Al problema dell'origine della trasformazione degli organismi la filosofia ha rivolto la sua attenzione fin dai primissimi esordi. Poche questioni erano altrettanto idonee a destare la "meraviglia" filosofica come questa. I primi tentativi d'una risposta teorica si trovano nella filosofia naturale degli ionici. Per curiosi e ingenui che essi appaiano, più d'uno storiografo non ha esitato ad attribuire già ad Anassimandro «un qualche presagio della moderna teoria dell'evoluzione». Aristotele supera di gran lunga questi esordi primitivi. I problemi connessi alla storia dell'evoluzione, egli li pone su di un più sicuro fondamento empirico, e al tempo stesso li tratta nello spirito veramente universale della sua filosofia. Con il suo De generatione animalium egli diventa il fondatore dell'embriologia comparata. Molti dei fatti a cui egli accenna in tale opera sono stati riscoperti e riconfermati solo nel secolo scorso. In pochi settori dell'indagine scientifica ha fatto una prova così splendida come in questo quel connubio di acutissimo talento d'osservazione e di pensiero speculativo che caratterizza Aristotele. In questo campo, quindi, la sua autorità restò inconcussa anche quando il Rinascimento edificò una nuova concezione della natura, che si pose in nettissima antitesi alla fisica aristotelico-scolastica.
Nella sua polemica contro questa fisica Cartesio si richiamò a Harvey, elogiandolo per essere stato il primo a rompere il ghiaccio con la sua teoria della circolazione sanguigna e avere sgombrato la via alla visione meccanica della natura. Ma Harvey è ancora affatto aristotelico; sembra, anzi, che la dottrina aristotelica, a cui egli è debitore del suo metodo comparativo e delle sue concezioni ontogenetiche, sia stato uno dei fattori che l'hanno condotto alla scoperta della circolazione del sangue. Nel prospetto che egli dà dello sviluppo dell'embriologia nel secolo XVII nella sua storia delle teorie biologiche, il Radi definisce lo Harvey come il «migliore alunno d'Aristotele», e gli avversari di Harvey poterono rimproverare a costui una dottrina interamente rivestita d'una «corazza aristotelica».
Nella seconda metà del Seicento la scoperta degli spermatozoi rappresentò un decisivo progresso empirico, ma diede altresì occasione a speculazioni stravaganti. Negli Arcana naturae deferta [I misteri della natura svelati'] del Leeuwenhoek gli spermatozoi sono disegnati come omini dotati di testa, tronco, mani e piedi. Ma i miracoli della "microbiologia", resi possibili dal microscopio, non solo esercitavano l'attrattiva più forte sulla fantasia, ma fecondarono altresì il rigoroso pensiero sistematico della filosofia. Per giustificare il suo concetto di monade Leibniz si compiacque di richiamarsi alle recenti scoperte di Malpigbi, Swammerdam e Leeuwenhoek.
Il Seicento si cullava nella speranza che, grazie all'uso del cannocchiale e del microscopio, la conoscenza umana non solo potesse salire su di un nuovo grado, ma che si potessero altresì colmare definitivamente i due "abissi" in mezzo ai quali l'uomo si vedeva posto, quello dell'infinitamente grande e quello dell'infinitamente piccolo. «È indiscutibile», scrive Leibniz in certi appunti sui fondamenti del diritto naturale, «che nel nostro tempo il potere degli uomini è aumentato infinitamente. Il cielo stesso ci si è fatto più vicino, e il nostro occhio si è acuito per penetrare nell'interno delle cose, la figura del mondo si è centuplicata; vediamo dinanzi a noi nuovi mondi, nuove specie, che ci meravigliano ora per la loro grandezza ora per la loro piccolezza.
Nella stessa biologia fu solo con la Theoria generationis (1759) di Caspar Friedrich Wolff che riuscì ad imporsi quella teoria dell'epigenesi che si palesò ben presto scientificamente superiore alle teorie precedenti della preformazione e dell' "incapsulamento". A questo proposito le idee di Leibniz continuano ad esercitare un loro influsso; ma vengono sviluppate ulteriormente in un senso opposto all'indirizzo che lo stesso Leibniz aveva seguito nel suo pensiero biologico. «Mentre gli evoluzionisti», scrive il Ràdl, «presero da Leibniz solo l'idea superficiale secondo cui l'organismo si sviluppa da una forma preesistente per mera crescita, Needham e più tardi Wolff colsero più profondamente il concetto della monade, che si sviluppa per una forza ad essa inerente ... Le fonti storiche della teoria epigenetica di C. F. Wolff sono in primo luogo Leibniz ... col suo concetto di monade, in secondo Needham, che tentò d'applicare questa idea allo sviluppo embrionale».
Goethe aderì entusiasticamente alla dottrina del Wolff e credette di vedere in questi un alleato nelle sue proprie battaglie. Facendolo, però, non dimenticò di tracciare il confine metodologico fra l'indirizzo di ricerca empirica del Wolff e la sua propria morfologia "idealistica". A questo proposito Goethe coniò un'espressione che caratterizza e illumina compiutamente il suo proprio modo di considerare la natura. «Wolff», egli scrive, «pone come massima fondamentale di tutte le sue indagini che non si possa accettare, ammettere né affermare nulla che non si sia visto con i propri occhi e che non si sia in grado di mostrare in qualsiasi momento ad altri. Per questo egli si studia continuamente di penetrare, con indagini microscopiche, fino agli esordi della vita nel suo formarsi, ripercorrendo così il cammino degli embrioni organici, dal loro primissimo apparire fino al loro completo sviluppo. Per eccellente che sia questo metodo, grazie al quale egli ha dato tali e tanti contributi, l'eminente uomo non ha pensato che vi è differenza fra vedere e vedere, che gli occhi della mente devono funzionare in unione continua e sempre viva con quelli del corpo, poiché altrimenti si corre il pericolo di vedere senza vedere nulla».
Le indagini del Wolff vertevano sostanzialmente sui problemi dell'ontogenesi; ma, qualora se ne accettavano i risultati, non potevano non condurre oltre, cioè alle questioni filogenetiche. Le due sfere di problemi, ora, si fanno sempre più vicine fra di loro, e comincia a stabilirsi fra le due un vincolo strettissimo. Il principio secondo cui l'ontogenesi non è nient'altro, in fondo, che una ripetizione della filogenesi, fu enunciato sostanzialmente in epoca assai remota. Il Meckel, che per primo lo sostenne, era un seguace del Wolff, alla cui teoria aveva spianato la strada traducendo in tedesco una trattazione di carattere embriologico scritta da colui in latino. Già nel 1821 il Meckel parlò di un'"equazione fra lo sviluppo dell'embrione e quello della serie animale", ed enunciò il principio secondo cui nel suo sviluppo l'animale superiore deve ripercorrere le forme più semplici che lo precedono nella serie animale di cui fa parte.
In questa forma, tuttavia, la legge biogenetica fondamentale non ebbe immediato accesso nella scienza del secolo scorso. Il vero fondatore dell'embriologia moderna, Karl Ernst von Baer, infatti, non accettò il principio in questa enunciazione, ma lo combatté esplicitamente. Nella sua opera Sulla storia della evoluzione degli animali, che raccoglie indagini basilari sulla origine dell'ovulo nei mammiferi e nell'uomo, egli riconosce bensì una successione ascendente degli organismi, ma respinge l'idea che nel suo sviluppo l'organismo più elevato debba passare di fatto attraverso tutte le fasi che l'avevano preceduto. Egli si basa sulla formulazione aristotelica del concetto di evoluzione, secondo cui questa è una differenziazione progressiva, un procedere dall'"universale" al "particolare". Nell'embrione ciò che vi è di comune nel gruppo animale a cui l'embrione medesimo appartiene, si forma prima di ciò che è invece peculiare: noi vediamo originarsi prima le proprietà del tipo, poi quelle della classe, dell'ordine, della famiglia, del genere, della specie.
Solo in seguito, allorché si profilò la problematica darwinistica, da questa forma basilare ideale d'un progetto "tipico" si ebbe la forma primigenia reale della storia dell'evoluzione, ed ebbe origine così la tesi dello Haeckel, secondo cui l'ontogenesi è una ricapitolazione abbreviata e incompleta della filogenesi. Animali diversi possono ovviamente sembrar simili fra di loro attraverso lo sviluppo, ed è tanto più difficile distinguere gli embrioni di varie specie quanto più essi sono giovani. Ma la somiglianza non è identità. Le differenze messe in risalto dalla teoria cuvieriana dei tipi non sono cancellate dallo sviluppo. Per proprietà essenziali d'un gruppo animale non si presentano mai delle forme evolute d'un altro gruppo: la respirazione branchiale, ad es., che fa d'un pesce un pesce, non si riscontra in nessuno stadio embrionale dei mammiferi o degli uccelli.
Il dibattito era pervenuto a questo punto allorché vi intervenne uno scienziato che vi era stato condotto non, come il Meckel, dallo studio dell'anatomia o, come il Baer, da quello della zoologia, ma la cui aspirazione fondamentale consisteva nel porre su nuove basi scientifiche la botanica. Come pensatore nell'ambito degli scienziati Mathias Schleiden è un fenomeno a sé stante; e già nella sua personalità e per la vita da lui condotta egli è fuori della linea tradizionale. Anche la sua opera fu oggetto di giudizi e valutazioni contrastanti. Che la sua scoperta dell'importanza del nucleo della cellula e l'aver egli introdotto la citologia nella botanica siano stati di rilevanza fondamentale, è incontestato, per quanto il concetto schleideniano di cellula non corrisponda completamente alla concezione moderna. Ma è pressoché certo che non meno notevoli e non meno profonde e direi quasi sconvolgenti furono le idee che lo Schleiden aveva a proposito di metodologia della botanica. Le si trova esposte esaurientemente nella grande introduzione metodologica che precede i Fondamenti della botanica scientifica (1842).
Nella prefazione a quest'opera egli dichiara d'attribuire il massimo valore alle indicazioni fornite nella introduzione predetta. Prima, infatti, di perseguire una determinata meta di ricerca, si deve avere chiara consapevolezza della via che si vuole seguire. Per una via sbagliata non si potrà mai trovare il vero; giacché per l'attività della nostra mente esiste un certo complesso di regole naturali, a cui non ci è lecito esser infedeli senza cadere in errori irreparabili. Non c'è che da leggere queste poche frasi dell'introduzione all'opera dello Schleiden per esser certi che vi ha la parola un discepolo di Kant. Di fatto egli afferma d'aderire con tutta l'anima alla filosofia di quest'ultimo, quale gli era stata mediata, particolarmente, dal Fries. Nel nome di tale filosofia egli eleva la più dura protesta contro la filosofia della natura e contro la dialettica. Non ci si dovrebbe abbandonare ai "puerili sogni fantastici" di Schelling o, insieme a Hegel, ad un'arrogante presunzione. Quanto è stato ammirato come profondità filosofica da discepoli distratti e superficiali, è privo di ogni reale contenuto scientifico, poiché, per esser certi d'un contenuto siffatto, sarebbe necessario anzitutto sapere da quale fonte conoscitiva proviene un asserto e se da quella lo si sia desunto nel modo conveniente. Ma in questa deduzione la "scuola wolffiano-kantiana" è, sempre a detta dello Schleiden, infinitamente superiore alla nostra: alla scienza non resterebbe nient'altro da fare che ritornare a questo punto d'avvio.
È evidente che ciò a cui aspira lo Schleiden non è nient'altro che enunciare una teoria della scienza e una critica della scienza. Il valore di questa critica risiede sostanzialmente nel suo non accontentarsi di principi generali e astratti e nel voler invece trasferire immediatamente nella realtà le acquisizioni raggiunte. Anche l'influenza esercitata storicamente dallo Schleiden sembra andare, in sostanza, in questa direzione. «Non per quello che egli ha fatto e dato come scienziato», scrive di lui Julius Sachs nella Geschichte der Botanik [Storia della botanica'], «bensì per quello che egli esigeva dalla scienza, per la meta che le poneva dinanzi e che faceva valere unicamente nella grandiosità delle sue opere rispetto alla meschinità dei manuali, egli si acquistò un gran merito. Spianò la via a coloro che potevano e volevano fare qualcosa di veramente grande ... D'allora in poi chi voleva metter bocca, doveva far appello a tutte le sue forze, poiché sarebbe stato misurato con un metro diverso da quello adoprato fino allora».
Questa misura diversa stava nel fatto che lo Schleiden fu il primo a prospettare come meta fondamentale e precipua della botanica la ricerca causale del mondo vegetale. Tutto il resto viene dopo questo obiettivo; e non può avere altro valore che quello di un'attività puramente preparatoria. In modo radicale, diremmo quasi estremistico, lo Schleiden esige che la "biotassi" si trasformi in una pura "biofisica". Solo per questa via, a suo parere, la biologia può trasformarsi in una vera e propria scienza, in una conoscenza che detenga un valore e un'importanza oggettiva non inferiori a quelli della fisica e della chimica. La "scienza", infatti, non è mai una mera collezione di fatti, bensì un'elaborazione e una trattazione teorica dei medesimi.
Tutto quello che è puramente classificatorio, anzi anche quello che è puramente descrittivo o storico, non merita l'appellativo di "scienza". «Se la botanica non può rivendicare il titolo di scienza teorica, non è nient'altro che il trastullo d'una curiosità oziosa». È evidente che nell'enunciare questo ideale lo Schleiden si avvicina di molto al principio kantiano, secondo cui in ogni conoscenza naturale è dato riscontrare tanto di scienza "autentica" quanto vi si riscontra di matematica. La botanica va trattata come un ramo della fisica, la fisica a sua volta dev'essere ricondotta a ragioni esplicative determinabili in modo puramente matematico. Anche la metodica della botanica, quindi, non può esser altra, in linea di principio, che quella della fisica: osservazione ed esperimento, induzione e ipotesi devono costituire, qui come colà, lo strumento precipuo. La mera classificazione non conta: essa non è che la "semplice manovalanza" della scienza genuina e autentica. La si può e la si deve far valere come periodo transitorio; ma considerarla come qualcosa di definitivo significherebbe avere un' "idea avvilente della scienza". Lo stesso Linneo non l'ha mai avuta. I suoi discepoli e seguaci hanno misconosciuto il vero spirito di lui allorché hanno preteso di mantenere la botanica allo stadio di semplice sistematica. Il campo dell'indagine si distende ancora completamente vergine davanti a noi fintantoché non riusciamo a ricondurre i fenomeni a leggi fisiche e chimiche.
Che queste leggi, però, non possono avere la stessa forma astratto-matematica di quelle della fisica teorica, lo Schleiden è affatto consapevole. Egli intende dar fondamento alla botanica come scienza induttiva, e non già deduttiva. Questo intento costituisce a tal punto la parte saliente del suo pensiero che egli finirà col volerlo esprimere anche nel titolo della sua opera:La botanica come scienza induttiva (è il titolo che essa reca dalla seconda edizione in poi). Sennonché, secondo Kant, che lo Schleiden segue anche a questo riguardo, le scienze deduttive non si distinguono dalle induttive per il fatto che poggiano su principi generali, mentre le seconde si contentano di esporre dati di fatto. La distinzione sta piuttosto nel carattere di quei principi. Nel primo caso si tratta di "principi sintetici", dotati di valore "costitutivo"; nel secondo, si tratta di "massime". E qui non può non porsi l'interrogativo: quale massima è quella che dovremo porre alla base della botanica per conferirle il sicuro andamento d'una scienza? La risposta che lo Schleiden dà a questa domanda è che solo la storia dell' evoluzione è capace di tanto. La signifìcanza e la natura di un organismo possono essere riconosciuti solo in base alla storia della sua evoluzione, ovvero al come un semplice germe si è sviluppato in un essere composto di tante parti. Neppure una qualsiasi classificazione delle piante è possibile grazie alla mera comparazione di singole condizioni individuali; lo sarà solo grazie alla storia completa della loro evoluzione. Se non si è in possesso di questo filo conduttore, si giunge soltanto a un «inconsistente brancolare, cercando d'indovinare qua e là senza cognizione di causa». Una visione del mondo vegetale che sia conforme alla natura, la si potrà acquisire solo considerando quel mondo medesimo come una successione ininterrotta di forme e di stati che si sviluppano gli uni dagli altri.
In questo senso la storia dell'evoluzione viene presentata come l'«autentica massima euristica della botanica». Ci se n'è meravigliati talvolta, e si è considerata la formulazione come un'inutile espressione iperbolica della tesi fondamentale dello Schleiden. Il Sachs osserva che si può considerare superfluo che lo Schleiden proponga la storia dell'evoluzione come una "massima" invece di far vedere com'è proprio nell'indagine induttiva che essa si palesa tutta intera. Ma in questa osservazione si misconosce il vero e fondamentale carattere della gnoseologia dello Schleiden. Questi intende tenere estranea la scienza ad ogni metafisica e ad ogni speculazione naturalistica. Ma, volendo porre la botanica sul terreno della pura induzione, egli intende quest'ultima così come l'intendevano i suoi maestri di filosofia, nel senso inteso da Kant e da Fries.
Per comprendere rettamente la metodologia dello Schleiden occorre, quindi, porne alla base l'induzione non nell'accezione baconiana, bensì come l'aveva sviluppata e giustificata esaurientemente un discepolo del Fries, lo Apelt, nella sua Teoria dell'induzione. l'Apelt distingue esplicitamente fra induzione empirica e induzione razionale, e insegna che la seconda segue una regola del tutto diversa dalla legge dell'attesa di casi simili. È questa "induzione razionale" che lo Schleiden intese introdurre in botanica; e a proposito di essa, né più né meno come più tardi farà Apelt, ribadisce la necessità d'una "massima direttiva".
Ne consegua che la botanica, al pari di qualsiasi altra scienza teorica, non puq fare a meno d'una parte generale. «Ogni scienza della natura si d|vide del tutto ovviamente in due parti, nella generale e nella speciale, secondo la natura e gli obiettivi che si pone e la via d'indagine che segue. Nella parte generale procediamo da particolarità, date empiricamente e, indagando, ci eleviamo fino ai principi supremi, ai concetti basilari e alle leggi. In essa il nostro compito è trovare queste ultime. Nella parte speciale presupponiamo le medesime come già individuate e, muovendo da esse, secondo le ragioni classificatorie e le subordinazioni che le leggi medesime ci danno, scendiamo sempre più a fondo fino all'essere individuo; in questa parte il nostro compito consiste nell'inquadrare la massima degli individui in quei concetti supremi e nel determinarli secondo quelle regole supreme».
Ecco quindi che la storia dell'evoluzione viene instaurata come armamentario ideale, come una regola che ci deve insegnare a penetrare progressivamente sempre più a fondo nella struttura dell'organismo. Non per questo lo Schleiden riteneva d'esser giunto alla meta. Egli era invece convinto che una meta definitiva contraddicesse al carattere fondamentale dell'indagine empirica. A suo parere nulla è stato mai così nocivo alle scienze della natura organica quanto il considerarle come un sistema bell'e compiuto fin nei particolari più minuti, invece di considerarlo come un primo passo verso una meta infinitamente lontana. A questa meta ci dovrà portar vicino la storia dell'evoluzione. Essa, pertanto, va concepita non come dogma, bensì come una vera e propria massima euristica, nella botanica; è «la fonte oltre che unica, anche la più ricca, di nuove scoperte e lo resterà ancora per lungo tempo».
È davvero notevole e significativa la lucidità con cui, giovandosi della formazione metodologica di cui era debitore alla filosofia critica, lo Schleiden è stato in grado d'enunciare il programma generale della storia dell'evoluzione, un programma che solo assai più tardi doveva essere realmente elaborato e attuato. Nel corso di questa attuazione, però, lo stesso concetto di evoluzione dove subire un totale e caratteristico mutamento semantico. Se un tempo la fisica e la chimica erano considerate come le stelle polari dell'indagine biologica, non era consentito, come aveva insegnato Goethe, arrestarsi alla "formazione e trasformazione delle forme organiche". Ciò che si era intravisto nell'idea della metamorfosi vegetale, ora doveva essere giustificato empiricamente e dimostrato sperimentalmente. È sempre più chiaro, quindi, il passaggio che avviene dalla morfologia "idealistica" a quella sperimentale. Con la scoperta dell'alternanza di generazione, compiuta dallo Hofmeister, si costituì una concezione affatto nuova dell'evoluzione. Solo ora si faceva possibile un'idea unitaria e coerente della riproduzione sessuale attraverso l'intero regno animale.2
Al tempo stesso e perciò stesso apparve chiaramente, sotto l'aspetto metodologico, la subordinazione della sistematica alla storia dell'evoluzione. Se i ritmi evolutivi di quelle piante, che erano state considerate affatto diverse le une dalle altre, come ad esempio le spermatofite e le cormocrittogame, presentavano una concordanza così ampia come quella che risultava dalle osservazioni dello Hofmeister, risultava altresì che da sole le caratteristiche visibili non erano sufficienti a far comprendere i reali rapporti d'affinità, ma che era necessario ricorrere ad altri criteri, desumibili soltanto dalla storia dell'evoluzione. Con questa problematica la biologia si vide costretta a disfarsi dell'osservazione "puramente passiva" della natura; essa doveva tentare di provocare i fenomeni, invece di descriverli soltanto.
Tutto questo era ben lontano dalle mete conoscitive della "morfologia euristica", poiché questa, insieme a Goethe, era convinta che la natura non si lasciava strappare il suo segreto "con viti e bulloni". La coerente elaborazione di questa idea fu tentata dal Goebel nell'Organografia delle piante. Egli muove dall'idea che, se vuol essere un principio conoscitivo veramente fecondo, la "metamorfosi" la si deve intendere come una trasformazione non solo ideale, ma reale, non solo pensata, bensì effettiva. Ma intenderemo appieno tale trasformazione solo se apprenderemo a riprodurla, cioè se, invece di soltanto considerarle, saremo capaci di produrre attivamente le forme di vita. L'ideale dél'encheiresis naturae, che Goethe aveva respinto e irriso, ora deve farsi verità piena e rigorosa. Di uno scienziato di questo indirizzo, il Klebs, lo Schaxel scrive che i risultati dei suoi esperimenti richiamano alla mente l'ideale meccanicistico d'un ingegnere del mondo organico. Egli dichiara che, allo stato attuale della morfologia causale, il compito precipuo consiste nel produrre a proprio piacimento, grazie alla conoscenza delle condizioni indispensabili, il maggior numero possibile di processi formativi delle piante.
Qui, ed è evidente, la storia dell'evoluzione non è, come nello Schleiden, una "massima" dell'indagine; si edifica, invece, sul dogma del meccanicismo rigido. Ma la speranza che a questo dogma arridesse l'avvenire della biologia non si è adempiuta. Fu al contrario proprio grazie a questa concezione che la tesi dell' "autonomia della vita", osteggiata dal Klebs, doveva essere restaurata e sostenuta con nuove prove. Ma prima di entrare in merito all'esposizione di questo movimento, occorre che ci dedichiamo ad un altro gruppo di problemi. La morfologia sperimentale riuscì ad imporre le sue concezioni soprattutto nell'ambito dell'ontogenesi, e il suo concetto fondamentale di "metamorfosi" è orientato e definito sostanzialmente in senso ontogenetico.
Il problema dovè prendere un indirizzo diverso non appena vennero ad aggiungervisi considerazioni di ordine filogenetico, e anzi si cominciò a scorgere in esse il vero e proprio centro di ogni indagine biologica in generale. Con questo spostamento del baricentro, che subisce il sistema della conoscenza biologica, assume in certo qual modo un tono nuovo anche ogni singolo concetto. Il vero e proprio preludio a questo processo di trasformazione è costituito da L'origine delle specie (1859) di Darwin, un'opera con la quale entrano in uno stadio nuovo non solo l'indagine empirica, ma altresì la logica della biologia.
La lotta intorno al darwinismo quale visione del mondo, una lotta che per tanto tempo fu combattuta con asprezza incomparabile, oggi è spenta. Non ci si aspetta più dal darwinismo che possa rispondere d'un colpo solo a tutte le questioni della biologia; ancor meno si scorge in esso la chiave che ci apra le porte della metafisica e quindi ci dischiuda l'adito alla soluzione di tutti gli "enigmi del mondo". Al posto dell'esaltazione entusiastica con cui lo salutarono al primo apparire i suoi primi apostoli, e al posto dell'accanita opposizione di cui lo si fece segno, è subentrata già da tempo la pacata critica. Se, com'è vero, ci si studia di sceverare, nella tesi darwinista, i contenuti dalla particolare forma, legata alle condizioni dell'epoca, in cui essa è apparsa sulle prime, questa critica ha dovuto necessariamente volgere la sua attenzione soprattutto all'aspetto metodico del problema. Si tratta, quindi, d'acclarare non già quale incremento il darwinismo ci abbia consentito in fatto di cognizioni materiali, bensì fino a che punto e con quale ampiezza esso abbia mutato il concetto e i compiti della scienza biologica.
A Haeckel piacque paragonare la riforma biologica di Darwin a quella cosmologica che tre secoli prima era riuscito a compiere Copernico. Uno dei meriti capitali di essa, egli lo scorge nell'aver rimosso gli ultimi residui della concezione antropocentrica dalla scienza, facendo assurgere quest'ultima a una visuale veramente universale. Egli, dunque, pone l'accento non tanto sulla dottrina in quanto tale, sul singolo teorema, quanto piuttosto sul fatto che ad opera di Darwin sarebbe stato mutato il sistema di riferimento generale della conoscenza biologica. Sussiste a buon diritto, una simile pretesa? e in che cosa dovremo scorgere l'essenziale di questa trasformazione?
Il modo in cui Darwin ha scoperto la sua teoria, l'ha giustificata ed esposta, è un modello d'indagine e dimostrazione autenticamente induttivo. Per la logica dell'induzione l'Origine delle specie di Darwin resterebbe un'opera classica anche se se ne considerasse esclusivamente la forma. Il punto d'avvio della tesi darwiniana è costituito da concrete osservazioni singole ben determinate, compiute dal Darwin ventiduenne, durante un viaggio di studio a bordo del Beagle. Sono tre classi di fenomeni, a colpirlo particolarmente; il modo in cui specie strettamente affini prendono l'una il posto dell'altra, fenomeno che si riscontra scendendo da nord a sud nell'America meridionale; la stretta affinità fra quelle specie che popolano le isole adiacenti all'America meridionale e quelle che sono peculiari della terraferma; e infine lo stretto rapporto esistente fra i mammiferi stendati e i roditori di specie ancora esistenti da una parte e quelli di specie estinte dall'altra.
«Riflettendo su questi fatti e confrontandoli con alcuni fenomeni analoghi», riferisce Darwin in una lettera a Haeckel, «mi apparve verosimile che specie strettamente affini potessero discendere da una forma primitiva comune. Ma per qualche anno non riuscii a comprendere come ciascuna delle forme avesse potuto esser adattata in modo così perfetto alle sue particolari condizioni di vita. Cominciai quindi a studiare sistematicamente gli animali domestici e le piante di coltura e dopo un certo tempo mi resi chiaramente conto che la forza trasformatrice più importante risiedeva nella capacità di selezione artificiale di cui gode l'uomo, cioè di adoperare individui selezionati per la riproduzione ... Quando poi, per una fortunata combinazione, ebbi a leggere il libro di Malthus Sulla popolazione affiorò in me l'idea dell'allevamento naturale».
Trascorsero però oltre due decenni prima che quest'idea acquisisse per lo stesso Darwin una forma così stabile e sicura da consentirgli di esporla in pubblico. Da essa egli pretese che superasse prima per ogni verso la necessaria riprova empirica, che egli compì con un lavoro minuzioso pazientissimo. Studiando il suo libro, vediamo come egli metta per così dire l'una accanto all'altra le singole pietre, ne indaghi accuratamente la solidità, le unisca e commetta l'una all'altra, finché non ci si erga dinanzi l'intero edificio. In questo lavoro ogni singolo argomento viene sottoposto alla critica empirica più scrupolosa. Viene ascoltata ogni possibile obiezione e ognuna si cerca di controbattere. Un ampio spazio viene garantito all'ipotesi e all'argomentazione indiretta, che spesso sembrano elevarsi al di sopra d'ogni realtà effettiva e osservabile. Ma Darwin resta consapevole in ogni istante dell'obbligo che gli incombe di verificare e riverificare continuamente sui fatti tutti gli elementi singoli della teoria.
Solo alla conclusione di questo mai interrotto lavorio di dettaglio egli ritiene di trovarsi su di un terreno solido e sicuro. Continua ad esprimersi ancora con la massima cautela e non si concede prospettive speculative di sorta. Ma alla fine dell'opera avvertiamo anche noi l'intima profonda soddisfazione per il fatto che la scienza è ormai riuscita a mettersi sulla buona traccia per giungere all'origine delle specie, a questo "mistero dei misteri". «Ecco che dalla lotta della natura, dalla fame e dalla morte, scaturisce immediatamente la soluzione del problema più alto che siamo in grado di concepire, la procreazione di animali sempre più elevati e perfetti. È veramente un'idea grandiosa, quella secondo cui il Creatore avrebbe infuso solo in poche o addirittura in un'unica forma, il germe di tutta la vita che ci circonda, e che, mentre il nostro pianeta, obbedendo alle rigorosissime leggi della gravitazione, si è librato nella sua orbita, da un esordio così semplice si sia sviluppata e si sviluppi tuttora una serie infinita di forme bellissime e incomparabilmente meravigliose».^
Fra la Morfologia generale degli organismi (1866) e la Storia naturale della creazione (1868) di Haeckel, e l'opera di Darwin non corrono che pochi anni. La finalità che quei due libri si propongono non consiste in nient'altro che fornire la chiave di volta all'edificio innalzato da Darwin. Haeckel è convinto d'essere il continuatore di Darwin e il più fedele dei suoi discepoli. E invece nella sua concezione e nella sua difesa della "storia naturale della creazione" la tesi darwiniana acquista, non certo sul piano dei contenuti, ma su quello del metodo, una fisionomia affatto diversa. Non v'è più ombra di perplessità critiche, di cauto soppesare pro e contro. Evoluzione (dichiara Haeckel nella prefazione alla Storia naturale della creazione): ecco d'ora in poi la parola magica con la quale possiamo risolvere, o almeno metterci sulla via di risolvere, tutti gli enigmi che ci avvolgono. Ma quanto pochi sono coloro che hanno realmente inteso questa parola risolutiva, e quanto pochi coloro che ne hanno compreso chiaramente la portata universalmente trasformatrice! Egli medesimo fa un uso illimitato di questa "parola magica" ed è persuaso che non si dà alcun problema dell'umana conoscenza che possa resisterle.
È pur vero che viene posta in nettissimo risalto l'origine empirica della teoria darwiniana; ma tale origine sembra talvolta completamente dimenticata nelle conclusioni che dalla teoria trae lo Haeckel. Nulla in essa è puramente ipotetico o probabile; tutto reca l'impronta d'una necessità rigorosamente apodittica o "matematica". E questa sorta di necessità viene affermata anche per gli elementi più difficili e problematici della teoria. «La genesi di nuove specie per mezzo della selezione naturale o, ed è lo stesso, dell'interazione dell'ereditarietà e dell'adattamento nella lotta per la vita, è una necessità matematica della natura, che non ha bisogno d'ulteriore dimostrazione. La teoria dell'evoluzione non solo ci fa conoscere completamente l'insieme dei fenomeni vitali, ma dà anche una risposta soddisfacente a tutti gli interrogativi circa il "perché" di tali fenomeni. E queste risposte sono di natura puramente meccanico-causale; dimostrano che sono forze esclusivamente naturali, fisico-chimiche, le cause di fenomeni che per l'innanzi si era abituati ad ascrivere all'intervento immediato di forze soprannaturali, creatrici.»
In questa esclusione e in questo superamento d'ogni sorta di considerazione "teleologica" Haeckel scorge la vera impresa emancipatrice di Darwin, che egli paragona a quella di Copernico. Solo ora si fa possibile considerare la natura con un'ottica da cui sono stati espunti tutti i tratti antropomorfici. Il concetto di finalità è scacciato anche da quest'ultimo nascondiglio da cui nemmeno Kant era riuscito a stanarlo. Il "Newton del filo d'erba", la cui possibilità fu impugnata da Kant, è apparso di fatto in Darwin, e la sua teoria della selezione ha effettivamente assolto a quel compito che Kant riteneva assolutamente inassolvibile.
Ma dal punto di vista della critica della conoscenza è ovvio che qui si affolli subito tutta una serie d'ulteriori interrogativi. Che la filosofia naturale di Haeckel non abbia rinunciato all'antropomorfismo né all'antropocentrismo, e che anzi li sostenga e proclami nel modo più deciso, è evidente. In ogni dove della sua opera, infatti, si cerca di cogliere e intendere il "senso" dell'accadere naturale riconducendolo a cause ultime "fisiche". Ecco quindi crollare e disfarsi miserevolmente la spiegazione meccanica dei fenomeni vitali, che Haeckel considera come il pregio essenziale e il vero e proprio trionfo della teoria della selezione. È infatti una spiegazione che può esser data solo se i fenomeni in questione, invece d'esser dedotti dalla materia, vi sono ficcati dentro già bell'e compiuti.
Il "monismo" di Haeckel è un ilozoismo ingenuo: tutte le "forze", tanto le meramente fisico-chimiche quanto le organiche, vi sono derivate dalla potenza primigenia della vita. È quanto si palesa in modo particolarmente perspicuo negli ultimi scritti dello Haeckel, in cui si rinuncia sempre di più all'empiria biologica e sempre di più, invece, ci si appella all'"unità psicologica del mondo organico", la cui individuazione viene esaltata come il più grandioso progresso che, con l'aiuto dell'evoluzionismo, la psicologia abbia compiuto nella seconda metà del secolo XIX. Ma già nel 1875 Haeckel aveva elaborato la sua dottrina delle "anime-cellule e cellule dell'anima" e quella della "perigenesi dei plastichili", secondo cui sono definite l'ereditarietà come la "memoria dei plastiduli", la variabilità come il "potere intellettivo" dei medesimi.
La ricaduta nell'antropomorfismo non poteva esser dimostrata in modo più chiaro e convincente. Ne risulta quasi annullato il progresso ottenuto da Darwin; ora, infatti, anche lo stesso evoluzionismo appare alla luce della concezione lamarckiana piuttosto che della darwiniana. Nell'enunciare la sua teoria Lamarck muove sempre da categorie psicologiche. A suo parere i mutamenti ne] mondo organico sono sempre condizionati dal fatto che in esso si producono certi bisogni, i quali dirigono le funzioni dell'organismo in una determinata direzione. E la nuova funzione finisce col portare alla formazione d'un nuovo organo. La teleologia, quindi, ben lungi dall'essere esclusa, viene elevata a supremo principio esplicativo, che prende senz'altro il posto della causalità e rende superflua ogni ulteriore indagine sulle cause. Ha origine quel tipo di "meccanica teleologica" che il Pflliiger ha sintetizzato nella legge secondo cui «le cause d'ogni bisogno d'un essere vivente sono al tempo stesso le cause del soddisfacimento del medesimo».
L'ulteriore sviluppo dello psico-lamarckismo spinse poi all'estremo questo principio. In base ad esso s'insegna che ogni attività finalistica, da noi riscontrabile nel mondo organico, risale a fattori non solo psichici, ma altresì "intelligenti". «Non può essere che più principi si ripartiscano il compito di definire ciò che è consentaneo allo scopo; dobbiamo invece renderci conto che l'adeguatezza allo scopo in generale può esser realizzata solo per mezzo d'un principio giudicante, e che, una volta ammesso un principio del genere, tutti gli altri tentativi teoretici vanno eliminati come pseudoteleologie». Qui, dunque, non solo si sostiene l' "animismo", ma si dichiara altresì che ne sussiste una "necessità logica", giacché un fenomeno dotato di carattere razionale può essere spiegato sempre e soltanto ascrivendolo a una "causa razionale".
Conseguentemente una teleologia senza psicologia viene non solo rifiutata, ma altresì dichiarata un concetto contraddittorio, una contradictio in adjecto: giacché «il concatenarsi di stati disparati di vita sensitiva in un soggetto è la condizione indispensabile d'ogni giudizio e il giudizio è la condizione indispensabile d'ogni teleologia». A scorrere la letteratura del darwinismo, anche nei convinti seguaci di esso ci s'imbatte ad ogni pie sospinto in concezioni analoghe, benché non espresse in forma altrettanto scoperta. Così, ad es., il Boveri afferma che la mera "teoria della casualità" non è sufficiente a spiegare l'originarsi e il mantenersi di quanto è finalistico, ma che è indispensabile aggiungervi il "gusto" per la realtà funzionale raggiunta e lo "sforzo" di attenervisi: «è necessario ammettere nell'organismo l'esistenza d'una sensibilità per la determinata utilizzabilità d'una proprietà offertagli dal caso».
Quanto a lui, certo Darwin non avrebbe approvato simili ricadute nel lamarckismo. Pur riconoscendo, infatti, nel Lamarck un suo precursore, egli ne rifiuta nel modo più netto la filosofia naturale. In una lettera allo Hooker definisce una pura assurdità la "tendenza all'evoluzione" così come la concepiva Lamarck. Sembra, quindi, che egli abbia voluto escludere col massimo rigore la teleologia. Se però ci poniamo la questione dal punto di vista gnoseologico, dovremo renderci chiaramente conto prima d'ogni altra cosa di quale sia la specie di "spiegazione finalistica" che nella teoria darwiniana viene rigettata e va sostituita con qualcosa di diverso e migliore.
In Haeckel si espongono le cose, sempre e senza eccezione, come se tutta la biologia predarwiniana avesse rimpiazzato le cause efficienti con quelle finali e ci si fosse perciò arrestati a spiegazioni puramente apparenti. In verità un semplice sguardo al materiale storico ci dà a conoscere quanto poco rispondente a verità sia questa idea. Fin dalla Critica del Giudizio di Kant e dalla sua critica della prova "fisico-teleologica" dell'esistenza di Dio, era scossa, anche nell'ambito della biologia scientifica, quella forma ingenua di teleologia che si riscontra nella filosofia popolare del Settecento. I suoi punti deboli erano stati individuati assai prima di Darwin. È appunto in questo proposito che Goethe fu ben lieto di riconoscersi d'accordo con Kant, definendo un "merito illimitato" di quest'ultimo l'averci liberato dalle "assurde cause ultime".
«Quella sorta d'idea che un essere vivente sia stato creato per certe finalità rivolte all'esterno e che la sua forma sia stata a quelle determinata da una forza primigenia intenzionale, ci ha già tenuti fermi per parecchi secoli nella considerazione filosofica delle cose naturali, e ci tiene tuttora, sebbene taluni abbiano appassionatamente impugnato questo modo d'intendere, mostrando gli ostacoli di cui ci dissemina la via ... È, se mi è lecito dirlo, un modo d'immaginare le cose banale, e lo è, come tutte le cose banali, proprio perché comodo e sufficiente».
Anche nello ambito della storia dell'evoluzione era stata promossa a rango di principio l'esigenza d'una rigorosa indagine delle cause assai prima di Darwin: lo Schleiden si era spinto fino a volere spiegare anche i più complicati fenomeni d'interazione dei corpi nello spazio e nel tempo, quali ci si presentano nella fenomenologia organica, in base ai semplici rapporti di repulsione e attrazione a distanza o a contatto. Il ricondurre i fenomeni a leggi cinetiche matematicamente determinabili, egli lo considerava come la meta d'ogni scienza "descrittiva" della natura.
Che il fine, inteso come potenza autonoma, come una forza naturale a sé stante, che sta accanto o al di sopra di quelle fisico-chimiche, sia un "intruso nella scienza della natura", era sempre più largamente accettato, dopo la comparsa della Critica del Giudizio. Il vero problema, che aspettava ancora una soluzione, era d'ora in poi un altro: se la categoria del finalismo potesse, come un autentico e peculiare principio ordinatore, rivendicare un suo posto nella descrizione e prospettazione scientifiche dei fenomeni vitali, oppure se fosse diventata superflua e la si potesse escludere una volta per sempre. A questo interrogativo, però, il darwinismo non dà affatto la risposta che spesso si è voluto ricavarne. Tuttavia si può pur sempre considerare come suo merito peculiare il fatto che vi si espone una spiegazione rigorosamente unitaria delle cause e non vi si assume una particolare sfera di "causalità" biologica accanto o al di sopra di quella fisico-chimica.
Ma, a tenerne presente sia pur solo la struttura logica più generale, non si può affermare che esso abbia definitivamente superato l'ottica finalistica, che sia riuscito a prescindere da ogni concetto di fine nell'indagine scientifica dei fenomeni vitali. Nella sua struttura logica i concetti di fine hanno il loro posto ben preciso; si palesano non solo attendibili, ma altresì veramente e propriamente indispensabili. Ad essi indissolubilmente vincolate sono non solo le risposte, ma già l'impostazione che il darwinismo dà al problema. Nozioni come "adattamento" o "selezione", "lotta per la vita" o "sopravvivenza del più adatto" evidentemente hanno tutt'altra impronta e, considerate sul piano gnoseologico, palesano tutt'altre connessioni dai concetti propri della scienza matematica della natura. L'uso continuo che il darwinismo fa ed è costretto a fare di tali nozioni sarebbe già sufficiente di per se stesso a dimostrare che, pur combattendo una certa specie di teleologia metafisica, esso non ha certo sconfessato affatto la teleologia critica. È anzi possibile spingersi ancora oltre e affermare che nessuna delle precedenti teorie biologiche aveva attribuito una siffatta importanza al concetto di fine né l'aveva difeso con tanta insistenza come avviene nel darwinismo. E in verità in questo sono non alcuni, bensì assolutamente tutti i fenomeni della vita, ad esser qui considerati dal punto di vista del valore d'efficienza che essi hanno per il mantenimento dell'organismo. Di fronte a quest'unica questione tutte le altre passano in secondo piano. Tanto non avveniva affatto nella biologia delle epoche precedenti. La "morfologia idealistica" volgeva il suo sguardo alle forme della vita e ai loro mutamenti. Le une e gli altri essa intendeva cogliere in modo puramente intuitivo, senza star a chiedersi se ne trasparisse qualcosa di simile a un intento consapevole o a un'immanente quanto tenace "tensione al fine".
Goethe volle appagarsi di questa "vera apparenza", di questo "vivace gioco" di formazione e trasformazione delle nature organiche; non vi ricercava altro "senso" che quello insito nel gioco medesimo e disvelantesi immediatamente all'intuizione. «Natura e arte», egli dichiara, «sono troppo grandi per prefiggersi dei fini, né questi occorrerebbero loro, giacché di relazioni ve n'è ovunque, e le relazioni sono la vita». Da questo insieme complessivo di "relazioni", che caratterizza la vita, il darwinismo estrapola, in modo unilaterale e violentante, un solo gruppo. Si cura solo di quanto è utile alla conservazione dell'individuo e della specie. Il valore della selettività vien fatto assurgere a criterio autentico, anzi unico, su cui rilevare l'importanza d'ogni fenomeno vitale, il solo che possa farne acquisire l'intelligenza. In tal senso i critici del darwinismo hanno giustamente sottolineato che i darwinisti, i quali si vantavano d'aver abbattuto l'idolo del finalismo, di fatto, nella loro concezione basilare della vita e nel loro linguaggio concettuale, sono "i massimi fra tutti i teleologi". Nello sforzo di voler scovare per ogni organo e ogni carattere una utilità peculiare e un valore selettivo, si fu spesso indotti a ipotesi del tutto insostenibili. S'ignorò o negò, a questo proposito, che si dà una considerazione autonoma, puramente morfologica, degli esseri viventi, e che essa coglie in questi ultimi determinazioni e "relazioni" affatto diverse dall'adattamento e dal finalismo funzionale.
Anche in tale materia, tuttavia, Darwin si è espresso personalmente in termini assai meno dogmatici di parecchi suoi seguaci. Egli attribuisce grande importanza a un richiamo del Naegeli: che sono proprio le rilevanti caratteristiche morfologiche delle piante, indispensabili per classificare specie, famiglie, ordini e classi, a non possedere nessun valore selettivo. Nel suo libro su L'origine dell'uomo, rifacendosi all'osservazione del Naegeli, egli dichiara d'aver probabilmente messo troppo sul conto della selezione naturale nelle precedenti edizioni de L'origine delle specie. Riconosce di non aver prestato sufficiente attenzione in passato all'esistenza di parecchie condizioni strutturali che, per quanto è dato giudicare al presente, non sembrano essere né benefiche né dannose; dichiara addirittura essere questa "una delle sviste maggiori" da lui scoperte fino allora nella sua opera. È abbastanza rimarchevole che egli giustifichi la sua tendenza a dar rilievo unilaterale all'elemento dell'utilità affermando d'aver avuto una fede ancora troppo forte nella teleologia: «non sono stato in grado», egli dice, «d'eliminare completamente la mia convinzione d'un tempo, e allora assai diffusa, che ogni specie fosse stata creata intenzionalmente, e ciò m'indusse ad ammettere tacitamente che ogni particolare strutturale, fatta eccezione dei rudimenti, fosse d'una qualche utilità specifica, ancorché ignota ... Se quindi dovessi essermi sbagliato anche nell'attribuire un gran potere alla selezione naturale, ma non lo concedo affatto, spero d'aver causato qualcosa di buono se non altro contribuendo ad abbattere il dogma delle creazioni singole».
Queste righe sono importanti, poiché mostrano con quale perspicuità critica, a differenza di tanti suoi seguaci acritici, Darwin medesimo abbia giudicato la sua propria opera. Tutto l'accento, egli lo poneva sul fatto dell'evoluzione, e non sulle particolari ragioni esplicative che egli aveva potuto addurvi. Tale fatto può essere ammesso e accettato in tutta la sua portata, senza che per questo se ne debbano trarre le conclusioni gnoseologiche e metodologiche che ne ha tratte il primo darwinismo. Questo era convinto che la filogenia avesse soppiantato e reso superflue tutte le altre problematiche biologiche. Sembrava quasi che l'unica meta, o comunque la suprema, d'ogni conoscenza biologica, consistesse nel drizzare alberi genealogici. Le parti che fino allora si riconoscevano nel sistema biologico, tanto la "biotassi" [o classificazione] quanto la "biofisica", nel darwinismo rigido perdettero molto del loro valore peculiare, della loro "autonomia" metodologica. Già lo Schleiden aveva dichiarato che i vecchi sistemi di classificazione delle forme naturali non erano che meri utensili, privi d'autonomo valore conoscitivo. Ora il giudizio su di essi è ancora più duro: li si rigetta come infeconda "scolastica". «La teoria di Linneo», scrive il Sachs nella sua Storia della botanica, «è in tutto e per tutto un frutto della scolastica, mentre l'essenziale della teoria darwiniana della discendenza sta proprio nel fatto che la scolastica non vi trova più posto alcuno». Nel darwinismo quella che era parentela in senso figurato è diventata consanguineità vera e propria. Essendosi riconosciuta nel "sistema naturale" niente più che un'immagine dell'albero genealogico del regno vegetale, era perciò stesso risolto il vecchio problema.
Questa fede nel dispotismo e nell'onnipotenza della filogenia fu poi demolita in misura sempre crescente dalla critica posteriore. Questa accetta bensì i fatti della storia filogenetica, ma non vi scorge più la "parola magica" che sia proferita per risolvere tutti i problemi della biologia. Alla morfologia non solo fu riconosciuto il posto che le compete nel sistema della biologia, ma si ribadì anche che solo in base a rigorose indagini morfologiche era possibile porre e affrontare le questioni dell'evoluzione e della sua storia. Andò quindi assumendo un'importanza sempre maggiore la logica della morfologia, che fu avvertita e trattata, anche sotto l'aspetto filosofico, come problema a sé stante. Anche quegli scienziati, che si attenevano strettamente alla problematica filogenetica e ribadivano vigorosamente che compito della biologia era e doveva restare quello di scoprire la vita per cui gli organismi sono giunti al loro stato attuale, ora si schierano a favore d'un rigoroso mantenimento dei confini metodologici fra i singoli indirizzi scientifici. Essi dichiarano che va assolutamente salvaguardato il "primato morfologico", poiché solo a questa condizione la scienza descrittiva della natura poteva assumere un aspetto tale da poter costituire un fecondo avvio a indagini circa la storia dell'evoluzione.
La moderna morfologia sperimentale era perfettamente d'accordo col darwinismo, in quanto anch'essa considerava quale compito essenziale della biologia l'indagine puramente causale dei fenomeni verificantisi nell'organismo. Ma anch'essa, per caratterizzare la propria impostazione del problema e il proprio metodo, dovette mettere in netto risalto la differenza specifica che la distingue dall'ottica filogenetica. «Il nostro concetto di metamorfosi», scrive il Goebel, «è anzitutto ontogenetico, e pertanto empiricamente tangibile e dimostrabile. Possono aggiungervisi considerazioni d'ordine filogenetico; ma che non sia giustificato parlare di una metamorfosi in senso esclusivamente filogenetico, lo dimostra già il semplice fatto che la metamorfosi preesiste alla dottrina della discendenza e continuerebbe ad esistere anche nel caso che quella venisse abbandonata».
Stando a questa concezione la filogenia non può condurci alle prime cause dell'accadere; quanto essa ha realizzato finora somiglia, secondo il Goebel, ai prodotti d'una fantasia poeticamente creativa più che alle acquisizioni di un'indagine esatta, che operi con prove sicure. Veniva perciò abbandonata la tesi enunciata dallo Haeckel nella Morfologia generale, secondo cui nessun'altra spiegazione si darebbe dei fenomeni morfologici che la reale consanguineità degli organismi. I moderni sostenitori dell'evoluzionismo prospettarono questioni che si potrebbero quasi definire problemi "trascendentali" in senso kantiano. Prima d'affrontare ricerche particolari, essi vollero indagare alla ricerca di «quei presupposti e principi, da fissarsi esattamente, secondo i quali sia mai possibile l'indagine filogenetica». Solo dopo avere sbrigato tale questione preliminare essi ritenevano possibile superare la filogenetica ingenua anteriore e di far assurgere la teoria evoluzionistica a una scienza consapevole dei suoi compiti specifici e dei suoi limiti metodologici.
Per quanto attiene, però, al problema gnoseologico nel suo complesso si pone ora un'altra questione, che ci costringe a guardare ben oltre l'ambito della biologia. Come fu possibile che nel pensiero biologico del secolo XIX la storia dell'evoluzione attingesse una tale importanza, un tale valore, da oscurare per un certo tempo tutto il resto, da assorbire in certo qual modo ogni altro interesse e obiettivo? Fu solo il peso del materiale dimostrativo di natura empirica esibito da Darwin nella sua opera a dare in questo campo il colpo decisivo? Si sa quanto esso sia stato lacunoso agli inizi, e quanto ancor oggi i reperti paleontologici ci lascino nelle peste quando si tratta di ricostruire la serie ascendente degli esseri viventi. Ma a far sì che spesso e volentieri si scavalcassero alla svelta simili lacune contribuì un altro elemento, che affonda profondamente le sue radici nella mentalità e nella storia intellettuale in genere del secolo XIX.
Quest'ultimo ci fa assistere al primo incontro e al primo scontro di principi fra due grandi ideali conoscitivi. L'ideale della scienza matematica della natura, che aveva pervaso e dominato il Seicento, non è più solo. Da Herder e dal romanticismo in poi gli si contrappongono, sempre più energicamente e consapevolmente, un altro tipo d'indagine culturale, e un'altra potenza spirituale. Per la prima volta viene proclamato, dalla filosofia e dalla scienza, il primato della conoscenza storica. Al Settecento il pensiero storico non era rimasto affatto estraneo, in quanto tale, e non è affatto giustificata la tradizionale accusa che gli si muove, quella d'essere stato un secolo assolutamente "astorico". Ma in realtà non vi ha posto il vero e proprio "storicismo", che è e rimane una creazione quasi esclusiva del secolo XIX. Tale storicismo ha cercato di darsi la giustificazione metafisica e la forma espressiva convenienti nel sistema di Hegel. Questo nuovo pensiero penetra, con la dottrina di Darwin, anche nella biologia.
A prima vista, in verità, sembra una strana pretesa quella di tracciare una linea di raccordo fra il concetto hegeliano di evoluzione e quello darwiniano, giacché i due sembrano non aver quasi nulla in comune oltre la denominazione. Può darsi una distanza maggiore di quella che sussiste fra la dialettica di Hegel, che fa sorgere la realtà dall' "automovimento del concetto", e il modo in cui Darwin espone e giustifica la sua teoria? Eppure, senza tener conto di questa fondamentale differenza, in una delle più note esposizioni della filosofia hegeliana non si è esitato ad affiancarla strettamente alla dottrina darwiniana. Kuno Fischer chiude la sua Storia della filosofia moderna con un'esposizione del sistema hegeliano, nel quale egli scorge il culmine del pensiero filosofico. Fischer asserisce che principio basilare della dottrina hegeliana è l'"idea di evoluzione universale", e intende dimostrare come da Hegel in poi tale idea abbia conseguito una vittoria definitiva nell'ambito non solo della filosofia, ma altresì della scienza naturale. Quel che Hegel aveva iniziato da filosofo, Darwin l'ha condotto a termine da ricercatore empirico; entrambi sono espressione e testimonianza dello stesso spirito, il quale altro non è che lo spirito del secolo XIX.
È ovvio che questa tesi può sostenersi solo a patto di passar sopra completamente a tutte le differenze in fatto di concezione sistematica di fondo e di sistematica giustificazione. Tuttavia una cosa è in effetti innegabile: grazie alla teoria darwiniana e alla sempre maggiore penetrazione del darwinismo al pensiero storico è stato concesso, nell'ambito complessivo della conoscenza della natura, una posizione affatto diversa da quella che esso occupava in precedenza. Non offrono un'analogia in proposito né l'ideale di scienza esatta della natura, quale era stato elaborato nel Seicento, né la morfologia idealistica e nemmeno la teoria goethiana della metamorfosi. La storia storificata è di colpo al centro della considerazione: per suo mezzo si crede di poter risolvere anche i problemi della sistematica pura e quelli della fisiologia. Quel che talvolta rende difficile l'individuazione di questa interconnessione è il fatto che i sostenitori della nuova concezione furono ben lontani dall'esser sempre chiaramente consapevoli di trovarsi a una svolta, e quale svolta, del pensiero naturalistico.
In Darwin, afferma il Ràdl nella sua Storia delle teorie biologiche, emerge per la prima volta la grandiosa idea «che con un esame analitico, per quanto approfondito, d'un animale e con una comparazione, per quanto ampia, di esso con altre forme, non è possibile comprenderne la natura, giacché in quell'animale sono nascoste tracce del passato, che solo una ricerca di tipo storico è in grado di far conoscere». Ma non si comprese il senso di questa nuova soluzione del problema. Come Colombo non seppe d'aver scoperto un continente nuovo, ma fu vittima dell'illusione d'aver solo trovato una nuova via per terre già note, così il darwinismo non portò alla fondazione d'una scienza nuova, la morfologia storica, ma si riprese l'antica, e ci si limitò a "spiegarne" i concetti con altri, quali "evoluzione", "lotta per la vita", "adattamento", "eredità" e cercando di dar loro una vernice filetica. E tutto questo, trascurando totalmente elementi essenziali d'ogni considerazione storica autentica, quali la cronologia e l'esatta "datazione".
In realtà questa critica metodologica del darwinismo è non meno rilevante di quella dei contenuti, condotta da molti dei suoi avversari.Una delle realizzazioni più note del darwinismo dal punto di vista gnoseologico consiste nell'aver in certo qual modo dischiuso una nuova dimensione ottica al pensiero scientifico naturalistico. Esso mostrò che la concettualizzazione naturalistica e quella storica non sono affatto antitetiche, ma che al contrario s'integrano e si necessitano a vicenda. Gli fu possibile, però, assegnare al pensiero storico il posto debito nell'ambito della scienza naturale, conquistandogli il diritto di mantenerlo, solo trasformandolo e reinterpretandolo, in certo qual senso. Invece di riconoscerne e accettarne il significato specifico, gli assegnò compiti estranei alla sua natura e dei quali esso non era all'altezza. La descrizione storica avrebbe dovuto adempiere al contempo tutti i servizi della "spiegazione": la conoscenza del divenire degli organismi avrebbe dovuto al contempo dischiudere l'intelligenza di tutti i problemi strutturali delle forme organiche e di tutti quelli della fisiologia.
In tal senso, ad es., il Boveri asserì che tutte le proprietà del sistema naturale si farebbero comprensibili di colpo non appena si prospettasse l'unica ipotesi che l'affinità sistematica fosse una vera consanguineità e che pertanto la teoria della discendenza recasse in sé «la soluzione definitiva del problema della multiformità». Quel che in tale ipotesi viene ignorato, è che nel mondo degli organismi non si dà un unico problema della multiformità, ma se ne danno molti e di specie assai disparate e d'assai svariati tipi, e che ciascuno di essi va trattato e risolto secondo un metodo peculiare. Che la considerazione e l'indagine storiche sugli esseri viventi debba rivendicare una posizione propria e autonoma nell'ambito costituito dal sistema di questi metodi, che spetti anche ad esse un "posto al sole" della conoscenza naturalistica, non poteva però più essere contestato né dimenticato, da quando era apparsa la teoria di Darwin. «Oggigiorno», a ragione potè affermare il Boveri, «l'idea dello storicamente evoluto è, per così dire, il tono fondamentale che accompagna costantemente il pensiero del biologo; essa è per lui un criterio da applicare ovunque, simile a quello che per il fisico è la legge della conservazione dell'energia».
Il mutamento che si è avuto in questa materia si fa evidente appieno se si risale col pensiero all'assetto che nel Settecento assumono la gnoseologia e l'epistemologia generale e che è caratteristico di quel secolo. Nemmeno l'epistemologia era orientata in modo così unilateralmente razionalistico da misconoscere o negare senz'altro la scientificità rivendicata dal sapere storico. A questo riconosce una relativa legittimità anche il razionalismo rigido, come quello che, ad es., riscontriamo nel sistema di Christian Wolff. A parere di questi ogni singola disciplina scientifica consiste d'una parte storica e d'una razionale. La prima comprende mere "verità fattuali", vérités de fait in senso leibniziano, mentre la seconda le riconduce a verità razionali universali. Là riceviamo la risposta all'interrogativo circa il "fatto", qui la risposta all'interrogativo circa il "perché". Nell'un caso si tratta d'individuare i fenomeni empirici nella loro particolarità, nel loro bic et nunc; nell'altro, di dedurli dalla loro ragion sufficiente. Nel secolo XVIII questa concezione era penetrata anche nelle esposizioni delle singole scienze, delle quali costituiva la solida armatura metodica. Ad esempio, nel suo manuale di botanica (1742) Christoph Gottlieb Ludwig afferma a chiare note che si danno due modi diversi di considerare i corpi naturali: l'uno, più esteriore, che conduce a suddividerli, e l'altro, per cui ci si spinge nel loro interno e che insegna quali siano la genesi e i mutamenti delle parti. Il primo modo è lo storico, il secondo il fisico, talché si danno pertanto sia una storia sia una fisica dei tre regni della natura. Nell'ambito della scuola wolffiana la botanica viene generalmente suddivisa in tre sottodiscipline: una storica, una fisica e una medico-economica. Si è soliti presentare i tre rami come di valore perfettamente pari e coordinati fra di loro. Con questa tradizione il darwinismo la rompe una volta per tutte. L' "istorico", che finora era stato appena tollerato, adesso deve prender il posto del "razionale", giacché non si dà altra spiegazione razionale del mondo organico che non sia quella consistente nel disvelarne la genesi. Quelle della natura reale sono leggi storiche; e solo grazie alla loro scoperta possiamo sfuggire al mero schematismo logico e risalire alle verae causae dei fenomeni.
A studiare la bibliografia attinente alla biologia della seconda metà dell'Ottocento, però, ci si rende conto che il passaggio a questa nuova concezione e a questa nuova valutazione dell' "istorico" non è avvenuto affatto senza frizioni, al contrario delle apparenze di primo acchito. E proprio alle svolte di maggior rilievo che è solito riesplodere il vecchio contrasto. Ci è dato rilevare con particolare evidenza questo processo in uno scienziato e pensatore quale fu il Driesch. Questi, infatti, si sottrae fin dall'inizio alla corrente "storica" predominante al suo tempo. Egli è il tipico metafisico della biologia, che anche nella sua materia vuol trovare, in fondo, solo la risposta agli interrogativi attinenti all'essere, e non al divenire. Conseguentemente il suo atteggiamento di fronte alla storia è non solo d'estraneità, ma di vera e propria ostilità: egli non riesce a concederle un valore scientifico specifico.
Ben lontano, quindi, dal riconoscere nell'"istorico" un indirizzo di portata centrale, o anche solo di fondatezza non inferiore agli altri, della ricerca biologica, non può scorgervi che una tendenza erronea e combatterla energicamente. «Può esserci affatto indifferente», egli dichiara, «che siano proprio queste e quelle forme ad esser realizzare su questa terra e a susseguirsi in un certo modo: affatto indifferente nel senso inteso dalla generale indagine teorica della natura, a cui è estraneo il concetto di storia, legato a luoghi e tempi determinati». Qui le vérités eternelles sono contrapposte in misura quant'altro mai drastica alle mere vérités de fait, che di per sé la filogenetica non è in grado di trascendere. Non sono mancate, però espressioni di pensiero antitetiche a una concezione siffatta, e il criterio di valore qui applicato alla materia della biologia, si è cercato nuovamente non solo di contestarlo, ma altresì di stravolgerlo nel suo opposto.
Il Biitschli, ad esempio, osservò: «A prescindere completamente dal fatto che studiamo la natura non solo per prender cognizione di quanto avviene secondo leggi, ma anche e soprattutto per sapere dove viviamo e da che cosa siamo circondati..., ci si può ben chiedere: quale interesse hanno mai per noi, in realtà, quelle scienze che studiano le leggi dell'accadere e che per lo più appaiono come equazioni matematiche in sé e per sé di scarso interesse? Perché mai queste non ci sono indifferenti? ... Quel che non ci fa sembrare indifferenti quelle leggi e quanto esse reggono, è appunto ciò che siamo capaci di dedurre da esse, sia per le nostre finalità pratiche, sia per l'intelligenza dei fatti testimoniati dalla storia, che si svolgono attualmente o si sono svolti in passato nella natura. Esattamente lo stesso varrebbe anche per le leggi sperimentalmente accertabili nella fisiologia dell'evoluzione; esse ci sarebbero non già indifferenti, sibbene del più alto interesse, in quanto ci consentirebbero di comprendere il divenire storico delle forme organiche».
Qui ci troviamo ancora una volta di fronte a un'alternativa in cui ci siamo imbattuti più e più volte nella storia e che, nell'ambito della biologia, ci si è presentata, in uno stadio diverso e più arcaico, nella polemica fra Cuvier e Geoffroy de Saint-Hilaire. La scienza non si arresta alla mera osservazione dei fenomeni singoli o alla mera enunciazione di leggi generali, ma parla a nome d'un ben determinato "interesse della ragione", che essa vuole sostenere e diremmo quasi "prendersi a cuore". Polemiche siffatte, come ebbe a mettere in rilievo Kant, non sono suscettibili d'una decisione che sanzioni la ragione dell'una parte e il torto dell'altra. In luogo di pronunciare un verdetto autoritario a favore d'una delle due parti, la filosofia critica deve contentarsi di comprendere e tutelare gli interessi di entrambe. Questi, infatti, si escludono a vicenda solo in quanto dogmi, mentre come principi e indirizzi conoscitivi possono non solo coesistere, ma altresì integrarsi e riconoscersi a vicenda.
Nella contesa sul darwinismo la tesi della storia dell'evoluzione è stata sostenuta dogmaticamente altrettanto spesso che dogmaticamente attaccata; ce n'è voluto, del tempo, prima che si apprendesse a intenderla come "massima" dell'indagine, come principio regolatore della conoscenza biologica.
5. LA MECCANICA DELL'EVOLUZIONE E IL PROBLEMA CAUSALE NELLA BIOLOGIA
I primi adepti e banditori della dottrina darwiniana vissero nella fede orgogliosa e felice che alla conoscenza umana fosse riuscito finalmente di penetrare in una sfera che, fino allora, ad onta d'ogni sforzo, le era rimasta preclusa. Sembrava ormai che fosse svelato il mistero della vita e fosse scacciata dai suoi ultimi nascondigli la fede nei miracoli. I fenomeni vitali non costituivano più uno "Stato nello Stato"; si subordinavano alle stesse leggi rigorose e inesorabili che valevano per tutti i fenomeni naturali. Ora sembravano aver trovato la loro soluzione non solo il "problema della varietà", ma anche quello causale della biologia, e si era riusciti a comprenderli entrambi in base alle medesime premesse, d'una semplicità stupefacente. Quel che aveva significato la legge della gravitazione universale per la conoscenza del mondo inorganico, la significava ora la teoria dell'evoluzione per l'intelligenza del mondo organico. Per entrambe, come s'è visto, Haeckel rivendicava lo stesso grado di " certezza " matematica.
Sembrò talvolta che il carattere e l'origine puramente induttivi della teoria darwiniana fossero quasi dimenticati o respinti del tutto in secondo piano. Nella Storia della botanica Julius Sachs scorge il progresso decisivo segnato dalla dottrina darwiniana nell'esser riuscita per prima a scoprire nella variazione e nella selezione naturale quei principi da cui i fenomeni della biologia risultano come «effetti necessari di cause note». A suo parere Darwin non avrebbe introdotto presupposti ignoti fino allora, ma «avrebbe dedotto immediatamente i più importanti e incrollabili dei suoi enunciati dai dati di fatto su cui fino allora si erano costruiti il sistema naturale e la morfologia».
Ma come stavano le cose, quanto a tale "deduzione", allorché si trattava non solo di prendere in considerazione il programma dell'evoluzionismo, ma di tradurlo realmente in atto? Darwin aveva già messo piede nella terra promessa dell'esatta spiegazione causale dei fenomeni vitali, oppure l'aveva solo intravista di lontano? Tanto più lunga appariva la via che restava da percorrere, quanto più ci si dedicava alle analisi dei fenomeni particolari. A questo proposito dovevano occupare il primo posto i problemi dell'eredità, giacché da essi dipendevano le sorti dell'intera dottrina. Ma ne risultavano altresì le prime e ben difficilmente superabili difficoltà.
Allorché Darwin enunciò la sua tesi, l'ereditarietà dei caratteri acquisiti era ancora riconosciuta universalmente come un dato di fatto assodato. Per lui, quindi, l'ereditarietà era un semplice fenomeno di trasmissione, grazie al quale certi caratteri individuali dovevano essere per così dire "impressi" nei discendenti. Nell'ambito del darwinismo rigido questa concezione fu criticata e respinta per la prima volta dal Weismann, del quale tuttavia le concezioni positive, in specie quella dell'esistenza di microgermi specificamente corrispondenti ai diversi organi e tessuti, si sono dimostrate erronee. La teoria moderna dell'ereditarietà finì quindi per distruggere completamente la nozione tradizionale di ereditarietà. Perché si potesse pervenire a un'indagine veramente esatta del fatto ereditario, alla quale fornì le basi il Galton, fu necessario demolire in misura sempre maggiore i presupposti su cui si era fondato Darwin. Vera guida in questo campo si palesò non Darwin, bensì Mendel; ma la dottrina di questi rimase pressoché ignorata in un primo tempo, e si dovette attendere la fine del secolo perché fosse autonomamente riscoperta da Correns, Tschermak e de Vries.
Uno studioso moderno di questa materia osserva che al selezionista immerso nella riflessione sulle leggi mendeliane «dovrebbero cadere le scaglie dagli occhi; di colpo egli intuirebbe il vero senso della "stabilità del tipo", della "variabilità" e della "mutazione", che non sarebbero più misteriose idee campate in aria». Prima che avesse inizio un'analisi realmente rigorosa del processo ereditario, questo potè esser concepito solo come un tutto indifferenziato; ma una concezione siffatta restò ben lontana da un'autentica "spiegazione" causale. In fondo, la spiegazione consisteva unicamente nel tirare in ballo un'apposita "facoltà" di ereditare, che richiamava alla mente in modo sospetto le vecchie qualitates occultae. La "facoltà di tramandare per eredità" è, secondo lo Haeckel, una proprietà basiliare che compete a qualsiasi organismo. «L'organismo è in grado non solo di trasmettere ai suoi discendenti quelle proprietà, quella forma, quel colore, quelle proporzioni che ha ereditato a sua volta dai suoi procreatori; è altresì capace di dare in eredità quelle modificazioni di tali proprietà, che esso ha acquisito durante la sua vita solo per l'azione di fattori esterni, del clima, dell'alimentazione ecc. come pure per l'esercizio e l’educazione». Rispetto alle critiche del Weismann lo Haeckel afferma che l'anatomia comparata e l'ontogenia, la fisiologia e la patologia offrono prove a migliaia dell'ereditarietà delle proprietà acquisite. Anche altri darwinisti parlano della «forma organica d'inerzia dell'ereditarietà, dimostrata dall'esperienza quotidiana». Solo coll'avvento d'una dottrina rigorosamente sperimentale dell'ereditarietà si dimostrò quanto scarso valore probativo spettasse, in questo caso all' "esperienza quotidiana" e solo allora fu perciò aperta la via a metodi rigorosi d'indagine quantitativa.
Prima che si fosse pervenuti a tanto, in questo ambito ebbe campo libero la fantasiosità; una fantasiosità non attenuata certo dal suo compiacersi di parlare il linguaggio della fisica e della chimica, in luogo di quello più vecchio della filosofia naturale. Nella sua "teoria della perigenesi", enunciata nel 1876, lo Haeckel intese dare una "spiegazione meccanica" dei processi elementari dell'evoluzione e in particolare dell'eredità. Egli ritenne che in ogni processo riproduttivo all'entità procreata fosse trasmessa dalla procreante non solo la particolare composizione chimica del plasmon o plasma, ma altresì la particolare forma di movimento molecolare, che è legata alla natura fisico-chimica dell'entità medesima. Al tempo stesso egli considerava i plastiduli come "molecola animata" e affermava che ai loro movimenti (attrazione e ripulsione) sono associate sensazioni (piacere e avversione) così come lo sono ai movimenti degli atomi di cui essi sono composti.
Dinanzi a una siffatta rielaborazione della dottrina darwiniana si colora d'una luce tutta sua l'asserzione di Haeckel, secondo cui il darwinismo sarebbe stato il primo a immettere il "ragionamento esatto" nella biologia. La reazione in proposito non potè farsi attendere, e condusse a un risultato quanto altro mai rimarchevole e significativo sotto l'aspetto puramente metodologico. Se, nei primi entusiasmi destati dall'evoluzionismo si era presunto che questo liquidasse in sostanza il problema causale della biologia, che fosse risolta la questione circa le cause dei fenomeni vitali, ora si fece sempre vieppiù strada la convinzione che, nell'assetto che agli occhi dei più aveva assunto la teoria della discendenza, la questione non era stata nemmeno posta e che, per porla, fosse necessario trasferirsi su di un altro terreno.
È merito della nuova scienza della meccanica dell'evoluzione, che fra i suoi fondatori ebbe soprattutto Wilhelm Roux, avere individuato per prima questo problema e avergli conferito una precisa formulazione. Mentre lo Haeckel aveva affermato che Darwin era riuscito a trovare "le vere cause efficienti" dell'infinita varietà di forme del mondo organico, il Roux non esita ad asserire esattamente il contrario. Egli ribadisce che, ad onta di tutti i progressi segnati dalla storia della discendenza, manca ancora del tutto una cognizione delle cause dei processi evolutivi e che, per attingerla, dovremmo piazzar la leva in tutt'altro luogo. Infatti, seguire lo svolgersi cronologico d'un certo processo e poterne distinguere le singole fasi è tutt'altra cosa dal comprenderne le cause. Qui, com'è evidente, si tratta non già di prendere in esame mere questioni di fatto - giacché la validità empirica della dottrina darwiniana è inconcussa per il Roux non meno di quanto lo sia per lo Haeckel - bensì della questione gnoseologica del che cosa dobbiamo intendere per concetto di causa e a quali condizioni lo si possa adoperare nell'ambito della biologia.
Il punto d'avvio del dibattito in questa materia, l'aveva costituito la legge biogenetica fondamentale. Nella legge secondo cui la storia del germe è un brano di quella della specie, l'ontogenesi è una ricapitolazione breve e rapida dell'evoluzione della specie rispettiva, lo Haeckel non vede affatto la mera constatazione d'un fatto accertato dall'osservazione empirica. La rivendica invece una validità non inferiore a quella delle leggi fisiche in senso stretto, di quelle cinetiche generali. Per lui la legge biogenetica fondamentale è la più importante legge generale dell'evoluzione organica. Solo dall'osservazione ulteriore si apprese che non si poteva parlare d'un esatto ripetersi della storia della specie nell'evoluzione dell'individuo. Nella sua versione "critica" moderna la "legge biogenetica fondamentale" assume una formulazione ben più complessa; vi manca ogni appiglio, ogni possibilità di scorgervi qualcosa di diverso dall'espressione d'una regolarità empirica, ben lontana da quella "necessità" che pretendeva d'attribuirle lo Haeckel. «Nell'ontogenesi non si riproducono gli stadi finali degli antenati», scrive il Naef, «e non si danno una palingenesi nel senso inteso da F. Muller e da Haeckel, e quindi nemmeno una cenogenesi... Questo sarebbe, nella nuova formulazione, la cosiddetta "legge biogenetica fondamentale", la quale ovviamente è non una legge, ma la conseguenza d'una legge». Contro la concezione e l'interpretazione haeckeliane avevano già protestato lo His e il Goette. Entrambi separarono nettamente l'ottica filogenetica da quella fisiologica, ribadendo che solo quest'ultima poteva consentire una reale spiegazione causale dei fatti. L'evoluzione andrebbe studiata come un processo fisiologico; e potrebbe esser intesa in senso causale solo se si riuscisse a collegare secondo leggi determinate ogni stadio ulteriore di tale processo con quello immediatamente precedente. La genesi fisiologica sarebbe comunque assai più rilevante di tutte le speculazioni filogenetiche.
Il Roux è il discepolo del Goette e a questi si ricollega immediatamente. Ma in misura ben maggiore del suo maestro egli sente il bisogno e l'obbligo non solo di adoperare il metodo di ricerca su cui si basa, ma altresì di chiarirlo in abstracto e di precisarne la collocazione nell'insieme della conoscenza della natura. Pertanto egli perviene a vere e proprie indagini gnoseologiche sul concetto di "causalità" biologica e sull'indirizzo che deve seguire la ricerca delle cause nell'ambito dei fenomeni vitali. Torna in mente la nozione baconiana di dissectio naturae allorché il Roux dichiara che il "metodo universale dell'anatomia causale", che dobbiamo porre alla base della biologia, non dovrebbe limitarsi all'uso di strumenti materiali, ad adoperare coltelli anatomici, sostanze coloranti e strumenti di misurazione, ma che sarebbe di non minor importanza attendere a quella corretta "anatomia intellettiva" che consiste nell'applicazione del pensiero analitico causale.
In virtù di questa "anatomia intellettiva" appaiono adesso nettamente distinti i due elementi che nel darwinismo anteriore erano poco chiaramente confusi in uno. La questione del "perché" si distingue rigorosamente da quella riguardante semplicemente il dato di fatto. Nessuna descrizione, per quanto completa, d'un fenomeno vitale o nessuna cognizione, per quanto priva di lacune, della sua genesi storica possono, secondo il Roux, addurre una prova sicura del nesso causale. Per ottenerla, invece, sarà sempre necessario seguire un procedimento affatto diverso, del quale può offrire un modello la fisica esatta. Il fisico che intenda studiare la legge a cui obbedisce un dato fenomeno, non può limitarsi ad accertare quest'ultimo come un tutto inscindibile. Se Galileo vuole scoprire le leggi della caduta libera o quella del moto di proiezione, la prima condizione all'uopo è che egli riesca non a considerare i due fenomeni nella forma in cui si offrono all'osservazione immediata, ma a riconoscerli invece come complessi costruiti di condizioni semplici. Ciascuna di queste condizioni va studiata separatamente e ne vanno comprese le leggi, prima che si possa procedere ad enunciare la legge del fenomeno complessivo. Questo metodo risolutivo e compositivo, quale era stato elaborato dalla fisica classica," è evidentemente il modello che il Roux intende imitare nella biologia.
Solo in tal modo si può compiere, a suo parere, il passo decisivo capace di trasformare la biologia da disciplina puramente storica in disciplina causale. La cognizione della cause genetiche dirette, non ce la può dare mai altro che l'esperimento analitico; ma questo, per essere fecondo, va preceduto dal pensiero analitico. Le numerose forme particolari devono esser ricondotte a una minoranza, sempre più ridotta coll'andar del tempo, di azioni costanti con effetti formativi. «Spetta all'anatomico, al "morfologo", tendere alla piena cognizione e individuazione dei processi morfologici degli organismi, e non considerare, arbitrariamente, esaurito in questa materia il concetto di Xóyo<; con l'esame dei rapporti fra lo sviluppo individuale e quello filogenetico». La mera filogenia non potrà mai surrogare la ricerca delle cause; alla constatazione dei fatti deve invece far seguito l'indagine dei fattori causali determinanti di quanto è accaduto. In tal senso la meccanica evolutiva vuol essere la scienza delle cause che determinano la formazione, delle verae causae, cioè delle singole forze formative e del loro combinarsi. L'unico metodo sicuro d'indagine causale è quello dell'esperimento analitico. Se si considerò la legge biogenetica fondamentale come una già sufficiente spiegazione delle formazioni embrionali, a detta del Roux lo si deve alla confusione fra le effettive portate di due principi conoscitivi totalmente disparati. È dalla fisiologia e non dalla filogenia, che il Roux spera l'avvento del "Newton della biologia», della cui possibilità egli non dubita, anche se è ben lontano dal credere, insieme allo Haeckel, che egli sia già apparso in Darwin. Questo Newton dovrà poter costruire il movimento dell'organismo complessivo con i movimenti delle parti, ma ovviamente non si troverà nell'avventurata condizione di poterlo ricondurre ad appena tre leggi e due componenti.
Non v'è dubbio che con questa chiarificazione analitica del problema si era ottenuto un rilevante progresso sotto l'aspetto metodologico. L' "istorico" non coincideva più sic et simpliciter con il "razionale", ma se ne distaccava in misura ben chiara e netta. Nor. per questo, però, era ancora deciso quale dei due elementi avesse diritto alla precedenza nella costruzione della biologia. All'affermazione del primato delle interpretazioni fisiologiche e fisiche sui metodi puramente descrittivi e storici si oppose drasticamente Oskar Hertwig. A suo parere, la biologia perderebbe il suo carattere peculiare e si negherebbe la natura specifica del suo oggetto, qualora si accettasse un simile primato. Infatti la caratteristica essenziale dell'organismo consisterebbe appunto nel suo non lasciarsi considerare come un astratto sistema di forze, scomponibile nelle sue singole "componenti" e con esse ricomponibile. Chi procedesse in tal modo, secondo lo Hertwig finirebbe col trovarsi dinanzi nient'altro che le macerie del sistema. L'oggetto della biologia è, alla fine dei conti, una formazione (Gebilde) individua; è la "cellula" con le sue "predisposizioni". Questa formazione non possiamo che constatarla già esistente; ma non la si può ricondurre a qualcosa d'altro, di più semplice, né, in tal senso, può essere "spiegata" in termini analitico-causali. Il tentativo d'una spiegazione siffatta finirebbe col risolversi in un'illusione. Qui solo apparentemente sono superate o escluse la mera descrizione o la considerazione storica: di fatto il "ricercatore delle cause" non fa null'altro che tradurre in altro linguaggio i risultati del ricercatore descrittivo ed etichettare surrettiziamente i fenomeni, da quegli acclarati per via d'analisi, con la paroletta "forza".24 In questa contesa fra la metodologia "causale-analitica" e quella 'descrittiva" una posizione intermedia occupa il Butschli. Egli è vicino al Roux nell'asserire che un'idea reale dei fenomeni vitali non è acquisibile con la mera osservazione o descrizione, ma che lo è solo grazie all'indagine sperimentale. La cognizione del fatto che le uova e gli spermatozoi sono semplici organismi elementari o cellule, e quella del fatto che il processo di sviluppo si basa su di una continuata suddivisione di cellule, a suo parere non meritano ancora nemmeno lontanamente d'esser definite un rigoroso sapere circa i processi vitali. A un sapere siffatto potremo invece pervenire solo quando, in luogo di semplicemente ripercorrere con la mera osservazione il dolo decorso di quei processi, riusciamo in un modo o nell'altro a provocarli sperimentalmente o a riprodurli analogicamente. Ecco quindi che il Butschli si studiò di chiarire la struttura del protoplasma producendo artificialmente "spume" i-norganiche, nelle quali, come in una sorta di modello, studiò i movimenti del protoplasma. In processi che si svolgevano, in condizioni note, in una materia inanimata, la cui natura era ben conosciuta, e che corrispondevano più o meno a quelli osservati negli organismi più semplici, egli cercò di seguire il decorso dei fenomeni reali.25 Ma, naturalmente, analogia non è identità, e il modello non è la realtà stessa. Quanto è di specifico nei fenomeni vitali non viene dunque estinto con siffatti confronti, per istruttivi e fecondi che essi vogliano pur dimostrarsi. Ne risulta quindi per il Biitschli che non possiamo rispondere con un semplice "sì" o "no" all'interrogativo se il più adeguato alla biologia sia il metodo analitico-causale o quello descrittivo. Incontestati sono il diritto e il dovere che ha la scienza di scomporre ogni fenomeno vitale complesso nelle sue condizioni elementari e studiare dettagliatamente ciascuna di queste. Non sarà mai lecito imporre l'alt a questa analisi causale. Ma proprio se la si effettuerà con pieno rigore, essa finirà col vedersi condotta a un punto in cui l'esame analitico dovrà far necessariamente posto alla determinazione puramente descrittiva. Ogni spiegazione basata sulla meccanica dell'evoluzione, infatti, dovrà muovere, come sottolinea il Biitschli, da un dato substrato iniziale, dall'uovo fecondato e dallo speciale complesso delle sue condizioni. «Ma come si spiega, appunto, questo complesso di condizioni proprio dell'uovo fecondato? Qui finisce la spiegazione puramente meccanico-evolutiva. Giacché quest'uovo e il suo particolare insieme di condizioni sono qualcosa di realizzato storicamente, epperò da intendere, nella loro particolarità, solo con riguardo all'evoluzione storica di quegli organismi che, nel corso della storia della Terra, hanno cooperato a produrli». Così intesa, ogni considerazione causale, ogni indagine che si compia sul nesso fra cause ed effetti nell'ambito della biologia, dovrà sfociare sempre nel riconoscimento che entrambi i metodi sono indispensabili alla comprensione teorica. L'ontogenesi descrittiva offre un'esplicazione dei mutamenti morfologici; ma la spiegazione esauriente delle cause o condizioni efficienti da cui dipendono i mutamenti medesimi, potremo averla solo dalla considerazione analitico-causale e dall'esperimento compiuto in base ad essa.26
Al problema gnoseologico della biologia viene acquisita perciò una chiarificazione di grande importanza, grazie alla rigorosa separazione posta tra due fattori che nel primo darwinismo erano stati del tutto commisti fra di loro, Il fattore "storico" rivendica il suo diritto in ogni spiegazione dei fenomeni vitali; ma non pretende più di detenere in sé questa spiegazione già perfettamente compiuta e di poter dare una risposta a tutti i "perché". Ecco come compendia criticamente lo stato della questione il Naef: «Ogni scienza della natura si studia ài spiegare i fenomeni esistenti, cioè di palesarne le cause. Ma per una spiegazione compiuta dei fatti naturali sono sempre indispensabili due elementi, e cioè: 1, uno storico; 2, uno dinamico. L'elemento storico consiste nel fatto che ogni stato ha per presupposto o causa o cosa primordiale uno precedente, uno "stato previo"; quello dinamico consiste nel fatto che esso è scaturito da tale stato previo per l'azione di certe forze, laddove presupponiamo che per il passaggio da uno stato al seguente, cioè per le forze, valgono leggi naturali generali».27 Evidentemente la netta distinzione fra i due elementi non può essere abolita o estenuata richiamandosi al fatto che, in fondo, anche le "forze" di cui la fisica stabilisce l'esistenza, sarebbero dati di fatto ben determinati, di cui la fisica darebbe la descrizione. Polemizzando con il Roux, lo Hertwig ebbe a ricordare che indubbiamente anche la meccanica, nella quale egli scorge il modello dell'ottica genuinamente causale, può fornire non già una vera e propria spiegazione dei fatti cinetici, bensì secondo la nota definizione del Kirchhoff solo una "descrizione" dei medesimi.29. Ma il Roux potè respingere non a torto questa obiezione. La definizione del Kirchhoff, infatti, rispondeva all'intento di dissipare erronee attese meta-fisiche nei confronti della meccanica e di liberare quest'ultima dalla questione delle "ragioni" ultime dei fenomeni, dal problema concernente la "natura" delle forze cinetiche. Per niente affatto il concetto di "descrizione" andava inteso, in questo caso, quasi che si potessero cancellare i confini tra la rappresentazione matematica d'un fenomeno e quella semplice descrizione di cui si fa uso in biologia. La "descrizione" fatta con equazioni differenziali resta sempre qualcosa di diverso dalla rappresentazione puramente intuitiva di determinati dati di fatto concreti: la descrizione propria della fisica e quella propria della biologia appartengono a due piani in certa misura diversi. In tale contesto il Roux osserva che, nel dare la sua definizione, il Kirchhoff non deve aver presagito quale sorta di confusione si sarebbe ingenerata con essa dal punto di vista puramente metodologico.30 Ma la controversia scatenata in proposito ha un altro aspetto ancora e rimanda a uno strato di pensiero ancora più profondo. Questo è l'espressione d'una lotta intellettuale, che non si svolge nella sola biologia, giacché possiamo ripercorrerla attraverso l'intera storia della filosofia moderna. Quest'ultima, in Bacone e Cartesio, esordì promettendo agli uomini il dominio della natura. In Bacone dev'essere il metodo dell'induzione, correttamente sviluppato, a mettere l'uomo in condizione di comandare alla natura obbedendole. In Cartesio il comando spetta alla matematica. Ben lungi dal limitarsi a speculazioni astratte su figure e numeri, essa fornirà la prima vera conoscenza della realtà e farci pertanto "padroni e possessori della natura" (maitres et possesseurs de la nature). La vita non può sottrarsi a questo dominio, e di fatto non gli si sottrarrà, giacché nulla essa contiene che si sottragga alle leggi rigorose della matematica e della meccanica. Tanto più l'avremo in nostro potere quanto più riusciremo a scomporla nelle sue semplici condizioni e da esse a ricostruirla di nuovo mentalmente. L"'ana-tomia intellettuale", che il Roux intende introdurre nella biologia, non è nient'altro che la prosecuzione e la rinascenza di questo ideale conoscitivo baconiano-cartesiano. Ma di fronte a questo ne stava, fin da tempi remoti, un altro. Nella cerchia di quanti si dedicavano all'indagine sulla vita si sono sempre avuti degli spiriti ribelli a questa dissectio naturae, perché convinti che in tal modo si sarebbe espulsa la vita dalla natura e si sarebbe finito col non aver altro fra le mani che lo scheletro, il cadavere della natura stessa. La vita, essi affermavano, non può esser compresa in tal modo, con un'analisi concettuale; dev'esser vista e sentita come una totalità. All'intelligenza "analitico-universale" si contrappose la "sinteti-co-universale", alla "discorsiva" V "intuitiva". Nei capitoli più profondi della Critica del Giudizio si sviscera questa antitesi, cercando di chiarirne i fondamenti ultimi.31 Storicamente essa ebbe la sua incarnazione classica nella posizione di Goethe nei confronti di Newton. Goethe voleva espellere cotesto spirito della mera analisi non solo dalla biologia, ma altresì dalla fisica. «La fisica», egli dichiara, «dev'esser trattata separatamente dalla matematica. Essa deve sussistere in evidente indipendenza e cercar di penetrare con tutte le forze d'amore, di venerazione e di riverenziale timore nella Natura e nella sacra vita di essa, senza affatto curarsi di quel che dal canto suo produce e fa la matematica».32 La vita della natura può esser considerata e compresa solo muovendo dalla vita dell'uomo; ma tale interpretazione potrà riuscire solo se conserveremo l'esistenza e dell'uomo e della natura nella sua purezza e integrità, resistendo ad ogni tentazione di scomporla e spezzettarla. Per questa ragione Goethe non poteva non esser diffidente verso tutti gli "esperimenti" sulla natura. Egli ascriveva alla pura osservazione una virtù maggiore e un più alto valore di verità che alle artificiose apparecchiature fatte di "leve e viti", con le quali cerchiamo di strappare, di carpire alla natura il suo segreto. Per questa ragione egli afferma che microscopio e telescopio confondono, in realtà, la "pura mente umana".33 Per porsi in un rapporto veramente armonico con la natura e in particolare con l'universo della vita, l'uomo non ha bisogno di siffatte mediazioni. «In se stesso, nella misura in cui si serve di sani sensi, l'uomo è l'apparato più eccellente e preciso che si possa dare in fisica, e la massima iattura della fisica recente è proprio l'aver segregato, per così dire, gli esperimenti dall'uomo e il pretendere... di riconoscere la Natura unicamente in ciò che mostrano strumenti artificiali».34
Finché era rivolta contro la fisica questa lotta agli "strumenti artificiali" era votata al fallimento fin dall'inizio. Nell'ambito della biologia, invece, i suoi effetti si fecero sentire a lungo, e non vi restò limitata alla mera negazione, ma recò frutti duraturi.35 Nemmeno qui si riuscì ad espellere l'esperimento; il monito goethiano servì piuttosto a inculcare la differenza metodica che esiste fra la semplice osservazione della natura e l'esperimento "artificiale". A seguire le orme di Goethe a questo proposito fu addirittura il primo fondatore e pioniere della fisiologia moderna. Nella sua opera intitolata Zur vergleichenden Physiologie des Gesichtssinnes [Sulla fisiologia comparata del senso della vista] (1826) Johannes Mailer non solo si professa alunno di Goethe, ma ne fa proprio anche il ridimensionamento critico dell'esperimento. Nessuno vedrà certo in lui un avversario del microscopio e dell'esperimento; fu anzi lui a introdurre in Germania la fisiologia sperimentale. Sch-wann e Virchow, du Bois-Reymond e Helmholtz furono suoi alunni.36 Eppure il Muller afferma che la "semplice pacata osservazione" conduce al cuore del problema, mentre il dedicarsi a un inattendibile esperimento non è altro che un "pericoloso gioco di preparazione". Infatti, «cos'altro è l'osservare se non lo sceverare quel che di essenziale è nel mutamento, ciò che è immanente al mutevole da quanto è accidentale? L'esperimento, invece, brancicando or qua or là, palesa fin troppo spesso l'inclinazione ad affastellare alla rinfusa l'accidentale con l'essenziale».37 Nella sua difesa del metodo puramente "descrittivo" lo Hertwig si richiama esplicitamente a queste righe.38 Ma in ciò nemmeno il Roux era isolato, che anzi incarnava un determinato indirizzo di ricerca, risultato, in costante e coerente evoluzione, dall'ideale cartesiano della conoscenza della natura. In Francia, nell'ambito della fisiologia, nessuno lo sostenne più rigorosamente di Claude Bernard. «La seule voie pour arriver à la vérité dans la science physiologique», egli afferma, «est la voie expérimentale».39 Anche il Roux scorge in questa la massima fondamentale d'ogni autentica conoscenza della natura. A suo intendere, il pensiero analitico-causale e l'esperimento sono in certo qual modo solidali fra di loro e inseparabili l'uno dall'altro: il primo deve aprire la via al secondo, ed è solo quest'ultimo a decidere se questa via era quella giusta e se ha condotto alla meta. Il Roux ribadisce che con questa ripartizione dei ruoli fra pensiero ed esperimento non è affatto contestata l'importanza della descrizione ai fini della conoscenza biologica e che non ne vanno minimamente sminuiti i diritti. A suo parere, infatti, è possibile altresì un esperimento puramente descrittivo. Questo, che potrebbe essere denominato anche "esperimento formalmente analitico" si svolge senza voler provocare una reazione nell'oggetto e, qualora nondimeno se ne verifichi una, senza sfruttarla ai fini dell'esperimento medesimo. Il suo intento consiste esclusivamente nell'offrire all'osservazione il "fatto formale" con maggiore esattezza. A questa categoria d'esperimenti appartengono, ad esempio, quelli compiuti dal Pfliiger e dal Roux sulle uova di rana, allo scopo di accertare se per caso la direzione della prima segmentazione dell'uovo nei due primi blastomeri non avesse già una relazione determinata con la direzione del piano di simmetria del futuro animale. Risultò dai tre quarti dei casi che le due direzioni coincidevano appieno o quasi. Questo esperimento, di per sé puramente descrittivo, solo in seguito divenne un esperimento causale, grazie all'eliminazione d'un fattore causale, la forza di gravità. Il Pfliiger era giunto alla conclusione che era la forza di gravità a determinare nell'uovo il luogo che sarebbe poi diventato il midollo spinale, e che tale determinazione avvenisse addirittura senza riguardo alcuno della natura del materiale di cui l'uovo era composto in quella determinata parte. Con un appropriato dispositivo sperimentale il Roux riuscì ad escludere l'effetto della forza gravitazionale senza perciò modificare il normale sviluppo dell'uovo; ne risultò che alla determinazione del piano di simmetria non era necessario l'effetto ordinatore e dispositore della forza di gravità. S'impose l'importante conclusione che nell'uovo fecondato sono contenuti tutti i fattori che determinano la specie tipica della struttura e che pertanto lo sviluppo va inteso come "autodifferenziazione". Gli esseri viventi che si sviluppano sono, in sostanza, «complessi in sé conchiusi di attività che determinano e producono una strutturazione»; perché quelle si verifichino occorre che dal di fuori siano forniti solo le energie per l'attuazione e il materiale.40 Dal fatto dell'autodifferenziazione il Roux non trasse conclusioni "vitalisti-che" di sorta, attenendosi invece rigorosamente al suo sistema meccanicistico. Fu solo un suo allievo e collaboratore, che come lui perseguiva l'ideale della meccanica dello sviluppo, Hans Driesch, a vedersi condotto dalle sue esperienze a conclusioni che lo indussero a gettare a mare quell'ideale, nonché ad affermare e motivare in senso nuovo l'"autonomia dell'organico".
6. LA DISPUTA SUL VITALISMO E L' "AUTONOMIA DELL'ORGANICO"
Un osservatore che avesse seguito lo sviluppo avuto dalle idee in fatto di biologia nell'Ottocento, ben difficilmente avrebbe potuto prevedere il movimento del vitalismo, che ebbe inizio nell'ultimo decennio del secolo e che da allora in poi andò acquisendo estensione e influsso in misura costante. Fino allora il vitalismo era sembrato perdere continuamente terreno. È pur vero che non era mai stato espulso completamente dalla filosofia, benché anche in questo terreno gli fosse cresciuto contro un critico spietato nel Lotze} Nell'ambito della scienza, invece, aveva da tempo perduto ogni credito il concetto di "forza vitale". Il du Bois-Reymond mise in dileggio questa "ragazza tuttofare", che prima sarebbe stata destinata a risolvere tutti i problemi, e sottolineò che l'ambito assegnato alla forza vitale andava riducendosi giorno per giorno.2 In sede di chimica scese in lotta il Liebig} Di fatto fu ben presto evidente che, dato il progresso dell'indagine empirica, il vitalismo perdeva, sempre di più, proprio quelle posizioni che prima aveva ritenute inespugnabili. Se prima si era creduto di poter riconoscere in quella esistente fra l'universo dell'inorganico e il mondo dell'organico una differenza materiale e di poter dimostrare l'esistenza d'una specifica "materia vitale", questa speranza sfumò quando nel 1828, il Woehler riuscì a produrre l'urea per mezzo di componenti puramente inorganici. Da quando, poi, fu scoperto il principio della conservazione dell'energia, nemmeno il concetto di forza offrì più un appiglio per assicurare una posizione eccezionale ai fenomeni vitali. Non fu più possibile mettere in dubbio che il metabolismo energetico della natura vivente obbedisse alle stesse leggi universali che reggono la natura inanimata. Neppure il vitalismo moderno pretese contestare o negare l'universalità del principio della conservazione dell'energia; si studiò, anzi, di far vedere che essa è perfettamente compatibile con la concezione vitalistica di fondo.* Ecco cosa potè affermare nella sua Fisiologia generale il Verworn: «Le ricerche calorimetriche contemporanee hanno evidenziato che in ogni animale adulto esiste un perfetto equilibrio dinamico, vale a dire che esattamente la stessa quantità d'energia, che penetra nel corpo dell'animale come energia chimica con il nutrimento, lo abbandona con l'attività vitale dell'animale medesimo».5 Furono pertanto abbandonate le vie battute in precedenza per assicurare una posizione d'eccezione ai fenomeni vitali; chi pretese affermarla, fu costretto a cercare altri argomenti e altri punti d'avvio.
È di primo acchito sorprendente che nei primi scritti del Driesch sia messa in primo piano la meccanica dell'evoluzione e che l'autore vi colleghi direttamente la sua tesi. Il Roux aveva introdotto quella meccanica come un "nuovo ramo della scienza biologica", il cui compito preminente doveva consistere nel dimostrare che biologia e fisica si risolvono completamente l'una nell'altra. Significava, quindi, attaccare il nemico nel suo più forte caposaldo il fatto che il vitalismo penetrava in questo campo di ricerca e se lo rivendicava. Quanto a lui, il Roux respinse tenacemente tentativi del genere. È pur vero che egli riconobbe un'"anatomia" dei processi vitali formativi; ma la considerava solo nella misura in cui le particolari attività ed effetti che hanno luogo negli esseri viventi hanno le loro cause nella composizione fisico-chimica dei medesimi, oltremodo complessa.6 In una spiegazione che facesse ricorso a cause diverse dalle meccaniche, il Roux scorgeva null'al-tro che un"'ammissione d'imbarazzo filosofico". Essa non può avere alcun valore per la scienza della natura, non foss'altro perché non è suscettibile di riprova sperimentale.7
A considerare, però, l'attività scientifica del Roux nel suo complesso, e soprattutto la fondazione metodologica da lui conferitale, si rileva che già in lui stesso il programma rigorosamente meccanicistico enunciato si attua, in definitiva, non oltre un determinato limite. Questo limite si fa evidente già nella definizione di organismo da cui il Roux prende le mosse. A voler rendere completa l'analogia fra biologia e fisica, si dovrebbe riuscire a risolvere semplicemente l'organismo in un sistema di forze motrici. Un essere vivente sarebbe, così come un corpo della natura inorganica, un insieme di semplici punti materiali. Se impostiamo le equazioni differenziali per il moto di questi punti materiali, dovremmo essere in grado di dedurne le leggi generali che reggono tutti i fenomeni determinandoli fin nei particolari. Ma qui c'imbattiamo subito in una differenza fondamentale, che concerne non tanto le leggi cinetiche in quanto tali, quanto piuttosto gli elementi con cui ha a che fare l'indagine biologica. Nel sistema della meccanica questi elementi sono del tutto uniformi; nessuno presenta una qualche differenza qualitativa rispetto all'altro. Ogni punto materiale è, per natura sua, eguale all'altro; non è nient'altro che un mero valore numerico da noi attribuito a un elemento. Ma nello studio di fenomeni organici non potremo mai spingerci fino a tale scomposizione. Qui finiamo sempre per imbatterci in una differenza specifica fra gli elementi: una differenza di "forma". Quando cerchiamo di descrivere un organismo e di ripercorrerne l'evoluzione, dobbiamo sempre far i conti con questa forma, con una "disposizione" originaria. Nell'organismo, accanto a condizioni esterne, agiscono sempre determinate cause specifiche, che il Roux denomina fattori ài determinazione e che conferiscono un indirizzo ben determinato al fenomeno. Se, ad esempio, si prendono in esame uova di pesci, anfibi e invertebrati contenuti nello stesso corso d'acqua o stagno, o si mettono uova di uccelli diversi nella stessa incubatrice, ciascun uovo si sviluppa, malgrado le condizioni uniformi, in modo diverso, e tipicamente diverso, cioè di un essere vivente appartenente a quella determinata classe, a quel determinato genere, a quella determinata specie.8 Ma con questo concetto di fenomeno tipico, caratteristico e indispensabile per l'indagine del Roux, quest'ultima ha già abbandonato, in fondo, il terreno del meccanicismo in senso stretto. Nella meccanica di Cartesio, di Galilei o di Newton, non è posto per un concetto del genere, né in base ad esse lo si sarebbe potuto attingere. Vi regna, invece, il concetto aristotelico di forma; solo nel quadro di esso, infatti, possiamo parlare di Sùva^n; ed è\iépysux , d'una "disposizione" specifica originaria dell'organismo, la quale perviene a compiuta realizzazione nel corso dello sviluppo. Certo è che il Roux era ben lontano dal trarre da queste premesse le stesse conclusioni metafisiche che ne aveva tratte Aristotele. Tuttavia dal punto di vista puramente metodologico anche in lui questo primo passo si rivela non solo importante, ma veramente decisivo per l'intero suo sistema. Una volta introdotto e accettato il concetto di potenza, ne ricevono anche tutte le altre questioni e risposte della meccanica evolutiva un senso nuovo e sono diremmo quasi poste sotto un segno diverso. Anche l'interpretazione dei risultati degli esperimenti segue ora un indirizzo perfettamente determinato, imposto dall'interesse a evidenziare come nello sviluppo dell'organismo si corrispondano a vicenda le condizioni "esterne" e le "interne" e come reciprocamente si determinino. Si può quasi affermare che d'ora in poi la meccanica dell'evoluzione parli un altro linguaggio, ben diverso da quello della meccanica abituale, un linguaggio che ha vocabolario e sintassi peculiari. La formazione di esso, ci è dato ripercorrerla passo dopo passo nella costruzione del sistema rouxiano, ed essa finisce coll'indurre a far sì che si differenzino sempre di più il valore proprio e le peculiarità attribuiti all'organismo e si distendano in un largo ventaglio di attività particolari. Il Roux sottolinea che, volendo caratterizzare queste peculiarità, non potremo mai arrestarci alle singole determinazioni puramente materiali o sostanziali. Della vita non può darsi una definizione chimica, così come non può darsene una statico-fisica. La vita è accadere, e pertanto è possibile, di essa, solo una definizione funzionale. Il Roux distingue nove "autoprestazioni tipiche" dell'organismo: autotrasformazione, autoescrezione, autoricezione, autoassimilazione, autoaccrescimento, autocinesi, automoltiplicazione, autotrasmissione delle proprietà (ereditarietà), autoformazione e autoconservazione. Solo grazie a un così complesso sistema di attività, di autoergasie, un essere vivente può esistere ed essere individuato in quanto tale.9 «Con la cognizione ài queste autoattività», dichiara il Roux, «non ci siamo ancora accostati all'essenza degli esseri viventi. L'essere vivente non ha che una sola individualità e pertanto una cosiddetta interiorità. Nel loro insieme complessivo le dette autoprestazioni assicurano l'autoconservazione dell'essere vivente». Ma ad esse deve aggiungersi, infine, un altro elemento ancora, nel quale tutte per così dire hanno il loro culmine. Per la durevolezza degli esseri viventi si esige soprattutto 1'"autoregolazione morfologica": la capacità dell'organismo di compensare al suo interno le perturbazioni esterne da cui è costantemente minacciato e di rigenerarsi sempre nella forma che gli è peculiare.
Avendo fissato tutto questo, il Roux ritiene di non aver ecceduto la sfera di quanto è rigorosamente osservabile. A suo parere le autoattività dell'organismo non sono qualcosa di ottenuto per ragionamento; sono invece puri e semplici fenomeni, che s'impongono immediatamente all'osservazione. Se si prescinde da esse, un processo vitale non può esser nemmeno descritto. Ma ecco sollevarsi un'obiezione, che di fatto non fu risparmiata alla teoria rouxiana e che, sul piano gnoseologico, l'ha cacciata in una serie di discussioni oltremodo rilevanti. Sussistono dal punto di vista dell'osservazione, una possibilità e un diritto di distinguere, così come avviene nel caso nostro, fra un "interno" e un "esterno", fra quanto l'organismo compie "esso medesimo" e gli effetti _ che sortiscono su di esso cause estranee? Tutto questo è ancora scienza naturale? o non è forse già metafisica? Fu in specie il Verworn a muovere questa obiezione al Roux e a trarne la conclusione che, ben lungi dall'attuare il suo programma meccanico, il Roux gli si era reso infedele già con il primo passo. L'ideale scientifico che il Roux aveva della scienza consisteva nell'esigenza di far passare la biologia dallo stadio puramente descrittivo a quello del rigoroso pensiero analitico-causale. Ma il Verworn l'accusa nientemeno d'essersi lasciato sfuggire la questione capitale, mancando di dare una risposta chiara e rigorosa all'interrogativo col quale ci si chiede che cosa sia il "pensiero causale". Qualora avesse tentato di farlo, non avrebbe potuto non accorgersi che è puramente fittizia la distinzione fra cause "esterne" e "interne", su cui si basa l'intero sistema. Una differenza siffatta è sostenibile solo dall'angolo visuale d'un concetto metafisico, ma non empirico, di causa. Quel che ci è dato in sede empirica non è mai altro che la dipendenza di certi fenomeni da altri. Non possiamo mai far niente di più se non constatare che coU'apparire dell'uno è dato anche l'altro in un modo determinato; ci manca invece ogni criterio per decidere quale dei due sia il primo e quale il secondo, quale sia 1' "efficiente'1 e quale l'"effetto". Il "causalismo", che fino allora aveva dominato il pensiero scientifico e l'aveva gravato costantemente di problemi insolubili, deve pertanto trasformarsi, secondo il Verworn, in un mero condizionalismo. D'un avvenimento possiamo accertare sempre e soltanto le condizioni, e mai le cosiddette "cause". Ma tutte le condizioni sono equivalenti, giacché ognuna di esse è non meno delle altre indispensabile per il risultato finale: se vien meno una sola, non si verifica più nemmeno il risultato finale. Non è quindi possibile estrapolare dal complesso una condizione e dichiararla Inessenziale", diversificata dalle rimanenti. Simili distinzioni sono ben comprensibili nell'ottica superficiale propria della vita d'ogni giorno, in cui spesso dà nell'occhio in modo speciale un singolo fatto; sul piano scientifico sono invece prive d'importanza e valore. Se vogliamo compiere un lavoro scientifico ben fatto, dovremo perciò escludere affatto il concetto di causa come principio esplicativo e sostituirlo con quello di condizione. Il "condizionalismo" è l'unica visione scientifica del mondo, infinitamente superiore al causalismo. Una volta, però, che ci si sia risolti per esso, vengono a mancare ogni possibilità e ogni occasione di distinguere fra le cause "interne" e quelle "esterne" d'un fenomeno naturale. Ed è perciò eliminato definitivamente quel concetto di "disposizione" sul quale il Roux aveva costruito il suo sistema. Ciò che comunemente si chiama "organizzazione", non è mai esperienza; è soltanto un elemento "mistico" intrusosi nella scienza, e uno degli obiettivi più importanti di quest'ultima dovrà consistere nell'espungerlo.10
Contro questo modo d'intendere le sue ricerche e contro questa critica dei loro risultati il Roux oppose la resistenza più decisa. Egli si attiene saldamente alla convinzione che proprio dal punto di vista della meccanica evolutiva, della "morfologia causale", è non solo possibile ma indispensabile distinguere tra i fattori dell'accadere fenomenico. È ovvio che entrambi i fattori sono egualmente necessari al verificarsi dell'effetto, ma ciò non significa affatto che essi siano equivalenti. L'aequinecessitas non è in alcun modo "equivalenza" di tutti i fattori. Sussiste, invece, fra questi un'evidente diseguaglianza axiologica: sussiste una differenza tra i fattori "determinanti" l'accadere organico e quelli "realizzanti", i soli che siano in grado di aiutare i primi a raggiungere la loro piena efficacia. Con questo, però, appare già ben chiara nel Roux quell'antitesi, che in seguito il Driesch definì come antitesi tra fenomeni organici e fenomeni puramente "cumulativi". Il Roux si scaglia, vivacemente contro una concezione, qual era quella sostenuta dal Pfluger, secondo cui «l'uovo fecondato non ha un rapporto essenziale con quella che sarà poi l'organizzazione dell'animale, cosi come il fiocco di neve non sta in un rapporto essenziale con l'entità e la forma della valanga che, a certe condizioni, può originarsi da esso».11 In verità l'essere vivente è una formazione a sé stante, certo non per una singola proprietà che lo contraddistingue, bensì per l'insieme complessivo delle sue funzioni, nelle quali consiste la sua "capacità d'autoconservazione". Per questo si designano come esterni gli altri fattori che, come si dice, influiscono su "questa formazione"; non diciamo invece, come potremmo e dovremmo fare dal punto di vista del puro condizionalismo, che l'essere vivente influisca sui detti fattori, ad es. sull'ossigeno.12 Sulle prime, e sul piano puramente teorico, il Driesch non si propose altro obiettivo che quello di recare a piena esplicita chiarezza tutti quegli elementi che erano già racchiusi implicitamente nei concetti rouxiani di "sviluppo tipico", "autoaccadimento", "autoregolazione" e di "adattamento funzionale", e di trarne quelle conseguenze che a suo parere sono inevitabilmente comportate da essi. Con ciò egli intende diremmo quasi recare alla sua autodissoluzione dialettica il concetto di meccanica dell'evoluzione. A suo avviso tale concetto contiene, in fondo, elementi inconciliabili; chi concepisce con pieno rigore e pensa sviscerandola appieno l'idea di "evoluzione", secondo il Driesch deve perciò stesso esser condotto oltre la meccanica; chi si attiene a questa come all'unica fonte di conoscenza, deve perciò stesso negare ogni evoluzione in senso proprio e tipico. La meccanica evolutiva, scrive lo Schaxel, «col passare al concetto di regolazione rischia di doversi smentire, tanto come evoluzione quanto come meccanica».13 Ma è proprio questo concetto ciò intorno a cui ruota incessantemente fin dall'inizio l'intero pensiero del Driesch. La meta che egli s'era posta fin dagli esordi consisteva in una spiegazione dei processi regolatorii dell'organismo, una spiegazione che non solo si accordasse con tutti i fenomeni già noti, ma si spingesse fino alle ragioni ultime, la cui formulazione spetta al pensiero filosofico. Tutto il complicatissimo apparato concettuale da lui edificato doveva essere nulla di più che mezzo per raggiungere tale scopo. Che qui era il punto veramente decisivo di tutte le teorie meccaniche, il Driesch l'aveva già riconosciuto, e tutta la critica e tutta la polemica contro il darwinismo si erano concentrate su di esso. Gustav Wolf aveva affermato insistentemente che nessuna "teoria casualistica", come è quella darwiniana della selezione naturale, era capace di facilitarci l'intelligenza dei processi regolatorii. Come possa originarsi un organo così complicato quale ad es., un occhio umano, e come possa ristabilirsi dopo una lesione, secondo il Wolf una teoria del genere non sarà mai capace di spiegarlo. Gli organi simmetrici e "omodinamici" non saranno mai spiegabili in base all'accumularsi di casi fortuiti; sarà invece proprio questo accumularsi a restare un enigma incomprensibile, un vero e proprio miracolo.14 Il Bleu-ler ha calcolato approssimativamente che la probabilità di un'origine causale della collocazione di cornea, cristallino, corpo e retina, ammonterebbe tutt'al più a 1:1042. Per l'originarsi d'un organo intero "funzionalmente" disposto, questo valore andrebbe moltiplicato per migliaia di frazioni di analogo ordine di grandezza per ogni parte dell'organo.15 Anche il Wigand aveva dichiarato che qui risiedeva il vero experimentum crucis del darwinismo. Se questo non riusciva a spiegare l'originarsi o il trasformarsi, contemporaneo e rivolto nello stesso senso, di due o più organi, e quindi dei due occhi, delle due orecchie ecc., e a render comprensibile, con l'ausilio della variazione fluttuante e della selezione, la facoltà restitutiva di tali organi, la teoria era da considerarsi fallita. Ma a suo parere il darwinismo non ha mai intrapreso nulla del genere, e un simile tentativo sarebbe necessariamente votato al fallimento, giacché «un Partenone non si edifica a sassate».16 Il Wolf fondava la sua opinione sui risultati ottenuti da lui medesimo con esperimenti sulla salamandra d'acqua (tritone). Avendo asportato sperimentalmente il cristallino dall'occhio dell'animale, si riscontrò che l'organo si era perfettamente ricostituito dopo qualche tempo. Ma il nuovo organo non si era formato allo stesso modo in cui aveva avuto origine il precedente nel corso dello sviluppo embrionale. «Embrionalmente la lente ha origine dalla parte ectodermica della pelle; nel caso di rigenerazione si origina dall'epitelio dell'iride, e quindi dal cosiddetto calice ottico, che a sua volta trae origine dal rudimento embrionale dell'encefalo. Il fatto che per questa formazione sostitutiva si faccia ricorso a un tessuto affatto estraneo alla nuova funzione appare ancora più drastico per via d'un altro fatto: che il materiale per la formazione più trasparente, cioè per la lente, sia fornito dalla formazione più opaca in possesso dell'organismo, cioè dalla lamella pigmentata in nero dell'iride». Sembrava quindi essere addotta una prova clamorosa di ciò che il Wolf definiva il "finalismo primario" dell'organismo, cioè un finalismo che non poteva essere stato acquisito nel corso dei tempi, ma doveva essere stato esistente fin dalle origini. In questo si trattava, infatti, della riparazione d'un danno che era potuto capitare a un animale di rado o addirittura mai nel corso della sua preistoria e al quale, perciò, non avrebbe potuto nemmeno adattarsi in alcun modo gradualmente. In natura non si verifica la perdita del cristallino nei tritoni; e sono almeno assai rare più estese lesioni oculari che comportino la perdita del cristallino, ma che non siano tanto gravi da condurre alla perdita completa della vista.17
Anche il Driesch mosse da un ampio studio dei fenomeni di rigenerazione e regolazione,18 ma ne trasse immediatamente conclusioni che lo portarono a invadere il campo della metafisica assai più profondamente di quanto non fosse mai avvenuto in antecedenza nel quadro della ricerca empirica dell'Ottocento. I suoi esperimenti sul riccio marino costituirono il punto d'avvio sperimentale a cui tennero dietro immediatamente arditissimi tentativi d'interpretazione. Da queste esperienze era risultato che organismi assolutamente normali potevano originarsi da germi gravemente danneggiati ad opera d'interventi sperimentali. Quando, per esempio, il Driesch divise in due un germe di riccio marino, da ognuna delle due metà si originò una larva affatto normale di grandezza dimezzata. Allorché, poi, si mise il germe fra due lastre di vetro e per pressione si determinò un completo spostamento delle cellule, si vide che simili rapporti reciproci di posizione, affatto normali, non necessariamente escludono il formarsi d'un insieme normale. Non per questo si origina un disordine nel sistema; il germe con cellule sostituite resta un tutto autonomo, che continua a perseguire tranquillamente il suo progetto.19 La conclusione che trae il Driesch è che la forza formatrice all'opera in tutto questo, non essendo perturbata da divisioni, separazioni o dislocazioni, dev'essere qualcosa che non possiede una natura spaziale e a cui non è assegnabile alcun luogo determinato "nello" spazio. Esitazioni e ripensamenti ebbe il Driesch nelle denominazioni di questo "qualcosa". Nei primi scritti non esita a denominarlo semplicemente anima, definendo questa come un «fattore naturale elementare».20 In seguito modificò la denominazione, al fine di evitare l'idea dell'azione volta consapevolmente a uno scopo: volle parlare non più di "anima", ma solo di "qualcosa che è simile all'anima", d'uno "psicoide". Si tratta, come dice lo stesso Driesch, d'un qualcosa che non è psiche, ma nondimeno può esser preso in esame solo con categorie psicologiche.21 L'espressione veramente calzante, però, egli finì col trovarla solo nel concetto aristotelico di entelechia, che pertanto torna ad esser per lui il nucleo centrale e punto chiave dell'intero sistema biologico. L'entelechia è la forza che crea la forma dell'organismo, una forza di natura completamente diversa da quelle fisico-chimiche e non può esser collocata allo stesso livello di queste ultime. Tutti i fattori puramente fisici o chimici non sono che mezzi di cui l'organismo si serve; non costituiscono la vita, ma vengono adoperati e posti al proprio servizio dalla vita. Non v'è macchina di sorta né di qualsivoglia forma, e non v'è causalità di forma poggiante su costellazioni spaziali, che possano chiarire le operazioni che l'organismo compie giorno per giorno, ora per ora. «È immaginabile che una macchina assai complessa, costruita diversamente nelle tre diverse direzioni dello spazio, possa venir suddivisa cento e cento volte eppur restare intera?».22 Ovviamente l'entelechia non è qualcosa di dato-intuibile; la si può solo pensare, giacché non appartiene al mondo dell'intuizione, che è il mondo dello spazio. Ma la sua realtà è nondimeno incontestabile, poiché si palesa immediatamente nei suoi effetti. Questi, però, sono di natura peculiare e non li si può mettere allo stesso livello con la trasformazione fisico-chimica dell'energia. Che tale trasformazione obbedisca a determinate leggi di conservazione, non abrogabili nemmeno da parte dell'entelechia, è indiscutibile per il Driesch. Ma un "agente non meccanico", qual è l'entelechia, per quanto non sia in grado di modificare 1' il quantum d'energia d'un sistema dinamico, possiede la capacità di I far ruotare un qualsiasi elemento del sistema stesso e pertanto di modificare la direzione delle forze e dei movimenti. In tal modo, I per mezzo dell'entelechia può essere "sospeso" un avvenimento che sarebbe possibile secondo le leggi inorganiche. Qui ci troviamo di fronte a un modo d'attività a cui non si può affiancare nulla nell'ambito del mondo inorganico, giacché è aspaziale, intensivo, qualificativo, invece d'esser spaziale, estensivo e quantitativo. Cionondimeno entrambe le specie d'attività, pur essendo toto coelo diverse tra di loro, si riferiscono al medesimo oggetto, cioè a quella stessa catena di eventi spazio-temporali che denominiamo "natura". Infatti anche l'entelechia, pur non essendo nulla di spaziale e non agendo sullo spazio, agisce "dentro lo spazio". Si riferisce alla natura dello spazio ed è un fattore di questa natura medesima.
Con questi principi il Driesch intese fondare «la biologia come scienza basilare autonoma»; ma leggendone l'enunciazione è ovvio ricavarne l'impressione che vi si trascenda, e di molto, la sfera di quanto è accertabile e dimostrabile ad opera della scienza. Già Cartesio aveva avvisato che l'anima, pur non potendo aumentare o diminuire il totale della quantità di moto esistente nell'universo, poteva però modificare la direzione del moto stesso; ma già Leibniz gli aveva opposto che nemmeno un simile mutamento di direzione è possibile senza l'impiego d'un'energia determinata. Qui . sta, fin dall'inizio, il punto più debole della teoria del Driesch, e su di esso si appuntarono gli strali della critica.23 Ma, quale che sia l'atteggiamento assunto nei confronti di questa teoria e per quanto nettamente si vogliano rifiutare le conclusioni metafisiche che vi si traggono, è comunque innegabile che, con le sue indagini sperimentali e con le questioni connessevi dallo stesso Driesch, questi abbia contribuito in misura assai rilevante a far accettare alla biologia il principio e il problema metodologici che le sono propri e peculiari. Su questa linea si pone l'azione più vigorosa esercitata dalla sua teoria. Un'azione che ovviamente è stata valutata nei modi più disparati nella storiografia della biologia contemporanea. Il Nordenskiold non scorge nel sistema di Driesch nient'altro, in fondo, che un'accurata e minuziosa analisi concettuale, nel corso della quale il Driesch è indotto sempre più a speculazioni astratte. Si ha l'impressione, secondo il Nordenskiold, che la pagina del Driesch riconduca agli anni ruggenti della filosofia hegeliana, tanto più che i processi vitali vi sono definiti e caratterizzati in un modo che non teme confronti per oscurità e astruseria.24 A un giudizio affatto diverso approda il Ràdi nella sua storia delle teorie biologiche, affermando che tra i filosofi il Driesch è il più vicino a Kant e potrebbe esserne definito il continuatore. A differenza degli altri biologi, infatti, egli non sarebbe un mero empirico, ma si sforzerebbe d'attingere una "scienza pura della natura", i cui principi siano universali e superiori ad ogni dubbio.25 Ma a questo proposito va obiettato in primo luogo che per Kant la "parte pura" della scienza naturale coincide con quella matematica della medesima e che egli intende limitarla esplicitamente a quei "principi matematici della filosofia naturale" la cui validità universale è contestata dal vitalismo drieschiano. È però soprattutto la questione del rapporto fra conoscenza della natura e metafisica ciò in cui il Driesch non solo non si rifa a Kant, ma batte una via diametralmente opposta. Il Driesch, certo, ritiene di restar fedele ai principi gnoseologici di Kant e si compiace di definire la propria dottrina un "idealismo critico".26 Egli ribadisce che senza un costante contatto con la gnoseologia è impossibile una feconda scienza della natura.27 Di fatto, però, è proprio nella sua dottrina centrale, quella deU"'entelechia", che egli non solo contraddice, ma addirittura liquida i presupposti dell'idealismo critico di Kant. Allorché questi considera il rapporto fra causalità e finalismo, fra meccanicismo e teleologia, non si tratta, per lui, di delimitare a vicenda due diversi sistemi di forze o due potenze ontologiche assolute. Il problema della natura e del rapporto reciproco di siffatte potenze, egli lo dichiara insolubile; e fa rilevare che per il fatto stesso di prospettare tale problema la ragione e la scienza si cacciano in un intrico di antinomie. Tanto il concetto di fine quanto quello di causalità, Kant li considera esclusivamente come principi conoscitivi, come modi cognoscendi e, se li contrappone l'uno all'altro, lo fa a nessun altro fine che quello di delimitarli in modo rigorosamente lucido l'uno rispetto all'altro, secondo l'interesse metodologico che essi rappresentano, e secondo la funzione che hanno da assolvere nell'edificazione della conoscenza della natura. Entrambi, a suo parere, non servono a null'altro che all' "esposizione dei fenomeni"; ma questa avviene, in base ad essi, con indirizzi diversi. La causalità è un principio sintetico "costitutivo" ed è una condizione imprescindibile per la "possibilità della natura" in generale. Ciò che le si sottraesse, cadrebbe per ciò stesso fuori dall'ambito della natura, poiché questa è «l'esistenza delle cose in quanto determinata da leggi universali». La possibilità che si diano siffatte leggi universali che non siano leggi causali rigorose e quindi non di natura matematico-fisica, Kant non la prende nem-
meno in considerazione. Ma per altro verso egli ribadisce che queste leggi non sono in grado nemmeno di farci conoscere quella particolare cerchia di fenomeni che riscontriamo nelle manifestazioni della natura organica né, men che meno, di darcene una spiegazione esaustiva. Qui subentra quell'altro principio d'ordine a cui diamo il nome di finalismo. Questo principio d'ordine è indispensabile nell'indagine sui fenomeni vitali; ma esso è e rimane non già un qualcosa che esista e agisca di per sé, sibbene una "massima" del "Giudizio riflettente".28 È proprio a questo punto che però il Driesch capovolge l'ordine dei problemi. Là dove Kant aveva scoperto due "punti di vista" da cui procedere all'interpretazione dei fenomeni, egli scorge il rapporto fra due forze basilari e primordiali, una delle quali prende al suo servizio l'altra, adoperandola per i propri fini. L' "entelechia" è sottratta alla sfera dell'esistenza spaziale; è qualcosa di non-sensibile e sovrasensibile. In quanto tale, come il Driesch mette spesso in risalto, sulle prime essa viene designata, in fondo, solo con predicati negativi, e l'analisi di essa conduce, logicamente, a risultati schiettamente negativi. Non è una "forza", non è un'intensità né una costante, bensì, appunto, "entelechia".29 Né ci è lecito credere di poterle trovare un analogon nel mondo della coscienza. Se caratterizziamo l'entelechia come "qualcosa di spirituale", come uno "psicoide", non ci è lecito dimenticare che essa non appartiene al mondo degli esseri spirituali, così come non appartiene alla natura inorganica. "Entelechia" e "psicoide" sono, pertanto, assolutamente inimmaginabili, poiché ogni realtà immaginabile è spaziale.30 Ma questo mero sistema di negazioni, che il Driesch cerca di prospettare in qualità di logico analitico,31 per il metafisico non solo si tramuta in un qualcosa di positivo, ma diviene addirittura un ens realissi-mum. L'entelechia non è nello spazio, epperò non appartiene né alla natura né alla scienza della natura.32 Ma proprio per questo ci è lecito e doveroso scorgere in essa la vera e propria scaturigine della natura, dobbiamo scorgervi ciò in cui ci si disvelano "la forza e il seme d'ogni agire".
Una via diversa, per giustificare il vitalismo, seguì Johannes von Uexkiill. Nella sua tesi fondamentale questi ritiene d'essere perfettamente d'accordo col Driesch, e vede in lui il suo miglior alleato e compagno di lotta. In realtà, sotto l'aspetto metodologico e filosofico generale, sussiste fra i due una differenza ben netta. Essa si palesa già nel punto d'avvio e nella base empirica, per poi emergere ancora più chiaramente nel sistema di concetti teorici generali che i due utilizzano per interpretare i rispettivi risultati empirici. Il Driesch muove dalla fisiologia, nella quale ha sempre visto il centro sistematico della biologia. Lo Uexkull, invece, è anzitutto un anatomico e difende, con una purezza che potrebbe dirsi classica, l'ideale conoscitivo proprio dell'anatomia. Sotto questa luce egli ricorda addirittura il Cuvier, del quale appare come il continuatore in epoca contemporanea. Il suo pensiero è interamente dominato e pervaso dal concetto di tipo anatomico, quale era stato creato ed enunciato dal Cuvier. Per questo egli è di gran lunga meno del Driesch incline ad argomentazioni metafìsiche, per quanto non le rifiuti affatto per principio. «La dottrina riguardante gli esseri viventi», egli dichiara, «è una scienza naturale pura, ed ha un unico scopo: indagare gli schemi strutturali degli esseri viventi, la loro origine e il loro funzionamento».33 L'accento, però, è posto tutto non sul divenire degli organismi, bensì, come nel Cuvier e nei suoi discepoli, sul loro essere. Ne consegue che il centro di gravità è spostato dalla dinamica degli esseri viventi, dalla fisiologia e dalla filogenetica, sulla statica. Se, e solo se, riusciamo a farci un'idea esauriente di questa, potremo costruire una scienza delle funzioni organiche. Ed anche sul piano logico può servirci da sicuro punto d'avvio la nozione di schema strutturale, che perciò stesso ci prescrive un determinato indirizzo metodico di ricerca e in certo qual modo ci fornisce il punto archimedeo, il So? [iot 7to0 0tw della biologia. Nel suo concetto di entelechia il Driesch intese indicare un'autonomia dell'operare; lo Uexkull muove dall'autonomia della forma. A suo parere, quella che denominiamo la "forma" d'un animale o d'una pianta, non è qualcosa di materiale, così come non è qualcosa di puramente mentale, una realtà non sensibile o inimmaginabile. Ci sta invece davanti in piena definitezza di contorni, in plastica evidenza, senza che tale determinatezza sia pertanto quella d'una cosa corporea, fìsica. Un genuino analogon del concetto di forma biologica, non lo troviamo nella sfera degli oggetti o avvenimenti materiali di cui si occupa la fisica; dovremo cercarlo piuttosto altrove, nei puri rapporti di cui si occupano geometria e stereometria. «Lo schema strutturale è non una realtà materiale, sibbene l'unità dei rapporti immateriali fra le parti d'un corpo animale. Come la planimetria è non la scienza d'un triangolo materiale disegnato col gesso sulla lavagna, bensì la scienza dei rapporti materiali fra tre angoli e tre lati d'una figura chiusa,... così, né più né meno, la biologia tratta dei rapporti materiali, riuniti nello schema morfologico, che sussistono fra le parti materialmente date d'un corpo, per poter ricostruire quest'ultimo nel pensiero».34 Ecco quindi riproposto con tutta precisione il programma della "morfologia idealistica". Se nella seconda metà del secolo scorso la biologia ha creduto di poter liquidare questo programma e sostituirlo con qualcosa di meglio, a parere del-l'Uexkull essa era vittima d'una singolare illusione.35 Tanto il darwinismo quanto la storia dell'evoluzione misconobbero il fattore propriamente essenziale e decisivo. Da questo misconoscimento di principio derivano ogni materialismo ed ogni meccanicismo. «Allorché, verso la metà del secolo scorso, tutti i fenomeni naturali venivano ricondotti a due fattori, forza e materia, se n'era semplicemente trascurato un terzo, la forma».36
A proposito del Cuvier si è visto come il suo concetto geometrico-statico di tipo precisasse in modo quant'altro mai peculiare il carattere metodico della biologia, e come, in certo qual senso, lo trasformasse rispetto ad altre concezioni. Senza cessare d'essere una scienza rigorosamente empirica, con questo la biologia acquisì nondimeno la possibilità di procedere a conclusioni d'indole generale e "razionale". Non le era più assolutamente preclusa la deduzione, in quanto, in conformità alla natura peculiare del suo oggetto, essa dove assumere una forma particolare.37 Uno sviluppo analogo è dato ripercorrere anche nell'Uexkull. Anch'egli vuol trarre ben più ampie conclusioni dalla conoscenza del tipo anatomico a cui appartiene un dato essere vivente, e sottolinea che a queste conclusioni spetta una piena certezza. Una volta che abbiamo chiaramente indagato lo schema morfologico di un animale in tutte le sue determinazioni, perciò stesso ci si sono palesati l'intera esistenza dell'animale e il modo della medesima. Conosciamo le sue proprietà e le sue attività; possiamo penetrare con lo sguardo nel suo "mondo interiore" e nel suo "mondo esteriore", giacché tutto quello che l'organismo apprende di quest'ultimo dipende strettamente dal modo in cui è in grado di far suoi gli stimoli che da esso gli provengono. L'essere vivente non può ricevere mai altre "impressioni" che quelle per cui è determinato e preformato dalla natura del suo schema morfologico, così come, d'altro canto, può reagire agli stimoli solo in quanto possiede gli organi idonei all'uopo. Ogni animale possiede un "mondo d'impressione" e un "mondo d'azione" che gli sono peculiari, e gli sono imposti una volta per tutte dalla sua struttura, dalla natura dei suoi "ricettori" e dei suoi "effettori". Con questo riconosciamo che in ogni azione animale soggetto e oggetto sono collegati fra di loro da una catena di effetti in sé conchiusa. Questa catena procede dall'oggetto sotto forma di uno o più stimoli, che agiscono sui ricettori dell'animale. In quest'ultimo essi sono collegati nella "rete percettiva", per poi passare nella "rete operativa", che dal canto suo imprime una data specie di movimento agli effettori. Si chiude così quel cerchio che l'Uexkull denomina "ciclo funzionale" dell'animale. Per mezzo di siffatti cicli funzionali ciascun animale è stretta-
mente vincolato al suo mondo ambiente, laddove nella maggior parte degli animali si possono distinguere più cicli, denominabili, a seconda dell'oggetto che comprendono, come "ciclo della preda", "ciclo del nemico", "ciclo sessuale", "ciclo del mezzo". E sarebbe evidentemente erroneo parlare d'un adattamento dell'organismo al suo ambiente, nel senso inteso dal darwinismo, giacché sarebbe tramutato in un processo cronologico ciò che in realtà è un essere ben determinato, indispensabile fin dall'inizio dell'esistenza dell'animale. Se è lo schema morfologico a creare con la sua azione autonoma il mondo ambiente dell'animale, non si può dire che il singolo animale vi sia adattato più o meno bene. E vero, invece, che in forza dell'ambiente singolo, tutti gli animali sono perfettamente "inseriti" nel loro rispettivo ambiente. Risulta, inoltre, che nell' "ambiente" d'un animale esistono solo cose che appartengono esclusivamente a quel dato animale, e che questo, in grazia della sua specifica struttura, è capace di tagliarsi fuori, in certo qual modo, dalla totalità dell'essere. «Il protoplasma che creò un lombrico, lo creò perché fosse capace d'agire da lombrico e lo pose in un mondo di lombrichi». L'Uexkùll sottolinea che in questo problema biologico ne è insito uno gnoseologico. Secondo lui il biologo che attende all'osservazione deve liberarsi dall'idea che il suo ambiente umano sia anche quello universalmente valido per gli animali. «Si richiede da lui che scomponga il proprio mondo nei suoi elementi (ciò che non è possibile senza approfonditi studi gnoseologici), giacché egli deve poter acclarare quali, fra gli elementi del suo mondo, servano da caratteristiche per quello degli animali». «Scompare quindi tutto quello che consideravamo come ovvio: l'intera natura, la Terra, il cielo, le stelle, anzi tutti gli oggetti che ci circondano, non restano se non come fattori cosmici, se non come quelle azioni, le quali, in conformità allo schema morfologico, esercitano un influsso sull'animale. Se questa connessione tra lo schema morfologico e i fattori esterni viene indagata accuratamente, ecco che intorno ad ogni animale si distende un mondo nuovo, del tutto diverso dal nostro: il suo mondo ambiente». Questo è il solito telaio su cui è tesa la vita dell'animale, e la cornice da cui esso non può evadere. «Ogni animale si reca appresso, in tutta la vita sua, il proprio ambiente come un guscio impenetrabile».38
Lo Uexkùll sottolinea nel modo più netto che l'indagine ambientale, che egli intende introdurre nella biologia come metodo autonomo, ha una natura non causale, bensì puramente strutturale. Ma con questo anche il problema della finalità assume per lui un assetto diverso da quello che aveva nel Driesch. Per l'Uexkiill, infatti, non occorre introdurre delle apposite forze operanti in vista d'un fine; è sufficiente dimostrare che il mondo della vita, nel suo complesso così come nel singolo, ha una solida struttura teleologica. In tal senso, quindi, lo Uexkùll preferisce parlare di conformità ad un "piano" piuttosto che a un "fine". A prima vista ciò può apparire come una modificazione puramente terminologica, che significhi poco in concreto. In realtà alla sua base è un interesse nuovo che caratterizza il vitalismo dell'Uexkùll. Questi, a differenza di altri vitalisti, non ha bisogno di fare appello a particolari "forze superiori", entelechie, "dominanti", che siano al di sopra delle normali forze fisico-chimiche e intervengano nel loro gioco per guidare l'accadere in una determinata direzione. Egli può lasciare il problema causale alla fisica e alla chimica, purché l'una e l'altra riconoscano che in esso non si risolve la totalità della conoscenza naturale, ma che esiste un autonomo problema della forma, per il quale la biologia deve plasmare peculiari concetti e strumenti di pensiero. Se si concede all'Uexkùll tutto questo, ecco che per lui è risolta la controversia circa il "meccanicismo" o "vitalismo". Quel che gli importa, è che esiste un ordine non materiale, una regola della vita, la sola che conferisca alla materia la sua coesione. «Invece di "conformità a un disegno", potremmo altrettanto bene dire "conformità a una funzione", "armonia", o "sapienza"; non importa affatto la parola, ma solo il riconoscimento dell'esistenza d'una forza naturale che vincoli secondo delle regole. Senza il riconoscimento di questa forza naturale la biologia resta una vuota illusione».39 Ne consegue che secondo l'Uexkùll la fisica è nel suo pieno diritto allorché cerca di spiegare tutte le connessioni e i rapporti esistenti nel mondo esclusivamente per mezzo della causalità; ma ha torto se pretende di bandire dalla scienza qualsiasi altro modo di considerare le cose: «poiché la causalità non è l'unica regola che sia a nostra disposizione per ordinare l'universo».*10 Con questo asserto l'Uexkiill ritorna, assai più di quanto non faccia il Driesch, alla posizione kantiana e alla soluzione kantiana del problema della finalità; il Kant della Critica del Giudizio non avrebbe avuto nulla da obiettare a questa concezione.
Ma per un altro importante e significativo aspetto l'Uexkùll si ricollega, nella sua battaglia contro il materialismo e il meccanicismo, alla tradizione classica della "morfologia idealistica". Questa aveva ssolutamente mantenuto il "finalismo interno"; s'era opposta, invece, a che lo si trasformasse in un finalismo esterno. Il mondo della vita non è ordinato in modo tale che le singole specie esistano l'una per l'altra e rimandino l'una all'altra, finché l'intera serie finisca col trovare nell'uomo la sua (il suo) "fine", il suo telos nel duplice senso della parola. I riferimenti che sussistono in questo caso sono completamente diversi, giacché ogni essere ha il suo centro e il suo baricentro in se medesimo. Sotto l'aspetto generale della storia delle idee questo pensiero di fondo risale alla filosofia leibniziana. In questa si era compiuto nel modo più chiaro il rovesciamento per cui il concetto di fine entrò in una nuova fase della sua evoluzione. Al posto del finalismo "materiale" in Leibniz subentra quello "formale", al posto dell'utilità 1' "armonia"; ogni monade è un mondo a sé; un cosmo in sé conchiuso che rispecchia nel suo modo la totalità dell'universo. Ma tutti questi mondi particolari sono collegati fra di loro da un' "armonia prestabilita"; in quanto sono espressioni dello stesso ordine universale. Ciascuno ha nel piano della creazione il suo determinato posto e il suo diritto determinato. Con questo pensiero la filosofia del Seicento e del Settecento aveva trovato un orientamento nuovo, che ora si fa valere uniformemente in tutti i settori dello scibile. Prima che nella biologia, ne rileviamo gli effetti nella scienza della storia e nella filosofia della storia. In queste discipline è Herder che contribuisce alla sua definitiva affermazione. Herder combatte quell'ingenua fede nel progresso che è propria dell'era illuministica e che scorgeva nell'uomo la meta finale della creazione e nell'uomo colto del Settecento la meta finale dell'umanità. A parere dello Herder il senso e il valore dello sviluppo dell'umanità si possono cogliere solo nella totalità delle configurazioni che l'umanità medesima assume. Ciascuna di esse è necessaria al suo posto, e ciascuna è importante per se stessa, non per qualcos'altro. Non si danno epoche privilegiate, così come non si danno nazioni privilegiate. «Mettere tutti insieme?» - grida Herder alla scienza e alla cultura del suo tempo - «quintessenza di tutti i tempi e di tutti i popoli? ma guardate che sorta di castroneria!» «Ogni nazione ha il centro della sua felicità in sé, così come ogni sfera ha in sé il suo baricentro».41 Questa concezione di fondo, Goethe la trasferisce dalla storia al mondo della vita in generale. Anch'egli ribadisce continuamente quanto sia impossibile sceverare una determinata specie singola, sia essa umana o un'altra qualsivoglia, dalla totalità della vita e presentarla come meta, come regola, come "canone". La realtà singola non può esser modello del tutto.42
Fine a se stessa è ogni fiera, perfetta essa erompe
dal grembo della Natura, e perfetti genera i suoi figli.
Tutte le membra si formano secondo leggi eterne,
e la più singolare forma serba segretamente il modello
primigenio ... così ad ognuno dei piccoli la piena pura salute la madre riserba: che tutte le vive membra
giammai si contrastano e tutte sono laboriosamente per la vita. È dunque la forma, che impone alla fiera la vita ammodo, e questo modo di vita su tutte le forme si ripercuote possente a sua volta. Mostrasi salda, cosi, la ben
ordinata formazione ... Questi confini, non v'è dio che li slarghi; li rispetta la Natura, che solo circoscritta in tal guisa fu sempremai possibile la
perfetta creatura.43
È sorprendente la perfetta e puntuale rispondenza che sussiste fra il disegno e la struttura della biologia uexkiilliana e questa visione di fondo espressa da Goethe nella succitata poesia, intitolata "La metamorfosi degli animali". Qui, nello Uexkull, appare un contraccolpo oltremodo caratteristico nei confronti del darwinismo. Questo aveva concepito l'idea di evoluzione come se questa fosse un "progresso" unilaterale, che dall'essere vivente infimo salisse fino all'uomo. In Haeckel questa credenza nel progresso impronta di sé non solo la biologia, ma anche tutto il senso della vita e l'immagine del mondo propri dell'autore. L'Uexkiill, invece, esorta a una decisa sterzata su questo punto. Egli crea un nuovo concetto di "universo biologico", che contrappone a quello di "universo astronomico". «L'universo astronomico non possiede che un unico mondo, il cui spazio infinito e il cui tempo eterno contengono un numero incommensurabile di meccanismi stellari che ruotano gli uni intorno agli altri in modo affatto disordinato. L'universo biologico, invece, offre lo spettacolo di mille e mille mondi in sé conchiusi, che sono collegati fra di loro dalla conformità a un piano inauditamente grandioso».44 Dappertutto, dunque, c'è perfezione; ma una perfezione che, com'è ovvio, è non già onnipotenza, bensì giusta utilizzazione dei mezzi disponibili. «L'essere infimo così come il più alto, sono perfettamente eguali nel loro microchimismo. Di fronte a questo fatto cadono nel nulla tutti i tentativi di spiegare la vita come un accumulo casuale di materia».45
Dopo essere stata riattizzata dall'intervento del Driesch, la controversia sul vitalismo andò sempre più aumentando in diffusione e intensità. Verso la fine del secolo dominò quasi interamente il pensiero biologico; non solo la filosofia, ma anche la ricerca speciale vi furono coinvolte in misura sempre crescente. A giudicarla, però, esclusivamente nel suo decorso esteriore, sembra che questa contesa non abbia recato frutti durevolmente apprezzabili. Alla fine le due tesi continuavano a contrapporsi in modo non meno drastico e inconciliabile che agli inizi. Il dibattito sembrava essere finito coll'impantanarsi completamente; dopo aver ripetuto le mille volte gli stessi argomenti dalle due parti, stanchi di questa iterazione, i contendenti finirono col ritirarsi dal campo di battaglia. Ma proprio questo apparente non liquet contiene indirettamente un'importante dottrina metodologica. Da una scorsa complessiva ai documenti di questa controversia risulta che, sia pure in un solo punto, si era pervenuti a un avvicinamento e si era riusciti ad enucleare una base comune nel porre il problema della biologia. Cercheremo d'evidenziare questo momento, senza nasconderci, ovviamente, che tutto si trova ancora, attualmente, allo stato fluido, e non è ancora possibile parlare di risultati definitivi, universalmente accettati. Fra gli estremisti del vitalismo e quelli del meccanicismo, che enunciavano in modo puramente dogmatico le tesi rispettive, era impensabile a tutta prima una conciliazione. Da una parte c'era la pretesa di poter non solo intendere la vita meccanicamente, ma altresì, in base a questa concezione, di poterla dominare e addirittura riprodurre fin nei particolari. Questa pretesa è avanzata in particolare dalla morfologia sperimentale. Per questa si dà una compiuta conoscenza delle forme di vita solo se riusciamo ad "averle nelle nostre mani" e a produrle a nostro piacimento. «Mentre finora l'indole del processo è stata considerata sempre come una proprietà che ha il suo necessario fondamento nell'intima natura dell'organismo», scrive ad esempio il Klebs, «va messo in luce come invece quel processo possa essere modificato nei modi più disparati, spesso completamente invertito. L'indagine deve porsi l'obiettivo di far sì che ogni sviluppo di forme sia padroneggiato dalla conoscenza delle condizioni che vi presiedono. Come il chimico deve conoscere le proprietà d'un corpo in modo d'esser in grado d'illustrarle in qualsiasi momento, così anche il botanico deve studiarsi di possedere completamente la pianta con altrettanta sicurezza. Questa padronanza della vita vegetale sarà, come io spero, il contrassegno della botanica futura».4* Non sussiste ragione alcuna di riferire questo ideale conoscitivo al solo mondo vegetale; con la stessa legittimità esso potrebbe estendersi anche a quello animale non appena si fosse riusciti a trovare l'elemento comune che congiunge fra di loro la crescita vegetale e la mobilità animale. In questa materia fu Jacques Loeb a tentar di gettare un ponte, e quindi a fondare una dinamica comune di tutti i fenomeni vitali. Il Loeb è un discepolo di Julius Sachs, le cui indagini sul tropismo delle piante furono per lui determinanti.47 A suo parere non occorre che un solo passo per trasferire alla vita animale i risultati raggiunti in quel campo. Dobbiamo deciderci a riconoscere che tutto quello che a prima vista, in questa materia, ci appare come azione autonoma e autonomo sviluppo, è un complesso di tropismi interagenti, ciascuno dei quali si attua in modo puramente meccanico e va spiegato secondo leggi rigorosamente meccaniche. La tesi dell'automatismo degli animali, introdotta nella filosofia moderna da Cartesio, dopo di questi non fu elaborata mai con il rigore e la coerenza di cui diede prova il Loeb. Sennonché il sistema delle cause motrici s'era fatto nel frattempo assai più complicato. Infatti, mentre in Cartesio tutte queste cause era riconducibili, in definitiva, a semplici rapporti di pressione e urto, nella teoria del Loeb i tropismi si scindono in un numero sempre più crescente di specie particolari: alla fine si hanno tanti tropismi quanti sono gli stimoli conosciuti dalla fisica. Vi sono un geotropismo, un fototropismo, un chemotropismo, un idrotropismo, un termotropismo, ecc., un barotropismo, un ane-motropismo, un reotropismo, un goniotropismo.48 Né più né meno dei movimenti degli animali, secondo il Loeb anche il processo della fecondazione può non solo essere compiutamente spiegato in base a concetti propri della fisica e della chimica, ma altresì essere provocato con l'uso di espedienti puramente fisici e chimici. Ecco quindi completamente risolto, o almeno risolvibile in linea di principio, il problema dell'omuncolo; se riusciremo o non riusciremo a produrre la vita in un alambicco, è solo questione di progresso della nostra tecnica sperimentale. La chimica dell'organismo vivente, infatti, è sostanzialmente identica a quella del laboratorio e delle fabbriche,49 «Ho la sensazione», dice il Loeb nella relazione al primo congresso dei monisti celebrato ad Amburgo nel 1911, «che si debba far carico solo alle condizioni tecnologiche della nostra giovane scienza, del fatto che non siamo ancora riusciti a produrre artificialmente la materia vivente».50 Grazie ai suoi esperimenti di fecondazione artificiale egli considera esaustivamente chiarito il problema dell'inizio della vita individuale e della morte; sembra infatti dimostrata la possibilità di sostituire l'azione stimolatrice di sviluppo propria dello spermatozoo con agenti puramente fisico-chimici.51 Non occorre introdurre in tutto questo un qualche "fattore formale", e pertanto non ha più senso alcuno parlare di "conformità a un disegno", poiché sono tante le formazioni che nascono e periscono senza fine alcuno: «le disarmonie e i fenomeni abortivi sono la regola, in natura, mentre sono soltanto l'eccezione i sistemi armonicamente costruiti».52
Contro quest'ultimo argomento il vitalismo poteva obiettare che la conformità a un "disegno" o a una "forma", che vi si attribuisce ai processi vitali, non coincide affatto con la conformità al "fine" esteriore di questi ultimi. Quando parliamo d'una forma abortiva, ribadiscono i vitalisti, ne presupponiamo il concetto né più né meno che se considerassimo la forma ben riuscita. Ovviamente non si danno in natura finalismi illimitati; vi si danno invece tanto processi che distruggono, quanto processi che mantengono la totalità. Il vitalismo, quindi, non considerava affatto il suo fattore formale o il suo "fattore di totalità" come una potenza quantitativamente illimitata; vi scorgeva piuttosto una potenza di qualità peculiare, che apparirebbe tanto nelle formazioni abnormi quanto in quelle normali.53 È naturale però che sembri aver costituito sempre difficoltà particolari, per il vitalismo, il tracciare un sicuro confine fra il concetto di forma puramente descrittiva e il concetto metafisico e trascendente di fine, nonché il mantenerlo rigorosamente nel corso della discussione e dell'argomentazione dimostrativa. Un esempio in proposito è offerto dal sistema del Reinke, nel quale si percorre l'intera scala delle interpretazioni possibili senza che si pervenga a una delimitazione metodologica lucida e sicura. Da una parte il Reinke vuole accontentarsi d'accertare la peculiare "tendenza al fine" dei processi vitali come un mero fenomeno che distingue nettamente i fatti del mondo organico da quelli dell'inorganico. In tal senso egli non solo rifiuta l'ipotesi d'una particolare forza vitale, ma vi scorge altresì una «concezione biologica quan-t'altra mai ingenua». «Il principio vitale non è una forza, bensì l'espressione simbolica d'un complesso intreccio di numerose azioni, dalle quali traspare ovunque come risultato il finalismo». Il vitalismo, quindi, non più del meccanicismo, non dovrebbe diventare un dogma, un'opinione dottrinale conclusiva; rimarrebbe tuttavia come problema per ulteriori analisi, nelle quali va applicato il principio dell'indagine meccanicistica. Qui, dunque, sembra regnare la massima cautela critica. Ma immediatamente dopo si avanza l'esigenza di forze formatrici autonome, di "dominanti", che, secondo il Reinke, pur non potendo essere dimostrate, sono nondimeno postulale. Anche se egli non vuole denominarle semplicemente "forze intelligenti", ribadisce tuttavia che il loro è quant'al-tro mai paragonabile all'operare di un'intelligenza.54 In Die Weli ah Tat [Il mondo come fattoi il Reinke si spinge a tal punto da qualificare le "forze direttrici" o dominanti non solo come "piloti delle energie", ma altresì come "demoni", che né hanno origine dalle energie né si possono tramutare in esse, e pertanto non sono -soggetti alla legge della conservazione.55 Una concezione diversa, diversamente fondata, riscontriamo nel Bunge. Anch'egli afferma nel modo più insistente che una conoscenza causale, per quanto progredita, non potrà mai dar compimento al sogno del meccanicismo, non potrà mai estinguere la peculiarità dei processi vitali. Quanto più procediamo su questa via, tanto più chiara e inconfutabile emergerà, invece, la differenza. Quanto più minuziosamente e profondamente ci studieremo d'indagare in tutti i suoi aspetti un fenomeno vitale, tanto più ci renderemo conto che processi, che credevamo d'aver già completamente penetrati padroneggiati, per ora si ridono d'ogni spiegazione meccanicistica. Dovremo continuamente riconoscere che sussiste un abisso fra i movimenti passivi, che riscontriamo nella natura inorganica, e gli attivi, cioè i veri e propri "movimenti vitali". «Io affermo», dice il Bunge, «che tutti i processi suscettibili d'una spiegazione meccanicistica sono fenomeni vitali tanto poco quanto lo sono il movimento delle foglie e dei rami agitati dalla tempesta o il movimento del polline che il vento sospinge soffiando dal pioppo maschile in quello femminile».56
Anche qui, dunque, ci troviamo sul terreno del vitalismo rigido: viene saldamente ritenuto l'elemento peculiare che caratterizza il "movimento vitale" rispetto ai movimenti della natura inorganica. Fra movimenti passivi e manifestazioni attive della vita esiste un abisso. Ma il Bunge lo vuol colmare non rifugiandosi in una classe particolare di "superforze" o "forze direttive". Egli lascia libero corso alla spiegazione fisico-chimiche, convinto com'è che questo sia l'unico modo di far sì che essa raggiunga la consapevolezza dei limiti che le sono imposti. Perciò stesso, però, il problema viene posto su di un altro terreno, ed ha assunto un'impronta diversa da quella che aveva nel Driesch o nel Reinke. Il primo ebbe a dolersi esplicitamente che, a proposito della questione vitalistica, il Bunge non avesse assunto una posizione ben netta e decisa, e che avesse inteso tutto solo "in modo provvisorio", come un'ancor insoddisfacente impostazione della concezione meccanicistica.57 In tal modo egli non rende giustizia alle idee del Bunge, non rendendosi conto che per questi la spiegazione meccanicistica dei fenomeni vitali resta in ogni caso un punto "infinitamente lontano", al quale ci si può bensì avvicinare incessantemente, ma che la nostra conoscenza non potrà mai raggiungere. L'ipotesi d'una "forza vitale" non è d'alcun ulteriore aiuto: insieme a Kant egli è convinto che ciò non sarebbe nient'altro che «un comodo giaciglio in cui la ragione viene messa al dormire sul guanciale di oscure qualità». Per questo egli affermò, oltre tutto, che non restava altro se non continuare a lavorare decisamente nella direzione della spiegazione fisico-chimica, completamente rassegnati al fatto che l'enigma della vita si risolverà definitivamente per questa via. «Il metodo è indiscutibilmente fruttuoso: dobbiamo cercar d'appurare fino a che punto potremo giungere con l'unico ausilio della fisica e della chimica. Il nocciolo di quanto non può esser indagato per questa via risulterà tanto più nettamente e chiaramente. Ecco dunque che il meccanicismo attuale ci sospinge sicuramente incontro al vitalismo dell'avvenire».58
Con questo, però, si era attinta una formulazione così cauta e critica del problema, che d'ora in poi sarebbe stata possibile anche una conciliazione fra le concezioni, puramente dogmatiche, in contrasto. Di fatto si ebbero rinomati seguaci del meccanicismo, i quali dal punto di vista puramente metodologico formularono giudizi ben poco diversi da quelli del Bunge. Essi dichiararono che non era mai lecito imporre un arresto all'indagine fisico-chimica sugli esseri viventi; non per questo, tuttavia, pur non intendendo abbandonare la via che seguivano, essi ritenevano d'essere già pervenuti al traguardo o di poterlo raggiungere tra breve, così come aveva creduto il Loeb. Il Verworn, per esempio, constata che tutto quello che a questo riguardo ci si era attesi dal rapido sviluppo dell'indagine sperimentale e dall'uso dei metodi esatti, ci aveva disillusi. A suo parere, quindi, oggi il problema della vita non è risolvibile meccanicamente più di quanto lo sia stato per l'innanzi. Sappiamo che la respirazione, la circolazione, la digestione, l'assimilazione avvengono secondo le leggi della fisica e della chimica; ma come vada spiegata la capacità selettiva delle cellule, la fisiologia non ce l'ha detto. È quindi comprensibile che nell'ambito della scienza continui tuttora ad aggirarsi il «vecchio fantasma della forza vitale»; ma invece di credere in esso, dovremmo andar avanti per la nostra strada e perfezionare ulteriormente la nostra metodica.59 Di qui si fa comprensibile che nello sviluppo dell'indagine e nel concreto lavoro con cui la si esercita, "meccanicismo" e "vitalismo" non si contrappongono affatto come antagonisti inconciliabili, ma possano in questo caso riunirsi e collaborare al perseguimento degli stessi obiettivi. Qui non domina nessuna antitesi dilemmatica, ma piuttosto un particolarissimo rapporto d'oscillazione da un metodo all'altro. È vero bensì che il vitalismo oppose continuamente se stesso al meccanicismo come una barriera, ma in tal modo lo spronò a sempre nuove realizzazioni; così come, d'altronde, è grazie alla critica di cui fu fatto segno che il vitalismo potè non soccombere al pericolo di «poltrire tranquillamente». A ragione si rilevò che nel corso della storia della biologia i massimi fra i vitalisti si sono segnalati in misura eminente nello spiegare quanto di meccanico è nell'organismo. «Lo stesso Harvey, che ha avuto le intuizioni più profonde circa lo sviluppo del germe, è lo stesso che ha enunciato la teoria della doppia circolazione sanguigna. Luminosi esempi più recenti sono Johannes Miiller e il Naegeli».m
Da tutto questo consegue che in fondo l'ulteriore sviluppo, che in epoca moderna ha avuto il contrasto fra "meccanicismo" e "vitalismo", non ha affatto smentito la soluzione che aveva tentato di dare Kant all' "antinomia del Giudizio", ma piuttosto l'ha confermata in tutti i punti essenziali. Non si va troppo oltre affermando che in questo caso Kant è vicino alla biologia odierna assai più di quanto non fosse a quella del suo tempo e che ha anticipato parecchi problemi metodologici, che solo in seguito sono giunti a maturità. Che i "concetti di forma" della biologia abbiano una struttura specifica e che vadano sempre ritenuti, nonostante tutti i progressi della spiegazione causale, è palesato con sempre maggiore chiarezza. Kant, però, non intese solo descrivere da logico questa distinzione; volle altresì, da critico della conoscenza della natura, stabilire una determinata differenza di valore fra le due classi di concetti. Tale distinzione, egli la esprime attribuendo all'una un significato "costitutivo", all'altra uno puramente "rego-lativo", dichiarando conseguentemente la causalità categoria centrale della conoscenza della natura, e scorgendo invece nel concetto di fine e in quello di forma un' 'idea" o una "massima euristica". Non è il caso che lo seguiamo in questa distinzione, giacché essa poggia sull'impostazione che il problema aveva ai suoi tempi, e che è per noi radicalmente mutata sia nell'ambito della fisica, sia nell'ambito della biologia. Per Kant e per l'intera sua epoca era inconcusso che la conoscenza della natura aveva trovato il suo vero maestro in Newton. Non le era mai lecito discostarsi di nuovo dall'ideale che quegli aveva delineato nei suoi Philosophiae natura-lis principia mathematica, se non voleva precipitare dalle altezze raggiunte. In quel libro si aveva una sorta di modello classico, un canone sul quale doveva essere commisurato in futuro ogni sapere: la scienza di Newton divenne l'espressione della scienza in assoluto. Se in base alla sua analisi Kant aveva accertato che la biologia non poteva non che attingere l'ideale newtoniano, nemmeno perseguirlo, che era «insensato per l'uomo» sperare in un «Newton del filo d'erba», tutto questo implicava indubbiamente, per lui, una certa quale rassegnazione. Egli potè sottolineare l'autonomo diritto e l'autonomo valore della biologia, ma non potè invece attribuirle nella gerarchia del sapere lo stesso rango, la stessa forza "oggettiva", cioè oggettivante, della conoscenza matematico-fisica. Quest'ultima era e restava in possesso della vera, autentica oggettività; e tale possesso, non era lecito sminuirlo o attentargli in altro modo. Per noi, preoccupazioni del genere non hanno più ragion d'essere, poiché una limitazione del meccanicismo per noi non significa più una limitazione della fisica. La fisica moderna s'è andata via via sciogliendo dai ceppi che le aveva imposti la "visione meccanicistica dell'universo" ed elaborandosi un nuovo e diverso ideale di conoscenza.61 Ma perciò stesso viene a trovarsi in una nuova luce anche il suo rapporto con la biologia. Sicura della propria indipendenza, la fisica ora è in grado di concedere anche alla biologia una ben maggiore indipendenza che per l'innanzi, giacché facendolo non le concede altro che un diritto che essa aveva dovuto rivendicare più e più volte per se medesima nella sua propria critica e nella sua riforma del sistema classico. Se in conclusione gettiamo ancora uno sguardo all'ultima fase della biologia teorica, che appartiene già al secolo xx, sembra quasi che in essa si sia già compiuta l'unione fra biologia e fisica nel senso che abbiamo accennato. La contesa fra "meccanicisti" e "vitalisti" è andata placandosi lentamente; da nessuna parte le viene più attribuita la stessa importanza d'una volta. Cominciano invece a delinearsi sempre più chiaramente i tratti fondamentali d'una visione complessiva, che non vuol essere né meccanicismo dogmatico né vitalismo dogmatico. Da uno dei suoi fondatori, lo Haldane, la si è designata col nome di "olismo" od "organicismo".62 Recentemente Adolf Meyer ci ha dato una rassegna panoramica dello sviluppo che tale concezione ha avuto negli ultimi decenni e del suo significato sistematico. Tanto nel vitalismo quanto nel meccanicismo il Meyer non scorge più altro che «vecchie venerabili ideologie», nelle quali però non è più insita alcuna vera forza capace di dar vita a una teoria. Ecco cosa egli scrive nel suo saggio Idee» und Ideale der biologischen Erkenntnis [ Idee e ideali della conoscenza biologica]: w «Non ci si può sottrarre all'impressione che queste venerabili ideologie siano rimaste indietro rispetto allo sviluppo dei rami speciali della conoscenza biologica; comunque, non hanno più nulla da dir loro». La biologia non potrà attingere la condizione d'una scienza organicamente ben articolata fintantoché continua ad emulare questi due ideali conoscitivi, che le sono essenzialmente estranei. «Il vitalismo nega e contesta il moderno ideale galileiano-newtoniano-kantiano della scienza matematica della natura, privando in tal modo la biologia di possibilità indubbiamente feconde di conoscenza, e il meccanicismo degrada la biologia, riducendola a un'appendice, insignificante sul piano gnoseologico suo proprio, della fisica teoria». L' "organicismo", invece, vuole unificare i valori positivi tanto dell'idea meccanicistica quanto della vitalistica in una sintesi superiore a queste due teorie antitetiche: per sostenere, col vitalismo l'autonomia dell'organico rispetto all'inorganico, e col meccanicismo il nesso deduttivo esistente tra le due sfere di realtà, laddove però a questo nesso si conferisce un indirizzo diverso, in quanto si deve dedurre non ciò che è superiore dall'inferiore, ma viceversa.64
Non è facile enucleare con precisione i contenuti puramente gnoseologici di questa fondamentale concezione biologica, giacché ci troviamo su di un terreno in cui tutto è ancora allo stato fluido e in cui, nell'ambito della stessa indagine empirica, non si può ancora parlare in alcun modo d'una conclusione logica che le nuove idee abbiano trovato in se medesime. Cionondimeno la via e la meta cominciano a delinearsi sempre più nettamente nei lavori di biologia teorica pubblicati negli ultimi decenni. In essi c'imbattiamo anzitutto nel concetto di "totalità" inteso come una categoria specifica della conoscenza biologica. Già la denominazione di "olismo" ci palesa che ormai si comincia a preferire questo concetto a quello più antico e tradizionale di "finalismo". Lo sviluppo della conoscenza scientifica nel secolo xix si può caratterizzare in genere in base al fatto che essa attribuisce una sempre maggiore importanza all'idea di "totalità". Quest'idea, nell'ambito della fisica teorica, conduce a un primato della "fisica dei campi", giacché il campo appare come un tutto non semplicemente scomponibile nelle singole sue parti, gli elettroni, ma che piuttosto rappresenta la condizione della loro esistenza; nella sfera della psicologia questa stessa idea esige il passaggio dalla psicologia associazionistica (Elementenpsychologie) a quella della forma (Gestaltpsychologie). Qui dunque è stato messo in risalto un elemento che era comune a diversi indirizzi d'indagine ed aveva la stessa importanza per tutti; ora non resta altro che precisare quanto di specifico è nel concetto biologico di totalità in quanto tale. Ancora una volta è qui emersa l'importanza che nel pensiero biologico detiene, anche sotto l'aspetto metodologico, lo studio dei fenomeni di regolazione e rigenerazione. In uno scritto sulle regolazioni delle piante Emil Vngerer sostiene vigorosamente che in luogo della finalità, come si è fatto finora, va considerata unicamente la totalità, per sgravare così la biologia da problemi metafisici, che non sono irrilevanti per essa, ma l'hanno continuamente ostacolata nel corso della sua storia, deviandola dalle mete puramente scientifiche che sono le sue. Approfondendo i fatti concernenti la regolazione e la rigenerazione, potremo riconoscere con particolare chiarezza un determinato contrassegno distintivo d'ogni fenomeno organico. Per il momento conviene limitarsi ad accertare e descrivere questo carattere distintivo, senza ricercarne le cause né preoccuparsi della sua "spiegazione". Ebbene, per assolvere questo compito della mera descrizione il concetto di totalità si palesa assai più idoneo del concetto di finalità. Nell'uso del primo viene eliminato qualsiasi riferimento alla volontà umana e al confronto con essa. Noi constatiamo semplicemente che tutta una grande serie di fenomeni organici, o la maggior parte di essi, si svolge in modo che la totalità delle funzioni viene restaurata, entro certi limiti, qualora si sia avuta una perturbazione. Per l'indagine dei fatti vitali non ci occorre nient'altro che un'esatta cognizione di questo "fenomeno primordiale", che dobbiamo tener per fermo e far valere in quanto tale. «Nella scienza dell'organismo una qualche importanza spetta non alla considerazione del fine in quanto tale, bensì solo al carattere di quanto serve alla conservazione della totalità nella sfera della vita». Applicare un metodo teleologico nello studio degli organismi non significa nient'altro che studiare i fenomeni ricercando fino a che punto vi si palesi il carattere della conservazione della totalità. Per la conoscenza scientifica dei fenomeni vitali ciò è indispensabile, ed è altresì affatto sufficiente. Se si tenta o esige di più, insorgono immediatamente conflitti e contese di confine tra biologia e fisica. Sono in fondo conflitti apparenti, giacché derivano non dalla realtà oggettiva, ma da sconfinamenti che avvengono da entrambe le parti. Quanto al concetto di potenza, che fu introdotto nella biologia da Aristotele e da allora rivendica un suo posto sicuro, nemmeno esso soggiace a obiezioni gnoseologiche di sorta, purché non si cada nell'errore d'ipostatizzarlo, insieme ad Aristotele, in una specie particolare di causa. L'espressione "totalità" ha il vantaggio d'essere completamente scevra da ipotesi. Non contiene nulla di "psichico", e non pretende affatto che i fenomeni vitali debbano svolgersi in ogni caso in modo che sia raggiunto il massimo grado di finalismo. Quanto ai particolari, l'Ungerer distingue tre specie di totalità, alle quali è comune il fatto che in tutte si rende perspicua, in ciascuna da un lato particolare, la "conservazione d'una realtà ordinata". Questa conservazione si palesa o nella forma dell'organismo, che viene prodotto o restaurato, ovvero nell'ordinata connessione di tutte le funzioni del ricambio, o ancora nell'ordinato funzionamento d'una struttura locomotorio. Tutti questi elementi, che il Driesch distinse come "armonie di costellazione", "armonie causali", "armonie funzionali", si subordinano, sul piano puramente metodico, allo stesso punto di vista e, per esser comprese e scientificamente padroneggiate, non hanno bisogno che si tiri in ballo una nuova classe di "cause" completamente diverse dalle cause efficienti. Si fa qui superflua la divisione dell'universo in causae efficìentes e causae finales, mentre rivendica e conserva il suo posto la categoria del "teleologico".65
Tutto questo è pensato kantianamente, seguendo la Critica del Giudizio, che l'Ungerer analizza minuziosamente nel suo scritto, confrontandola coi risultati della biologia moderna.66 A tale proposito egli giunge alla conclusione che proprio l'ultima fase della biologia abbia contribuito più di qualsiasi epoca precedente a valorizzare quella concezione di fondo che Kant sostiene nella "Critica del giudizio teleologico".67 Il movimento moderno, che si denomina "olismo" od "organicismo", concorda nel suo orientamento generale con l'indirizzo metodologico dell'Ungerer, anche se naturalmente non tutti gli studiosi che vi ebbero parte furono egualmente interessati all'enucleazione del problema puramente gnoseologico. In modo assai preciso e vigoroso, invece, questo punto di vista viene messo in risalto in una delle più recenti esposizioni complessive della biologia teorica, che ci viene da un rappresentante di tale indirizzo. Nell'introduzione alla sua Theore-tische Biologie [Biologia teorica] 6S Ludwig von Bertalanffy sottolinea che in ogni conoscenza della natura il progresso nella chiarificazione concettuale è non meno necessario di quello della mera conoscenza dei fatti. Ed anche secondo lui questa chiarificazione concettuale esige una drastica separazione del concetto di totalità da quello di finalità. Al primo possiamo e dobbiamo attenerci incondizionatamente, poiché esso costituisce in certo qual modo la porta d'ingresso, che dobbiamo varcare necessariamente, se vogliamo giungere in qualche modo alla problematica biologica. Già nella descrizione dei fenomeni vitali si palesa che a tale scopo è necessaria un'ottica diversa da quella che offre l'analisi causale dei singoli processi. «È pur vero che possiamo descrivere in termini fisico-chimici i singoli processi che si svolgono nell'organismo, ma in tal modo nessuno di essi è caratterizzato come processo vitale. Se non tutti, almeno la stragrande maggioranza dei processi vitali si palesano ordinati in modo da essere volti alla conservazione, alla produzione o alla restaurazione della totalità dell'organismo ... Già