intatta. Il nostro impulso irresistibile a dare un senso alla complessità che ci circonda, a coordinare il tutto in una costruzione unica, finisce col prevalere sulla nostra naturale prudenza dinanzi a un compito tanto scoraggiante. Una curiosa ironia contagia questa tradizione di costruzione di sistemi generali in biologia. I biologi presentano i loro sistemi o come verità necessarie di logica superiore o come conclusioni ineluttabili tratte dai poteri ineguagliati dell'osservazione: in altri termini, come presentazioni obiettive della natura, non valutata finora in modo appropriato. In realtà questi sistemi hanno in comune una sola proprietà, la quale non è né l'obiettività né una sapienza superiore. Essi sono, fondamentalmente, tentativi di dare una risposta a una domanda centrale (forse la domanda centrale) della storia intellettuale: qual è il ruolo e lo status della nostra specie, Homo sapiens, in natura e nel cosmo?
I sistemi, nel loro tentativo di dare un senso al "posto dell'uomo in natura," per usare l'espressione di Thomas H. Huxley, seguono una delle due strategie seguenti. Una strategia, che ho designato come strategia della palizzata (picket fence) escogita un ordine che pervade l'intera natura tranne l'uomo, che sarebbe contraddistinto da un marchio intrinseco di superiorità. Così, Charles Lyell considerò un mondo in continua agitazione e in contínuo mutamento, ma che rimaneva sempre sostanzialmente lo stesso: sostituzione senza miglioramento. Soltanto l'uomo, un'imposizione recente di perfezione morale su un mondo stabile, veniva a interrompere il modello del mutamento senza progresso. AR. Wallace attribuì tutti i caratteri degli organismi al potere plasmante della selezione naturale, escludendone però un solo prodotto dell'ispirazione divina: il cervello umano.
La seconda strategia adotta una tattica opposta nel perseguimento dello stesso fine: una collocazione all'interno della natura che dia un qualche senso alla nostra vita. Questa strategia sostiene che non c'è alcuna separazione fra l'uomo e la natura. Queste teorie della continuità possono procedere nell'una o nell'altra direzione, e io esaminerò un esempio recente di ciascuna di esse come rappresentativo di una lunga tradizione di argomentazioni non ineccepibili. La prima opinione - che chiamerò zoocentrica - costruisce princìpi generali a partire dal comportamento di altri animali e poi sussume completamente in questa categoria anche gli esseri umani, giacché anche noi, dopo tutto e innegabilmente, siamo animali. La seconda opinione - che chiamerò antropocentrica - cerca di sussumere la natura in noi, considerando le nostre peculiarità come il fine della vita sin dal principio. La teoria evoluzionistica stessa ha un nucleo appropriatamente zoocentrico. Dal comportamento di una singola specie non possono sorgere principi generali, eppure tutte le specie devono conformarsi ai principi. II ruolo di questo moderato zoocentrismo nello spezzare le robuste palizzate che esistevano prima del tempo di Darwin può essere considerato un grande evento nella storia del pensiero umano.
Può accadere però che la visione zoocentrica venga spinta troppo avanti sino a farne una caricatura, chiamata spesso la fallacia del "nient'altro che" (gli esseri umani non sono «nient'altro che" animali). Le spiegazioni semplicistiche della sociobiologia umana che inondano oggi la letteratura popolare includono questa versione iperestesa dello zoocentrismo. La sociobiologia non è solo l'affermazione che la biologia, la genetica e la teoria dell'evoluzione hanno qualcosa a che fare col comportamento umano. La sociobiologia è una teoria specifica sulla natura degli apporti della genetica e dell'evoluzione al comportamento umano. Essa si fonda sull'opinione che la selezione naturale è un architetto virtualmente onnipotente, che costruisce organismi parte dopo parte come le soluzioni migliori a problemi della vita in ambienti locali. Essa frammenta gli organismi in "tratti," ne spiega l'esistenza come insiemi di soluzioni ottimali e sostiene che ogni carattere è un prodotto della selezione naturale operante "a favore" della forma o comportamento in questione. Applicata agli esseri umani, deve considerare comportamenti specifici (e non solo potenziali generali di comportamento) come adattamenti costruiti dalla selezione naturale e radicati in determinanti genetici, poiché la selezione naturale è una teoria del mutamento genetico. Così ci troviamo di fronte a speculazioni indimostrate e indimostrabili sulla base adattiva e genetica di comportamenti umani specifici: perché alcune persone (o tutte) sono aggressive, xenofobe, religiose, avide o omosessuali?
Lo zoocentrismo è la fallacia primaria della sociobiologia umana, poiché questa concezione del comportamento umano si fonda sul ragionamento che se le azioni di animali "inferiori" con sistema nervoso semplice sorgono come prodotti genetici della selezione naturale, allora anche il comportamento umano dovrebbe avere una base simile. Anche gli esseri umani sono animali, no? Sì, ma con una differenza. E tale differenza ha origine, in parte, come risultato di una flessibilità enorme, fondata sulla complessità di un cervello di dimensioni molto superiori e della base, potenzialmente culturale e non genetica, di comportamenti adattivi: aspetti che proibiscono di estrapolate dalle cause dell'uso di alcuni insetti di mangiarsi il loro partner alle cause dell'omicidio in famiglie umane. Per una strana ironia, lo zoocentnismo della sociobiologia umana è spesso un'illusione che cela un modo di ragionare esattamente opposto. Io ho sostenuto in passato che i sistemi "obiettivi" sono spesso finzioni inconsce che riflettono i nostri pregiudizi e le speranze che riponiamo sulla natura. Gran parte della sociobiologia umana si fonda sull'idea che, se è possibile trovare comportamenti tipicamente umani, anche se in forma rudimentale, fra gli animali "inferiori," questi comportamenti devono essere "naturali" anche nell'uomo, un prodotto dell'evoluzione biologica.
Spesso i sociobiologi si lasciano ingannare da una somiglianza esterna e superficiale sviante fra comportamenti presenti in esseri umani e in altri animali. Essi attribuiscono nomi umani a comportamenti di altri animali e parlano di schiavitù in formiche, di violenza carnale fra i germani reali e di adulterio fra uccelli della specie Sialia currucoides. Poiché questi "tratti" esistono oggi in animali "inferiori," possono essere spiegati anche per gli esseri umani come caratteristiche naturali, aventi una base genetica e sviluppate per il loro valore di adattamento. Essi non sono però mai esistiti all'esterno di un contesto umano. Se i germani reali sembrano forzare fisicamente femmine più deboli alla copula, quale possibile rapporto, al di là di una somiglianza superficiale priva di alcun significato, può avere un atto del genere con la violenza fatta a una donna? Nessuno può sostenere che i due comportamenti siano veramente omologhi, ossia fondati sugli stessi geni ereditati da un antenato comune. Se la somiglianza è significativa, il comportamento può essere solo analogo, ossia può assolvere la medesima funzione biologica a partire però da origini evolutive diverse. Eppure il comportamento del germano reale fa parte del suo repertorio normale, e pare abbia un'utilità evidente nell'accrescere l'efficienza riproduttiva del maschio, mentre nel caso dell'uomo la violenza sessuale è una forma di patologia sociale, radicata in situazioni di possesso e mancanza di potere, non nel sesso e nella riproduzione. Ma tutta questa non è mera pedanteria? I termini umani non sono un modo pratico, simpatico, vivace e accettabile per esprimere ciò che noi tutti riconosciamo come una realtà più complessa? Non quando un collega descrive le reazioni aggressive di maschi di Sialia currucoides nei confronti di altri maschi in prossimità del loro nido con le parole seguenti: "Il termine adulterio è usato deliberatamente.., senza virgolette, poiché ritengo che rifletta una vera analogia col concetto umano... Si potrebbe profetizzare anche che l'applicazione continua di un approccio evoluzionistico simile finirà col gettare una luce considerevole anche su varie debolezze umane." E' una storia vecchia.
Noi vogliamo rispecchiare la natura e nello specchio vediamo noi stessi e i nostri pregiudizi. Gli esempi storici abbondano. Aristotele descrisse come un "re" la grande ape che guida lo sciame, e quest'identificazione erronea dell'unica femmina sessuata è persistita per due millenni circa, almeno sino a un madrigale elisabettiano che ho cantato la scorsa settimana:
I do love thee as the spring Or the bees their careful king?
(Io amo te come la primavera O come le api amano il loro sollecito re.)
I sistemi zoocentrici falliscono primariamente perché non sono mai quel che pretendono di essere. Il comportamento animale "obiettivo," sotto cui essi sussumono atti umani, è sin dal principio un'imposizione di preferenze umane.
I sistemi antropocentrici più venerabili hanno almeno la virtù di riconoscersi tali esplicitamente. Essi prendono sul serio Protagora quando dice che "l'uomo è la misura di tutte le cose" e peccano solo nella loro hybris di sostenere che l'evoluzione intraprese la sua complessa fatica iniziata circa tre miliardi e mezzo di anni fa solo per generare quel ramoscello che noi chiamiamo Homo sapiens. I sistemi antropocentrici sono stati fuori moda fra gli scienziati, almeno in Inghilterra e in America, dal tempo di Darwin, ma una nuova versione godette di una popolarità spettacolare alcuni anni fa: mi riferisco al sistema del padre gesuita ed esimio paleontologo Pierre Teilhard de Chardin, di cui mi sono occupato in un contesto del tutto diverso nei saggi 16 e 17. Quando Teilhard morì, nel 1955, le sue speculazioni evoluzionistiche, soffocate per molto tempo dall'autorità ecclesiastica, videro infine la luce, e il suo best seller, Il fenomeno umano, suscitò negli anni sessanta un vero culto. La scrittura elaborata e mistica di Teilhard è spesso più difficile da decifrare di quanto non sia il suo ruolo a Putdown, ma io credo che la linea generale del suo ragionamento possa essere espressa in modo semplice. (Un teilhardiano convinto potrebbe bollarmi come uno scienziato superficiale e insensibile, incapace di apprezzare la profondità della visione di Teilhard. Una scrittura difficile e involuta può però essere semplicemente confusa, non profonda.
La visione di Teilhard è ricca per ampiezza e tradizione - trattandosi di un'argomentazione vecchia rivestita di una nuova terminologia -, ma l'essenza della sua posizione può essere espressa ciò nondimeno con parole quotidiane.) Teilhard riteneva che l'evoluzione procedesse in una direzione definita e irreversibile. Per comprendere la natura di tale movimento, non dobbiamo guardare a ritroso all'origine della vita e delle sue proprietà fisiche, ma al suo prodotto più recente: all'Homo sapiens stesso. La vita è proceduta infatti in direzione dell'uomo sin dal principio. Il progresso della vita registra un dominio sempre crescente dello spirito sulla materia. Quest'aumento ineluttabile di coscienza può essere compreso studiando due dei suoi prodotti materiali: fra gli animali inferiori, sistemi nervosi diffusi e semplici si evolvono dando origine a organi centralizzati (cervello) con parti sussidiane; fra gli animali superiori il cervello aumenta di mole e di complessità nell'intero corso dell'evoluzione. In un saggio autobiografico, Teilhard scrisse:
"Non ho mai creduto realmente, neppure per un momento, che la progressiva spiritualizzazione della materia - così chiaramente dimostrata ai miei occhi dalla paleontologia - potrebbe essere qualcosa d'altro, o qualcosa di meno, di un processo irreversibile. In conseguenza della sua natura gravitazionale l'universo, lo vedevo, stava cadendo, cadendo verso il futuro, verso lo spirito come la sua forma più stabile. In altri termini, la materia non era ultramaterializzata, come avevo creduto dapprima, ma era invece metamorfosata in psiche."
L'evoluzione umana è il culmine di questo progresso psichico. Nella visione antropocentrica la vita ha senso solo in funzione del suo tendere verso l'uomo. Noi siamo inestricabilmente parte della natura perché la natura si è protesa verso di noi, desiderandoci intensamente, sin dal principio.
In un manoscritto del 1952 sulla socializzazione umana, Teilhard affermò:
"L'evoluzione umana non è altro che la prosecuzione naturale, a un livello collettivo, del processo perenne e cumulativo di quell'ordinamento "psicogenetico" della materia che chiamiamo vita... L'intera storia dell'umanità non è stata altro (e quindi non sarà mai altro) che una esplosione sempre crescente di cerebrazione... La vita, se viene intesa appieno, non è una bizzarria nell'universo, né l'uomo è una bizzarria nella vita. Al contrario, la vita culmina fisicamente nell'uomo, esattamente come l'energia culmina fisicamente nella vita."
Poiché l'evoluzione segue una via diretta, l'albero della vita non è una rete che si ramifica a caso, ma un fascio di rami, connessi fra loro dalla genealogia alla loro base, che divergono nel corso della loro storia, muovendosi però sempre nella medesima direzione fondamentale. L'energia della materia impone la divergenza; la forza della coscienza crescente impone un comune progresso verso l'alto. Le specie affini dovrebbero formare una serie di linee genealogiche multiple, parallele, ciascuna divergente e adattata a un ambiente locale, ma con un rapporto spirito/materia sempre crescente. Teilhard scrisse nel 1922 che "l'evoluzione.., si risolve in innumerevoli linee che divergono con tanta lentezza da apparire parallele." Con la comparsa dell'uomo, l'evoluzione ha raggiunto il suo periodo cruciale. Lo spirito si è accumulato in misura tale da raggiungere infine l'autocoscienza. Un nuovo strato è apparso in effetti nella struttura concentrica della Terra. Teilhard elogiò il grande geologo austriaco Eduard Suess per avere introdotto il termine "biosfera" come aggiunta agli strati concentrici tradizionali della litosfera e dell'atmosfera. Ma la coscienza, aggiunse Teilhard, ha aggiunto un altro strato ancora: "la superficie umana psichicamente riflessiva.., la noosfera."
Teilhard descrive la noosfera come una realtà fisica, come uno strato sottile e fragile diffuso ora in tutta la Terra in seguito all'emergere dei progenitori umani dall'Africa e alla loro successiva migrazione in tutti i continenti. Egli scrisse in un manoscritto del 1952: "Al di sopra della vecchia Biosfera è ora diffusa una 'Noosfera.' Quanto alla realtà materiale di questo enorme evento, non ci sarà dissenso da parte di nessuno."
In un saggio postumo, pubblicato quattro anni dopo, egli descrisse la noosfera come "il velo meraviglioso della materia umanizzata e socializzata, la quale, nonostante la sua incredibile finezza, dev'essere considerata positivamente come la più nettamente individualizzata e la più specificamente distinta di tutte le unità planetarie riconosciute finora."
L'emergere di una noosfera, pur così sottile e così fragile, rappresenta il punto di svolta dell'evoluzione universale. Teilhard scrisse nel 1930:
"Il fenomeno dell'Uomo non rappresenta niente di meno di una trasformazione generale della Terra, attraverso l'instaurazione alla sua superficie di uno strato nuovo, lo strato pensante, più vibrante e più conduttore, in un certo senso, di ogni metallo; più mobile di ogni fluido; più espansivo di ogni vapore.. E ciò che conferisce a questa metamorfosi la sua piena grandiosità è che essa non fu prodotta come evento secondario o come accidente fortuito - ma nella forma di un punto di svolta essenzialmente preordinato, dal principio, dalla natura dell'evoluzione generale del nostro pianeta." (Trad. it. di F. Ormea, II Saggiatore, Milano 1968, 3 ed. 1980, p. 388.)
L'evoluzione ha raggiunto oggi la metà dei suo cammino. Finora, nonostante il progresso dello spirito rispetto alla materia, è stata questa a dominare e le linee evolutive, pur muovendo sempre nella stessa direzione generale, sono state impegnate in una costante divergenza. La noosfera segna però l'inizio del dominio dello spirito sulla materia. Quando lo spirito ha il sopravvento, deve cominciare la convergenza. La fragile noosfera dovrà acquistare consistenza. La direzione seguita per un miliardo di anni dovrà essere rovesciata, e le linee genealogiche coscienti (almeno all'interno dell'Homo sapiens) cominceranno a convergere quando lo spirito assumerà rapidamente il suo controllo sulla materia. La convergenza è già iniziata nel processo della socializzazione umana. In termini di volgare meccanicismo, l'evoluzione culturale umana potrebbe essere un processo diverso dall'evoluzione biologica darwiniana, ma entrambe sono a parte di un'unità superiore, come aspetti sequenziali di una direzione universale.
La socializzazione umana, scrive Teilhard, ha generato "un processo vasto e specifico di convergenza fisico-psichica.., la cui improvvisa apparizione e accelerazione nel corso dell'ultimo secolo è forse l'evento più rivoluzionario registrato finora nella storia umana... Il mondo umano è decisamente preso, oggi e per sempre, in un vortice di unificazione che si fa sempre più irresistibile." L'impulso alla convergenza è destinato a concentrarsi e ad accelerarsi finché tutto lo spirito, sempre più libero dall'ingombro della materia, si amalgamerà in un singolo punto che Teilhard chiamò Omega, identificò con Dio e, a quanto posso dire, concepì non come una metafora o un simbolo ma come una realtà. Teilhard descrive quest'apoteosi, con vivacità se non con perfetta chiarezza, in Il fenomeno umano:
"...questo movimento di natura essenzialmente convergente avrà raggiunto una intensità e una qualità tali che l'umanità, presa nel suo insieme, dovrà.., riflettersi... "puntualmente" su se stessa... abbandonare il suo supporto organo-planetario per ex-centrarsi sul Centro trascendente della sua crescente concentrazione, allora per lo spirito della terra sarà la fine e il coronamento. La fine del mondo: capovolgimento interno in blocco su se stessa della Noosfera pervenuta simultaneamente all'estremo della sua complessità e della sua centrazione. La fine del mondo: rovescio di equilibrio che distacca lo spirito, finalmente compiuto, dalla sua matrice materiale per farlo ormai riposare, con tutto il suo peso, su Dio-Omega."
E così l'evoluzione lavorò per miliardi di anni, produsse forse cento milioni di specie di piante, insetti e vermi lungo il suo cammino, il tutto per conseguire, attraverso una specie dotata di coscienza, l'unione dello spirito con Dio in una splendida concentrazione nel punto Omega. Tutta la vita anteriore è esistita per noi e per ciò che noi potevamo diventare. Come il feto fluttuante che incarna la promessa del futuro alla fine di 2001: Odissea nello spazio, noi (o piuttosto il nostro strato spirituale che va ispessendosi, innalzandosi) siamo gli eredi e lo scopo di tutta la vita precedente. Questa è la visione antropocentrica per eccellenza. Che cosa si può dire di una concezione del genere? Sarebbe troppo prosaico e mediocre dire che essa sembra fallire nei suoi unici punti in cui potrebbe avere un contatto verificabile con i resti fossili? Ben pochi paleontologi riescono a discernere una tendenza generale, e tanto meno una tendenza inevitabile, a una crescita della cerebrazione nella storia della vita. La maggior parte delle specie animali sono insetti, acari, copepodi, nematodi, molluschi e affini, e almeno io non riesco a scorgere alcuna tendenza universale fra loro verso il dominio dello spirito sulla materia. E l'albero genealogico dell'evoluzione mi sembra più simile a un cespuglio irregolarmente ramificato che non a un fascio di rami paralleli che crescono verso l'alto in una direzione definita.
Ovviamente mi rendo conto che Teilhard usò il termine evoluzione in un senso metafisico per identificare le leggi del progresso cosmico, e non nel nostro senso usuale per specificare il meccanismo del mutamento organico (che Teilhard riconobbe e studiò, chiamandolo però transformisme). Le opere tecniche di Teilhard in paleontologia sono corrette e solide, ma si occupano di transformisme ed esistono in un mondo di discorso del tutto separato dalla sua visione antropocentrica di evoluzione cosmica. Forse il problema in tutte queste visioni - zoocentriche oltre che antropocentriche - sta nella nostra inclinazione a costruire innanzitutto sistemi generali che abbraccino tutto. Ma può darsi che tali sistemi non funzionino. Può darsi che vengano sconfitti inevitabilmente dall'intrinseca complessità e ambiguità del nostro posto nella natura. Come possiamo erigere una palizzata che ci separi da tutti gli altri esseri viventi, quando siamo così strettamente legati alla natura? Ma come possiamo optare per una continuità completa, o partendo dagli altri animali per salire verso l'alto (zoocentrismo) o discendendo dall'uomo verso gli altri animali (antropocentrismo) se gli esseri umani sono così speciali, nel bene o nel male?
Noi non siamo altro che un minuscolo ramoscello su un albero che comprende almeno un milione di specie di animali, ma la nostra grande invenzione evolutiva, la coscienza - un prodotto naturale dell'evoluzione integrato con una struttura corporea che non presenta alcun pregio particolare - ha trasformato la superficie del nostro pianeta. Osserviamo il paesaggio dal finestrino di un aereo. C'è qualcun'altra specie che abbia lasciato un così gran numero di segni visibili della sua inflessibile presenza? Noi viviamo in una tensione essenziale e irresolubile fra la nostra unità con la natura e la nostra pericolosa unicità. I sistemi che hanno tentato di assegnarci un posto nella natura e di dare un senso alla nostra esistenza concentrandosi esclusivamente o sull'unicità o sull'unità sono condannati all'insuccesso. Ma noi non dobbiamo smettere di chiedere e di cercare solo per il fatto che le risposte sono complesse e ambigue. Noi non possiamo far niente di meglio che seguire il consiglio di Linneo, incarnato nella sua descrizione dell'Homo sapiens all'interno del suo sistema. Egli descrisse altre specie fondandosi sul numero delle dita, sulla mole corporea e sul colore. Per noi, in luogo dell'anatomia, scrisse semplicemente il precetto socratico: "Nosce te ipsum" (conosci te stesso).