Stephen J. Gould ed Elisabeth S. Vrba

Exaptation. Il bricolage dell'evoluzione

Bollati Boringhieri, Torino 2008
pp. 7-49

Exaptation: un termine che mancava nella scienza della forma

L'adattamento degli organismi è stato definito e riconosciuto attraverso due differenti criteri: la genesi storica, quando intendiamo caratteristiche costruite dalla selezione naturale per svolgere il loro ruolo presente, e l'utilità attuale, quando invece intendiamo caratteristiche che adesso aumentano le capacità di sopravvivenza indipendentemente da come siano comparse nella storia. I biologi spesso non hanno riconosciuto la potenziale confusione tra queste diverse definizioni, perché è prevalsa la tendenza a considerare la selezione naturale in modo talmente dominante tra i meccanismi evolutivi che il processo storico e il prodotto attuale sono diventati una cosa sola. Tuttavia, se molti caratteri degli organismi non sono adattati, ma sono disponibili per una cooptazione utile nei discendenti, significa che un importante concetto non possiede un nome nel nostro lessico (e le idee senza nome solitamente restano trascurate). Manca cioè un nome per definire i caratteri che oggi aumentano le capacità di sopravvivenza, ma che non sono stati modellati dalla selezione naturale per il loro ruolo attuale. Noi proponiamo che tali caratteri siano chiamati exaptations (exattamento) e che il termine «adattamento» sia riservato, come Darwin peraltro suggerì, alle caratteristiche modellate dalla selezione naturale per il loro utilizzo corrente.

    1. Introduzione

Vorremmo suggerire un termine per un elemento che manca nella tassonomia della morfologia evolutiva. I termini di per sé sono banali, ma le tassonomie rivisitate per un differente ordine di pensiero non sono prive di interesse. Le tassonomie non sono neutrali, come appendiabiti arbitrari per un insieme di concetti invarianti. Esse riflettono (o addirittura creano) diverse teorie sulla struttura del mondo. Come Michel Foucault ha elegantemente mostrato in molti libri (1961 e 1971, ad esempio), quando capisci perché la gente classifica in un certo modo capisci anche come pensa.

Le tassonomie che si succedono nel corso del tempo sono come le tracce fossili di cambiamenti sostanziali avvenuti nella cultura umana. A metà del XVII secolo, i folli erano confinati in istituzioni specifiche insieme agli indigenti e ai disoccupati, portando così a compimento una lunga tradizione di esilio e di tolleranza per l'insano. Ma quale che sia il terreno comune per una tassonomia che mischi i folli e i disoccupati, a noi pare assurda. Foucault sostiene che il «carattere chiave» per «la categoria tassonomica più alta» era l'ozio, cioè il peccato e il pericolo cardinale in un'era alle soglie del commercio globale e dell'industria (l'interpretazione di Foucault è stata però messa in discussione dallo storico della scienza inglese Roy Porter). In altri sistemi di pensiero, quello che a noi sembra periferico diventa centrale e viceversa distinzioni per noi essenziali non contano nulla (come, per esempio, se l'ozio è internamente inevitabile, come nella follia, oppure imposto dall'esterno come nella disoccupazione).

    2. Due significati di adattamento

Nel linguaggio comune, e nelle scienze diverse dalla biologia evoluzionistica, la parola «adattamento» ha molteplici significati tutti coerenti con l'etimologia di ad+aptus, ovvero tendere ad adeguarsi a una funzione particolare. Quando adattiamo uno strumento per un nuovo ruolo, cambiamo consciamente il suo progetto affinché funzioni bene per il suo scopo designato. Quando i creazionisti prima di Darwin parlavano di adattamento - giacché il termine precede largamente il pensiero evoluzionistico - si riferivano all'azione intelligente di Dio nel progettare gli organismi per ruoli definiti. Quando i fisiologi affermano che i polmoni più grandi delle popolazioni andine sono un adattamento al clima locale, intendono un cambiamento diretto per una migliore funzione. In breve, tutti questi significati fanno riferimento a processi storici di cambiamento o di creazione per assolvere funzioni definite. L'adattamento è progettato specificamente per l'obiettivo che deve raggiungere.

In biologia evoluzionistica, tuttavia, incontriamo due diversi significati - e una possibile confusione di concetti - per strutture chiamate «adattamenti». La prima accezione è coerente con gli usi di senso comune sopra citati: un carattere è un adattamento solo se è stato costruito dalla selezione naturale per la funzione a cui adesso adempie. La seconda definisce invece l'adattamento in un modo statico o immediato, cioè come ogni caratteristica che migliora le capacità di sopravvivenza attuali indifferentemente dalla sua origine storica. Come ulteriore motivo di confusione, la parola adattamento si riferisce sia a un processo sia a uno stato di fatto. Noi qui discutiamo soltanto dello stato di fatto, cioè di caratteristiche che contribuiscono alla sopravvivenza.

George C. Williams, nel suo libro ormai classico sull'adattamento, ha riconosciuto questo dilemma e ha ristretto il termine al suo primo, e più stringente, significato. Dovremmo parlare di adattamento, egli sostiene, soltanto quando possiamo «attribuire l'origine e la perfezione di questo progetto a un lungo periodo di selezione per la sua efficacia nello svolgere quel particolare ruolo» (1966, p. 6). Nella sua terminologia, «funzione» si riferisce solo all'operazione di adattarsi. Williams, inoltre, argomenta che dovremmo distinguere gli adattamenti e le loro funzioni dagli effetti fortuiti. Egli usa il termine «effetto» nel suo senso comune: qualcosa di causato o di prodotto, un risultato o una conseguenza. Il concetto di «effetto» di Williams può essere applicato a un carattere, o al suo uso, o a un potenziale uso (o a un processo) che sorge come conseguenza di un vero adattamento. Gli effetti fortuiti connotano sempre una conseguenza che segue accidentalmente e che non deriva direttamente da una costruzione per selezione naturale. Altri hanno adottato vari aspetti di questa terminologia per intendere gli effetti nel senso di Williams (Paterson 1982; Vrba 1980). Tuttavia, Williams e altri solitamente ricorrono al termine «effetto» per designare il funzionamento di un carattere utile non costruito dalla selezione naturale per il suo ruolo attuale - e noi qui seguiremo questa restrizione (tab. I). Williams riconosce anche che il troppo cavillare sugli adattamenti è stato «incoraggiato da imperfezioni di terminologia» (1966, p. 8), una situazione che speriamo qui di migliorare leggermente.

Bock, dall'altra parte, difende il secondo significato, più ampio, nell'altra più citata analisi dell'adattamento degli anni sessanta (Bock e von Wahlert 1965; Bock 1967, 1979, 1980): «Un adattamento è, quindi, una caratteristica dell'organismo che interagisce operativamente con qualche fattore del suo ambiente affinché l'individuo possa sopravvivere e riprodursi» (1979, p. 39).

Il dilemma di includere o meno criteri differenti di genesi storica e di utilizzo attuale in un unico termine può essere illustrata con un esempio negletto tratto da una famosa fonte. Nel capitolo de L'origine delle specie dedicato alle «difficoltà della teoria», Darwin scrive (1859; trad. it. p. 255):

Le suture nel cranio dei giovani mammiferi sono state prospettate come un bell'adattamento per facilitare il parto, e senza dubbio esse l'agevolano, o possono essere indispensabili per quest'atto; ma poiché le suture si riscontrano anche nel cranio di giovani uccelli e rettili, che hanno soltanto da uscire da un uovo rotto, possiamo dedurre che questa struttura è sorta dalle leggi dello sviluppo ed è stata utilizzata per il parto negli animali superiori.

Darwin conferma l'utilità, anzi la necessità, della non fusione delle suture, ma esplicitamente dice di non volerle etichettare come adattamento, perché esse non sono state prodotte dalla selezione naturale per la funzione che svolgono oggi nei mammiferi. Williams segue Darwin e rinuncerebbe a chiamare questo carattere adattamento: egli designerebbe il suo ruolo nel facilitare la sopravvivenza ai mammiferi come un effetto fortuito.

Come esempio di confusione non riconosciuta, consideriamo questa definizione di adattamento presa da un dizionario biologico (Abercrombie e altri 1951, p. io): «qualunque caratteristica di organismi viventi che, nell'ambiente dove essi vivono, aumenti le loro possibilità di sopravvivenza e, in ultima analisi, di lasciare discendenti, comparata alle possibilità che l'organismo avrebbe senza quel carattere; la selezione naturale tende dunque a fissare adattamenti in una popolazione». Questa definizione mescola l'uso attuale e la genesi storica. Che cosa si deve fare con le strutture utili che non sono state costruite dalla selezione naturale per il loro uso presente?

3. Una definizione di exaptation

Abbiamo allora identificato un'imprecisione che circonda uno dei concetti centrali della teoria dell'evoluzione. Questa confusione nasce, in parte, perché la tassonomia delle forme in relazione alla sopravvivenza manca di un termine. Seguendo Williams (vedi tab. I), potremmo definire come adattamento (adaptation) ogni caratteristica che promuova la sopravvivenza degli organismi e che sia stata costruita dalla selezione per il suo ruolo attuale (criterio della genesi storica). Il funzionamento di un adattamento è la sua funzione (Bock usa il termine funzione in un modo un po' diverso, ma noi crediamo di seguire qui il senso comune biologico). Potremmo anche seguire Williams chiamando il funzionamento di un carattere utile, non costrutto dalla selezione per il suo uso attuale, effetto (definiamo effetto solo l'utilizzo di una tale struttura, non il carattere in sé, vedi p. 19). Ma come dovremmo chiamare il carattere utile in sé che non è stato selezionato per quell'uso? Se ci pensiamo bene, questo tipo di carattere non ha un nome riconosciuto (a meno di non accettare la definizione ampia di adattamento di Bock - cioè il criterio del solo uso attuale - e rifiutare sia quella di Darwin sia quella di Williams). Il suo posto nello schema logico è attualmente vuoto.

Noi suggeriamo che tali caratteri, evolutisi per altri usi (o per nessuna funzione del tutto) e in seguito «cooptati» per il loro ingaggio attuale, siano chiamati ex-aptations. Essi sono utili per il loro ruolo attuale, quindi «atti» (aptus), ma non sono stati progettati dall'evoluzione per quello e quindi non sono «ad-atti» (ad-aptus). Essi devono il loro contributo alla sopravvivenza a caratteristiche presenti per altre ragioni e sono quindi utili (aptus) in virtù della (ex) loro forma, ovvero exaptus. Le suture nei mammiferi sono un exaptation per il parto. In termini di funzionamento, gli adattamenti hanno funzioni, mentre gli exaptations hanno effetti. Il fenomeno generale e statico dell'essere utile per la sopravvivenza (fit, fitness) dovrebbe essere chiamato aptation, non adattamento. In conclusione, l'insieme generale degli aptations esistenti in ogni momento è costituito da due sottoinsiemi parzialmente sovrapposti: il sottoinsieme degli adaptations e il sottoinsieme degli exaptations (ciò si applica anche all'insieme più inclusivo degli aptations esistiti nel tempo, vedi tab. I).

4. Perché oggi abbiamo bisogno del concetto di exaptation

Perché questa miscela confusa di origine storica e di utilizzo attuale ha attirato così poca attenzione fino a ora. Ogni biologo certamente riconosce che alcuni caratteri utili non sono emersi attraverso la selezione per il loro uso attuale: perché dunque non si è reso onore a questa conoscenza con un nome? Questa nostra mancanza sottovaluta semplicemente l'importanza del tema oppure il termine assente potrebbe riflettere, nel senso suggerito da Foucault, una struttura concettuale che lo ha implicitamente escluso? E, infine, il bisogno potenziale di un tale termine oggi indica forse che la struttura concettuale stessa possa essere cambiata?

Perché Williams non ha suggerito un termine, visto che chiaramente ha riconosciuto il problema e ha separato gli utilizzi di una struttura in «funzioni» ed «effetti» (che corrispondono rispettivamente agli adattamenti e alle caratteristiche senza nome per cui noi suggeriamo il termine exaptation)? Perché Bock ha evitato del tutto di specificare il problema? Noi sospettiamo che la cornice concettuale del pensiero evoluzionistico moderno, continuando a enfatizzare la suprema importanza e continuità degli adattamenti e della selezione naturale a tutti i livelli, abbia sottilmente relegato il tema dell'exaptation a una periferia di scarsa importanza. Come possono, diversamente, gli aspetti non adattativi della morfologia ottenere un'adeguata attenzione se seguiamo la definizione di Bock (1967, p. 63) per cui: «sul piano teorico tutti i caratteri esistenti negli animali sono adattativi. Se ve ne fossero di non adattativi, essi sarebbero stati eliminati dalla selezione e scomparirebbero». Williams riconobbe il fenomeno dell'exaptation e gli concesse persino una certa importanza (valutando le capacità della mente umana, per esempio), ma mantenne un ruolo predominante per l'adattamento e spesso designò gli effetti come fortuiti o periferici - «meramente una conseguenza incidentale», afferma in un passaggio (p. 8).

Noi riteniamo che il programma adattazionista del moderno pensiero evoluzionistico (Gould e Lewontin 1979) si stia indebolendo sotto i colpi di sfide che provengono da tutti i livelli dell'indagine evoluzionistica, da quello molecolare a quello macroevolutivo. A livello biochimico abbiamo oggi teorie neutraliste e indicazioni secondo cui quantità sostanziali di DNA potrebbero non essere adattative a livello del fenotipo (Orgel e Crick 1980; Doolittle e Sapienza 1980). Gli studiosi di macroevoluzione hanno sostenuto che adattamenti nelle popolazioni di organismi si traducono in effetti che generano schemi di diversificazione differenziale fra le specie, dando a loro volta origine a tendenze evolutive (l'ipotesi dell'effetto proposta da Vrba 1980). Se il non adattamento (o quello che dovremmo chiamare non-aptation) sta per assumere un ruolo importante nel contesto di una teoria dell'evoluzione riveduta, allora la nostra terminologia della forma deve riconoscere il suo significato evolutivo cardine: cioè la cooptabilità per la fitness (vedi Seilacher 1972, sugli importanti effetti di uno schema non attativo nella struttura e nella colorazione dei molluschi).

Alcuni colleghi hanno detto che preferiscono la definizione ampia di Bock perché è operativamente più semplice. Possiamo compiere osservazioni e sperimentazioni per determinare quale vantaggio un carattere offra oggi a un organismo. Ricostruire il percorso storico delle sue origini, invece, è sempre un problema più difficile e spesso (quando mancano prove cruciali) ingestibile. A questa obiezione rispondiamo che non stiamo cercando di smantellare il concetto esteso di Bock: sosteniamo solamente che dovrebbe essere definito aptation (con ad-aptation ed ex-aptation come suoi modi interni). In quanto aptation, mantiene tutte le proprietà favorevoli per la sperimentazione sopra citate.

La genesi storica è, senza dubbio, un problema più difficile, ma non per questo possiamo ignorarlo. Come evoluzionisti siamo chiamati, quasi per definizione, a tenere in considerazione i processi storici come parte essenziale della nostra materia. Non possiamo restare indifferenti al fatto che risultati simili possono derivare da percorsi storici diversi. Inoltre, la distinzione tra ad-aptation ed exaptation, per quanto impegnativa, non è irrisolvibile. Se mai trovassimo un piccolo dinosauro corridore, antenato degli uccelli e coperto di piume, sapremmo che le prime piume erano exaptations, non adattamenti, per il volo.

  1. Esempi di exaptation

L'evoluzione degli uccelli: piume ed exaptation per il volo in più sequenze. Consideriamo uno scenario comune nell'evoluzione degli uccelli (non affermiamo la sua correttezza, vogliamo soltanto esaminare la terminologia appropriata per un insieme condiviso di ipotesi). I caratteri scheletrici, incluso lo sterno, la cassa toracica e il cinto scapolare, nel fossile del tardo Giurassico Archaeopteryx, indicano che il primo uccello noto era probabilmente dotato soltanto dei più semplici rudimenti per il volo. Nonostante ciò, era quasi del tutto ricoperto di piume. Questo fatto ha suggerito a molti autori che la selezione per lo sviluppo iniziale delle piume in un antenato sia avvenuta per la funzione di isolamento termico e non per il volo (Ostrom 1974, 1979; Bakker 1975). Una così fondamentale innovazione di certo avrebbe molte piccole conseguenze incidentali, ma forse anche qualcuna di più ampia portata. Ad esempio, in nessuna linea di discendenza da questa prima specie piumata si è mai evoluta (per quanto ne sappiamo) una copertura del corpo fatta di peli. Ciò significa che la fissazione precoce nella vita dell'embrione di cambiamenti cellulari che portano da una parte ai peli, e dall'altra alle piume, ha vincolato il corso successivo dell'evoluzione nella copertura corporea (Oster 1980).

Archaeopteryx aveva già larghe penne di contorno disposte lungo gli arti, con un assetto molto simile a quello delle ali negli uccelli moderni. Ostrom (1979, p. 55) si domanda: «è possibile che l'allargamento iniziale (pre-Archaeopteryx) delle piume su quelle "mani" piccole possa aver aumentato l'area della superficie dell'arto così da renderlo più efficiente nel catturare insetti?». E conclude (1979, p. 56): «credo che le fattezze da predatore dello scheletro dell'ala di Archaeopteryx siano una forte evidenza di una funzione predatoria primaria della proto-ala in un proto-Archaeopteryx corridore». Selezioni successive per cambiamenti nelle caratteristiche scheletriche e nelle piume, e per specifiche sequenze neuromotorie, hanno portato all'evoluzione del volo.

L'airone nero africano (o garzetta nera, Egretta ardesiaca), come la maggior parte degli uccelli moderni, usa le proprie ali per volare. Ma le utilizza anche in un modo molto interessante per predare piccoli pesci: «la sua tecnica di pesca si realizza stando dritto in acque basse con le ali aperte all'infuori e in avanti, a formare un baldacchino a forma di ombrello che proietta un'ombra nell'acqua. In questo modo riesce a vedere il suo cibo» (McLachlan e Liversidge 1978, p. 39). Questo uso delle ali come mantello sembra essere un modello di comportamento caratteristico, con una base genetica. L'ala e le strutture delle penne stesse non sembrano essere state modificate se paragonate a quelle di specie strettamente imparentate, i cui individui non cacciano in questo modo (Kemp, comunicazione personale).

Vediamo, in questo scenario, un insieme sequenziale di adattamenti, ciascuno dei quali convertito in un exaptation di differente effetto che mette le basi per un successivo adattamento. Da questa interazione ha luogo un'importante trasformazione evolutiva che, probabilmente, non sarebbe avvenuta attraverso un semplice incremento dell'adattamento. Dunque, il progetto base delle piume è un adattamento per la termoregolazione e, in seguito, un exaptation per catturare insetti. Lo sviluppo di penne di contorno più grandi e la loro disposizione lungo l'arto anteriore nascono come adattamenti per catturare insetti e diventano poi exaptations per il volo. 11 comportamento di caccia in cui le ali sono usate come mantello per fare ombra sfrutta strutture che sono nate come adattamento al volo. Le modificazioni neuromotorie che governano questo comportamento, e anche la postura a esso collegata, sono adattamenti per la pesca. L'ala in sé è invece un exaptation nel suo attuale effetto di fare ombra, così come la copertura di penne è nata in contesti adattativi diversi ma ha fornito una grande flessibilità evolutiva per altri usi durante l'evoluzione degli uccelli.

Le ossa come riserva e supporto. Lo sviluppo delle ossa è stato un evento di grande importanza nell'evoluzione dei vertebrati. Senza ossa i vertebrati non avrebbero potuto più tardi occupare la terraferma. Halstead (1969) ha approfondito la questione: appurata la sua importanza successiva per il supporto corporeo nelle fasi più recenti dell'evoluzione dei vertebrati, perché le ossa si sono evolute in uno stadio così precoce nella storia dei vertebrati? Alcuni autori hanno ipotizzato che l'osso inizialmente si sia sviluppato come risposta di regolazione dell'osmosi per la vita nelle acque dolci. Altri, come Romer (1963), prefigurano invece un iniziale adattamento come «armatura» ossea per una funzione protettiva. Pautard (1961, 1962) ha fatto notare che tutti gli organismi che fanno molta attività muscolare hanno bisogno di una scorta di fosfati convenientemente accessibile. Seguendo Pautard, e calcolando il ciclo stagionale della disponibilità di fosfati in mare, Halstead (1969) suggerì il seguente scenario: i fosfati di calcio, che si depositano nella pelle dei primi vertebrati, si sono evoluti inizialmente come un adattamento per immagazzinare i fosfati necessari per l'attività metabolica. Solo in un periodo considerevolmente posteriore nell'evoluzione le ossa hanno rimpiazzato l'endoscheletro cartilagineo e hanno assunto la funzione di supporto per la quale sono oggi per lo più note.

Dunque, l'osso ha due funzioni principali nei vertebrati esistenti: supporto/protezione e riserva/omeostasi (in quanto riserva di alcuni ioni minerali, inclusi gli ioni fosfato). Gli ioni nell'osso dei vertebrati sono in equilibrio con quelli dei fluidi tissutali e del sangue e agiscono in alcune attività metaboliche (Scott e Symons 1977). Ad esempio, negli esseri umani il novanta per cento del fosforo corporeo è presente in forma inorganica nelle ossa (Duthie e Ferguson 1973).

Seguendo l'analisi di Haistead, la deposizione di fosfato nei tessuti corporei si è evoluta inizialmente come adattamento per una funzione di stoccaggio e metabolica. Il meccanismo metabolico per produrre osso in sé può quindi essere interpretato come un exaptation per la funzione di supporto. I meccanismi metabolici per il depositarsi di una quantità maggiore di fosfati e per la mineralizzazione, così come la disposizione degli elementi ossei in uno scheletro interno, sono invece adattamenti per la funzione di supporto.

L'evoluzione dell'allattamento nei mammiferi. Dickerson e Geis (1969) raccontano come Alexander Fleming nel 1922 scoprì l'enzima lisozima. Aveva il raffreddore e, per il gusto di sperimentare, aggiunse alcune gocce di muco nasale a una coltura batterica. Con sua sorpresa scoprì, dopo pochi giorni, che qualcosa nel muco stava uccidendo i batteri: l'enzima lisozima, da allora trovato nella maggior parte delle secrezioni corporee e in grandi quantità nei bianchi d'uovo. Il lisozima distrugge molti batteri per lisi o dissolvendo la struttura mocupolisaccaride della parete cellulare. La sequenza amminoacidica della a-lattalbumina, una proteina del latte dalla funzione precedentemente sconosciuta, fu poi identificata come simile a quella del lisozima, e quindi doveva essere in gioco una qualche stretta omologia.

Dickerson e Geis scrivono (1969, pp. 77-78):

La a-lattalbumina da sola non è un enzima, ma è stata ritrovata come componente di un sistema diproteico della sintetasi del lattosio presente solo nelle ghiandole mammarie durante l'allattamento [...J L'altro componente (la proteina «A») è stata scoperta nel fegato e in altri organi come enzima per la sintesi del N-acetilactosamina dal galattosio e dal NAG (N-Acetilglucosarnina). Ma la combinazione della proteina A e della a-lattalbumina sintetizza invece lo zucchero del latte, il lattosio, dal galattosio e dal glucosio.

La a-Iattalbumina è non catalitica e agisce, evidentemente, come mezzo di controllo per attivare il partner da una potenziale sintesi a un'altra [..j Pare che quando un sistema produttore di latte si è sviluppato durante l'evoluzione dei mammiferi, e quando è emerso il bisogno di un enzima che sintetizzasse un polisaccaride, se ne è trovato uno idoneo modificando in parte un enzima preesistente che taglia i polisaccaridi.

Quindi, il lisozima in tutti i vertebrati dove si ritrova è probabilmente un adattamento per la funzione di uccidere batteri. Un'ulteriore evoluzione nei mammiferi (un'alterazione di un gene duplicato, secondo Dickerson e Geis 1969) ha portato alla a-lattalbumina, un adattamento (insieme alla proteina A) per la sintesi del lattosio e per l'allattamento. Il lisozima umano, in questo scenario, è un adattamento per la lisi della parete cellulare dei batteri, e un exaptation rispetto al sistema di sintesi del lattosio.

Il «mimetismo» sessuale nelle iene. Le femmine di iena maculata (Crocuta crocuta) sono più grandi dei maschi e sono dominanti rispetto a questi. Plinio e altri scrittori dell'antichità avevano già notato un'insolita caratteristica correlata a questa nella loro biologia, definendole ermafrodite (erroneamente, come mostrò Aristotele). I genitali esterni delle femmine sono praticamente indistinguibili a vista dagli organi maschili. Il clitoride è allargato ed esteso a formare una struttura cilindrica con una sottile fenditura nella parte distale; questa non è più piccola di un pene maschile e può anche subire delle erezioni. Le grandi labbra sono ripiegate e fuse nella parte mediale a formare un falso sacco scrotale (anche se ovviamente privo di testicoli), praticamente identico per forma e posizione allo scroto maschile (Harrison 1939).

La letteratura su questo «mimetismo» sessuale è piena di speculazioni sul significato adattativo. La maggior parte di queste argomentazioni ha associato l'utilità attuale e la genesi storica, dando per scontato che la dimostrazione dell'uso moderno (l'adattamento nel senso di Bock) specifica il percorso di origine (l'adattamento per come è usato, correttamente, da Williams e da Darwin). Noi riteniamo che l'assenza di un concetto articolato di exaptation abbia inconsciamente condizionato autori precedenti nel ripetere questa errata connessione logica.

Kruuk (1972), il maggiore studioso di iene maculate, ad esempio, nota che gli organi sessuali allargati delle femmine sono utilizzati in un importante comportamento noto come la cerimonia dell'incontro. Le iene passano lunghi periodi come nomadi solitari in cerca di carogne, ma vivono anche in clan ben integrati che difendono il territorio e cacciano in gruppo. Deve quindi essersi sviluppato un meccanismo per il reintegro dei nomadi solitari nel loro clan appropriato. Nella cerimonia dell'incontro due iene si affiancano, una di fronte all'altra in direzioni opposte. Ciascuna solleva la zampa interna mostrando il pene o il clitoride eretto ai denti del suo partner. Si annusano e leccano l'un l'altro i genitali per dieci o quindici secondi, ampiamente alla base del pene o del clitoride e davanti allo scroto o al falso scroto.

Avendo scoperto un'utilità attuale per i prominenti genitali esterni femminili, Kruuk (1972, pp. 229-30) deduce che devono essersi evoluti per quello scopo:

E’ impossibile pensare ad alcun altro scopo per questa speciale caratteristica femminile se non all'uso per la cerimonia dell'incontro [...] Potrebbe quindi anche essere che un individuo con una struttura familiare ma relativamente complessa e cospicua annusata durante l'incontro abbia un vantaggio sugli altri individui; la struttura potrebbe spesso facilitare il ristabilirsi dei legami sociali tenendo i partner insieme per un periodo di incontro più lungo. Questo potrebbe essere il vantaggio selettivo che ha causato l'evoluzione della struttura genitale delle femmine e dei cuccioli.

Tuttavia, un'altra ipotesi, basata su fatti noti a qualunque studente del primo anno di biologia, reclama effettivamente il suo riconoscimento. Il pene e il clitoride sono organi omologhi, così come lo scroto e le grandi labbra. Sappiamo che alti livelli di ormoni androgeni inducono l'allargamento del clitoride e il ripiegamento e la fusione delle grandi labbra fino a farli assomigliare rispettivamente a un pene e a un sacco scrotale. In effetti, in un senso importante, essi sono dunque un pene e un sacco scrotale, date le omologie. Le neonate umane con ghiandole surrenali insolitamente allargate secernono alti livelli di androgeni e nascono con un clitoride peniforme e un sacco scrotale vuoto formato dalla fusione delle labbra.

Le femmine di iena sono più grosse dei maschi e dominanti. Dato che nei mammiferi queste caratteristiche sono spesso mediate da ormoni, dovremmo forse supporre che le femmine raggiungono il loro stato secernendo androgeni e che il clitoride peniforme e il falso sacco scrotale sono un sottoprodotto secondario automatico. Visto che si formano comunque, potrebbe conseguirne una successiva e secondaria utilità: potrebbero essere stati cooptati per aumentare il successo nelle cerimonie di incontro e quindi essere secondariamente modificati per questo nuovo ruolo. Suggeriamo che il clitoride peniforme e il falso sacco scrotale siano sorti come conseguenze non attative di alti livelli di androgeni (un adattamento primario legato all'insolito ruolo comportamentale delle femmine). Essi sono, dunque, exaptations per le cerimonie d'incontro e i loro effetti nell'aumento della fitness attraverso la cerimonia non hanno avuto alcun ruolo nel definire il percorso storico della loro origine.

Tuttavia questa ipotesi ovvia, con la sua premessa centrale facilmente verificabile, non fu esplicitamente esaminata fino al 1979 dopo, letteralmente, più di duemila anni di speculazioni in modalità adattativa (sia gli autori antichi sia i bestiari medievali cercavano di dedurre un intento divino nella creazione di bestie così bizzarre). Racey e Skinner (1979) non trovarono differenze nei livelli di androgeni nel sangue dei maschi e delle femmine di iena maculata. I feti femminili contenevano lo stesso livello alto di testosterone delle femmine adulte. Nelle altre due specie della famiglia Hyaenido.e, comunque, i livelli di androgeni nel sangue sono molto più bassi per le femmine rispetto ai maschi. Le femmine di queste specie non sono dominanti sui maschi e non sviluppano clitoridi peniformi o falsi sacchi scrotali.

Non vogliamo sostenere che la nostra ipotesi alternativa in termini di exaptation debba essere corretta. Potremmo anche far scorrere lo scenario storico in senso inverso (con una piccola forzatura nel nostro giudizio): le femmine «hanno bisogno» di genitali prominenti per la cerimonia dell'incontro; se li costruiscono attraverso la selezione di alti livelli di androgeni; una maggiore stazza e la dominanza sarebbero allora sottoprodotti secondari degli androgeni. Il punto non sta qui, poiché noi solleviamo una questione abbastanza differente: perché questa evidente alternativa non è stata considerata, specialmente da Kruuk nel suo eccellente ed esaustivo libro sulla specie? La nostra idea è che l'assenza di un concetto di exaptation esplicitamente articolato abbia limitato la gamma delle nostre ipotesi in modi sottili e incontrollati.

Gli usi del DNA ripetitivo. Per alcuni anni dopo che Watson e Crick ebbero chiarito la struttura del DNA, molti evoluzionisti sperarono che l'architettura del materiale genetico potesse ben corrispondere a tutti i loro presupposti sui processi evolutivi. Si pensò che l'ordine lineare dei nucleotidi potesse corrispondere a quello delle perline in una collana come nella genetica classica: un gene, un enzima; una sostituzione nucleotidica, una minima alterazione pronta per essere scrutinata dalla selezione naturale. Ora, quando non sono passati nemmeno vent'anni, ci troviamo dinanzi a geni in pezzi, a complesse gerarchie di regolazione e, soprattutto, a una grande quantità di DNA ripetitivo. Il DNA altamente ripetitivo, o satellite, può esistere in milioni di copie; il DNA mediamente ripetitivo, con le sue decine di migliaia di copie, forma circa un quarto del genoma sia in Drosophila che in Homo. A che cosa serve tutto questo DNA ripetitivo (se mai serve a qualcosa)? Come ci è arrivato fin lì?

Un'indagine sulla letteratura precedente (Doolittle e Sapienza 1980; Gould 1981) rivela l'esistenza di due tradizioni argomentative prevalenti, entrambe basate sull'assunzione selezionista secondo cui il DNA ripetitivo deve pur servire a qualcosa se ne esiste così tanto. Una tradizione (vedi Britten e Davidson 1971) sostiene che le copie ripetute sono adattamenti convenzionali, selezionati per un ruolo immediato nella regolazione (unendo parti del genoma precedentemente isolate in nuove e favorevoli combinazioni, per esempio, quando copie ripetute si disperdono su diversi cromosomi). Noi non dubitiamo che l'adattamento convenzionale spieghi il preservarsi di tanto DNA ripetuto in questo modo.

Molti evoluzionisti molecolari, tuttavia, ora sospettano fortemente che l'adattamento diretto non possa spiegare l'esistenza di tutto il DNA ripetitivo: semplicemente ce n'è troppo. La seconda tradizione, allora, sostiene che il DNA ripetitivo deve esistere perché l'evoluzione ne ha disperatamente bisogno per un futuro flessibile: l'argomento preferito è che le copie «disoccupate» e ridondanti sono libere di cambiare poiché il loro prodotto necessario viene ancora generato dalla copia originale (vedi Cohen 1976; Lewin 1975; e Kleckner 1977, ciascuno dei quali segue anche la prima tradizione e dibatte entrambi i lati della questione). Mentre non dubitiamo che tali usi futuri siano conseguenze di vitale importanza del DNA ripetuto, essi semplicemente non possono essere la causa della sua esistenza, a meno che non torniamo a certe visioni teistiche che permettono il controllo di eventi presenti per bisogni futuri.

Questa seconda tradizione esprime un'intuizione corretta in un modo palesemente priva di senso (nel suo significato non peggiorativo). Il pensiero che manca qui, e che fornisce il senso, è un ben articolato concetto di exaptation. I difensori della seconda tradizione capiscono quanto sia importante il DNA ripetitivo per l'evoluzione, ma conoscono solo il linguaggio convenzionale dell'adattamento per esprimere questa convinzione. Ma siccome l'utilità è una condizione futura (quando la copia ridondante assume una diversa funzione o subisce un adattamento secondario per un nuovo ruolo), si sviluppa un'impasse espressiva. Per rompere questa impasse, suggeriamo che le copie ripetute siano considerate caratteri non attativi, disponibili per essere poi cooptati, ma non possiedano alcuna funzione diretta al momento. Una volta cooptate saranno exaptations nel loro nuovo ruolo (con modificazioni adattative secondarie se alterate).

Qual è dunque la fonte di questi exaptations?

Secondo la prima tradizione essi sorgono come veri adattamenti e poi assumono la loro differente funzione. La seconda tradizione, abbiamo mostrato, deve essere abbandonata. Una terza possibilità è stata proposta di recente (o, piuttosto, meglio codificata in seguito a precedenti indizi): forse le copie ripetute possono originarsi senza che vi sia alcuna ragione adattativa che riguardi il livello darwiniano tradizionale di vantaggio fenotipico (Orgel e Crick 1980; Doolittie e Sapienza 1980). Alcuni elementi del DNA sono trasponibili [la transposizione è un processo di ricombinazione del DNA. Riguarda solitamente un breve segmento di DNA con capacità di spostarsi da una posizione a un'altra sul cromosoma]; se questi possono duplicarsi e spostarsi, che cosa mai fermerà il loro accumularsi finché restano invisibili al fenotipo? Se poi diventano così numerosi da cominciare a esercitare un vincolo energetico sul fenotipo, la selezione naturale li eliminerà. Questo «DNA egoista» potrebbe condurre il proprio gioco darwiniano a livello genico, ma rappresenterebbe un autentico non-aptation a livello del fenotipo.

Quindi, il DNA ripetuto può spesso generarsi come non-aptation. Una simile affermazione non sminuisce in alcun modo la sua vitale importanza per futuri evolutivi. Una volta usate con grande vantaggio in quel futuro, queste copie ripetute diventano exaptations.

  1. Il significato dell'exaptation

Una soluzione al problema del pre-adattamento. Il concetto di pre-adattamento ha sempre rappresentato un problema per gli evoluzionisti. Ammettiamo la sua necessità come unica soluzione darwiniana alla vecchia sfida di Mivart (1871) secondo cui «gli stadi incipienti di strutture utili» non potrebbero funzionare come le forme complete (a che cosa serve il cinque per cento di un'ala?). A nostro avviso, gli stadi incipienti devono aver avuto un'altra funzione (la termoregolazione per le piume, ad esempio). Nonostante ciò, tradizionalmente ci scusiamo per la parola «pre-adattamen-

to» nei nostri manuali e faticosamente facciamo notare ai nostri studenti che non intendiamo implicare una predeterminazione e che la parola è in qualche modo sbagliata (sebbene il concetto sia affidabile). Frazzetta (1975, p. 212), ad esempio, scrive: «esiste ancora un'associazione tra la parola "pre-adattamento" e un'equivoca teleologia e riesco spesso a provocare la nausea ad alcuni biologi evoluzionisti quando uso questa parola senza immediatamente specificare cosa intendo con essa».

La parola in effetti è sbagliata e il nostro perdurante e intuitivo disagio è giustificato (Lambert, inedito). Se infatti dividiamo la classe di tutte le caratteristiche che contribuiscono alla fitness in adattamenti ed exaptations, e se gli adattamenti sono costruiti (e gli exaptations cooptati) per il loro uso attuale, allora le caratteristiche che funzionano in un modo non possono essere pre-ad-attamenti per un utilizzo successivo differente: il termine non ha alcun senso.

Il riconoscimento dell'exaptation risolve nitidamente il problema, poiché quello che ora noi scorrettamente chiamiamo «pre-adattamento» è solo una categoria di exaptation che consideriamo ante facto. Se le piume si sono evolute per la termoregolazione, esse diventano exaptations per il volo una volta che gli uccelli prendono a volare. Se, comunque, con il senno di poi della storia, scegliamo di vedere le piume quando ancora rivestono i dinosauri corridori antenati degli uccelli, allora esse sono soltanto potenziali exaptations per il volo, o pre-aptations (cioè atti, consoni, prima della loro effettiva cooptazione). Il termine «pre-adattamento» dovrebbe essere abbandonato in favore di «pre-aptation». I pre-aptations sono exaptations potenziali ma non realizzati. Essi risolvono l'importante sfida di Mivart a Darwin.

Exaptations primari e adattamenti secondari. Le piume, nel loro progetto di base, sono exaptations per il volo, ma una volta che questo nuovo effetto si è aggiunto alla funzione di termoregolazione come importante fattore di fitness, le piume sono sottoposte a una serie di adattamenti secondari (alcune volte chiamati post-adattamenti) per aumentare la loro utilità nel volo. L'ordine e la disposizione delle ossa dell'arto dei tetrapodi sono exaptations per camminare sulla terraferma; molte modificazioni di forma e di muscolatura sono adattamenti secondari per la vita terrestre.

La storia evolutiva di ogni caratteristica complessa comprenderà probabilmente una miscela sequenziale di adattamenti, exaptations primari e adattamenti secondari. Siccome ogni carattere è plesiomorfo a un livello tassonomico e apomorfo a un altro[un carattere è detto «plesiomorfo» quando è di tipo ancestrale, mentre è «apomorfo» quando è modificato rispetto alla sua condizione precedente] (ad esempio, la torsione nella classe dei gasteropodi e nel phylum dei molluschi), non disturba il fatto che caratteri complessi siano un mix di exaptations e di adattamenti. Ogni struttura cooptata (un exaptation) probabilmente non comparirà già perfezionata per il suo nuovo effetto. Essa allora svilupperà adattamenti secondari per il nuovo ruolo. L'exaptation primario e l'adattamento secondario possono, in linea di principio, essere distinti.

Le sorgenti di exaptation. I caratteri cooptati come exaptations hanno due possibili stadi pregressi. In precedenza potevano essere adattamenti per un'altra funzione, oppure strutture non-attative. I primi sono da molto tempo stati riconosciuti come importanti, mentre le seconde sottostimate. Tuttavia, l'enorme pool di non-aptations deve essere la sorgente e la riserva della maggior parte della flessibilità evolutiva. Dobbiamo riconoscere il ruolo centrale della «cooptabilità per la fitness» come significato evolutivo primario dei non-aptations che vediamo ovunque negli organismi. In questo senso, al suo livello del fenotipo, questo pool di non-aptations è un analogo della mutazione: una fonte di materia prima per ulteriore selezione.

Sia gli adattamenti sia i non-aptations, mentre potrebbero avere cause prossime non casuali, possono essere considerati come prodotti casuali rispetto ad ogni potenziale cooptazione da parte di ulteriori sistemi di pressioni selettive. Per dirla in modo più semplice: tutti gli exaptations si originano casualmente rispetto ai loro effetti. Insieme, queste due classi di caratteri, gli adattamenti e i non-aptations, forniscono un enorme serbatoio di variabilità, a un livello più alto delle mutazioni, per la cooptazione sotto forma di exaptations. (Lambert ne ha discusso soltanto in relazione ai pre-adattamenti - pre-aptations nella nostra terminologia. Egli ha esplorato le implicazioni evolutive della nozione secondo la quale per ogni funzione, direttamente risultante dalla selezione naturale in ogni momento, ci possono essere effetti multipli).

Se tutti gli exaptations cominciassero come adattamenti per un'altra funzione nei predecessori, non avremmo scritto questo saggio. In quel caso il concetto sarebbe stato interamente coperto dal principio del «pre-adattamento» darwiniano e avremmo avuto soltanto bisogno di puntualizzare che «preaptation» è un termine migliore e che l'etimologia richiede un nome diverso per i pre-aptations dopo che si sono instaurati. Il concetto che manca è quello degli exaptations che ebbero inizio come non-aptations. Non sono coperti dal principio di pre-aptation poiché non rappresentavano degli adattamenti nei predecessori. Non hanno davvero un nome e i concetti senza nome non possono essere adeguatamente incorporati nel pensiero. Le grandi confusioni fra genesi storica e utilità attuale coinvolgono primariamente caratteri utili che non erano adattamenti negli antenati - come nei nostri esempi del «mimetismo» sessuale nelle iene e degli usi del DNA mediamente ripetitivo.

L'ironia delle nostra terminologia per il non-aptation. Sembra strano definire una cosa importante dicendo che cosa non è. Gli studenti ai primi anni di geologia sono giustamente offesi dal fatto che ci riferiamo ai cinque sesti della storia della Terra come al «pre-Cambriano». Caratteri che ora non contribuiscono alla fitness sono solitamente chiamati non-adattamenti (nella nostra terminologia sono i non-aptations). Questa curiosa definizione in negativo riesce soltanto a registrare una sensazione secondo cui il soggetto in questione è «meno» della cosa che esso non è. Noi riteniamo che questa sensazione sia sbagliata e che le dimensioni del serbatoio dei non-aptations siano un fenomeno centrale nell'evoluzione. Il termine «non adattativo» è nient'altro che un'ulteriore indicazione di come vi siano in azione precedenti, e a nostro modo di vedere false, convinzioni circa la supremazia dell'adattamento. Il peso della nomenclatura è già abbastanza grande in questo saggio e non vogliamo proporre un nuovo termine per caratteri senza una fitness attuale. Ma vorremmo sottolinearne l'ironia.

Processo e stato di fatto. I biologi evoluzionisti usano il termine adattamento per descrivere sia uno stato di fatto attuale (come discusso in questo saggio) sia il processo che conduce a esso. Questa dualità non presenta alcun problema nei casi di vero adattamento, dove un processo di selezione produce direttamente lo stato della fitness. Gli exaptations, dall'altra parte, non sono strutturati per il loro uso attuale e non riflettono un processo apposito oltre alla cooptazione (tab. I); sono stati costruiti nel passato o come sottoprodotto non-attativo o come adattamenti per ruoli diversi.

Forse dovremmo iniziare la nostra analisi del processo con un approccio descrittivo e focalizzarci semplicemente sull'insieme di caratteri che aumentano la loro abbondanza relativa o assoluta all'interno delle popolazioni, delle specie o dei cladi [un clade è un gruppo tassonomico originatosi da un singolo antenato comune e comprende tutti i discendenti di quell'antenato] attraverso gli unici processi generali che possono condurre a una prolificazione o al produrre più forme: la ramificazione differenziale o la persistenza (vedi Arnold e Fristrup 1981). Questo processo descrittivo di diversificazione ha due cause di base. In primo luogo, i caratteri possono aumentare la loro rappresentazione attivamente contribuendo alla ramificazione o alla persistenza, o come adattamenti evoluti per selezione per la loro attuale funzione o come exaptations evolutisi secondo un'altra strada e poi cooptati per il loro effetto utile. In secondo luogo, e in particolare al livello più alto delle specie all'interno dei dadi, i caratteri possono aumentare la loro rappresentazione per un mucchio di ragioni non-attative, comprese la correlazione causale con caratteri che contribuiscono alla fitness e la correlazione fortuita che si ritrova con frequenze così sorprendentemente alte nelle simulazioni di Raup e Gould Questi caratteri non-attativi costituiscono un serbatoio enorme per exaptations potenziali.

  1. Conclusioni

Per decidere una volta per tutte se abbiamo scritto un banale saggio sulla terminologia oppure fatto una dichiarazione potenzialmente interessante sull'evoluzione dobbiamo concentrarci sull'importanza dell'exaptation, sia per frequenza che per ruolo. Crediamo che il fallimento degli evoluzionisti nel codificare tale concetto attesti una certa credenza indistinta circa la sua relativa insignificanza.

Sospettiamo, ciononostante, che i temi del non-aptation e della cooptabilità siano di suprema importanza nell'evoluzione. Quando la cooptabilità è stata riconosciuta - nel principio del «pre-adattamento» - ci siamo focalizzati sul cambiamento di ruolo per caratteri precedentemente adatti per qualcos'altro, non sul potenziale di exaptation presente in strutture non-attatjve. La flessibilità dell'evoluzione risiede nella gamma di materia prima sottoposta ai processi di selezione. Tutti riconosciamo questo quando discutiamo delle fonti convenzionali di variazione genetica - mutazione, ricombinazione e così via - sottoposte alla selezione naturale dal livello genetico in giù. Ma non abbiamo adeguatamente apprezzato il fatto che le caratteristiche stesse del fenotipo (con le loro basi genetiche, di solito, complesse) possono anche agire come fonte di variazione per aumentare e restringere il futuro cambiamento evolutivo. L'importante affermazione del teorema fondamentale di Fisher considera solo la variabilità genetica in relazione alla fitness: «il tasso di aumento della fitness di ogni organismo in ciascun momento è uguale alla sua variabilità genetica in fitness in quel momento» (Fisher 1930). Ma in modo analogo dovremmo considerare anche la flessibilità dei caratteri fenotipici come un eccitatore primario o come un depressore del futuro cambiamento evolutivo. La flessibilità risiede nel serbatoio di caratteri disponibili per la cooptazione: sia come adattamenti a qualcos'altro che ha cessato di essere importante in nuovi regimi selettivi; sia come adattamenti la cui funzione originale persiste, ma che potrebbero essere cooptati per un ruolo aggiuntivo; sia come non-aptations sempre potenzialmente disponibili. I sentieri dell'evoluzione - sia i vincoli sia le opportunità - devono essere ampiamente calibrati sulla dimensione e sulla natura di questo serbatoio di potenziali exaptations. Le possibilità exattative definiscono il contributo «interno» che gli organismi offrono alloro stesso futuro evolutivo.

Alfred Russe! Wallace, un adattazionista di stretta osservanza, se mai ve ne è stato uno, negò nondimeno che la selezione naturale avesse costruito il cervello umano. I «selvaggi» (i primitivi viventi), sosteneva, hanno un equipaggiamento mentale equivalente al nostro, ma mantengono soltanto una rudimentale e primitiva cultura: in altri termini, essi non utilizzano la maggior parte delle loro capacità mentali e la selezione naturale può solo costruire per un uso immediato. Darwin, che non era un adattazionista di stretta osservanza, era perplesso e turbato. Riconobbe la fallacia nascosta nell'argomentazione di Wallace: il cervello, sebbene senza dubbio costruito dalla selezione per un complesso insieme di funzioni, in virtù della sua intricata struttura può lavorare in un illimitato numero di modi abbastanza svincolati dalla pressione selettiva originaria che l'ha costruito. Molti di questi modi possono diventare importanti, se non indispensabili, per la futura sopravvivenza in contesti sociali successivi (come il tè pomeridiano per i contemporanei di Wallace). Ma l'utilità attuale non porta con sé automaticamente implicazioni sull'origine storica. La maggior parte di quello che il cervello fa adesso per migliorare la nostra sopravvivenza risiede nel dominio dell'exaptation e non ci permette di fare ipotesi sui percorsi selettivi della storia umana. Quanta parte della letteratura evoluzionistica sul comportamento umano crollerebbe se incorporassimo il principio dell'exaptation nel cuore del nostro pensiero evoluzionistico? Questo collasso sarebbe istruttivo perché amplierebbe di molto la nostra gamma di ipotesi e focalizzerebbe l'attenzione sulla funzione attuale e sullo sviluppo (tutte proposizioni controllabili) invece di condurci a inverificabili fantasticherie sul fratricidio primitivo nella savana africana o sui mammut spinti sull'orlo di grandi lastre di ghiaccio - un valido soggetto, ma meglio se trattato in romanzi che possono anche essere scientificamente illuminanti (Kurtén 1980).

Consideriamo ancora il ruolo apparentemente cruciale che il DNA ripetuto ha giocato nell'evoluzione della complessità fenotipica negli organismi. Come si chiede Ohno nel suo originale libro (1970), se ciascun gene codifica per un enzima indispensabile (o svolge una qualche funzione necessaria), come può l'evoluzione trascendere il semplice bricolage su linee stabilite e raggiungere la flessibilità necessaria per costruire nuovi tipi di organizzazione? Ohno sostiene che questa flessibilità deve sorgere come risultato accidentale della duplicazione genica, con la sua produzione di materiale genetico ridondante: «se l'evoluzione fosse stata interamente dipendente dalla selezione naturale, da un batterio sarebbero emerse soltanto numerose forme di batteri... Solo il cistrone [sequenza di basi nucleotidiche compresa tra una tripletta di inizio e una di fine] che divenne ridondante fu in grado di sfuggire all'inesorabile pressione della selezione naturale e così sfuggendole accumulò mutazioni a cui precedentemente era impedito di emergere» (Ohno 1970, prefazione).

Nel paragrafo 5 , abbiamo sostenuto che molto di questo DNA ripetitivo può sorgere per ragioni non-attative a livello del fenotipo individuale (come nell'ipotesi del «DNA egoista»). Le copie ripetute sono quindi exaptations, cooptate per fitness e secondariamente adattate per nuovi ruoli. Sono inoltre exaptations nella interessante categoria delle strutture che sorsero come non-aptations, quando si applica l'ipotesi del «DNA egoista».

Quindi, i due fenomeni evolutivi che potrebbero essere stati i più decisivi per lo sviluppo di una forma di complessità dotata di coscienza sui nostro pianeta (i lettori perdoneranno una punta di antropocentrismo per un momento) - cioè il processo iniziale di creare ridondanza genetica e la successiva miriade di conseguenze ineludibili del costruire uno strumento di calcolo tanto complesso quanto il cervello umano - potrebbero essere entrambi esempi di exaptations cominciati come non-aptations, cioè del concetto che finora mancava nella nostra terminologia evoluzionistica. Con esempi come questi, l'argomento non può certo essere considerato poco rilevante!

In breve, la codifica dell'exaptation non solo identifica un difetto comune in molti ragionamenti evoluzionistici - l'inferenza automatica della genesi storica dall'utilità attuale - ma focalizza anche l'attenzione sul ruolo negato, ma fondamentale, dei caratteri non-attativi sia nel vincolare sia nel facilitare il percorso dell'evoluzione. Questa argomentazione non è affatto anti-selezionista e vogliamo intendere questo saggio come un contributo al darwinismo, non come una schermaglia in una faida distruttiva. Il tema principale, dopo tutto, è la cooptabilità per la sopravvivenza e per la riproduzione. Gli exaptations sono componenti vitali del successo di ogni organismo.