E possibile applicare le conoscenze accumulate dai sociobiologi, che sono soprattutto studiosi del comportamento animale, alla spiegazione del comportamento sociale degli esseri umani? Il dibattito sulla sociobiologia, che da anni infuria negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia, ed ora anche in Italia, ruota in sostanza attorno a questo interrogativo. Pare ovvio che gli animali abbiano una natura animale; ma che gli esseri umani abbiano una natura umana - questo è il problema. Per partecipare a tale dibattito senza venir catturati immediatamente dalla suggestione dei pro e dei contro è utile avere idee non del tutto imprecise circa i fondamenti della sociobiologia; la sua concezione della natura umana; le ipotesi complementari o alternative che si possono affiancare alle sue. Dei pro e dei contro si occupano, con un equilibrio inconsueto quando si toccano questi temi, i saggi raccolti nel presente volume; qui si offre con spirito di servizio un'istruttoria preliminare.
Non è sufficiente definire la sociobiologia, secondo che fanno di regola i suoi stessi cultori, come lo studio delle basi biologiche del comportamento sociale degli animali, su per la scala evolutiva fino all'uomo. L'originalità della sociobiologia, nonché i suoi punti di forza e di debolezza, dipendono infatti dalla stretta connessione che essa stabilisce tra la teoria neodarwiniana dell'evoluzione per selezione naturale, la capacità del genotipo di influire sul fenotipo - il quale nel caso specifico non è un tratto morfologico bensì un comportamento - e la disposizione di tutti gli animali a rendere massima la probabilità di lasciare nelle successive generazioni consanguinei fertili; a massimizzare, in altre parole, la propria idoneità complessiva. Questi elementi formano nell'insieme un programma di ricerca la cui forza innovativa, riguardo agli studi sul comportamento animale, appare paradossalmente fondarsi su una adesione assai rigida alla tradizione ortodossa del pensiero darwiniano, quale si è consolidata nei paesi anglosassoni.
L'anello centrale del programma di ricerca sociobiologico è la relazione genotipo-fenotipo, ovvero gene-cornportamento. Nessuno si azzarderebbe oggi a negare che i tratti morfologici d'un organismo, il fenotipo inteso come aspetto fisico, siano controllati in elevata misura dai geni; dopotutto i figli assomigliano un po' più ai genitori che ad altri parenti, e certo molto più ai genitori che ad estranei. Il comportamento sociale, aggiungono i sociobiologi, è un fenotipo come un altro, e al pari di tutti i fenotipi esso risulta dalla interazione tra genotipo e ambiente: «i contributi relativi del genotipo e dell'ambiente possono variare notevolmente, ma nessuno dei due può mai diventare uguale a zero». L'influenza del genotipo sul comportamento varia non solo in funzione della specie - massima negli insetti, è assai minore nei mammiferi non umani, e minima, ma non inesistente, in Homo Sapiens - ma anche in funzione del comportamento considerato e dell'età dell'individuo. I gesti del volto umano, ad esempio, appaiono maggiormente vincolati dal genotipo della specie, in quanto si manifestano con lo stesso repertorio e gli stessi significati in tutte le culture, che non i gesti di mani e braccia, di cui è nota la variabilità inter-culturale; e la loro dipendenza dal genotipo è più evidente nel bambino che nell'adulto che ha appreso a non tradire le emozioni.
Il postulato dell'influenza del genotipo sul comportamento, variabile ma non mai nulla, permette ai sociobiologi di compiere una serie di trasformazioni logiche altamente problematiche, interpolandole con proposizioni d'ordine empirico. Infatti, se un comportamento riflette una qualche componente genotipica, ciò significa che per mezzo di quello quest'ultima viene esposta alla pressione della selezione naturale; ma se la selezione naturale fa presa su certi geni attraverso il comportamento in cui questi si esprimono, allora, se quel comportamento ha un valore adattivo differenziale rispetto ad altri comportamenti diffusi nella popolazione osservata, gli stessi geni si diffonderanno in tale popolazione, soppiantando i geni soggiacenti a quegli altri comportamenti; e questi a loro volta saranno soppiantati - non avendo più l'appropriato fondamento genetico - dal nuovo tipo di comportamento. Per contro, se lo stesso comportamento non presenta un valore adattivo superiore ad altri, né esso né i «suoi» geni si diffonderanno. Nel primo caso, si dirà che la popolazione osservata si è evoluta, accrescendo il tasso di individui meglio adattati all'ambiente. Cosi il fenotipo, controllato in qualche misura dal genotipo, ha retroagito su di questo, facendone variare la frequenza nella popolazione.
La discussione analitica di questo teorema della sociobiologia richiederebbe un lungo saggio di metodologia delle scienze biologiche. In questa sede dovrò limitarmi a indicare alcuni dei suoi punti più critici. La teoria sintetica o neodarwiniana dell'evoluzione, cui i sociobiologi si richiamano come ad una realtà troppo ovvia per essere rivisitata, non è la teoria dell'evoluzione, ma una delle varie teorie formulate per spiegarla, in presenza delle prove di essa fornite da paleontologia, fisiologia, biochimica, embriologia, morfologia, geografia e altre scienze. Emersa negli anni trenta e quaranta dall'incontro - la sintesi, appunto - del darwinismo classico con la genetica moderna (com'è noto la concezione discreta o particolata dei geni su cui questa si fonda fu formulata da Mendel nel 1865, ma venne riscoperta e fatta propria dai maggiori genetisti dell'epoca soltanto nel 1900: Darwin non ne seppe mai nulla), la teoria sintetica dell'evoluzione poggia su due pilastri: la mutazione casuale del materiale genico, e la selezione naturale, operante attraverso il fenotipo, dei nuovi genotipi che la prima continuamente produce.
Il modello neodarwiniano configura una popolazione di riferimento astratta entro la quale determinati caratteri genotipici e fenotipici - isolati in base alle conoscenze ed agli interessi dell'osservatore - risultano distribuiti in modo omogeneo. (In realtà, ad ogni momento dato qualsiasi popolazione comprende più forme alternative degli stessi geni, o alleli, donde la presenza in essa di notevoli variazioni dei tratti fenotipici; il riferimento ad una popolazione omogenea è tuttavia necessario per definire il fenomeno della mutazione). In tale popolazione si verificano in modo del tutto casuale delle mutazioni in singoli geni, per delezione, duplicazione o traslocazione di segmenti di Dna composti da uno o più nucleotidi, implicanti una modifica del genotipo di uno o più individui. Il genotipo così modificato altera a sua volta il fenotipo, introducendo in questo nuovi tratti morfologici e comportamentali, nei quali si esprimono alterazioni più o meno estese di processi biochimici, di organi, di sistemi, di rapporto tra strutture funzionali. Certe mutazioni hanno effetti letali, e gli individui che ne sono portatori scompaiono prima di lasciare una progenie. Altre inducono invece lo sviluppo di fenotipi che accrescono la capacità differenziale di certi individui di lasciare una progenie vitale: codesti fenotipi sono chiamati adattamenti. Posto che tali individui lasciano alla lunga, in media, una progenie più numerosa degli altri, la loro proporzione sul totale della popolazione cresce, sino a costituire eventualmente una frazione rilevante o la totalità di questa. Ripetute iterazioni di questo processo portano alla differenziazione d'una popolazione d'una specie in varie specie.
In questo modello né l'ambiente, né gli individui col loro comportamento hanno alcuna influenza sulla direzione e sulla frequenza delle mutazioni; l'ambiente è però determinante per stabilire quali mutazioni - più esattamente, quali geni mutati - si diffonderanno in misura differenziale nella popolazione.
Un'altra implicazione del modello neodarwiniano è che esso non prevede, per così dire, adattamenti di second'ordine: i geni mutati, per poco che favoriscano la riproduzione differenziale degli organismi che sono i loro vettori, scacciano dalla popolazione in poche generazioni i geni immutati, almeno fino a quando nuovi fattori, quali potrebbero essere una scarsità di risorse o la competizione con un'altra popolazione, non oppongano loro un limite.
La comprensione del modello insito nella teoria sintetica o neodarwiniana dell'evoluzione è indispensabile per inquadrare correttamente l'ipotesi fondamentale della sociobiologia, secondo la quale il comportamento sociale di ogni animale, compreso l'uomo, esprime la tendenza a rendere massima la propria idoneità complessiva, tenuto conto delle alternative che la situazione lascia aperte e dei costi da sopportare. L'idoneità complessiva si misura dalla quota di geni che un organismo trasmette alle generazioni discendenti come risultato della sua stessa riproduzione e di quella dei collaterali consanguinei, in quanto portatori d'una parte dei suoi medesimi geni. In nuce, il concetto di idoneità complessiva si ritrova in una battuta anticipatoria di J. B. S. Haldane, un noto biologo matematico degli anni trenta, al quale qualcuno chiese un giorno se avrebbe dato la vita per salvare un fratello. Haldane rispose «Per un fratello no, ma per tre sí». Infatti, un organismo che perisce per salvare un fratello sacrifica il 100% dei propri geni per assicurare la sopravvivenza solamente del 50%, tale essendo la quota dei suoi medesimi geni contenuta nell'organismo fratello; la sua idoneità complessiva viene cosI ridotta della metà. Se invece perisce per salvarne tre avrà assicurato la sopravvivenza del 50% netto dei suoi medesimi geni, una volta dedotto il proprio 100% che si sacrifica dal 150% che sopravvive: avrà così reso massima, data la situazione, la sua idoneità complessiva. Non tutte le situazioni impongono decisioni altrettanto gravi di quella prospettata ad Haldane; in altri casi si tratterà della scelta del compagno, o del numero più conveniente di figli, o della strategia da seguire di fronte a un aggressore, o dell'ammontare di cure da dedicare ai figli. In tutte le situazioni, peraltro, si ipotizza che la scelta sarà condizionata dalla predisposizione a rendere la più elevata possibile, in presenza di determinati vincoli e costi, la rappresentanza dei propri geni nelle generazioni successive, incluse le discendenti e le collaterali.
L'ipotesi che tutti gli animali siano predisposti a massimizzare la loro idoneità complessiva solleva immediatamente due interrogativi. Qual è l'origine di tale predisposizione? E com'è possibile che gli animali sappiano calcolare, spesso fulmineamente, i propri coefficienti di parentela, si da stabilire di volta in volta qual è l'azione che in quel momento rende massima la loro idoneità complessiva? La risposta al primo quesito è implicita nel modello neodarwiniano dell'evoluzione naturale. Gli animali massimizzano la propria idoneità complessiva perché il loro comportamento è guidato in qualche modo da geni che sono stati selezionati positivamente nel corso dell'evoluzione a causa della loro capacità di replicarsi con maggior frequenza o, che è lo stesso, con maggior velocità di altri geni che tale capacità non possedevano. I primi geni - prodotti da mutazioni casuali - che svilupparono la capacità di indurre l'organismo vettore a comportarsi di preferenza in modo da favorire la loro diffusione differenziale tramite i parenti consanguinei, discendenti o collaterali che fossero, acquisirono evidentemente nel volgere di poche decine di generazioni una superiorità schiacciante sui geni che tale capacità non possedevano. Perciò gli organismi predisposti a comportarsi in modo da rendere massima nelle successive generazioni la rappresentanza dei geni di cui sono vettori si sono a loro volta diffusi sino a costituire la grandissima maggioranza in tutte le specie viventi. Un animale tende a scegliere di norma l'alternativa che rende massima la sua idoneità complessiva non perché ciò gli reca un beneficio individuale o piacere, ma perché gli animali che non erano predisposti in tal senso dal loro genotipo sono scomparsi da tempo.
La difficoltà da parte degli animali e dell'uomo stesso di calcolare con esattezza il coefficiente di consanguineità con discendenti e collaterali - dato indispensabile per poter scegliere il comportamento che rende massima la propria idoneità complessiva - è stata addotta come una inconsistenza irreparabile del ragionamento sociobiologico. Su questo punto, in verità, sembra inconsistente il ragionamento dei critici, non dei sociobiologi. Moltissime specie animali, di tutte le classi, posseggono sistemi di comunicazione, di percezione e di memorizzazione, ancora poco noti, che li rendono capaci di operazioni ben più complesse del riconoscimento dei consanguinei - a parte la capacità di discriminare tratti morfologici dei conspecifici che all'uomo verosimilmente sfuggono. Gli animali utilizzano messaggeri chimici a distanza (feromoni), onde elettromagnetiche, infrasuoni e ultrasuoni (tali per l'orecchio umano), gradienti termici, variazioni di luminosità e di colore, per compiere - tra le tante - imprese come emigrare per migliaia di anni negli stessi luoghi per svernare, a migliaia di chilometri di distanza, orientandosi sulla posizione delle stelle, nonostante che la volta celeste sia spesso velata e sia ruotata in poco più di diecimila anni di circa 45 gradi rispetto all'asse terrestre. Sembra quindi alquanto azzardato affermare che organismi dotati di sistemi cosI raffinati non sappiano riconoscere i propri consanguinei, a prescindere da calcoli coscienti e dall'uso di frazioni algebriche.
Quanto all'uomo, vi sono differenze di comportamento tra maschi e femmine che da quando esistono non diciamo gli studi di sociobiologia, ma i miti, la letteratura, il teatro, sono chiaramente spiegabili in base alla certezza della consanguineità che la femmina da sempre possiede riguardo ai propri figli, mentre un analogo grado di certezza è precluso al maschio. Si deve inoltre ammettere che quanto più è elevata, la difficoltà di calcolare il coefficiente di parentela è un fattore motivazionale che opera esattamente nel senso previsto dai sociobiologi, inducendo l'individuo a moltiplicare le misure intese a garantire che la progenie apparente sia effettivamente sua consanguinea.
Ad evitare fraintendimenti, comuni nelle divulgazioni della sociobiologia non meno che nelle critiche frettolose di questa, va sottolineato che l'idoneità darwiniana al centro dell'ipotesi sociobiologica concerne esclusivamente l'idoneità riproduttiva, non l'idoneità fisica o funzionale del singolo organismo. Occasionalmente, saranno gli organismi piú robusti, o piú aggressivi, o meglio dotati di armi naturali, a lasciare una discendenza diretta e indiretta più numerosa, ma ciò non avverrà - ed il caso è estremamente comune - se l'organismo piú robusto possiede perciò stesso un metabolismo meno efficiente, se quello piú aggressivo viene con maggior frequenza ferito o mutilato, e se quello meglio armato nei confronti dei conspecifici è piú lento nei confronti dei predatori. Né idoneità riproduttiva significa meramente prolificità: un animale che sappia adeguare il numero dei figli alla scarsità di risorse del suo habitat lascerà infatti una progenie vitale, cioè capace di riprodursi, piú numerosa d'un animale che abbia generato un numero di figli eccessivo per essere portato a maturità riproduttiva in quello stesso habitat.
L'ipotesi che gli animali tendono in ogni situazione a comportarsi in modo da rendere massima la loro idoneità riproduttiva globale o complessiva non prevede comportamenti stereotipi, bensì una grande varietà di comportamenti - sia pure maggiore in certe specie che in altre flessibilmente adattati per conseguire, in situazioni mutevoli, quell'unico scopo. Al fine di spiegare la varietà dei comportamenti osservati tra gli animali, dopo la formulazione iniziale di Hamilton l'ipotesi della massimizzazione dell'idoneità complessiva è stata arricchita dall'apporto di altri concetti, fra i quali stanno in primo piano i concetti di altruismo, di investimento parentale e di strategia evolutivamente stabile.
L'ipotesi che gli animali tendono in ogni situazione a comportarsi in modo da rendere massima la loro idoneità riproduttiva globale o complessiva non prevede comportamenti stereotipi, bensì una grande varietà di comportamenti - sia pure maggiore in certe specie che in altre flessibilmente adattati per conseguire, in situazioni mutevoli, quell'unico scopo.
Al fine di spiegare la varietà dei comportamenti osservati tra gli animali, dopo la formulazione iniziale di Hamilton l'ipotesi della massimizzazione dell'idoneità complessiva è stata arricchita dall'apporto di altri concetti, fra i quali stanno in primo piano i concetti di altruismo, di investimento parentale e di strategia evolutivamente stabile.
Nel linguaggio della sociobiologia il termine altruismo non ha alcuna connotazione morale, né presuppone un elevato livello di coscienza: è semplicemente «un atto che riduce il successo riproduttivo personale di chi lo esegue mentre aumenta il successo riproduttivo di altri» . Il problema è spiegare come mai la selezione naturale, che opera esclusivamente a livello individuale, abbia favorito la diffusione di comportamenti - osservabili in tutte le specie - che riducono l'idoneità dell'individuo a beneficio di altri. Infatti, se i geni che inducono a comportamenti altruistici riducono la idoneità riproduttiva degli organismi vettori a vantaggio di altri organismi egoistici, essi avrebbero dovuto venire soppiantati dai geni di questi. La risposta all'altruismo dell'individuo va cercata, affermano i sociobiologi, nell'egoismo del gene. Il gene è una struttura programmata anzitutto per assicurare la propria sopravvivenza, non come unità statica ma come sequenza di repliche perennemente uguali a se stesse. La sopravvivenza dell'organismo che lo ospita gli interessa solamente in quanto e fintanto che esso assicura la propria replicazione nella misura più alta possibile. Di conseguenza, se la situazione impone una scelta tra la sopravvivenza di un dato individuo e la sopravvivenza di altri individui che complessivamente sono vettori d'un maggior numero di repliche dello stesso gene, il gene orienta o programma l'organismo individuale a comportarsi in modo da assicurare la sopravvivenza del maggior numero possibile delle proprie repliche, anche a costo dell'esistenza del primo individuo. La tendenza dell'organismo a rendere massima la propria idoneità complessiva risponde precisamente a tale finalità egoista del gene. Simile meccanismo biologico all'origine dell'altruismo è stato chiamato selezione di parentela. Esso dovrebbe anche spiegare perché la maggior parte degli animali indulgano in quel comportamento costoso, in termini di risorse individuali, e personalmente rischioso, che è la riproduzione - senza la quale ciascuno di essi vivrebbe probabilmente piü a lungo.
Nel concetto di investimento parentale si riassumono appunto i costi della riproduzione d'un individuo-figlio a carico d'un individuo-genitore. L'investimento parentale comprende le risorse metaboliche spese nella formazione della cellula sessuale e nel periodo di cova o gravidanza (ove esiste), nonché il tempo e l'energia spese per nutrire, proteggere e assistere il figlio sino alla maturità. In quasi tutte le specie sessuate, tale investimento da parte delle femmine è assai maggiore di quello dei maschi. Nel concetto di investimento così definito è insita una restrizione, derivante dal fatto che le risorse dell'individuo-genitore sono comunque finite. Per tale ragione, l'investimento in un figlio accresce da un lato la probabilità che questi giunga allo stadio riproduttivo - cioè accresce la sua idoneità - ma dall'altro riduce la capacità del genitore di investire in altri figli. Sull'investimento parentale e sulle possibili variazioni della sua distribuzione si innesta la dinamica dei rapporti maschio-femmina e genitori-figli. Il sesso che investe di meno nella progenie è più disposto ad abbandonarla; quindi il sesso che investe di chi adotta con maggior frequenza strategie intese a far si che l'altro accresca il proprio investimento, perché in tal modo si riduce la probabilità di rimanere soli ad allevare la progenie. La probabilità che un maschio investa nella progenie sarà funzione della probabilità che questa sia effettivamente sua consanguinea, e se l'investimento è per forza di cose elevato sin dall'inizio, maggiore sarà la probabilità che il maschio adotti strategie nei confronti di altri maschi volte a garantire che la progenie che alleva sia biologicamente sua. Se i figli sono piii d'uno, ciascuno di essi sarà in competizione con gli altri per assicurarsi la maggior dose possibile di investimento parentale. Affinando e combinando queste e altre proposizioni derivabili dal concetto di investimento parentale, si possono costruire complessi schemi esplicativi circa l'evoluzione del comportamento sociale nei gruppi di parentela di molte specie animali'.
Nel linguaggio dei sociobiologi il termine di strategia è stato importato dalla teoria dei giochi, dove esso significa scegliere un corso d'azione, o successivi corsi d'azione, tale da rendere massimo lo scarto tra guadagni e perdite, in presenza di un altro « giocatore » che mira allo stesso scopo. L'esito d'una strategia dipende perciò tanto dalle scelte proprie, quanto dalle scelte dell'altro. Sviluppando l'applicazione della teoria dei giochi all'interazione tra animali che si contendono risorse scarse, il biologo e zoologo inglese john Maynard Smith ha introdotto nella sociobiologia il concetto di Strategia evolutivamente stabile (Ses). Egli la definisce come una strategia avente «una proprietà tale che, se la maggior parte della popolazione la adotta, nessuna strategia mutante può penetrare nella popolazione. In altre parole, una strategia è stabile dal punto di vista evolutivo se non c'è una strategia mutante che dia agli individui che la adottano una maggiore idoneità riproduttiva in senso darwiniano».
Si considerino due tattiche alternative in una contesa: comportarsi da « falco» o da «colomba». Un «falco» combatte a fondo fino a quando vince o viene gravemente ferito; una «colomba» accetta un combattimento ritualizzato, ma cede il campo non appena l'avversario alza il livello di attacco. Esistono tre strategie possibili: comportarsi sempre da falco (F), o sempre da colomba (c), oppure da falco se si è proprietari della risorsa contesa ma da colomba se non lo si è: questa è la strategia da borghese (B). La contesa può dar luogo a due tipi di perdite: lesioni gravi o un lungo periodo di tempo speso nella contesa; e ad un tipo solo di vittoria: l'acquisizione della risorsa contesa. Mediante un ragionamento matematico che comprende come solo vincolo che il valore numerico senza segno assegnato alla lesione grave sia maggiore del valore corrispondente alla vittoria, Maynard Smith dimostra che in questa situazione la sola strategia stabile dal punto di vista evolutivo è la strategia B, o «Borghese». Chiunque volesse adottare la strategia F o C si troverebbe svantaggiato dal punto di vista della idoneità complessiva. Molti casi di questa strategia sono stati osservati in popolazioni animali. Invero il concetto di Ses appare per ora meno diffuso del concetto di altruismo o di investimento parentale nelle ricerche di sociobiologia, ma sotto il profilo teorico esso appare integrarsi perfettamente con gli altri due nel modello di comportamento sociale derivabile dall'ipotesi della massimizzazione dell'idoneità complessiva.
Della sociobiologia va ancora sottolineato l'approccio rigorosamente individualistico - esso stesso un retaggio dell'ortodossia darwiniana. La voce di Wynne-Edwards, uno zoologo scozzese che nel 1962 pubblicò un libro con il quale intendeva dimostrare che in certe popolazioni la selezione opera a livello di gruppo, non di individuo, implicando cosí che il comportamento di questo è subordinato in certi casi agli interessi della popolazione di cui fa parte, non solo non ha avuto seguaci, ma ha prodotto soprattutto una vigorosa sequenza di confutazioni. I sociobiologi contemporanei sono pressoché unanimi nel sostenere che non esiste effetto macroscopico, tipo la trasformazione della struttura demografica e tipologica d'una popolazione, l'origine di nuove specie e di nuove classi di comportamento, l'invasione di una nuova nicchia ecologica o la competizione di due popolazioni per la stessa nicchia, che non siano spiegabili come l'effetto aggregato di comportamenti individuali rivolti esclusivamente a rendere massima la propria idoneità riproduttiva. Se una popolazione si moltiplica in un dato ambiente, ciò non è dovuto al fatto che una parte almeno di essa agisce a beneficio del gruppo, bensì al fatto che il comportamento individuale di certi suoi membri risulta possedere in quell'ambiente un superiore valore adattivo, contribuendo cosí a diffondere in misura differenziale i geni che in esso si esprimono.
Due evidenti lacune segnano l'insieme della letteratura sociobiologica: l'assenza di una qualsiasi discussione minimamente approfondita della relazione gene/comportamento, tanto piü singolare dato il posto essenziale che questa occupa nel modello sociobiologico, e la nessuna attenzione finora prestata alle critiche mosse da varie parti alla teoria sintetica o neodarwiniana dell'evoluzione, ed alle modifiche che tali critiche vi hanno introdotto.
Richiamerò succintamente i termini delle due questioni, la cui connessione è palese.
Che i geni influenzino il comportamento è fuor di dubbio. Il problema è stabilire quali geni influenzano quali comportamenti, con quali interazioni tra loci, in che misura, con quali mediazioni organiche, e in quali condizioni ambientali. Sebbene non esista una definizione standard di gene, poiché nessuna di quelle sinora formulate si adatta completamente ai dati ed ai quesiti posti dalla ricerca, la maggior parte dei biologi contemporanei sembra concordare nel definire un gene come un segmento di Dna (l'acido desossiribonucleico presente nel nucleo di tutte le cellule) riconoscibile dalla sua funzione specifica. Esistono almeno due tipi fondamentali di geni: i geni strutturali, cui si riferiscono sino ad oggi la maggior parte degli studi di genetica, ed i geni regolatori. La funzione dei primi sta nel controllare la sintesi delle proteine, dirigendo il montaggio in sequenza appropriata degli aminoacidi disponibili nella cellula. I secondi stabiliscono i tempi di attivazione e disattivazione dei geni strutturali, e la velocità con cui questi controllano la sintesi proteica. In forza di tale accoppiamento, un identico gene strutturale è atto a produrre, sotto il controllo d'un gene regolatore, quantità molto diverse di proteine - che sono in parte i materiali da costruzione di tutti gli organismi e in parte, a causa della loro attività enzimatica o catalizzatrice, la sede di essenziali processi biochimici - in tempi ed a velocità differenti. Simile meccanismo ha grande importanza per lo studio della relazione ambiente/gene/comportamento, poiché mentre i geni strutturali appaiono insensibili all'informazione proveniente dall'ambiente, i geni regolatori collegano flessibilmente quest'ultimo con l'organismo, con effetti particolarmente rilevanti durante lo sviluppo dell'organismo. E pertanto possibile, ha notato un altro sociobiologo inglese, il Dawkins, «che gran parte dell'evoluzione consista di cambiamenti, controllati geneticamente, nel tempo di inizio dell'attività di un gene» più che di mutazioni dei geni strutturali; ciò che spiegherebbe come organismi estremamente simili dal punto di vista biochimico - tra lo scimpanzé e l'uomo, ad esempio, la differenza è di un solo aminoacido - presentino grandissime differenze morfologiche e comportamentali.
Negli animali superiori i geni formano un sistema di complessità elevatissima, a causa del loro numero, della lunghezza, dell'interazioni tra geni posti in loci o posizioni differenti sullo stesso cromosoma o su cromosomi differenti, del polimorfismo dei geni collocati sullo stesso locus. Per l'uomo, Wilson avanza la stima di 50 000 coppie di geni strutturali e di 200000 coppie di geni regolatori; Stern, un'autorità in materia, ipotizza che i geni strutturali siano tra 10000 e 100000, ma non azzarda alcuna cifra per i geni regolatori. In qualsiasi momento, solo una piccola parte dei geni strutturali è attiva; alcuni lo sono solamente per un certo stadio della vita. Dato che la lunghezza media d'una proteina è di 150-200 aminoacidi, e ciascun aminoacido è codificato da una tripletta sequenziale di nucleotidi, se ne desume che la lunghezza media di un gene si aggira su 450-600 coppie laterali di nucleotidi (doppio essendo il filamento di Dna); ma tale misura è ambigua, poiché si sa che nel filamento che codifica per il montaggio degli aminoacidi, con la mediazione dello Rna messaggero e dello Rna di trasporto, vi sono tratti attivi (esoni) e tratti muti (introni), la cui funzione è ignota. Pare inoltre che molti geni esistano in più copie sullo stesso filamento, cosI come parecchi aminoacidi sono codificati da più di una tripletta (fino a sei, nel caso della leucina). Munito di tanta ridondanza, un sistema genico o genoma è capace di trasmettere ai siti di prima sintesi di tutte le sostanze organiche, modulando tempi, velocità, frequenza e natura della sintesi, un volume di informazioni dell'ordine di migliaia di miliardi di bits, ben più di quanto occorra per costruire a partire da una singola cellula diploide un organismo umano.
Un comportamento può essere considerato l'output motorio d'un programma di eccitazioni ed inibizioni entro il sistema nervoso centrale, il cui passo finale è sempre un'eccitazione. Il grado di complessità del programma varia entro margini molto ampi, e quanto più complesso il programma, tanto più numerosi saranno i sottoprogrammi in esso inclusi, e le unità attivate per svolgerli. Grazie alle vie nervose afferenti, a messaggeri chimici come gli ormoni e ad altri vettori, le informazioni provengono da unità e sistemi di tutto l'organismo, ma l'elaborazione ultima di esse, previo l'intervento di centri intermedi di concentrazione e di smistamento, avviene nelle sub-unità del Snc. Da ciascuna di queste sub-unità, a diversi livelli gerarchizzati a partire dal singolo neurone, sono emessi messaggi corrispondenti a «decisioni» o passi completati di programma, ciascuno dei quali accresce la probabilità che un'altra sub-unità trasmetta un messaggio eccitatorio o inibitorio in più direzioni. Le molteplici interconnessioni fra le diverse sub-unità, la presenza di circuiti di retroazione, l'esistenza a livello neuronale di potenziali graduati che superano lo schema elementare della scarica tutto o nulla, l'incidenza di schemi memorizzati, fanno si che anche il comportamento più semplice discenda da un programma comprendente molti passi e sotto-programmi, ciascuno dei quali condiziona non soltanto i successivi ma anche gli antecedenti.
Secondo questo modello, i geni hanno un'influenza massiva sulla strutturazione dei programmi di comportamento, e sulle loro differenze inter-individuali, essenzialmente perché sono capaci di:
- determinare in un dato organismo, e far variare da un organismo all'altro, la quantità e la composizione dei messaggeri chimici a breve distanza (neurotrasmettitori) e a lunga distanza (ormoni) che fungono direttamente o indirettamente (cioè con processi biochimici intermedi) da eccitatori e inibitori delle sub-unità del Snc, dal neurone in su;
- determinare e far variare la distribuzione delle predette sostanze tra le sub-unità del Snc;
- determinare e far variare la soglia di eccitazione e di inibizione delle varie sub-unità del Snc.
L'insieme di tali variazioni intra- e inter-individuali, e la loro combinazione e interazione, sono alla base di tutte le variazioni di comportamento che si osservano in e tra gli organismi superiori. Dovrebbe esser chiaro - e i richiami a tal proposito sono certo troppo scarni nella letteratura sociobiologica - che i geni non «causano» direttamente alcun comportamento. Essi governano anzitutto la costruzione delle macromolecole che per un verso formano l'impalcatura di tutti gli organi del vivente, a cominciare dagli organelli intracellulari, e per un altro operano come laboratori chimici - è il caso delle proteine enzimatiche, o enzimi - addetti alla sintesi delle altre sostanze necessarie per la continua riproduzione dei cicli energetici a bassa entropia in cui consiste la vita. E dall'interazione di tali strutture-funzioni macromolecolari con l'ambiente, sin dalle prime fasi dello sviluppo, che dipende il comportamento. La relazione gene/comportamento va scomposta dunque, al minimo, nella sequenza ambiente > geni regolatori > geni strutturali > [proteine strutturali ed enzimi] > ambiente > [neurotrasmettitori ed ormoni] > comportamento. Espressioni come «il gene per l'altruismo» non sono quindi che sigle di comodo.
E’ la virtuale impossibilità di effettuare in modo rigoroso tale scomposizione, almeno per il futuro che si può prevedere, a rendere arduo il perseguimento del programma di ricerca sociobiologico - a meno di concludere, come propende chi scrive, che l'individuazione puntiforme della relazione tra geni XY e comportamenti WZ non sia affatto essenziale ad esso.
Le tecniche disponibili al presente per l'analisi della influenza dei geni sul comportamento umano si riducono a tre:
a) la varianza genotipica (VG) è ricavata sottraendo dalla varianza fenotipica (VF) la varianza ambientale (VA). Questa tecnica, non meno del suo affinamento che consiste nel considerare l'effetto medio dei genotipi parentali presi separatamente, o varianza additiva, incontra gravi obiezioni metodologiche da parte degli specialisti, vuoi per il fatto di supporre uguale a zero l'interazione ambiente/genotipo (VAG), vuoi per la difficoltà di misurare con precisione, e separatamente, VF e v: obiettivo realizzabile in laboratorio nel caso di certe popolazioni animali, ma remotissimo nel caso dell'uomo, anche quando si tratti di comportamenti e popolazioni estremamente semplificati, come l'intelligenza di gemelli omozigoti allevati insieme o in famiglie diverse.
b) Anziché singoli geni o gruppi di geni si prendono in esame macro-unità geniche, quali i cromosomi, e si studiano gli effetti derivanti da alterazioni o duplicazioni osservabili in essi. Questa tecnica, utile per lo studio di gravi patologie morfologiche e comportamentali, tipo quelle derivanti dalla trisomia 21 (tre cromosomi X in luogo di due nella coppia 21), non si prospetta di alcuna efficacia per lo studio delle relazioni tra genotipo e comportamenti sociali «normali».
c) Si prendono in esame marcatori biochimici sicuramente collegabili all'azione d'un gene o d'un piccolo numero di geni, tipo i marcatori del sangue, e si analizza la relazione tra variazione dei marcatori e variazione dei comportamenti. In astratto, sembrerebbe questa la tecnica piú adeguata all'analisi della relazione gene/comportamento, ma le sue promesse appaiono subito mal fondate alla luce del fatto che i marcatori biochimici delimitano decine e centinaia di popolazioni entro una medesima area culturale - il che significa che una grande varianza genotipica si correla ad una bassa varianza dei fenotipi comportamentali - mentre talvolta la stessa popolazione appare distribuita tra piú aree culturali - caso inverso al precedente
Nei pochi cenni dedicati al problema dell'analisi empirica della relazione geni/comportamento Wilson e altri sociobiologi paiono fare affidamento soprattutto sulla prima di queste tecniche, ciò che sta semplicemente ad indicare, per quanto detto, la misura della loro sottovalutazione del problema.
Un sociobiologo potrebbe tuttavia obiettare che l'attuale difficoltà tecnica di scomporre analiticamente la relazione gene/comportamento non toglie nulla all'ipotesi che essa esista e sia assoggettabile a misurazione, qualora si potesse disporre di tecniche e strumenti piú adeguati, sia nei casi in cui tale relazione è di tipo pleiotropico (un singolo gene che influisce su piú comportamenti) sia in quelli in cui essa è di tipo poligenico (piü geni che concorrono a determinare lo stesso comportamento). D'altra parte la validità delle ipotesi sociobiologiche, almeno per quanto riguarda la loro capacità di spiegare l'evoluzione del comportamento sociale sino ai tempi storici, non dipende solamente dalla verifica della relazione gene/cornportamento, ma anche dalla verifica del modello neodarviniano che i sociobiologi applicano al comportamento. Secondo questo modello l'evoluzione del comportamento, non essendo per certi aspetti altro che l'espressione dell'evoluzione biologica, è al pari di questa un processo per accidente ed errore, o meglio per mutazione casuale e selezione negativa o positiva da parte dell'ambiente. Gran parte delle critiche rivolte al modello neodarwiniano vertono precisamente sul postulato della mutazione casuale dei geni. Ne ricorderò alcune:
- Le mutazioni puntiformi postulate dal modello neodarwiniano non sono sufficienti come fonti della grandissima variabilità genetica che si osserva negli organismi superiori. Accanto ad esse occorre ipotizzare l'intervento di altri meccanismi, quali la fissazione di cromosomi soprannumerari, l'incorporazione nel genoma di materiale genetico virale, e la realizzazione di associazioni simbiotiche stabili, come quella che si è presumibilmente realizzata con l'incorporazione di microorganismi nella cellula dei vertebrati (sarebbe questa l'origine evolutiva degli organelli citoplasmatici chiamati mitocondri).
- Il caso è un meccanismo talmente lento che nemmeno i miliardi di anni disponibili per l'evoluzione delle specie sarebbero bastati per realizzare tutte le combinazioni e permutazioni occorrenti per assemblare casualmente, avendo già a disposizione tutti i venti aminoacidi occorrenti, le piú semplici delle proteine. Ad esempio, il citocromo c, una proteina composta da soli 105 aminoacidi, potrebbe venir assemblato per caso solamente una volta ogni 20105 sequenze casuali - un caso talmente raro da non potersi verificare nemmeno una volta in miliardi di anni su un milione di pianeti differenti - La mutazione allelomorfica, ossia la modifica della struttura d'un singolo gene in una data posizione cromosomica, è del tutto impotente per spiegare l'origine dei grandi tipi in cui si è differenziato il vivente, dai protozoi ai metazoi diblasti e triblasti, e tra questi, ad esempio, dagli anellidi agli artropodi ed ai vertebrati, con le sei classi diversissime (Agnati, Pesci, Anfibi, Rettili, Uccelli, Mammiferi) che sono ricomprese in questi ultimi. Essa può spiegare, al píú, la differenziazione d'una specie preesistente in nuove specie - detta da alcuni microevoluzione - ma non la differenziazione del vivente in tipi, classi, ordini e famiglie fondamentalmente differenti, o macroevoluzione .
- Le novità entro il genoma non possono provenire solamente da modifiche di materiale genico preesistente; è indispensabile ipotizzare che esse provengano pure dalla sintesi di nuovo Dna indotta e stabilizzata da pressioni ambientali tramite enzimi e altri elementi dell'organizzazione citoplasmatica. In tal modo viene ribaltato il cosiddetto dogma centrale del modello neodarwiniano, secondo il quale l'informazione, concentratasi casualmente nel Dna, passa da questo alle proteine senza alcuna possibilità di seguire a volte un percorso inverso.
Il modello neodarwiniano descrive una cellula asservita al nucleo e al Dna in esso contenuto; quest'altro modello, da alcuni definito neolamarckiano, vede nella cellula, nel citoplasma e nei suoi organelli, e nel nucleo, un sistema interattivo autoorganizzantesi nel quale le varie parti si influenzano a vicenda, sotto pressioni particolarmente incisive, alternando fasi di trasformazione organizzativa (da cui dipende l'evoluzione) a fasi di stabilità (da cui dipende la somiglianza biochimica e morfologica dei membri di tutte le specie).
In tutte le popolazioni animali si osserva una misura molto elevata di polimorfismo genetico: per ogni posizione o locus cromosomico esistono cioè numerosi alleli, pur tra organismi del tutto simili sotto l'aspetto biochimico e morfologico. Le stesse funzioni biochimiche paiono soddisfatte da geni differenti. Perciò genotipi differenti risultano ugualmente adattati allo stesso ambiente, e una mutazione non altera necessariamente il grado di adattamento di un organismo al suo ambiente.
La biochimica del vivente è sostanzialmente la medesima in tutti gli organismi, dal batterio all'uomo, e non sembra fondamentalmente mutata da miliardi di anni. Tutti gli organismi sono formati da combinazioni e permutazioni degli stessi aminoacidi, venti in totale. Il ciclo mediante il quale essi trasformano l'energia solare in struttura e movimento - il ciclo dell'Atp - è identico. Le differenze degli organismi sono dovute non tanto a mutazioni della sintesi proteica - che è l'unica cosa che il Dna sappia fare - quanto all'invenzione di differenti piani di organizzazione di moduli biochimici pressoché immutati da miliardi di anni.
Molte mutazioni che inducono variazioni nella posizione di vari aminoacidi nelle catene proteiche non sono letali, né costituiscono per l'organismo vettore un fattore di miglior adattamento: sono semplicemente neutrali. Queste mutazioni si sono non soltanto verificate casualmente, ma si sono anche stabilizzate per caso, essendo l'ambiente indifferente o neutrale nei loro confronti. La teoria dell'evoluzione che si fonda su questa ipotesi è detta appunto neutralista.
- Gli organismi viventi si sono certo evoluti adattandosi ad ambienti in via di trasformazione, ma nel corso dell'evoluzione grande peso ha anche avuto la loro capacità di scegliere un ambiente diverso, che ha permesso in certi casi la sopravvivenza del genotipo precedente e in altri l'espressione di nuovi geni, nonché l'attività con cui hanno essi stessi modificato il loro ambiente. Il più grande cambiamento forse mai intervenuto nell'ambiente chimico della vita, la produzione d'una gran massa di ossigeno - elemento tossico per gli organismi dei primi stadi dell'evoluzione è stato indotto dalla moltiplicazione degli organismi vegetali, che han fatto dell'ossigeno un elemento essenziale della biosfera. La teoria dell'evoluzione dovrebbe tenere conto della capacità selettiva e alterativa degli ambienti da parte degli organismi viventi - ciò che non fa la teoria sintetica di essa
Dovrebbe essere evidente - ma non sembra esserlo per i sociobiologi - come queste critiche alla teoria neodarwiniana dell'evoluzione delle specie per mutazione casuale e selezione naturale colpiscano in più punti il modello sociobiologico. Se un gene deve indurre, oltre a processi biochimici e strutture funzionali (meglio) adattate a un certo ambiente, anche i moduli comportamentali che favoriscono ulteriormente la sua replicazione differenziale nelle generazioni successive, la probabilità che esso sia prodotto da una mutazione casuale diminuiscono ancora. Essa non sarà più di 20°, dove 20 è la serie degli aminoacidi ed n il numero di essi occorrente per formare, disponendosi in un dato ordine, un tipo di proteina, bensì 20n+m, dove m è la varietà dei comportamenti possibili in presenza di quella proteina e della sua attività enzimatica. Nessuna semplificazione di questo modello probabilistico della “invenzione» delle proteine e dei comportamenti correlativi può ridurre il numero che ne risulta a grandezze compatibili con i tempi e gli spazi dell'evoluzione. Se parecchi genotipi differenti sono presenti nella medesima popolazione, esprimendosi in fenotipi differenti che appaiono tutti ugualmente ben adattati, è difficile sostenere che un singolo modulo comportamentale si sia evoluto e diffuso presso tutti i membri di una specie perché possedeva un superiore valore adattivo.
E se molte mutazioni sono neutrali rispetto alla selezione naturale - il che significa che questa non fa presa sui fenotipo indotto dal genotipo mutante - non si vede perché anche molti comportamenti non potrebbero essere parimenti neutrali. Non è qui possibile proseguire oltre questa linea di critica «interna » del modello sociobiologico, ma essa non si presenta certo meno insidiosa della linea alquanto più esterna seguita finora dalla maggior parte dei suoi critici.
Ogni concezione della natura umana presuppone specifiche credenze circa i fattori preminenti, le cause fondamentali, gli scopi ultimi del comportamento degli esseri umani: come dire che essa implica una teoria della motivazione primaria, operante con continuità attraverso la varietà delle situazioni in cui viene a trovarsi il soggetto, e dalla quale derivano le sue motivazioni secondarie, contingenti o strumentali. Chi asserisce che fa parte della natura umana obbedire a tale o talaltro istinto, oppure perseguire questo o quello scopo, vuoi significare che ciascun essere umano è primariamente motivato a scegliere, a decidere, a preferire tendenzialmente, fra i tanti comportamenti di volta in volta possibili, quella linea di comportamento che massimizza per lui la probabilità a lungo periodo di raggiungere quel certo scopo, o di disattivare quella tal pulsione istintuale, nonostante scostamenti pi(i o meno ampi e durevoli dettati da motivi contingenti.
Se si scorre la vastissima letteratura delle scienze sociali del Novecento, in particolare sociologia ed antropologia sociale e culturale, se ne trae l'impressione che esse abbiano fatto un punto d'orgoglio nel negare che gli esseri umani posseggano una propria natura, ovvero che siano motivati da un qualsiasi carattere che stia al di fuori della società e della cultura in cui è storicamente collocato il soggetto. La loro concezione della natura umana è iperculturale e ultrasocializzata: di volta in volta il soggetto è motivato dalle relazioni interpersonali, dal gruppo, dalla logica del ruolo, dal controllo sociale, dai valori, dai simboli e dalle norme che ha interiorizzato, dagli interessi di classe, insomma o da situazioni presenti o dall'esperienza di situazioni passate, ma non mai da caratteri naturali interagenti con la società e la cultura.
L'organismo, i dati biologici, i milioni d'anni d'evoluzione sono indifferenti; il loro contributo al comportamento sta al più nell'avere prodotto un sistema totipotente - la lockiana tabula rasa voltata nel linguaggio della cibernetica - dal quale la società e la cultura possono estrarre a voler loro, variandone la programmazione, qualsiasi tipo di comportamento. Sono rari i sociologi e gli antropologi i quali si siano resi conto, prima di sentirselo rimproverare da un sociobiologo, che l'idea per cui gli uomini sono privi d'una natura umana rappresenta a ben vedere una rigidissima, quanto mal verificata, teoria della natura umana.
Al suo confronto, appare meno rigida la teoria della natura umana suggerita dalla sociobiologia. Estendendo il modello darwiniano dai tratti morfologici al comportamento, e quindi dall'animale all'uomo - secondo linee già chiaramente tracciate dallo stesso Darwin - essa scorge nella massimizzazione della propria idoneità complessiva, tenuto conto dei costi cui il soggetto si espone nel perseguirla, la motivazione primaria.
Lungi dall'essere un fattore di cieco egoismo, questa motivazione strettamente individuale può spingere l'individuo a compiere i maggiori sacrifici a favore dei suoi simili, perché tramite loro egli assicura la riproduzione d'una parte almeno di sé. La predominanza di tale motivazione tra tutte le popolazioni animali, incluso l'uomo, si deve al fatto che i geni ad essa soggiacenti si sono diffusi, col suo aiuto, con maggiore frequenza di altri geni che non motivavano l'individuo a comportarsi in modo da rendere massima la propria idoneità complessiva. Da tutto ciò deriva l'ipotesi che gran parte delle forme di comportamento sociale umano hanno un carattere adattivo sotto il profilo biologico, oppure esprimono tendenze stabilizzatesi nel corso dell'evoluzione che ebbero una funzione adattiva in passato.
Fra i sociobiologi, e spesso in uno stesso testo di qualcuno di loro, si registrano tuttavia notevoli diversità d'opinione quanto al margine di flessibilità che i geni - sulla base della stessa motivazione primaria - lasciano al comportamento o, inversamente, alla determinazione di questo ad opera della cultura, tanto che si potrebbe parlare d'una sociobiologia «dura» contrapposta ad una sociobiologia «soffice». Cominciando dalla più dura, quattro posizioni sono forse isolabili nei lavori dei sociobiologi che toccano il problema della natura umana - tuttora scarsi a paragone delle migliaia di ricerche cui può riferirsi la sociobiologia animale:
a) «Singoli geni o gruppi di geni (anche centinaia) intervengono nel controllare varie forme di comportamento sociale umano, e la loro identificazione è soltanto questione di tempo». Sebbene i sociobiologi in genere rifiutino di riconoscersi nell'equazione «un gene, un comportamento», e insistano nel dire che quanto un gene (o un gruppo di geni) può fare è modificare i valori di soglia di processi biochimici nel Snc, è difficile sottrarsi alla conclusione che essi pensino talora all'esistenza di geni specifici per tratti specifici del comportamento umano. In Wilson, ad esempio, capita di leggere che la pratica religiosa è atta a favorire l'adattamento biologico e, di conseguenza, «le pratiche religiose che favoriscono fortemente la sopravvivenza dei fedeli e la loro riproduzione propagheranno i controlli fisiologici favorevoli all'acquisizione di codeste pratiche nel corso d'una sola generazione. I geni che assicurano tali controlli saranno cosI favoriti» In questa prospettiva l'insieme del comportamento sociale umano si presenta come un mosaico dove ogni tassello è stato inserito nel quadro perché ha favorito la diffusione incrementale del genotipo specifico che lo controlla. Il quadro - la natura umana - risulta cosI immodificabile sia nel complesso che nei particolari, perché ove si sostituisse qui e là un tassello, ovvero un comportamento specifico - che è il solo tipo di modifica possibile, per quanto possa estendersi - l'equilibrio del tutto, realizzato in milioni di anni di evoluzione, verrebbe sconvolto. Proprio Wilson ha più volte ricordato il rischio che la repressione dei comportamenti sociali meno apprezzati provochi, nel caso che questi fossero geneticamente correlati con i comportamenti più apprezzati - ipotesi formulata pure da sociologi, tra i quali Edgar Morin - anche la scomparsa di questi ultimi.
Pur ammettendo che non ignorino le mediazioni complicanti la relazione gene/comportamento, i sociobiologi che assumono questa posizione aprono la strada ad immagini pericolosamente ingannevoli, quali i geni che favoriscono la convivenza di maschio e femmina tramite il piacere sessuale separato dall'estro e da finalità procreative, geni che si sarebbero diffusi perché in tal modo favorivano l'idoneità della progenie; ovvero i geni per la selezione del coniuge, o quelli che favoriscono la divisione del lavoro tra i sessi, o la riproduzione del comportamento omosessuale benché questo nonlasci progenie'. Se si tiene presente il modello neodarwiniano sopra richiamato - base di tutta la sociobiologia - questa posizione implica inoltre che la varietà delle culture umane è una funzione della varietà soggiacente nella distribuzione dei genotipi, poiché l'idea di variazione genotipica e fenotipica correlate è un tratto essenziale di tale modello. Simile implicazione, sulla quale si innestano le accuse spesso rozze ma non prive di giustificazioni storiche che additano nella sociobiologia una nuova forma di razzismo scientifico, sembra per lo più sfuggire ai sociobiologi.
b) «Il comportamento umano, sia individuale che collettivo, rappresenta una risposta differenziata alle pressioni provenienti dal genotipo e dall'ambiente. Lo stesso genotipo, in presenza di ambienti fisici e sociali tra loro differenti, è atto a indurre risposte comportamentali differenti, così come lo stesso ambiente può indurre risposte simili da genotipi differenti». La relazione gene/comportamento viene in tal modo attenuata: la costanza/varietà dei fenotipi comportamentali non è più spiegata con la costanza/varietà dei genotipi soggiacenti, benché la motivazione primaria rimanga la massimizzazione dell'idoneità complessiva. Quando assume tale posizione, Wilson ricorre all'immagine del ramoscello piegato. Il ramoscello è il comportamento, che può venir piegato in varie direzioni dal genotipo e dall'apprendimento. Nei primi anni di vita, esso è leggermente piegato in una certa direzione - ad esempio, in direzione d'una divisione del lavoro tra i sessi - essendo sotto il controllo d'un genotipo che si è affermato nel corso dell'evoluzione; ma le norme culturali e l'apprendimento sono capaci di annullare tale predisposizione controllata geneticamente e perfino di rovesciarla - a certi costi. Cosi la natura umana appare relativamente plasmabile, a condizione di conoscere le predisposizioni che ha acquisito per via evolutiva: compito specifico della sociobiologia umana
c) «In Homo Sapiens la massimizzazione dell'idoneità complessiva non è più affidata a comportamenti specifici, controllati da appropriati assetti genici, bensì alla capacità generica di elaborare e usare cultura, sulla base d'un cervello particolarmente complesso e d'un lungo periodo di maturazione dell'intero organismo, derivanti da una filogenesi orientata in tale direzione a causa della superiorità differenziale degli adattamenti che ha consentito». I geni non avrebbero quindi prodotto comportamenti specificamente diretti ad assicurare la loro replicazione, ma piuttosto un potenziale costruttivo capace di utilizzare qualsiasi materiale per raggiungere lo scopo, con grandissime variazioni del risultato a seconda dei materiali disponibili e della situazione ecologica globale.
Questa variante del modello sociobiologico sembra potersi collegare all'idea di «involucro genetico » introdotta da biologi francesi: la forma e le dimensioni dell'involucro, che hanno precisi riscontri biochimici nel Snc, determinano l'orientamento e l'ampiezza dell'apprendimento, ma non i suoi contenuti. Esso è pur sempre orientato a rendere massima l'idoneità complessiva, lasciando però libero il soggetto di percorrere infiniti tracciati comportamentali per conseguire tale finalità.
d) «I geni sono essenzialmente dei replicatori - oggetti capaci di produrre incessantemente copie di se stessi con un altissimo grado di fedeltà. Per miliardi di anni essi sono stati al centro del processo evolutivo. Con l'uomo, tuttavia, si è formata e diffusa in modo rapidissimo una nuova classe di replicatori: i replicatori culturali, micro-tratti di cultura che passano da una mente all'altra, riproducendosi uguali in ciascuna, e dando origine a combinazioni infinitamente variabili. Questi micro-tratti culturali - o memi - si evolvono anch'essi per sopravvivenza differenziale, e come i geni motivano i loro portatori a comportarsi in modo da accrescere le loro probabilità di sopravvivenza. Per comprendere l'uomo moderno il gene va dunque lasciato da parte; la sua funzione è stata superata dai nuovi replicatori, i memi». L'originalità di questa posizione nel quadro degli studi di sociobiologia è stata notata da pochi. In tutti i casi precedentemente delineati, la cultura è un modo di espressione della natura umana, per alcuni più rigido e per altri più flessibile, ma ancora subordinato a caratteri di tipo biologico; qui diventa essa stessa natura, assumendo in proprio l'onere di replicarsi e diffondersi. L'affinità di questa posizione con quelle sostenute da tempo da vari antropologi culturali è tuttavia soltanto apparente. Se è vero, infatti, che i memi - micro-tratti culturali capci di replicarsi e diffondersi hanno sostituito i geni, va anche notato che il meccanismo in base al quale essi operano rimane la selezione naturale secondo il modello neodarwiniano. Per essa, il soggetto ultimo è il gene, non l'individuo o l'organismo. Sono i geni che badano a sopravvivere, non per longevità ma per replicazione fedele. Per i memi la finalità è la medesima: ciò che occorre considerare «è il fatto che un carattere culturale può essersi evoluto proprio nel modo in cui l'ha fatto, semplicemente perché era vantaggioso per se stesso». Nell'antropologia culturale - si pensi alla scienza della cultura di White o al funzionalismo di Malinowki - i tratti di cultura si affermano e si riproducono, al contrario, per il contributo che dànno alla sopravvivenza dell'individuo, o meglio del gruppo.
Queste quattro versioni del modello fondato sull'ipotesi che anche molte forme di comportamento umano siano spiegabili in ultimo come espressione della tendenza (o motivazione primaria) a render massima la propria idoneità complessiva possono venire ulteriormente diversificate a seconda della risposta che forniscono ad altri quesiti. Anzitutto: quali specifiche forme di comportamento sociale umano sono spiegabili con l'ausilio del modello sociobiologico? Vi sono sociobiologi inclini a credere - ma si rammenti che la sociobiologia umana è ai primissimi inizi - che il paradigma dell'evoluzione è capace di generare modelli per spiegare qualsiasi tipo di comportamento sociale umano, compreso quello che si struttura in organizzazioni e istituzioni complesse'. Altri ritengono, più cautamente, che il modello sociobiologico sia applicabile di preferenza ai comportamenti «costosi », implicanti cioè un quanto elevato di investimenti, di risorse, di rischi individuali. Il confine tra comportamenti costosi e non costosi è certo ambiguo, ma tra I primi sembrano rientrare in primo luogo la decisione di avere figli, di scegliere o abbandonare un compagno stabile, di aggredire o difendersi, di abbandonare un gruppo d'identificazione per un altro (emigrare è una scelta di tal genere), di assistere materialmente parenti o amici - o rifiutarsi di farlo. Comportamenti comuni, certo; ma dal modello sociobiologico, come da ogni modello scientifico, non ci si può aspettare la spiegazione dell'esistente, bensì delle differenze che si osservano tra gli oggetti esistenti, che certo sono rilevanti.
Porre la questione in tal modo significa però predeterminare la risposta a un altro quesito: il modello sociobiologico si applica anche al comportamento dell'uomo moderno, del tipo d'uomo che ci è storicamente noto, o il suo dominio si limita al passato evolutivo da cui tale tipo è emerso? Su questo punto una risposta fondata dovrebbe venire solamente dalla ricerca: non vi sono vie puramente metodologiche per costruirla, benché l'idea che l'evoluzione biologica si sia finalmente interrotta - questo cardine di ogni spiritualismo - tanto da non contribuire in alcun modo al comportamento sociale osservabile nel presente, valga a prefigurare, se confermata, un arretramento senza precedenti delle scienze umane. Come se non solo Darwin, ma anche Marx e Freud non fossero mai esistiti.
Dato che il modello sociobiologico si presenta in diverse versioni, succede che le critiche metodologiche che lo affrontano come se fosse un sistema unitario appaiano puntuali rispetto ad alcune versioni di esso, ma sfocate rispetto ad altre. Si veda il seguente passo d'un antropologo culturale:
L'ipotesi che le propensioni del comportamento umano siano adattamenti foggiati dalla selezione naturale non implica che il comportamento umano non sia plastico o che le differenze di comportamento tra popolazioni umane sia il risultato di differenze genetiche. L'ipotesi più ragionevole è che le differenze di comportamento esibite da popolazioni differenti siano variazioni indotte dall'ambiente nell'espressione di genotipi fondamentalmente simili.., e che l'abilità e propensione a variare comportamento in risposta a differenze ambientali sia essa stessa un adattamento.
Critiche cosí congegnate hanno peso se si riferiscono alla versione a del modello sociobiologico, quella che collega comportamenti specifici a un genotipo soggiacente, ma nel caso della versione b risultano fuori centro, e addirittura prive di senso nei confronti della versione c, poiché l'argomento recato contro il modello - l'essere il principale adattamento umano la capacità insita nel Snc di variare risposte comportamentali - fa parte della struttura del modello stesso.
Simile in questo ad ogni specie evolutivamente accorta, il modello sociobiologico esibisce variazioni interne che accrescono la sua probabilità di sopravvivere alle pressioni dell'ambiente. Ma le diverse versioni di esso perseguono infine una medesima finalità - fondare l'ipotesi della massimizzazione dell'idoneità complessiva, ovvero costruire schemi di spiegazione empiricamente provati e logicamente corretti di quei comportamenti che i sociobiologi credono orientati in tal senso. La critica metodologica può allora proseguire con due obiezioni:
1) i comportamenti umani sin qui studiati non sono diretti a rendere massima la idoneità complessiva del soggetto;
2) l'ipotesi della massimizzazione della idoneità complessiva «funziona», cioè spiega efficacemente - con l'intervento dei modelli che ne derivano - vari tipi di comportamento,ma non per le ragioni addotte dai sociobiologi.
Ad onta dei numerosi attacchi rivolti alla sociobiologia dopo la pubblicazione della « nuova sintesi» di Wilson, l'obiezione piú frequente - almeno tra i critici non faziosi quanto adeguatamente documentati - è stata la 2, non la 1. Non è in verità agevole, per un sociologo o un antropologo, e meno che mai per un biologo, provare che i comportamenti umani «costosi», del tipo sommariamente richiamato sopra, non sono in ultima analisi diretti a render massima la capacità d'un soggetto di lasciare discendenti o collaterali maturi. Ma seppure l'ipotesi sembra reggere, ciò avviene perché la cultura svolge, sin dalle sue lontane origini, eminenti funzioni adattive anche sotto il profilo strettamente biologico, non perché la selezione naturale abbia portato alla moltiplicazione di geni «comportamento-specifici» o «cultur-generici» che governerebbero il comportamento sociale umano. Siffatta concezione è illustrata in modo preclaro da un altro antropologo:
Laddove le teorie della sociobiologia fondate sulla selezione naturale sono risultate corrette nelle loro predizioni o spiegazioni del comportamento umano, ciò è avvenuto spesso per ragioni sbagliate. Le apparenti coerenze tra teoria biologica e comportamento umano suggeriscono non già che vi sia necessariamente una base biologica soggiacente che guida, dirige, controlla, programma, predispone o inclina ogni attività umana, ma piuttosto che le tradizioni ed i costumi prodotti da processi culturali sono spesso adattivi nel «senso biologico». Io ritengo che queste coerenze si possono spiegare nel modo migliore con la evoluzione congiunta della biologia e della cultura umane.
Il concetto di co-evoluzione di biologia e cultura è peraltro ambiguo, almeno nelle formulazioni correnti. Esso sembra denotare un'interazione armoniosa, equamente bivalente, tra i due processi, mentre il loro rapporto è più probabilmente asimmetrico nello spazio e nel tempo. Per menzionare soltanto alcune delle asimmetrie possibili:
1) Tratti di sicura origine biologica o filogenetica (per esempio la caccia in gruppo) sono alla base di tratti culturali (per esempio la comunicazione verbale).
2) Tratti culturali (per esempio la manipolazione del fuoco) hanno influito su tratti biologici (per esempio lo sviluppo della corteccia associativa) rendendo più idonei i mutanti che grazie all'acquisizione di nuove capacità fisiologiche sapevano sfruttare meglio le potenzialità del nuovo tratto culturale.
3) Tratti culturali simili in ambienti differenti, o tratti culturali differenti in ambienti simili, rendono ugualmente idonei genotipi differenti.
4) Tratti culturali di vario tipo dànno origine a nuove pressioni selettive a carico dei genotipi presenti nella popolazione.
Le ambiguità attuali del concetto di co-evoluzione biologica e culturale han fatto si che, più che a porre su nuove basi lo studio dell'interazione tra sistemi biologici e sistemi sociali e culturali, già afflitto da un secolo di dibattito metodologicamente mal impostato sul primato rispettivo della natura e della cultura, esso sia servito a dis-accoppiare nuovamente i primi dai secondi. Alla fine la biologia si configura come un fattore utile per comprendere l'evoluzione socio-culturale della specie umana sino all'epoca storica, nonché - nel migliore dei casi - la struttura delle residue società «primitive» della nostra epoca - come gli indiani Yanomamö oggetto delle prime ricerche di sociobiologia umana - ma non per spiegare il comportamento sociale dell'uomo moderno. Anche là dove si ammette che l'idoneità biologica dell'uomo moderno è accresciuta dalla cultura, quest'ultima appare sempre come una pluralità di sagaci invenzioni risultanti in un accrescimento dell'idoneità complessiva degli individui che le adottano, ma non come un insieme di sistemi nella cui ideazione e strutturazione simbolica e pratica sono intervenute informazioni provenienti dal sistema biologico, cioè dall'organismo individuale. E’ evidente che per tal via l'ipotesi fondamentale della sociobiologia, che vede nella tendenza a massimizzare la propria idoneità complessiva anzitutto una espressione della ragione biologica, va completamente perduta.
Allo stato attuale del dibattito ritengo possibile formulare una ipotesi alternativa. Essa muove dalla convinzione che l'ipotesi della massimizzazione dell'idoneità complessiva sia un'ipotesi eccezionalmente potente per spiegare molte forme del comportamento sociale umano. Essa può costituire un fattore assai efficace per unificare in prospettiva una miriade di generalizzazioni e di teorie ad hoc elaborate dalle scienze sociali come se ciascuna di esse - sociologia e antropologia, psicologia sociale e politologia, economia e demografia - possedesse una sua verità esclusiva sulla natura umana; o, peggio, come se la natura umana fosse composta da tasselli sociologici, economici, politologici, ecc. separati e non comunicanti tra loro. D'altra parte le conoscenze disponibili circa la complessità della relazione gene/comportamento, e le lacune della teoria neodarwiniana o sintetica dell'evoluzione per selezione naturale, non permettono di appoggiare tale ipotesi all'idea che la tendenza alla massimizzazione dell'idoneità complessiva abbia una base in senso stretto genetica, evolutasi tramite processi di tipo mendeliano. L'ipotesi ha un fondamento biologico, ma i sociobiologi errano nel cercarlo tra i geni: occorre cercarlo in alcune proprietà generali di tutti I sistemi viventi, ed in alcune proprietà specifiche dell'organismo umano, unico per le parti più recenti - la neocorteccia - del suo sistema nervoso centrale. Col che si confuterebbe, da un lato, l'affermazione per cui senza l'idea di controllo genetico del comportamento evolutosi per selezione naturale l'ipotesi sociobiologica crolla; e, dall'altro, la nozione secondo la quale le ragioni sbagliate dell'esattezza dell'ipotesi sociobiologica sono da vedersi nella capacità adattiva dei processi culturali: senza con ciò voler confutare la validità della stessa nozione in altri contesti.
Tra le proprietà generali dei sistemi viventi, e di maggior rilevanza per spiegare il loro comportamento, occorre mettere in primo piano la capacità di riproduzione. Questa si esprime in due attività distinte: l'attività di mantenimento della struttura del sistema, ossia delle relazioni tra componenti e delle componenti stesse, che nel linguaggio della teoria dei sistemi è detta attività autopoietica; e l'attività di replicazione dell'intero sistema, ossia la produzione di copie identiche capaci di vita indipendente. Nel linguaggio improprio che i sistemi umani sono costretti quasi inevitabilmente ad usare quando si riferiscono alla generalità dei sistemi, codeste attività complementari - comune essendo la loro radice nella morfogenesi cellulare - rappresentano la massima finalità di ogni sistema vivente. Nel suo duplice aspetto, la riproduzione come finalità non va confusa con la sopravvivenza dell'individuo; questa risulta eventualmente da quella, ma vi è strettamente subordinata - il che implica che la prima, sotto forma di replicazione, avviene se necessario a spese della seconda. La capacità riproduttiva si evolvette presumibilmente in due stadi. In un primo stadio i sistemi capaci di autopoiesi - sicuramente più efficienti nell'uso di risorse scarse - si affermarono gradualmente a spese dei sistemi non autopoietici. In un secondo stadio, qualche classe di sistemi autopoietici acquisì la capacità di replicazione, e in breve tempo eliminò - dato l'eccezionale vantaggio selettivo in tal modo acquisito - tutte le altre classi di sistemi non replicativi. Si noti che non si tratta assolutamente di sistemi viventi che acquisiscono «un gene per l'autopoiesi» o «un gene per la replicazione ». Autopoiesi e replicazione sono capacità di tutto il genoma e di tutto l'organismo multicellulare che ne deriva, in tutte le classi di sistemi (attualmente) viventi.
Tra autopoiesi, replicazione e conservazione dell'identità d'un sistema corrono rapporti strettissimi. L'identità o individualità d'un sistema è data dalla sua organizzazione, formata dall'insieme delle parti, dalle relazioni esistenti tra loro e dalla gerarchia di funzioni da loro svolte. Autopoiesi e replicazione tendono a conservare implacabilmente tale identità a causa della superiorità selettiva acquisita dai sistemi che si riproducono - nei due sensi restando identici, a confronto di quelli che si autoricreano o si replicano introducendo nel processo mutamenti (mutazioni) anche minime. Ambedue le attività sono puntiformi e diffuse: la loro scala base è atomica, molecolare e macromolecolare. Mutamenti anche minimi nella natura d'una parte (ad esempio una molecola), o di una relazione (ad esempio un legame covalente o ionico), o in una funzione (ad esempio l'attività enzimatica d'una macromolecola), rappresentano un disturbo per molte altre parti, relazioni e funzioni del sistema. Minore il numero di disturbi di tal genere che si verificano in un sistema, maggiore è la sua probabilità di acquisire un quanto addizionale di risorse scarse - energia, materia, informazione, o tempo nella competizione diretta o indiretta con altri sistemi della stessa classe o di altre classi. Per questa ragione i sistemi specializzati nella conservazione della propria identità-organizzazione sono enormemente più numerosi di quelli che tale specializzazione non hanno acquisito. Ma ciò implica pure che la dinamica della quasi totalità dei sistemi viventi risponde preferenzialmente a, ossia è primariamente motivata da, la conservazione della propria identità attraverso tutte le puntiformi e diffuse attività di autopoiesi (cioè autoricreazione) e replicazione. E difficile esser più chiari di Varela nell'esprimere questo concetto, ch'egli applica anzitutto all'autopoiesi, ma che valeallo stesso modo per l'attività di replicazione:
Di fatto, l'autopoiesi implica la subordinazione di ogni mutamento nel sistema autopoietico al mantenimento della sua organizzazione autopoietica, e poiché questa organizzazione definisce il sistema come unità, essa implica una totale subordinazione della fenomenologia del sistema al mantenimento della sua unità. [...]. Se la subordinazione di tutti i mutamenti in un sistema vivente al mantenimento della sua organizzazione autopoietica non avesse luogo (in via diretta o indiretta), esso perderebbe quell'aspetto della sua organizzazione che lo definisce come un'unità, e quindi si disintegrerebbe.
L'organizzazione di ogni sistema vivente comprende parecchie strutture, distinguibili a seconda della funzione che svolgono a favore dell'intero sistema. Alcune strutture hanno origine filogenetica, derivano cioè dalla storia delle precedenti repliche dei sistemi di quella classe; altre hanno origine ontogenetica, ossia derivano dalla storia dello sviluppo dell'individuo da cellula a organismo maturo. Una volta costituita, per via filogenetica od ontogenetica, una struttura domanda risorse, in particolare energia: per il proprio puntiforme mantenimento e ricreazione (o autopoiesi), per produrre repliche fedeli di se medesima, e per intervenire sull'ambiente al fine di ridurre la sua varietà in difesa della propria costanza. Un bisogno può essere definito come il quanto di risorsa - in primo luogo energia - occorrente a una struttura per provvedere a questa triplice incombenza; esso è la fonte di ogni motivazione, onda complessa d'eccitazioni diretta a produrre la motricità necessaria per procurare al sistema le risorse mancanti. Poiché in ogni sistema vi sono molte strutture, esso ha in genere molti bisogni, e alcuni sono in competizione tra loro.
Oltre alle capacità di autopoiesi e replicazione intrinsecamente connesse alla conservazione dell'identità, che l'organismo umano ha in comune con tutti i sistemi viventi, esso presenta una proprietà veramente «specifica», cioè eccezionalmente sviluppata, se non unica di questa specie: quella di poter formare nella propria corteccia associativa un numero indefinito di strutture informazionali, d'origine esclusivamente ontogenetica, capaci di rappresentare se stesso, l'ambiente fisico e sociale, ed i rapporti tra i due elementi; o, più semplicemente, se stesso nell'ambiente. Tale capacità addizionale è alla base del suo superiore dominio dell'ambiente planetario rispetto ad ogni altro animale (dominio che non è detto debba durare in eterno). Tali strutture hanno una base materiale nella stabilizzazione delle sinapsi e nella sintesi di molecole proteiche e di neuromessaggeri che inducono; perciò, oltre ad essere capaci di autopoiesi e di replicazione, esse domandano energia e altre risorse per riprodursi, analogamente alle altre strutture filogeneticamente determinate dell'organismo, e al pari di queste vanno incontro, su un piano diverso, a processi di evoluzione e selezione naturale.
Le strutture informazionali stabilizzate nella corteccia associativa fondano l'identità culturale, e quindi comportamentale, dell'essere umano. La loro acquisizione e mantenimento attraverso un incessante processo autopoietico e indispensabile per l'esistenza umana, perché lo sviluppo della corteccia associativa è avvenuto a costo della perdita d'una identità comportamentale determinata strettamente per via filogenetica, come avviene per tutte le altre specie. Avendo acquisito la capacità potenziale di esibire una varietà amplissima di classi di comportamento, l'uomo è costretto a scegliere stabilmente una classe di essi, poiché rischia, in difetto, di perdere la capacità di riproduzione anche fisica. Perciò l'acquisizione e la conservazione dell'identità culturale è un bisogno umano di immensa forza motivazionale, che si ritrova alla radice - tra molti altri comportamenti - di ogni religione e di ogni nazionalismo.
Le proprietà generali e specifiche sopra delineate sono all'origine di quattro tipi di interessi che più d'ogni altro specificano la natura umana. Un interesse è una forma di attenzione selettiva che un soggetto reca ad un oggetto o stato di cose la cui acquisizione o realizzazione - o conservazione - esso giudica idoneo a migliorare o difendere la sua situazione, motivandolo ad agire tendenzialmente in tal senso. Come organismo, l'essere umano ha interesse al proprio mantenimento autopoietico, alla continua ricreazione di sé, ed alla produzione di proprie repliche; come portatore di strutture informazionali acquisite, ha interesse al mantenimento autopoietico di tali strutture, ed alla loro replicazione in altri esseri umani.
Tali interessi possono convergere, come nello scienziato che vuole far studiare un figlio affinché prosegua la sua attività scientifica, oppure divergere, come nella donna che deve scegliere tra proseguire gli studi e avere un figlio. La pressione combinata di tali interessi predispone l'individuo a comportamenti diretti consciamente o inconsciamente a rendere massima la sua idoneità complessiva, nella duplice forma di massimizzazione della propria rappresentanza genetica e della propria rappresentanza culturale, seguendo strategie che a volte congiungono le due forme e altre volte antepongono una all'altra. La prima forma comporta ovviamente consanguineità; la seconda può attuarsi, e si attua con elevata frequenza, tra individui non consanguinei. Postulare singoli geni o sistemi di geni alla base di siffatta predisposizione non è necessario, e viola anzi il principio di economicità delle teorie scientifiche; essa deriva piuttosto dalla peculiare congiunzione che si è operata in Homo Sapiens tra proprietà generali dei sistemi viventi e proprietà particolari della specie.
La base della predisposizione è biologica, è insita nella logica e nell'economia del vivente; ma ammette l'intervento determinante dell'informazione-cultura nella formazione di strutture autopoietiche e replicative, tramite l'interazione socio-culturale che concorre ad istituire nella corteccia associativa circuiti neuronali integrati, ancorché strettamente accoppiati con quelli soggiacenti di origine filogenetica od evolutiva.
«Le idee che sembravano essere "me" possono anche diventare immanenti in voi. Possano esse sopravvivere - se sono vere» . In parole simili, recitate infinite volte, in mille varianti, da individui d'ogni tempo e cultura, è racchiuso il senso profondo della riproduzione culturale, e della sua complementarità con la riproduzione organica nella natura umana.