EDOARDO BONCINELLI

Charles Darwin. L'uomo: evoluzione di un progetto?

Gruppo editoriale L'Espresso, Roma 2012

Sommario
L'uomo: evoluzione di un progetto?
APPROFONDIMENTI
Charles Darwin La lotta per la vita L'origine dell'uomo
L'origine delle specie di Barbara Continenza


EDOARDO BONCINELLI
Charles Darwin. L'uomo: evoluzione di un progetto

Una proposta ardita

Charles Robert Darwin è l'uomo che da solo, centocin- quant'anni fa, ha cambiato il corso degli studi in biologia, cambiando nello stesso tempo tutta la nostra visione delle scienze della vita e della scienza in generale, e il nostro modo di considerare noi stessi, nonché la maniera di dare spiegazioni a molti eventi, introducendo una prospettiva storica in cui il fattore tempo, che era praticamente assente nel pensiero precedente, diventa fondamentale. E molto difficile, oggi, rendersi conto di cosa ha voluto effettivamente dire l'insegnamento di Darwin con la sua teoria dell'evoluzione: siamo talmente intrisi, imbevuti, circondati da questa visione del mondo che dobbiamo fare uno sforzo non indifferente per pensare a come erano le cose prima. Basta pensare che, a seguito delle teorie evolutive riguardanti la vita, non più di cinquanta, sessant'anni fa ci si è resi conto che anche l'universo ha una storia e ha avuto un'origine, per cui il concetto di evoluzione è passato dal solo mondo della vita all'universo intero; per non parlare poi di quell'evoluzione tutta particolare, che noi chiamiamo «evoluzione culturale», che riguarda la specie umana. Dov'è la novità? La novità è essenzialmente nel fatto che, per la prima volta nel pensiero umano, il tempo fa il suo ingresso in maniera massiccia nel modo di considerare l'andamento delle cose.

Le cose e gli eventi

L'umanità ha sempre avuto un atteggiamento ambiguo e ambivalente rispetto al tempo: in alcuni casi lo considera circolare, ciclico, in alcuni casi lo considera lineare. Ma in verità non si è quasi mai interrogata su quanto tempo è passato e quanto tempo abbiamo alle spalle. Per la prima volta, con la geologia e la teoria dell'evoluzione, ci siamo dovuti chiedere effettivamente se stiamo parlando di anni, di secoli, di millenni, di milioni o di miliardi di anni. Questo è forse il punto più rilevante della novità: abbiamo dovuto fare i conti con un periodo di tempo incredibilmente lungo. Dalle origini dell'universo sono passati quasi quattordici miliardi di anni; dall'origine della vita circa quattro miliardi di anni, un tempo per tutti noi assolutamente inimmaginabile, che ci rende diffìcile capire tutto il meccanismo dell'evoluzione. Il primo aspetto innovativo della teoria darwiniana è stato quindi quello di inserire il tempo come misura; il secondo, il tempo come fattore: le spiegazioni che si davano prima partivano tutte dal presupposto che le cose erano cosi perché non potevano essere altrimenti che così. Da allora in poi, la spiegazione più corretta e più corrente è quella secondo la quale le cose sono così perché è il corso degli eventi che le ha portate a essere così, sia, come abbiamo appena detto, per quanto riguarda il cosmo, sia soprattutto per quanto riguarda la vita e anche per quel particolare aspetto della vita che riguarda l'evoluzione della nostra specie.

Il fattore tempo e la sua capacità di illuminare la spiegazione delle cose diventa dunque fondamentale nel modo odierno di concepire il mondo sulla base della teoria dell'evoluzione. Naturalmente Darwin non si rese conto di tutto questo, però si rese conto che stava facendo una proposta molto ardita, tant'è vero che a trent'anni, la prima volta in cui gli venne in mente che forse le specie non erano immutabili come si pensava, ma potessero cambiare nel tempo, disse che sostenere un'opinione di quel tipo era «come confessare un omicidio». Noi oggi viviamo gli aspetti biologici e più in generale scientifici, ma soprattutto, direi, i riflessi nella società di questo punto di vista che hanno anche - va detto fin dall'inizio - indirizzato in una certa maniera l'epistemologia, cioè la nostra capacità di spiegare il mondo; oggi le spiegazioni possono essere basate, come duemila anni fa, sulla logica, ma anche sulla storia: il mondo è così perché gli eventi lo hanno portato a essere così.

La teoria dell'evoluzione

Fino al Sei-Settecento gli esseri viventi hanno riscosso poca attenzione; ovviamente intendo poca attenzione scientifica, per cui la biologia, rispetto ai trionfi dell'astronomia, della fisica e della chimica, è rimasta per lungo tempo la «cenerentola delle scienze». Intorno al Sei-Settecento si sono cominciati a considerare anche gli esseri viventi e si è avuta per la prima volta una sistematica: il grande naturalista Linneo propose di catalogare tutte le specie col sistema che è ancora in auge, che prevede due nomi latini, come Musca domestica, Apis mellifera (il primo nome indica il genere, il secondo indica la specie). Linneo fece un gigantesco sforzo di sistematizzazione e, sulla base di questo, grandissimi naturalisti cominciarono a paragonare tra di loro le varie specie e soprattutto le strutture anatomiche delle varie specie. Ma a nessuno venne in mente che le specie potessero cambiare: c'era la convinzione, più o meno esplicitata, che esse fossero sempre state le stesse che all'origine aveva creato Dio. Questa teoria, diciamo cosi, scientifica della fissità delle specie prende il nome di «fissismo», ed era, in maniera più o meno confessata, un'assunzione che tutti i biologi facevano. A un certo momento, quando era ancora abbastanza giovane, per dir la verità, Darwin ne dubitò. Non fu il primo: suo nonno, Erasmus Darwin e il naturalista francese Jean- Baptiste Lamarck avevano già pensato che forse le cose non stavano in questi termini e avevano cominciato a parlare di un certo cambiamento delle specie, cambiamento che purtroppo ha preso il nome di «evoluzione»; dico purtroppo perché «evoluzione» era il nome usato ai tempi dell'Illuminismo per indicare qualcosa che sta cambiando secondo un piano prestabilito («evolvere» vuol dire «svolgere») generando una grande confusione tra evoluzione, sviluppo e anche progresso umano, ed è rimasto ormai legato al concetto di evoluzione il concetto di progresso, mentre si tratta di due concetti completamente diversi, tant'è vero che Darwin per un lungo periodo non parlò di «evoluzione», ma di «trasmutazione» delle specie. Lamarck aveva adombrato il concetto di evoluzione e aveva avanzato un tipo di spiegazione che però Darwin rigettò completamente. Quindi noi passiamo repentinamente da una visione delle specie fìsse e immutabili a una visione delle specie che cambiano, lentamente ma inesorabilmente, e questo è il nocciolo della teoria dell'evoluzione, della quale bisogna naturalmente spiegare tanti particolari, dare tanti dettagli, ma è semplicemente raccontabile, appunto, nei termini di: «le specie non sono fìsse, ma cambiano».

Una teoria necessaria

Che necessità c'era di una teoria dell'evoluzione? Intanto si deve considerare il fatto che sulla Terra in questo momento c'è un numero incredibilmente alto di specie (almeno dieci milioni, di cui due milioni rappresentate soltanto dagli insetti), quindi bisogna spiegare la grande varietà delle specie viventi; bisogna anche spiegare l'«ubi- quitarietà» della vita, cioè il perché sotto un sasso, in una pozza, anche vicino a un soffione caldissimo, c'è vita, non nel senso che ci sono una specie o due specie o tre specie, ma diverse specie che interagiscono fra di loro e costituiscono una piccola comunità. C'è poi un terzo aspetto, che è quello dato dall'osservazione di organi o strutture o abitudini, comuni a molti animali, che sembrano fatti apposta per l'ambiente in cui essi vivono (esempio tipico è la lingua del formichiere, che sembra fatta apposta per prendere le formiche in un formicaio, o la coda di un castoro, che sembra fatta apposta per murare il fango per fare una diga). Quindi noi dobbiamo spiegare: perché tante specie, perché dappertutto e perché c'è questa incredibile capacità di adattamento. Questi fenomeni vanno spiegati tenendo in considerazione anche altri due fatti. Sappiamo che se scaviamo per terra troviamo resti fossili di animali che oggi non ci sono più e, viceversa, non troviamo resti di animali che oggi ci sono, quindi il passato è diverso dal presente; esiste poi qualcos'altro che avrebbe dovuto essere chiarissimo fino dal Sei- Settecento, e invece non lo è stato: perché le specie non sono tutte uniformemente diverse? Perché alcune si somigliano di più e alcune si somigliano di meno? Se si fosse riflettuto su questa caratteristica della sistematica, probabilmente sarebbe stato anticipato il tempo in cui poteva essere proposta una teoria dell'evoluzione, perché soltanto con questa si può dare una spiegazione: le specie più simili si sono separate in tempi più recenti, le specie più diverse fra loro si sono separate in tempi più antichi.

Una lunga meditazione

Si dice normalmente che Darwin abbia concepito la sua teoria in viaggio sul brigantino Beagle. Verso i trentanni Darwin compì un viaggio intorno al mondo come naturalista di bordo, fece un sacco di osservazioni e raccolse numerosi campioni che poi studiò per i successivi dieci, quindici, venti anni. In realtà Darwin aveva già dentro di sé una certa idea che non combaciava con la visione fissista; in particolare, lui stesso racconta che, essendo stato allo zoo di Londra, dove per la prima volta erano esposte delle scimmie antropomorfe, in particolare una orangutan, si era fermato tanto tempo a osservarla, a vedere come si comportava, ed era rimasto profondamente colpito dalla somiglianza del comportamento di questa scimmia con quello umano. Quindi Darwin aveva già a trent'anni, ripeto, un sospetto che qualcosa dovesse essere diverso da quanto si credeva fino allora; però era talmente scrupoloso, talmente attento, talmente timoroso di fare passi falsi, che, da quando concepì il primo germe della sua teoria a quando la pubblicò, fece passare vent'anni, vent'anni di riflessioni, di note, di cancellazioni, di discussioni, di lettere in cui si riportavano affermazioni e controaffer- mazioni, che lo condussero poi - come disse lui stesso - a osservare che quasi tutte le critiche che gli vennero fatte se le era già fatte da sé, annotandole e cercando di rispondervi. Molti dei critici della teoria dell'evoluzione di oggi non se ne rendono conto, ma avanzano le stesse osservazioni alle quali già nei libri di Darwin c'è una risposta, o un tentativo di risposta.

Quindi, dopo una meditazione di almeno vent'anni, Darwin dà alle stampe nel 1859 L'origine delle specie, che è il primo, e forse più importante, libro sull'evoluzione. C'è però stato anche un cammino interiore, un cammino molto faticoso, perché la moglie era molto religiosa e anche Darwin era credente - non era cattolico, era protestante di confessione unitaria -, e si rese conto che, cammin facendo, si trovava a mettere sempre più in discussione le affermazioni che si trovano nelle Sacre Scritture. Questo gli procurò molti traumi interiori, qualcuno dice addirittura che la sua salute si guastò per questo. Certo, gli ultimi quarant'anni della sua vita furono un calvario; non si è mai capito bene quale malattia avesse, probabilmente psicosomatica, e qualcuno riconduce questi sintomi al rovello interiore, al travaglio, alla fatica di mettere d'accordo quello che la sua ragione gli diceva e quello che gli suggeriva la sua convinzione profonda.

La potenza della selezione

È sempre difficile sapere cosa si è mosso nella testa di un grande studioso, soprattutto di un genio del calibro di Darwin, però possiamo fare alcune ipotesi. Innanzitutto, egli fece un'osservazione molto banale, che avevano fatto anche altri chissà quante volte, ma che fu da lui assunta come punto di partenza: guardando le popolazioni naturali, ma anche le popolazioni artificiali, come le piante da giardino e gli animali da fattoria, si accorse che c'era sempre qualche individuo diverso da tutti gli altri, che chiamò «variante» e che noi oggi tendiamo a chiamare «mutante». Il secondo punto dal quale probabilmente la sua mente è partita è la sincera ammirazione che lui, gentiluomo di campagna, aveva per gli allevatori e gli agricoltori; Darwin vedeva che, con dieci, quindici incroci successivi ben fatti, si potevano costruire varietà di piante e di animali sensibilmente diverse. Alcune varietà di cani risalgono a dieci, dodicimila anni fa, ma la maggior parte delle varietà dei cani attuali è nata nell'Ottocento, in cui si è accelerato questo processo: un cane con le gambe sempre più corte o un cane con le gambe sempre più lunghe, un cane col pelo corto, un cane col pelo lungo ecc. La potenza della selezione artificiale praticata dagli agricoltori e dagli allevatori lo colpì moltissimo. A quell'epoca, anche se oggi a noi fa ridere, erano molto di moda i piccioni viaggiatori, dei quali c'erano la bellezza di sessantacinque varietà, e c'era un continuo sforzo di dilettanti e di professionisti per ottenere nuove varietà di questi animali. In un lampo di genio, Darwin pensò che forse la natura poteva comportarsi come un agricoltore o un allevatore, operando non una selezione artificiale, ma quella che oggi noi chiamiamo «selezione naturale». Inoltre, all'inizio dell'Ottocento, cioè prima che nascesse Darwin, si diffuse nella società inglese un famoso libro di Thomas Malthus, che diede origine, appunto, alla corrente di pensiero del malthusianesimo, in cui si mostrava come in tutte le specie, anche se Malthus parlava soprattutto della specie umana, si parte in tanti e si arriva in pochi: basta pensare ai pesci, che rovesciano nell'acqua milioni di uova fecondate, e poi all'età adulta arrivano in due, tre, quattro esemplari. Questo tremendo spreco, se vogliamo, di materiale vivente non potè non colpire Darwin e confluì nel concetto di selezione naturale. Riassumendo: presenza continua di varianti, potenza della selezione artificiale, grande spreco fra quanti cominciano la corsa della vita e quanti arrivano all'età riproduttiva.

L'evoluzione: un principio banale

Quando si sentì pronto, Darwin scrisse, in un inglese relativamente facile, che tutti potessero leggere, lo schema della sua teoria, che contiene essenzialmente due punti: il primo, che nessuno ormai contesta più da anni, è la derivazione comune di tutti gli organismi viventi, cioè che tutti gli esseri viventi attuali derivano da un gruppo di organismi vissuti un tempo (che oggi noi sappiamo corrispondere a circa tre miliardi e ottocento milioni di anni fa); il secondo punto - più diffìcile da accettare, e infatti è quello sul quale si creano, e si sono create anche in passato, più polemiche - sostiene che tutte le modifiche biologiche delle specie si basano esclusivamente sulla produzione di continue varianti e sulla selezione naturale. E questa incredibile semplicità della spiegazione, che qualcuno ritiene eccessiva, che ha fatto il più delle volte criticare la teoria darwiniana. Va però notato che in tutta la scienza le spiegazioni sono sempre - ed è bene che siano - le più semplici possibili.

Darwin, con questi due meccanismi costruì le fondamenta di tutto l'edificio della selezione naturale. Facciamo un esempio semplice. In un prato in cui non c'è carenza di vegetazione vivono erbivori di certe dimensioni; ogni tanto, per caso, nascono degli animali un po' più piccoli, che sono svantaggiati perché sono più lenti e non possono competere per il cibo con quelli di maggiori dimensioni. Ma supponiamo che improvvisamente la vegetazione cominci a scarseggiare: ecco che gli animali più piccoli hanno un leggero vantaggio, perché hanno bisogno di meno erba; può succedere, allora, che uno svantaggio iniziale, una variante negativa, diventi una variante positiva. Qual è la fine della storia? Ce ne sono due possibili: o quella, più spesso citata ma più improbabile, secondo cui gli animali piccoli invadono tutta la popolazione e quelli più grandi scompaiono, oppure, molto più probabile, che le due popolazioni si separano, in una regione vanno gli animali piccoli, in un'altra regione vanno gli animali più grossi; quando le due popolazioni sono state separate per una quantità sufficiente di tempo, diventano due specie differenti. Ecco che allora da una specie si è creata un'altra specie, o addirittura due specie, semplicemente con la selezione operata dall'ambiente degli individui più grandi, quando c'era abbastanza erba, e di quelli più piccoli o, diciamo, tutti e due, quando l'erba ha cominciato a scarseggiare. Questo principio semplice, banale - qualcuno ritiene, appunto, troppo banale - è alla base di tutti gli eventi evolutivi che si sono succeduti in questi quasi quattro miliardi di anni della vita sulla Terra.

Mutazioni casuali e inevitabili

Naturalmente bisogna chiarire alcuni punti sia per quanto riguarda le variazioni sia per quanto riguarda la selezione naturale.

Le variazioni - va detto fin dall'inizio - sono inevitabili e casuali. Oggi noi tendiamo a parlare di mutazioni, ma in realtà è solo una questione di nomi. Aveva intuito bene Darwin, anche se non sapeva perché, che i varianti nascevano sempre, in ogni generazione e in ogni popolazione. Lui non sapeva perché, noi oggi lo sappiamo: le caratteristiche biologiche sono portate dal DNA, che è una lunga molecola conservata in ciascuna delle nostre cellule; quando una cellula si divide, il DNA deve essere copiato, perché una copia deve andare in una cellula e una copia deve andare nell'altra cellula; il meccanismo di copia del DNA è quasi perfetto, ma non è perfetto, e durante la copia di ogni miliardo di nu- cleotidi che compongono il DNA viene commesso un errore; sarebbe come se una dattilografa facesse un errore di battitura ogni cinquecentomila cartelle (nessuno potrebbe onestamente rimproverarla); però, siccome noi abbiamo tanto DNA nelle nostre cellule, ogni volta che una cellula si divide, commette sempre qualche errore. Quindi oggi sappiamo che quanto Darwin aveva giustamente osservato, ma del quale non poteva assolutamente dare nessuna giustificazione, effettivamente ha una base concreta, una base biologica, direi addirittura fìsica. Le copie perfette non esistono, quindi i varianti sono inevitabili; si dice anche che sono casuali. Cosa vuol dire «casuali»? La parola «casuale» agli esseri umani non piace, ma non contiene niente di misterioso: un evento che avviene casualmente non è senza causa, ce l'ha, anzi probabilmente ne ha più di una, ma noi non le conosciamo, o perché non le possiamo conoscere o perché è diffìcile conoscerle o perché non ce ne importa assolutamente niente. Per esempio, con la idrodinamica di oggi, noi possiamo determinare il percorso che fa una determinata goccia di acqua in una cascata, ma che importanza ha? In realtà io considero la cascata nel suo insieme e, eventualmente, la modifico, la aumento, la riduco, la illumino. Le mutazioni, diciamo noi (le variazioni, diceva Darwin), sono in questo senso casuali. Ma in verità il motivo per cui si insiste su questo non è legato a una complicata spiegazione scientifica, ma al confronto fra la teoria di Darwin e quella di Lamarck, che ebbe un'intuizione dell'evoluzione, pensando però che c'era la possibilità che qualche carattere che io acquisisco durante la vita venga ereditato; per esempio, io cammino tutta la vita sui sassi, mi vengono dei calli sotto i piedi, e allora è possibile che alla seconda, terza, quarta generazione nascano individui che possiedono già i calli. E una spiegazione bellissima, che prende il nome di «ereditarietà dei caratteri acquisiti», ma falsa (in trecento anni nessuno è mai riuscito a dimostrare che un carattere acquisito durante la vita si possa ereditare). Quindi Darwin e i suoi successori insistono sul fatto che non c'è una direzione, non c'è una finalità, non c'è una preferenza: avvengono mutazioni favorevoli, sfavorevoli, ma anche assolutamente neutrali; quindi può accadere di tutto, l'unica cosa che conta è l'azione che l'ambiente eserciterà per premiare alcuni e tassare altri.

Il ruolo dell'ambiente

La seconda osservazione che è assolutamente necessario fare riguarda la selezione naturale, un termine ormai diventato talmente di uso comune da essere usato anche dagli avversari della teoria dell'evoluzione, un termine però che per i contemporanei di Darwin doveva suonare strano, perché accanto al sostantivo «selezione» c'era sempre l'aggettivo «artificiale», mentre da Darwin in poi al sostantivo «selezione» è stato affiancato l'aggettivo «naturale». La selezione naturale non è una signora, non è un'agenzia, non è quella che oggi si chiama un'«authority», ma è semplicemente il nome che noi diamo all'azione che l'ambiente circostante esercita sui membri di una determinata popolazione, azione che si può riscontrare solo a posteriori. E difficile prevedere cosa succederà, è facile e istruttivo vedere che cosa è successo. Ma l'ambiente è così vario, così pieno di sorprese, così pieno di principi molto diversi dal nostro modo di ragionare che quasi mai, anche se noi volessimo, riusciremmo a prevedere che cosa preferirà e cosa non preferirà.

Ma cosa fa l'ambiente? Si parla di lotta per la vita o di lotta per l'esistenza e si dice che l'ambiente fa sopravvivere solo alcuni. No, l'ambiente concede una prolificità diversa ad alcuni rispetto ad altri: alcuni individui lasciano più figli, alcuni individui ne lasciano meno, altri non ne lasciano proprio, per cui non è importante quanto sei forte, quanto sei prestante, quanto sei aitante, ma quanti figli lasci; certo, se tu non arrivi all'età riproduttiva, non lasci figli, ma se tu arrivi all'età riproduttiva con tutta la forza e la prestanza del tuo corpo, ma per una serie di motivi, che possono essere i più diversi, non lasci prole sufficiente, dal punto di vista evolutivo è come se tu non esistessi. Questa prolificità, questo numero di discendenti, in inglese viene chiamato fitness, che è, appunto, il termine usato da Darwin; purtroppo non c'è una buona traduzione, si parla a volte di «idoneità biologica», ma in realtà si tratta di un numero, perché la teoria dell'evoluzione è una teoria quantitativa: chi lascia cento figli, chi lascia venti figli, chi lascia due figli ecc. E chiaro che, se aspetto qualche generazione, quelli che lasciano cento figli saranno più rappresentati nella popolazione di quelli che ne lasciano dieci o di quelli che ne lasciano due. Con questa semplice azione dell'ambiente naturale, che noi rileviamo a posteriori, si spiega tutto quello che è successo: si parte in una maniera, si prosegue in un'altra, ci sono estinzioni, ci sono affermazioni clamorose, ci sono trasformazioni, tutto basato sulla comparsa di specie di individui diversi rispetto a quelli che c'erano e sulla scelta che l'ambiente circostante fa in un modo o in un altro. Non esistono caratteristiche migliori di altre, esistono caratteristiche più adatte a un certo ambiente; se cambia l'ambiente, il valore delle caratteristiche cambia, e l'unico arbitro, giudice unico e indiscutibile di tutto questo, è l'ambiente fisico, ma anche biologico, nel quale una data popolazione si trova a vivere.

Prede e predatori: la coevoluzione

Da quello che ho detto fino adesso si potrebbe concludere che le specie evolvono ciascuna per conto proprio: niente di più sbagliato, perché una specie si trova ad avere a che fare con una, due, cinque, venti altre specie; quindi, mentre una specie evolve, evolvono anche tutte le altre con le quali si trova a essere in contatto. Il termine per indicare questo fenomeno è «coevoluzione»; in realtà, più che di evoluzione, ma in realtà sarebbe fastidioso, si dovrebbe sempre parlare di «coevoluzione»: le piante evolvono insieme a chi se le mangia, ma anche insieme a chi le impollina, il predatore evolve insieme alla preda e la preda evolve insieme al predatore. Questo concetto più ampio di coevoluzione chiarisce molti dei fatti che altrimenti non sarebbero comprensibili, soprattutto da quando esiste una scienza molto ben stabilita, l'ecologia, che studia proprio i rapporti tra i componenti dello stesso ambiente. Un esempio molto indicativo di tutto ciò è dato dal gigaro. Il gigaro è una piccola pianta, comune anche in Italia, con un bel fiore a tromba, svasato, e contenente la parte da impollinare; esiste un insetto che entra nel fiore, naturalmente per fare il bottino del polline che gli interessa, a quel punto il fiore lo intrappola, lo blocca, allora l'insetto gira, gira, gira perché si sente catturato e nel girare compie l'impollinazione che altrimenti non farebbe con tanta efficienza; quando l'impollinazione è avvenuta, si verifica una trasformazione: il fiore si riapre e l'insetto può scappare. Questo, secondo me, è l'esempio più calzante, più indicativo di coevoluzione. Chissà quanti passi, quante prove, quanti errori ci sono voluti per mettere insieme questa meraviglia, in cui qualcosa è cambiato nell'insetto, qualcosa è cambiato nel fiore, ma il risultato finale è estremamente funzionale: ha il suo vantaggio il fiore, perché viene impollinato efficacemente, e ha il suo vantaggio l'insetto, perché può prendere con tutta calma tutto il polline che gli interessa. Quindi, con i due principi darwiniani più la considerazione del concetto più ampio di coevoluzione, si riesce a spiegare quasi tutto quello che è successo sulla Terra in questi quattro miliardi di anni. Sottolineo la parola «quasi», perché una teoria che spiegasse tutto non è una teoria scientifica: una teoria scientifica spiega molto bene alcune cose, un po' meno e, a volte, abbastanza male certe altre. Questo bisogna ricordarlo sempre, perché in alcuni casi noi siamo assolutisti e vorremmo che le teorie scientifiche fossero perfette. Una teoria scientifica perfetta non è una teoria scientifica.

Il neodarwinismo e la funzione del caso

Darwin, come abbiamo capito, è stato un gigante, è stato un grande innovatore ed è stato anche incredibilmente coraggioso per i tempi che correvano e, se vogliamo, anche per i tempi che corrono, ma quello che stupisce più di tutto è come la sua teoria sia sopravvissuta per centocinquant'anni in un campo, la biologia, che è cambiato completamente. Sono poche, pochissime le teorie che vivono tanto a lungo, e certamente nessuna in biologia, quindi bisogna dare atto a Darwin di essere stato un osservatore finissimo e un argomentatore eccezionale, se quello che lui ha detto è rimasto valido nonostante tutto quello che lui non sapeva. Cosa non sapeva Darwin? Un numero incredibile di cose: non sapeva che esistevano i geni, non sapeva come funzionavano, tant'è vero che abbiamo visto come non capisse perché le variazioni comparivano sempre, inevitabilmente; non sapeva quasi nulla di biologia dello sviluppo, disciplina nata nel secolo successivo, quindi si basava solo sugli individui adulti, ma prima di essere adulti siamo tutti embrioni, e oggi è abbastanza chiaro che l'evoluzione, più che gli organismi, riguarda i sistemi di sviluppo (Darwin questo non lo poteva immaginare); come abbiamo già ricordato non c'era l'ecolo- già, lo studio quantitativo e rigoroso del rapporto tra i componenti diversi di un certo ambiente. E chiaro che in centocinquant'anni tutte queste scoperte qualche cambiamento lo hanno introdotto, qualcosa hanno dovuto migliorare, qualcosa hanno dovuto chiarire, tant'è vero che oggi si parla di neodarwinismo, per intendere che è una teoria che ha mantenuto il nucleo concettuale della spiegazione darwiniana, ma si è accresciuta notevolmente.

Esiste, però, una sorta di paradosso: se all'essere umano non piaceva, nella teoria originaria di Darwin, lo spazio amplissimo concesso alla casualità, con il passare dei decenni, invece di diminuire, questo spazio è aumentato. Il neodarwinismo dice più o meno quello che dice Darwin, ma introduce massicciamente, molto più massicciamente, l'opera del caso; un sacco di eventi sono avvenuti, certo, secondo i due principi propugnati da Darwin, ma anche perché sono successi fatti incredibili: basta pensare a meteoriti, inondazioni, vulcani che compaiono e scompaiono, isole che emergono e vengono sommerse dall'oceano, il movimento dei continenti (terre che si trovavano vicine si trovano lontane, terre che si trovavano lontane si trovano vicine) ecc.

Geni architetto e geni muratore

Per capire bene oggi tutto quello che è successo in questi quattro miliardi di anni bisogna introdurre tutti questi elementi casuali di natura astronomica, meteorologica, geologica e anche biologica.

Trent'anni fa si è infatti scoperto che i geni non sono tutti uguali: ci sono gerarchie nei geni, ci sono geni più importanti e geni meno importanti, e devo dire che in questo ho contribuito anche io col mio gruppo, ed è stato un grande divertimento per noi partecipare a questi avvenimenti. Per esempio, studiando il moscerino, che è un esserino piccino piccino, ma a cui non manca nulla - la testa, gli occhi, la proboscide, il torace, le ali, l'addome - si è visto che esistevano varianti in cui tutto il corpo era alterato: un moscerino poteva avere quattro ali invece di due, poteva avere otto zampe invece di sei o poteva avere un paio di zampette sulla testa al posto delle antenne; se esistono varianti di questo tipo, vuol dire che esistono geni di questo tipo. Tra il 1983 e il 1985 sono stati studiati questi geni, chiamati geni omeotici, e si è scoperto che sono geni, per così dire, «generali», che danno gli ordini alle truppe, accendono o spengono altri geni che poi effettivamente realizzano il corpo dell'animale. Io, a quell'epoca, li chiamai «geni architetto» perché, come quando si progetta una casa, l'architetto dice «qua la cucina, qua la sala da pranzo, qua la camera da letto, qua il bagno», ma poi ci sono i muratori, ci sono i capomastri, ci sono gli imbianchini, ci sono i falegnami che costruiscono la casa; allo stesso modo si vide che esistono geni che danno ordini superiori - testa qua, addome qua, torace qua, qua un'ala, qua una zampa - e poi geni che eseguono.

Ho fatto questa diversione per parlare di un problema che Darwin si trovò ad affrontare. La difficoltà maggiore che aveva Darwin era spiegare l'origine di organi particolarmente complessi, come per esempio l'occhio; Darwin si chiede a più riprese com'è possibile che, con tanti piccoli cambiamenti, si sia generato un organo così perfetto come l'occhio, che ha la messa a fuoco, l'apertura e chiusura del diaframma, come le nostre macchine fotografiche, che ha un tappeto fotosensibile, la retina, come appunto la nostra pellicola, e tutto questo è montato in modo efficace. Darwin diceva che non aveva dubbio che la sua teoria fosse giusta, ma quando pensava a come l'occhio potesse essere spiegato tramite essa, era assalito da «un brivido freddo». Ecco, con la scoperta di questi geni architetto, geni generali, geni di alto livello gerarchico, come li vogliamo chiamare, abbiamo eliminato quel brivido. Le variazioni non sono solo piccole, non hanno solo piccoli effetti, possono avere anche grandi effetti: se io, invece di un gene muratore o di un gene falegname, vario qualcosa nel gene architetto, ecco che allora nasce all'improvviso un animale con il corpo diverso, con un'ala in più o in meno, con una zampa in più o in meno, con un'antenna o una proboscide spostata. Questi eventi discontinui, casuali, di natura biologica, hanno dato il contributo forse più importante dei tempi moderni alla teoria dell'evoluzione. Naturalmente questo Darwin non lo poteva sapere, non lo si sapeva nemmeno quarant'anni fa e, bisogna dirlo, purtroppo, esistono biologi che non lo sanno nemmeno oggi, ma questo ha cambiato completamente il nostro panorama.

I grandi cambiamenti evolutivi

Stiamo parlando di eventi biologici nuovi, non prevedibili, ma di importanza fondamentale. Uno di questi è abbastanza semplice, ma essenziale per capire quello che è successo: le popolazioni naturali sono a volte ampie, hanno molti membri, a volte si restringono a pochi membri e poi si riallargano. Basta pensare agli insetti: durante l'inverno sono pochi, sembrano addirittura scomparsi, e poi d'estate ricompaiono. Noi non dobbiamo guardare alla specie umana che è più o meno fissa, ma alle specie naturali che hanno questo movimento: tanti, pochi e poi di nuovo tanti. Questo movimento prende il nome tecnico di «collo di bottiglia», bottleneck in inglese. Tutte le popolazioni naturali attraversano momenti in cui sono costituite da pochi individui. Questa osservazione banale è fondamentale. I grossi cambiamenti evolutivi sono accaduti quasi sempre quando le popolazioni erano piccole, perché cambiare venti individui è facile, cambiare venti milioni o venti miliardi di individui è molto più diffìcile. Questo semplice fenomeno del collo di bottiglia è stato utilissimo, ma è, di nuovo, un elemento casuale. Quando è riferito alla specie umana il «collo di bottiglia» prende il nome particolare di «effetto del fondatore», anche se si dovrebbe chiamare, per dire la verità, «effetto dei fondatori». Facciamo un esempio. Nell'isola di Tristan da Cunha, che si trova in mezzo all'oceano, lontano dalla terraferma, si osserva stranamente un'alta percentuale di individui asmatici, anche se vivono in un ambiente che più naturale, più sano, più simile, in un certo senso, all'ipotetico Eden non potrebbe essere; la spiegazione è semplicissima: l'isola un tempo era deserta, ed è poi stata popolata da un certo numero di individui (si calcola trenta, quaranta) arrivati intorno al Seicento su due vascelli, e probabilmente fra questi individui c'era una certa percentuale di geni predisponenti all'asma. Questo fenomeno, che altrimenti non troverebbe nessuna spiegazione, può essere chiarito facendo ricorso al puro caso. Ci sono tanti altri fenomeni spiegabili in questa maniera, per esempio perché nei neri americani sono più frequenti certe malattie, perché negli ebrei originari dell'Europa orientale sono più frequenti altre malattie; anche in questo caso è tutto dovuto a una diversa frequenza di alcuni geni nelle popolazioni originarie.

L'origine dell'uomo

Fin dalla sua prima comparsa, nel 1859, la teoria di Darwin ha suscitato numerose reazioni di sorpresa, ma anche di rifiuto. Ma il vero dramma ha avuto luogo dodici anni dopo, nel 1871, quando Darwin ha pubblicato, il «seguito» di L'origine delle specie. Anche se egli aveva concepito fin dall'inizio l'idea che anche l'uomo potesse essersi evoluto come tutte le altre specie, nel libro del 1859, L'origine delle specie, c'è solo una frase a questo proposito: «Luce verrà fatta anche sull'origine dell'uomo»; mentre dodici anni dopo il libro L'origine dell'uomo è tutto dedicato all'origine della nostra specie, dove si dice a chiare lettere che tutto quello che è stato proposto per le specie animali, vegetali, funghi e batteri vale anche per la nostra specie. E questo il grosso colpo che la teoria dà al pensiero comune: noi non siamo altro che animali, anche se molto particolari, che hanno avuto una storia, che hanno avuto un'evoluzione. Lo sviluppo di queste idee, in realtà, si è svolto soprattutto dopo la morte di Darwin - la maggior parte delle scoperte è stata fatta dieci, venti, trenta anni fa - ma gli dà completamente ragione, perché si è riusciti a ricostruire, quasi punto per punto, il cambiamento che ha portato da un antenato comune, vissuto circa sette milioni di anni fa, allo sviluppo dell'uomo, da una parte, e delle scimmie antropomorfe, dall'altra.

Uno degli aspetti più interessanti, ma anche più diffìcili, da spiegare è la triplicazione del nostro cervello negli ultimi tre milioni di anni. Il cervello non lascia fossili: quello che noi possiamo dire è che la capacità cranica è aumentata di tre volte, quindi siamo passati dai 400 grammi di cervello (più o meno quello di uno scimpanzé) ai 1300-1400 grammi dell'uomo moderno. E poi a un certo momento è accaduto un evento unico nella storia: sono comparsi gli strumenti; accanto ai resti fossili si trovano pietre scheggiate e, in un periodo successivo, levigate, che indicano come questi esseri, unici nel mondo vivente, oltre a fare patrimonio dell'evoluzione biologica che portano nelle loro cellule, hanno cominciato a utilizzare oggetti per una finalità. A quel punto è cominciato un altro tipo di evoluzione, chiamata «evoluzione culturale», che ha portato al mondo contemporaneo con tutta la sua tecnologia. L'evoluzione culturale è velocissima rispetto a quella biologica, infatti perché succeda qualcosa di importante dal punto di vista biologico occorrono centinaia di migliaia di anni, se non milioni di anni, mentre noi possiamo testimoniare oggi che dieci anni o vent'anni fa il nostro modo di vivere era molto diverso. Non va però dimenticato che l'evoluzione culturale non ci potrebbe essere se noi non avessimo avuto in eredità un certo tipo di cervello, un certo tipo di sistema nervoso, un certo tipo di «attrezzatura» biologica.

Evoluzionismo e creazionismo

Bisogna dire due parole anche sulle polemiche che, se anche non investono Darwin come scienziato, investono e hanno investito la sua opera. Quaranta o cinquantanni fa non si parlava molto di evoluzione, nel senso che la si dava per scontata, anche se molti non sapevano esattamente che cosa volesse dire; ma una trentina di anni fa negli Stati Uniti è successo qualcosa di nuovo, di imprevedibile: alcune chiese protestanti hanno cominciato a richiedere che ai ragazzi delle scuole non fosse insegnata soltanto la teoria evolutiva, la teoria neodarwiniana, ma anche quello che diceva la Bibbia, come Dio ha creato il mondo in sei giorni, comprese tutte le specie viventi. E stato uno shock, uno shock che è partito dagli Stati Uniti e si è allargato a tutto il mondo. Coloro che dicono che le specie sono quelle create da Dio fin dall'inizio sono sostenitori di un movimento che prende il nome di «creazionismo», che non è una critica scientifica, come si vede, ma è semplicemente una rivendicazione dell'autenticità del racconto biblico. Alcuni creazionisti negli anni successivi hanno cambiato pelle, e il movimento ha preso il nome di Intelligent Design, «progetto intelligente» o «progetto intelligibile». Cosa dicono questi signori? Molto poco. Sostengono di non credere che tutto quello che abbiamo sotto gli occhi possa essere spiegato soltanto con mutazione e selezione, cioè con una serie di eventi casuali; ci deve essere una mente (non sappiamo quale), ci deve essere un progetto, ci deve essere una visione che sottende a tutte le meraviglie osservabili. Come si vede, questa non è una critica scientifica, è semplicemente un'affermazione gratuita sull'insufficienza delle spiegazioni scientifiche. Oggi ci troviamo in questa situazione: da una parte, nella scienza, nessuno dubita più della teoria evolutiva, e chiunque faccia il biologo oggi dà per assunta la verità della teoria neodarwiniana; dall'altra esiste un clima di sospetto, di critica, di insicurezza, che certamente non fa bene a nessuno, su quello che può essere il vero motivo per cui le cose sono diventate come sono diventate. Ripeto, dal punto di vista scientifico non c'è dubbio, c'è poco da discutere, i sostenitori dell'Intelligent Design non hanno mai portato un elemento valido per mettere in discussione il neodarwinismo, che non è mai stato in buona salute come oggi, però non si può nascondere il fatto che se ne discute tanto, soprattutto, direi, per quanto concerne l'uomo e la sua origine. Le persone più illuminate dicono: «Che c'importa di come si è originato l'uomo? L'importante è che sia così com'è e che proceda verso un avvenire sempre più luminoso, sempre più glorioso, sempre più interessante». Però esistono persone che sono interessate al passato e si sentono lese dall'ipotesi che l'uomo derivi da un animale, non importa quale, e preferiscono pensare che sia stato creato appositamente e in maniera determinata da Dio.

Approfondimenti
Charles Darwin

Charles Robert Darwin nacque nel 1809 a Shrewsbury (Inghilterra) da famiglia di tradizioni naturalistiche: suo nonno, Erasmus Darwin (1731-1802), aveva infatti sostenuto, nella Zoonomia, la trasformazione delle specie viventi per influenza dell'ambiente. Charles da giovane studiò teologia, con l'intenzione di avviarsi alla carriera ecclesiastica, ma la sua vita subì una svolta tra il 1831 il 1836 in occasione del viaggio intorno al mondo a bordo del veliero Beagle, sul quale si era imbarcato come naturalista. Nel corso di tale viaggio, da lui stesso descritto nel Diario delle ricerche di storia naturale e biologia compiute durante il viaggio della regia nave Beagle ( 1839), egli ebbe modo di compiere numerose osservazioni sia geologiche, le quali gli confermarono la validità delle tesi di Charles Lyell, ma soprattutto biologiche, che lo convinsero della trasformazione delle specie.

Tornato in patria, Darwin si dedicò agli studi di biologia per scoprire quale era la causa di tale trasformazione, osservando soprattutto i metodi con cui gli allevatori di estiame, attraverso appropriati incroci, riescono a selezionare le specie più desiderabili di animali. Ma la scoperta di quella che sarebbe stata la sua definitiva spiegazione gli venne dalla lettura dell'opera di Thomas R. Malthus sulle vicende della popolazione umana sulla Terra, in particolare sull'eliminazione di molti individui prodotta per via naturale dalla miseria. Nel 1858, quando ormai Darwin era pervenuto a formulare la sua teoria, il naturalista Alfred R. Wallace gli inviò una memoria da presentare alla Società Linneana di Londra, di cui egli era membro, nella quale si sosteneva esattamente la sua stessa teoria. Perciò Darwin, rotto ogni indugio, presentò la memoria di Wallace insieme con un proprio scritto, in cui annunciò al mondo degli scienziati la teoria della selezione naturale, e dopo un anno, nel 1859, pubblicò il suo capolavoro, L'origine delle specie per mezzo della selezione naturale, del quale fece pubblicare in seguito altre cinque edizioni.

L'opera ebbe subito un enorme successo e avviò un dibattito, che vide soprattutto lo scienziato Thomas H. Huxley (1825-1895) schierato a favore di Darwin e il mondo ecclesiastico schierato contro di lui, nella persuasione che la sua teoria fosse in contrasto con la Sacra Scrittura (lo stesso Darwin, interpretando quest'ultima alla lettera, credeva che essa sostenesse la creazione diretta di ciascuna specie e perciò, quando si convinse del trasformismo, perdette la fede). Ma Darwin prosegui nelle sue ricerche, pubblicando nel 1868 La variazione degli animali e delle piante ad opera dell'addomesticamento, nel 1871 L'origine dell'uomo e la selezione in rapporto al sesso e nel 1872 L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali. Dopo la morte, avvenuta nel 1882, apparve una sua autobiografìa, inserita con l'epistolario nella biografia redatta dal figlio Francis.

La lotta per la vita

Introducendo l'edizione italiana dell'Origine delle specie, Giuseppe Montalenti fa le seguenti osservazioni: «L'importanza del libro di Darwin va veduta sotto due aspetti principali. In primo luogo, essa segna l'avvento della teoria dell'evoluzione [...]. Ora tale teoria, oltre al suo altissimo significato biologico, ne ha uno che interessa più direttamente l'umano genere: sovverte completamente la nozione tradizionale del posto che l'uomo occupa nella natura, lo detronizza da "re del creato ", e lo considera alla stregua degli altri fenomeni naturali, come una di quelle forme organizzate che esistono sulla faccia della terra, e che hanno avuto nel corso dei tempi una successione, una storia, la quale appunto si è convenuto di denominare "evoluzione" [...]. Il secondo aspetto della grandezza dell'opera di Darwin consiste nella interpretazione che egli dà delle cause dell'evoluzione biologica. Cause strettamente "naturali ", cioè suscettibili di quell 'analisi scientifica cui egli si dedica con tanta scrupolosa cura e con la ferma intenzione di non indulgere mai alle wterpretazioni metafisiche, che, chiamando in azione "forze" o "impulsi" o "tendenze" o "disegni" superiori, introducono nel ragionamento scientifico criteri che alla scienza sono e debbono rimanere estranei». Entrambi questi aspetti emergono con evidenza nelle pagine dedicate da Darwin all'esplicazione del principio della selezione naturale, le più note delle quali vengono riprodotte nel testo seguente, tratto dalla prima traduzione italiana, opera del naturalista Giovanni Canestrini (1835-1900), uno dei principali divulgatori della teoria darwininana in Italia.

L'origine delle specie, cap. IV

La lotta per l'esistenza, da noi troppo brevemente discussa nel capo precedente, come agisce rispetto alla variabilità?1 Può forse applicarsi allo stato di natura il principio di elezione2, che noi vedemmo essere tanto potente nelle mani dell'uomo? Noi potremo, io credo, convincerci che questo principio agisce molto efficacemente. Noi ricordiamo il numero infinito di varietà ottenute fra le nostre produzioni domestiche, come pure le variazioni meno apparenti delle razze selvagge, e sappiamo quanta sia la forza delle tendenze ereditarie. [...]

Se si rifletta come nascano variazioni utili all'uomo, sarà forse improbabile che, nel corso di parecchie migliaia di generazioni successive, avvengano alle volte altre variazioni utili agli esseri stessi nella grande e complicata lotta della vita? Ove queste variazioni si manifestino (posta la verità del fatto che nascono sempre individui in maggior numero di quanti possano vivere), non potrebbe aversi dubbio alcuno che gli individui dotati di qualche naturale vantaggio, comeché leggero, non abbiano maggiore probabilità di sopravvivere e di propagare la loro razza. D'altra parte non è meno certo che qualunque deviazione, per poco sia nociva agli individui nei quali si produce, sarà cagione inevitabile della loro distruzione. Ora questa legge di conservazione delle variazioni favorevoli e d'eliminazione delle deviazioni nocive, io la chiamo Elezione Naturale o sopravvivenza del più adatto. Quelle variazioni, che non sono utili né dannose non possono essere affette da questa legge dell'elezione naturale, e rimangono un elemento variabile, locché noi osserviamo forse nelle specie dette polimorfiche; oppure diventano alfine fìsse, sia per la natura dell'organismo, sia per la natura delle condizioni3. [...]

Se l'uomo può produrre e ha effettivamente prodotto sì grandi risultati coi propri mezzi d'elezione metodica e inconscia, che cosa non può fare l'elezione naturale? L'uomo può agire solamente sui caratteri esterni e visibili: la natura (ove mi si permetta di personificare così la preservazione naturale degl'individui variabili e favoriti durante la lotta per l'esistenza)4 non s'inquieta delle

Le variazioni, che insorgono casualmente, possono essere utili, dannose o irrilevanti ai fini della conservazione dell'individuo. Esse, infatti, non sono prodotte in funzione all'ambiente, ma vengono selezionate da esso in base al loro grado di utilità soltanto dopo che si sono sviluppate. In una pagina precedente, qui omessa, Darwin aveva precisato che per natura si deve intendere «soltanto l'azione combinata e il risultato di apparenze, salvo il caso in cui le medesime riescano utili a un essere. Essa può agire sopra ogni organo interno, sopra ogni più piccola differenza di costituzione, sull'intero meccanismo della vita. L'uomo sceglie colla sola vista del proprio interesse; la natura opera esclusivamente pel bene dell'essere di cui si occupa. Ogni carattere prescelto viene pienamente esercitato da essa; e l'essere trovasi posto nelle condizioni di vita più opportune. L'uomo conserva in uno stesso paese individui appartenenti a climi diversi; egli sviluppa di rado un organo qualunque in una maniera speciale e conveniente; egli nutre cogli stessi cibi un colombo a becco lungo e un altro a corto becco; egli non sottopone a un particolare trattamento un quadrupede a dorso lungo e un altro a gambe lunghe; egli tiene sotto il medesimo clima le pecore di lana lunga e di lana corta. Egli non dà l'opportunità ai maschi più vigorosi di lottare per le femmine. Egli non distrugge rigorosamente tutti gli animali imperfetti; ma, per quanto gli è dato, protegge in ogni stagione tutti i suoi prodotti. Egli comincia spesso la sua elezione da qualche forma semimostruosa, o almeno da qualche modificazione abbastanza palese per attirare la sua attenzione, ovvero tale da promettergli degli evidenti vantaggi2. Allo stato di natura, la più significante differenza di struttura o di costituzione basta a distruggere l'esatto equilibrio esistente tra le forme lottanti, e può cosi effettuare la loro conservazione. Quanto leggiere e mutabili sono le viste e gli sforzi dell'uomo! quanto breve è il suo tempo! e conseguentemente quanto imperfetti non saranno i suoi prodotti confrontati con quelli accumulati dalla natura negl'interi periodi geologici! Possiamo noi meravigliarci adunque che le produzioni della natura siano nei loro caratteri meglio distinte che non le produzioni dell'uomo; che quelle siano assai più adattate alle più complicate condizioni di esistenza e portino l'impronta d'un'opera molto più perfetta?3

Metaforicamente può dirsi che l'elezione naturale va scrutando ogni giorno e ogni ora pel mondo intero ciascuna variazione anche minima: rigettando ciò che è cattivo, conservando e accumulando tutto ciò che è buono; essa lavora insensibilmente e silenziosamente in tutti i luoghi e sempre, quando si presenti l'opportunità, al perfezionamento di ogni essere organizzato in relazione alle sue condizioni di vita organiche e inorganiche. Nulla noi scorgiamo di codeste lente e progressive trasformazioni fino a che la mano del tempo abbia segnato il lungo corso delle epoche; le nostre cognizioni poi relative alle età geologiche, da lungo tempo trascorse, sono sì imperfette, che noi ci accorgiamo solo che le odierne forme viventi sono differenti da quelle d'un tempo.

[...]

Per far comprendere con maggior chiarezza in qual modo, secondo me, agisca l'elezione naturale, mi si permetta di dare uno o due esempi immaginati. Prendiamo il caso di un lupo che trovi la sua preda in animali diversi, impadronendosi di alcuni per insidia, di altri per forza e di altri per agilità, e supponiamo che la sua preda più veloce, per esempio il daino, in seguito ad alcuni cambiamenti avvenuti nella regione, sia divenuto più numeroso, o che gli altri animali, di cui si nutre, siano al contrario diminuiti, in quella stagione dell'anno in cui il lupo sentesi più stimolato dalla fame. In tali circostanze i lupi più agili e più veloci avranno maggiore probabilità di sopravvivere e saranno quindi preservati ed eletti: quando però essi abbiano conservato la forza di atterrare la loro preda e di rendersene padroni in quell'epoca, in cui saranno spinti a nutrirsi d'altri animali. Io non posso mettere in dubbio ciò, mentre sappiamo che l'uomo può perfezionare l'agilità de' suoi levrieri, per mezzo di una precisa e metodica elezione, ovvero con una elezione inavvertita proveniente dagli sforzi che ognuno fa per conservare i migliori cani senza alcuna intenzione di migliorarne la razza.

C. Darwin, Sulla origine delle specie per elezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l'esistenza, trad. di Giovanni Canestrini, Barion, Sesto San Giovanni 1933

L'origine dell'uomo
*

Nella sua prima grande opera, Sull'origine delle specie, Darwin aveva accennato solo di sfuggita al problema dell'uomo, senza entrare nell'esame di questa particolare specie animale, ma aveva preannunciato che la nuova ipotesi evoluzionistica avrebbe «fatto molta luce anche sull'origine dell'uomo e sulla sua storia». Le reazioni più polemiche presero di mira proprio tale questione, giacché la cultura ecclesiastica, i teologi e gli scienziati conservatori non potevano ammettere l'idea di una parentela tra l'uomo e gli animali inferiori. Un celebre episodio illustra in modo eloquente il clima che si era creato intorno al libro. Nel giugno del 1860 il biologo Thomas Huxley tenne a Oxford una conferenza per presentare la nuova teoria evoluzionistica. Nella sala gremita era presente il vescovo anglicano Samuel Wilderforce, che provocò il conferenziere chiedendogli se era per parte di padre o di madre che egli derivava da una scimmia. Con pacatezza Huxley rispose che non considerava affatto una vergogna avere come progenitore una scimmia, ma piuttosto l'essere imparentato con un uomo che impiegava la sua intelligenza per nascondere la verità.

Le polemiche divamparono in tutta Europa. Anche in Italia si sviluppò un acceso dibattito, in cui intervenne, tra gli altri, il vecchio Nicolò Tommaseo con il libello L'uomo e la scimmia (1869).

Darwin procedette nelle sue indagini e nel febbraio del 1871 diede alle stampe L'origine dell'uomo e la selezione in rapporto al sesso, un nuovo libro in cui esponeva tutti gli argomenti che imponevano di estendere l'ipotesi evoluzionistica anche alla specie umana. «Non appena mi convinsi, nel 1837 o 1838 - racconta egli stesso nella sua Autobiografia — che le specie erano mutabili, non potei fare a meno di credere che l'uomo dovesse essere regolato dalla stessa legge. Perciò presi appunti su questo problema, per mia personale soddisfazione e per lungo tempo, senza alcuna intenzione di pubblicarli. [...] Ma quando vidi che molti naturalisti accettavano completamente la dottrina dell'evoluzione delle specie, mi sembrò opportuno sviluppare i miei appunti e pubblicare un trattato a sé sull'origine dell'uomo».

Dall'Origine dell'uomo presentiamo qui due brani nella traduzione del naturalista e divulgatore piemontese Michele Lessona (1823-1894). Nel primo Darwin, con la sua consueta cautela, afferma che anche l'uomo è il frutto dell'evoluzione e non gli va «attribuito un regno separato» distinto da quello animale e vegetale, come tradizionalmente si faceva. Nel secondo brano Darwin riassume le sue argomentazioni. Esse sono di due tipi. Un primo tipo e di ordine generale, logico-deduttivo: se si ammette la validità del principio evoluzionistico, non c'è ragione di ritenere che l'uomo non soggiaccia alla stessa legge. Un secondo di carattere empirico: dall'osservazione di affinità morfologiche, fisiologiche e psicologiche risultano prove inconfutabili della prossimità dell'uomo agli altri mammiferi superiori, in particolare alle scimmie antropomorfe.

L'origine dell'uomo, capp. VI e XXI

Qualora si voglia anche ammettere che la differenza fra l'uomo e i suoi più stretti affini è tanto grande nella struttura corporea quanto alcuni naturalisti sostengono, e quantunque dobbiamo riconoscere che la differenza che passa fra essi è nella potenza mentale immensa, tuttavia i fatti addotti nei capitoli precedenti dimostrano, siccome a me sembra, nel modo più evidente, che l'uomo discende da qualche forma inferiore, malgrado che gli anelli di congiunzione non siano stati ancora scoperti.

L'uomo è soggetto a moltissime, leggere, e diverse variazioni, che sono indotte dalle stesse cause generali, e sono governate e trasmesse mercé le stesse leggi generali come negli animali sottostanti. L'uomo tende a moltiplicarsi cosi rapidamente che la sua figliuolanza è necessariamente esposta alla lotta per la esistenza, e in conseguenza alla scelta naturale. Egli ha originato molte razze, alcune delle quali sono cosi differenti che sovente sono state classificate dai naturalisti come specie distinte. Il suo corpo è costrutto sullo stesso disegno omologico degli altri mammiferi, indipendentemente dagli usi a cui le varie parti possono essere destinate. Egli passa per le stesse fasi di sviluppo embriologico. Egli conserva molte strutture rudimentali e inutili che senza dubbio avevano un tempo un qualche ufficio. Ricompaiono in lui accidentalmente certi caratteri, che abbiamo ogni ragione di credere fossero posseduti dai suoi primieri progenitori. Se l'origine dell'uomo fosse interamente stata diversa da quella di tutti gli altri animali, queste varie apparenze sarebbero solo vuote illusioni; ma una cotale ragione non è ammissibile. D'altra parte, queste apparenze si comprendono, almeno per una larga estensione, se l'uomo discende contemporaneamente agli altri mammiferi da qualche forma ignota e inferiore.

Alcuni naturalisti, colpiti profondamente dalle potenze mentali e spirituali dell'uomo, hanno diviso tutto il mondo organico in tre regni, l'Umano, l'Animale e il Vegetale, dando in tal modo all'uomo un regno separato. Il naturalista non può comparare o classificare le forze spirituali; ma può cercare di dimostrare, come ho fatto io, che le facoltà mentali dell'uomo non differiscono sostanzialmente da quelle degli animali sottostanti, quantunque differiscano immensamente in grado. Una differenza di grado, per quanto grande sia, non ci giustifica di collocare l'uomo in un regno distinto, ciò che sarà meglio dimostrato forse comparando le forze mentali di due insetti, cioè un coccus o gallinsetto e una formica, che senza dubbio appartengono alla stessa classe. Qui la differenza è maggiore, sebbene in certo modo di un'altra sorta, che non fra l'uomo e i mammiferi più elevati. La femmina del gallinsetto, ancora giovane, si attacca colla proboscide a una pianta; sugge la linfa ma non si muove più; divien fecondata e depone le uova; e questa è tutta la sua storia. D'altra parte la descrizione dei costumi e delle forze mentali della formica femmina esigerebbe, come ha dimostrato Pietro Huber, un grosso volume; tuttavia posso brevemente riferire alcuni punti. Le formiche si danno reciprocamente informazioni e si uniscono parecchie insieme per far lo stesso lavoro, o per trastullarsi. Riconoscono le formiche loro compagne dopo una assenza di mesi. Si fabbricano grandi edifizi, li tengono puliti, chiudono la sera le porte, e collocano le sentinelle. Fanno strade, e talora anche gallerie sotto i fiumi. Raccolgono il nutrimento per la comunità, e quando un oggetto che portano nel nido è troppo grande, allargano la porta e poi tornano a ricostruirla. Vanno alla battaglia in eserciti regolari, e sacrificano volenterose la loro vita pel bene comune. Emigrano concordi con un progetto prestabilito. Fanno schiavi. Tengono gli afidi come vacche pel latte. Portano le uova dei loro afidi come le proprie e i propri bozzolini nelle parti più calde del nido, onde si schiudano più presto; e compiono un numero senza fine di fatti consimili che potremmo citare. In complesso, la differenza fra la potenza mentale di una formica e quella di un gallinsetto è immensa; tuttavia nessuno ha mai sognato di collocarli in classi distinte, e molto meno in regni distinti. Senza dubbio questo intervallo è riempito dalle forze mentali intermedie di molti altri insetti; e questo non è il caso fra l'uomo e le scimmie più elevate. Ma abbiamo ogni ragione per credere che le lacune nelle serie non sono altro che l'effetto della estinzione di molte forme.

[...]

Recentemente molti fra i nostri migliori naturalisti sono ritornati alla prima idea di Linneo, tanto mirabile per la sua sagacia, e hanno allogato l'uomo nello stesso ordine dei quadrumani, col titolo di primati. La giustezza di questa conclusione sarà ammessa se, in primo luogo, teniamo a mente le osservazioni fatte testé sulla poca importanza comparativamente per la classificazione del grande sviluppo del cervello dell'uomo, e anche che le spiccatissime differenze fra i crani dell'uomo e dei quadrumani [...] derivano apparentemente da ciò che il loro cervello è differentemente sviluppato. In secondo luogo, dobbiamo tener a mente che quasi tutte le altre e più importanti differenze fra l'uomo e i quadrumani sono evidentemente per adattamento, e si riferiscono soprattutto alla stazione eretta dell'uomo; come sarebbe la struttura della sua mano, del piede e della pelvi, l'incurvatura della spina dorsale e la posizione del capo. La famiglia delle foche offre un buon esempio della poca importanza di caratteri di adattamento per la classificazione. Questi animali differiscono da tutti gli altri carnivori nella forma del corpo e nella struttura delle membra molto più che non le scimmie più elevate differiscono dall'uomo; [...]. Se l'uomo non fosse stato il proprio classificatore, non avrebbe mai pensato a trovare un ordine separato per collocarvisi. [...]

Sul principio di questo volume ho riferito vari fatti che dimostrano quanto intimamente l'uomo concordi nella costituzione coi mammiferi più elevati; e questo fatto, senza dubbio, dipende dalla nostra intima similarità nelle minute strutture e nella composizione chimica. Come esempio dava l'essere noi soggetti alle stesse malattie, e alle aggressioni di parassiti affini; i nostri gusti in comune pei medesimi stimolanti, e gli effetti simili che questi e vari medicamenti producono, e altri fatti consimili.

Siccome piccoli e poco importanti punti di rassomiglianza fra l'uomo e le scimmie più elevate non sono comunemente notati nelle opere sistematiche, e siccome quando sono numerosi svelano chiaramente la nostra parentela, io specificherò alcuni di questi punti. La posizione relativa delle fattezze evidentemente è la stessa nell'uomo e nei quadrumani; e le varie emozioni sono manifestate con movimenti dei muscoli della pelle quasi simili, specialmente sopra le sopracciglia e intorno alla bocca. Infatti, alcune poche espressioni sono quasi le stesse, come il pianto di certe specie di scimmie, e il rumore che fanno ridendo certe altre, durante il quale gli angoli della bocca son tratti indietro, e le palpebre inferiori s'increspano.

L'orecchio esterno è curiosamente simile. Nell'uomo il naso è molto più prominente che non in molte scimmie; ma possiamo segnare il principio di una incurvatura aquilina nel naso dell'ilobate Hoolock; e questo nel Sem- nopithecus nasica è portato a un punto ridicolo.

Le faccie di molte scimmie sono adorne di barba e di baffi. In alcune specie di semnopiteci i peli del capo vengono assai lunghi; e nella scimmia dal berretto (Macacus radiatus) raggiano da un punto del vertice con una spartizione in mezzo come nell'uomo. Si dice comunemente che la fronte dà all'uomo il suo aspetto nobile e intelligente; ma i fìtti peli sul capo della scimmia dal berretto terminano repentinamente all'indietro, e son seguiti da capelli corti e fini o lanuggine, per cui a poca distanza la fronte, tranne le sopracciglia, sembra al tutto nuda. E stato a torto asserito che le sopracciglia non si trovano in nessuna scimmia. Nelle specie testé nominate il grado di nudità nella fronte differisce nei vari individui; ed Eschricht asserisce che nei nostri bambini il limite fra il capillizio e la fronte non è talvolta bene definito; cosicché qui sembriamo avere un leggero caso di regresso verso un progenitore nel quale la fronte non era ancora divenuta al tutto nuda. [...]

Non v'ha dubbio che l'uomo, in confronto della maggior parte dei suoi affini, ha sopportato un complesso straordinario di modificazioni, principalmente in conseguenza del grande sviluppo del suo cervello e della stazione eretta; nondimeno dobbiamo porci in mente che egli «non è che una delle varie forme eccezionali dei Primati».

[...]

E siccome l'uomo, dal punto di vista genealogico, appartiene allo scompartimento dello stipite Catarrino o del continente antico, dobbiamo concludere, per quanto questa conclusione possa offendere il nostro orgoglio, che i nostri primieri progenitori sarebbero stati cosi appunto classificati. Ma non dobbiamo cadere nell'errore di credere che il primiero progenitore di tutto lo stipite delle scimmie, compreso l'uomo, fosse identico, o anche rassomigliasse molto, a qualunque scimmia che esista oggi.

La conclusione principale ottenuta in questa opera, e ora sostenuta da molti naturalisti benissimo competenti a formare un solido giudizio, si è che l'uomo sia disceso da qualche forma meno altamente organizzata. I fondamenti su cui riposa questa conclusione non saranno mai scossi, perché l'intima somiglianza fra l'uomo e gli animali sottostanti nello sviluppo embriogenico, come pure in numerosissimi punti di struttura e di costituzione, tanto di grande quanto di lieve importanza, - i rudimenti che conserva, e gli anormali ritorni a cui è talvolta soggetto, — sono fatti che non si possono contrastare. Essi sono stati conosciuti da lungo tempo, ma fino a poco fa non ci davano nessuna spiegazione intorno all'origine dell'uomo. Osservati ora col lume delle nostre cognizioni intorno al mondo organico, il loro significato non può essere disconosciuto. Il grande principio di evoluzione sta evidente e fermo, quando questi gruppi di fatti sono considerati in rapporto con altri, come le mutue affinità dei membri dello stesso gruppo, la loro distribuzione geografica nei tempi passati e presenti, e la loro geologica successione. Non si può credere che tutti questi fatti abbiano un significato falso. Colui il quale non si contenta di credere, come un selvaggio, che i fenomeni della natura non abbiano un legame fra loro, non può credere per nulla che l'uomo sia l'opera di un atto separato dalla creazione4. Egli dovrà per forza ammettere che l'intima somiglianza dell'embrione umano con quello, per esempio, di un cane — la costruzione del suo cranio, delle sue membra e di tutta la sua impalcatura, - indipendentemente dagli usi a cui possono essere destinate le varie parti, secondo lo stesso disegno di tutti gli altri mammiferi - la ricomparsa eventuale di varie strutture, per esempio di parecchi muscoli distinti, che l'uomo non possiede normalmente, ma che sono comuni ai quadrumani, - e una folla di fatti analoghi — tutto conduce nel modo più piano a conchiudere che l'uomo è il condiscendente con altri mammiferi da un progenitore comune.

Abbiamo veduto che l'uomo presenta incessantemente differenze individuali in tutte le parti del suo corpo e nelle sue facoltà mentali. Queste differenze o variazioni sembrano essere indotte dalle medesime cause generali, e obbedire alle stesse leggi come negli animali sottostanti. Nei due casi prevalgono leggi consimili di eredità. L'uomo tende a moltiplicarsi molto al di là di quello che permettano i suoi mezzi di sussistenza; in conseguenza egli va soggetto eventualmente a una dura lotta per l'esistenza, e la scelta naturale avrà operato tutto ciò che sta nella sua cerchia5. Perciò non è per nulla necessaria una successione di variazioni fortemente spiccate di consimile natura; lievi differenze oscillanti nell'individuo basteranno per l'opera della scelta naturale. Possiamo essere certi che gli effetti ereditati dall'esercizio lungamente continuato, o dalla mancanza di esercizio delle parti avranno operato per lo stesso scopo colla scelta naturale. Modificazioni primieramente importanti, sebbene non più di nessun uso speciale, saranno lungamente ereditate. Quando una parte viene modificata, altre parti muteranno pel principio di correlazione, del quale abbiamo esempi in molti casi curiosi di mostruosità correlative. Si può attribuire qualche cosa all'azione diretta e definita delle condizioni circostanti della vita, come abbondanza di nutrimento, caldo, o umidità; e infine, molti caratteri di poca importanza fisiologica, alcuni invero molto importanti, sono stati ottenuti mercé la scelta sessuale.

[...]

Considerando la struttura embriologica dell'uomo — le omologie che presenta cogli animali sottostanti — i rudimenti che conserva, e i ritorni a cui va soggetto, possiamo in parte richiamarci alla mente la primiera condizione dei nostri primi progenitori; e possiamo approssimativamente collocarli nella loro propria posizione nella serie zoologica. Noi impariamo cosi che l'uomo è disceso da un quadrupede peloso, fornito di coda e di orecchie aguzze, probabilmente di abiti arborei, e che abitava l'antico continente. Questa creatura, quando un naturalista ne avesse esaminata tutta la struttura, sarebbe stata collocata fra i quadrumani, colla stessa certezza quanto il comune è ancora più antico progenitore delle scimmie del vecchio e del nuovo continente. I quadrumani e tutti i mammiferi più elevati derivano probabilmente da qualche antico animale marsupiale, e questo per una lunga trafila di forme diversificanti, da qualche creatura rettiliforme o amfi- biforme, e questa del pari da qualche animale pesci- forme. Noi possiamo scorgere, nella fosca oscurità del passato, che il progenitore primiero di tutti i vertebrati deve essere stato un animale acquatico, fornito di branchie, coi due sessi riuniti nello stesso individuo, e cogli organi più importanti del corpo (come il cervello e il cuore), imperfettamente sviluppati. Questo animale sembra essere stato più simile alla larva della nostra esistente ascidia di mare che non a qualunque altra forma conosciuta.

La più grande difficoltà che si presenta, quando siamo tratti alla sovra esposta conclusione intorno all'origine dell'uomo, è il livello elevato di potenza intellettuale e di disposizione morale cui egli è giunto. Ma chiunque ammette il principio generale di evoluzione, deve vedere che le potenze mentali [degli animali superiori], che sono dello stesso genere di quelle dell'uomo, sebbene tanto differenti nel grado, sono suscettive di progresso. Così l'intervallo fra le potenze mentali di una delle scimmie più elevate e quelle di un pesce, o tra quelle di una formica e quelle di un acaro è immenso. Lo sviluppo di queste forze negli animali non presenta nessuna difficoltà speciale; perché nei nostri animali domestici, le facoltà mentali sono certamente variabili, e le variazioni sono ereditate. Nessuno pone in dubbio che queste facoltà siano di una estrema importanza per gli animali allo stato di natura. Perciò le condizioni sono favorevoli pel loro sviluppo mercé la scelta naturale. La stessa conclusione può venire estesa all'uomo; l'intelletto deve essere stato importantissimo per esso, anche in un periodo remoto, dandogli la facoltà di adoperare il linguaggio, di inventare e fare armi, ordigni, trappole ecc.; e con questi mezzi, uniti ai costumi sociali, egli da lungo tempo è divenuto la più dominatrice di tutte le creature viventi.

Un grande progresso nello sviluppo dell'intelletto sarà seguito, appena mercé un naturale avanzamento precedente, la semi-arte e il semi-istinto del linguaggio saranno venuti in uso; perché l'uso continuato del linguaggio avrà prodotto un effetto ereditato; e questo a sua volta avrà reagito sul miglioramento del linguaggio. La grande mole del cervello dell'uomo, in paragone di quello degli animali sottostanti, relativamente alla mole del loro corpo, può essere per la maggior parte attribuita, come ha bene osservato il signor Chauncey Wright6, all'uso primiero di qualche semplice forma di linguaggio - quel meraviglioso congegno che applica segni a ogni sorta di oggetti e di qualità, e promuove il legame del pensiero che non potrebbe mai nascere dalla sola impressione dei sensi, e se nascesse non potrebbe essere continuato. Le forze intellettuali più alte dell'uomo, come il raziocinio, l'astrazione, la consapevolezza ecc., avranno avuto origine dal continuo miglioramento di altre facoltà mentali; ma senza una notevole coltura della mente, tanto nella razza quanto nell'individuo, è dubbio se queste alte potenze avrebbero potuto esercitarsi, e così pienamente svilupparsi.

Lo sviluppo delle qualità morali è un problema interessantissimo e diffìcile. Queste facoltà si fondano sugli istinti sociali, che comprendono i legami della famiglia. Questi istinti sono di natura sommamente complessa, e nel caso degli animali sottostanti producono tendenze speciali verso certe azioni definite; ma gli elementi più importanti per noi sono l'amore e la distinta emozione della simpatia. Gli animali dotati di istinti sociali si compiacciono della compagnia del loro simile, si difendono a vicenda dal pericolo, si aiutano fra loro in molti modi. Questi istinti non si estendono a tutti gli individui della specie, ma solo a quelli della medesima comunità. Siccome essi sono sommamente benefici alla specie, sono stati molto probabilmente acquistati per opera della scelta naturale.

Un essere morale è quello che può riflettere sulle sue azioni passate e sui motivi di esse, di approvarne alcune e disapprovarne altre, e il fatto che l'uomo è quella tal creatura che certamente può essere in cosiffatto modo indicata è la più grande di tutte le distinzioni fra lui e gli animali sottostanti. Ma nel nostro terzo capitolo ho cercato dimostrare che il senso morale deriva, prima, dalla natura persistente e sempre presente degli istinti sociali, nel qual rispetto l'uomo concorda cogli animali sottostanti; secondo, dal poter egli apprezzare l'approvazione e la disapprovazione dei suoi simili, e terzo da ciò che le sue facoltà mentali sono sommamente attive e le sue impressioni dei passati avvenimenti vivacissime, nel qual rispetto egli differisce dagli animali sottostanti.

Gli animali sociali sono spinti in parte da un desiderio di porgere aiuto ai membri della medesima comunità in un modo generale, ma più comunemente a compiere certe azioni definite. L'uomo è spinto dallo stesso desiderio generale di assistere i suoi simili, ma ha pochi o non ha affatto istinti speciali. Differisce pure dagli animali sottostanti per la facoltà che ha di esprimere i suoi desideri colle parole, che così divengono la guida dell'aiuto richiesto e accordato. Il motivo di dare aiuto è parimente molto modificato nell'uomo; esso non consiste più soltanto in un cieco impulso istintivo, ma è grandemente spinto dalla lode o dal biasimo dei suoi simili. Tanto l'apprezzare quanto l'accordare la lode e il biasimo riposano sulla simpatia; e questo sentimento, come abbiamo veduto, è uno degli elementi più importanti degli istinti sociali. La simpatia, sebbene acquistata come istinto, è pure resa più forte dall'esercizio o dall'abitudine. Siccome tutti gli uomini desiderano la propria felicità, si dà lode o biasimo a quelle azioni e a quei motivi secondo che conducano a quello scopo; e siccome la felicità è una parte essenziale del bene generale, il principio della più grande felicità serve indirettamente come un livello quasi sicuro del bene e del male. Man mano che le potenze del ragionamento progrediscono e si acquista esperienza, si scorgono gli effetti più remoti di certe linee di condotta intorno al carattere dell'individuo, e al bene generale; e allora le virtù personali venendo entro la cerchia della pubblica opinione, ricevono lode, e le opposte vengono biasimate. Ma nelle nazioni meno civili la ragione sovente erra, e molti cattivi costumi e basse superstizioni vengono nella stessa cerchia; e in conseguenza sono stimate come alte virtù, e la loro infrazione come enormi delitti.

[...]

La natura morale dell'uomo è giunta al più alto livello ottenuto, in parte pel progresso delle forze del ragionamento e in conseguenza di una giusta opinione pubblica, ma specialmente per ciò che le simpatie sono divenute più dolci e più estesamente diffuse per gli effetti dell'abitudine, dell'esempio, dell'istruzione e della riflessione. Non è improbabile che le tendenze virtuose, mercé una lunga pratica, possono essere ereditate. Nelle razze più incivilite, il convincimento dell'esistenza di una Divinità onniveggente ha avuto un'azione potente sul progresso della moralità. Infine l'uomo non accetta più la lode o il biasimo del suo simile come guida principale, sebbene pochi sfuggano a questa azione, ma le sue convinzioni abituali governate dalla ragione gli somministrano la regola più sicura. Allora la sua coscienza diviene il suo giudice o mentore supremo. Nondimeno il primo fondamento o la prima origine del senso morale si basa sugli istinti sociali, compresa la simpatia; e questi istinti senza dubbio vennero primieramente acquistati; come nel caso degli animali sottostanti, per opera della scelta naturale.

La credenza in Dio è stata sovente posta come non solo la più grande ma anche la più compiuta di tutte le distinzioni fra l'uomo e gli animali sottostanti. E tuttavia impossibile, come abbiamo veduto, asserire che questa credenza sia innata o istintiva nell'uomo. D'altra parte una credenza in agenti spirituali onnipotenti sembra essere universale; e da quanto pare deriva da un notevole progresso nelle potenze di ragionamento dell'uomo, e da un ancor più grande progresso delle sue facoltà immaginative, la curiosità e la meraviglia. So che l'asserita credenza istintiva in Dio è stata addotta da molte persone come un argomento per la sua esistenza. Ma questo è un argomento ardito, perché saremmo cosi obbligati a credere nell'esistenza di molti spiriti crudeli e maligni, che posseggono appena un po' più di potere dell'uomo; perché la credenza in essi è molto più generale che non quella in una Divinità benefica. L'idea di un benefico e universale Creatore dell'universo non sembra nascere nella mente dell'uomo, finché questa non siasi elevata per una lunga e continua coltura.

[...]

Sono persuaso che le conclusioni a cui sono giunto in questo lavoro saranno da tal uno segnalate come grandemente irreligiose; ma colui che le segnalerà è obbligato di dimostrare perché sia più irreligioso spiegare l'origine dell'uomo come una specie distinta che discenda da qualche forma più bassa, mercé le leggi di variazione e la scelta naturale, che spiegare la nascita dell'individuo mercé le leggi della riproduzione ordinaria. La nascita tanto della specie come dell'individuo sono parimente parti di quella grande fila di avvenimenti che le nostre menti rifiutano di accettare come l'effetto cieco del caso.

C. Darwin, L'origine dell'uomo e la scelta in rapporto col sesso, trad. di M. Lessona, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1914

L'origine delle specie
di Barbara Continenza

Da «i grandi della scienza» n. 4, supplemento a «Le Scienze» n. 362, ottobre 1998, cap. XI

A partire dal settembre del 1858 Darwin cominciò a lavorare intensamente a un riassunto del suo grande manoscritto sulle specie. Impiegò tredici mesi e dieci giorni e alla fine di novembre del 1859 usci «senza dubbio il lavoro più importante della mia vita». Il titolo, concordato con l'editore Murray, fu On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life; la prima tiratura fu di 1250 copie, ma le ordinazioni superarono di gran lunga le copie disponibili. La seconda edizione sarebbe uscita già a gennaio del 1860, e nel 1861 la terza, con l'aggiunta, all'inizio del testo, di un Compendio storico del progresso delle idee sull'origine delle specie. In queste edizioni, così come nella quarta, pubblicata nel 1866, non intervennero modifiche sostanziali; la quinta edizione, del 1869, presentò invece consistenti revisioni e ancor più la sesta e ultima del 1872, in cui venne anche inserito un capitolo, il settimo, su «Obiezioni varie alla teoria della selezione naturale». Sarà a quest'ultima edizione, salvo particolari esigenze, che faremo in generale riferimento.

In una breve introduzione, che si apriva con un accenno ai fatti sulla distribuzione geografica e sulla geologia acquisiti durante il viaggio del Beagle e che «sembravano portare un po' di luce sull'origine delle specie, questo mistero dei misteri, come è stato chiamato da uno dei nostri maggiori filosofi» - si trattava di Herschel — Darwin presentava la struttura generale e l'obiettivo dell'opera: «acquistare una chiara visione dei mezzi della modificazione e del coadattamento». Un attento studio degli animali domestici e delle piante coltivate veniva subito prospettato come la migliore possibilità per risolvere questo «oscuro problema». Nel primo capitolo, pertanto, dedicato a «La variazione allo stato domestico», dopo aver preso in considerazione le cause della variabilità, legate sia alla natura stessa dell'individuo sia al variare delle condizioni di vita, e gli effetti dell'abitudine e dell'uso e disuso delle parti, considerati ereditari, Darwin precisava come le sole variazioni rilevanti agli effetti della teoria fossero quelle ereditarie, ma tanto le leggi che regolano la variabilità quanto quelle che governano l'eredità erano in massima parte sconosciute. Ribadite le difficoltà nel catalogare le razze domestiche come discendenti di specie originariamente distinte o come semplici varietà, passava poi in rassegna molteplici dati sull'allevamento e l'incrocio di razze domestiche e arrivava a chiarire il ruolo determinante esercitato dalla selezione operata dall'uomo sia in modo deliberato e sistematico sia in modo inconscio: «Non è possibile pensare che tutte queste varietà si siano improvvisamente formate cosi perfette e utili come ogg1 le vediamo; e ci risulta, infatti, che in molti casi non è stata questa la loro storia. La chiave del problema sta nel potere dell'uomo di operare una selezione accumulativa: la natura fornisce variazioni successive, e l'uomo le accumula nelle direzioni che gli sono utili».

Il secondo capitolo, sulla «Variazione allo stato di natura», si apre con un'affermazione di Darwin che può apparire quasi paradossale: «E non discuterò nemmeno [...] delle varie definizioni del termine "specie". Nessuna di esse ha mai soddisfatto tutti i naturalisti, anche se ogni naturalista sa, più o meno, che cosa intende quando parla di specie. Generalmente il termine implica l'elemento sconosciuto di un particolare atto di creazione. Il termine varietà è quasi altrettanto difficile a definirsi, ma in esso è generalmente implicita l'idea di una discendenza comune, anche se è raramente dimostrabile». Questo rifiuto di Darwin di definire il concetto centrale della sua teoria - e ancor più la sua esplicita dichiarazione, poche pagine più avanti, «Considero il termine specie come applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza, a gruppi di individui molto somiglianti tra loro, e che esso non differisce sostanzialmente dal termine varietà, il quale è riferito a forme meno distinte e più variabili» — ha ovviamente suscitato consistenti problemi di interpretazione. Si è ritenuto così che Darwin, non potendo non contrapporsi al concetto «essenzialistico» di specie — che da sempre dominava la concezione stessa del vivente e che vedeva la specie individuata sulla base di caratteri essenziali, e pertanto immutabili - avrebbe finito con lo spostarsi all' estremo opposto, sostenendo che il termine specie fosse applicato a gruppi di organismi sulla base di criteri puramente di comodo, cioè funzionali all'identificazione di gruppi non realmente esistenti in natura in quanto tali, dal momento che l'unica entità realmente esistente altro non sarebbe che l'individuo.

E' l'inesauribile problema della definizione del concetto di specie che va ben al di là dell'ambito relativo alla sistematica biologica e investe l'origine del nostro modo di categorizzare il mondo intorno a noi e, quindi, di costruire i concetti attraverso cui elaboriamo la nostra conoscenza della realtà. Si tratta dunque di un problema fondamentale della logica e della teoria della conoscenza che trova nella sistematica biologica e nel dibattito sulla definizione del concetto di specie un'applicazione concreta e, ovviamente, cruciale rispetto alla formulazione di teorie biologiche in generale e in particolare della teoria evoluzionistica, ma che non si riduce affatto a questo contesto. Qui, comunque, esso ha rappresentato un nodo centrale, oggetto ancora oggi di serrate dispute che la teoria dell'evoluzione non è riuscita a sedare o che, forse, ha in un certo senso addirittura acuito. La connessione tra realtà, immutabilità e discretezza delle specie costituiva un presupposto intangibile, pena la caduta in contraddizioni apparentemente insanabili di carattere logico. Come ebbe a notare, subito dopo la pubblicazione dell' Origine delle specie, uno tra i più strenui avversari della teoria di Darwin, il naturalista e geologo svizzero Louis Agassiz (1807-1873): «Mi sembra che ci sia molta confusione nella tesi generale della variabilità delle specie, su cui tanto si insiste ultimamente. Se le specie non esistono affatto, come i sostenitori della teoria della trasmutazione sostengono, come possono variare?».

Consapevole della difficoltà di spezzare il nesso tra realtà e immutabilità della specie, Darwin, dunque, secondo altri interpreti, avrebbe deliberatamente evitato qualsiasi tentativo di «definizione della specie per occuparsi direttamente di quel che i naturalisti chiamavano specie. Ciò gli avrebbe consentito di dar senso alla posizione secondo cui il termine «specie» non poteva essere distinto sul piano della definizione dal termine «varietà», avvalorando così la sua idea di un'evoluzione divergente in base alla quale le varietà non sono altro che specie incipienti. L'attenzione si spostava così su quelle piccole e numerosissime differenze individuali da sempre fonte di impaccio per i sistematici, e che, invece, costituiscono proprio il materiale grezzo dell'evoluzione. «Nessuno pensa che tutti gli individui della stessa specie siano proprio usciti dallo stesso stampo. Queste differenze individuali assumono per noi la massima importanza perché sono spesso ereditarie, come tutti sapranno, e perché forniscono il materiale su cui la selezione può agire, accumulandole; proprio allo stesso modo con cui l'uomo accumula, in una determinata direzione, le differenze individuali delle sue produzioni domestiche.» Era detto! In queste poche righe c'era il nucleo della teoria dell'evoluzione. Ma Darwin prosegue, imperturbabile, a commentare le difficoltà del naturalista sistematico nel cogliere le differenze e discriminare tra specie e varietà, e adduce esempi, documenta casi particolari, ripete e chiarisce la sua tesi: «Il passaggio da un grado di differenza a un altro può in molti casi considerarsi dovuto soltanto alla natura dell'organismo e alle differenti condizioni fisiche a cui è stato lungamente esposto; ma rispetto ai caratteri più importanti e di adattamento, il passaggio da uno stadio di differenza a un altro può essere attribuito con certezza all'azione cumulativa della selezione naturale, che spiegheremo più avanti, e agli effetti dell'aumentato uso o non uso delle parti. Una varietà ben distinta può quindi chiamarsi una specie nascente; ma se questa opinione sia giustificabile, si potrà giudicare dal complesso dei vari fatti e delle varie considerazioni che saranno esposti nel presente lavoro».

Il terzo capitolo si intitolava «Lotta per l'esistenza». Qui Darwin si richiamava a De Candolle, a Lyell, nonché a Malthus e al suo principio dell'aumento in progressione geometrica del numero degli organismi, per cui «poiché nascono più individui di quanti ne possono sopravvivere, deve necessariamente esistere una lotta per l'esistenza, fra gli individui della stessa specie, fra quelli di specie diverse, e di tutti gli individui contro le condizioni fìsiche della vita». Adduceva esempi a testimonianza delle complesse e a volte insospettabili interazioni tra i viventi, tali per cui gli ostacoli che si oppongono all'aumento numerico di una specie possono dipendere da una molteplicità di cause concatenate tra loro e spesso difficili da individuare. Spiegava come in virtù della lotta - non solo fra le specie, ma soprattutto fra individui e varietà di una stessa specie che, condividendo abitudini e costituzione, vengono generalmente a trovarsi in una concorrenza ancor più dura che non quella con altre specie - «le variazioni, per lievi ch'esse siano e da qualsiasi causa provengano, purché siano utili in qualche modo agli individui di una specie nei loro rapporti infinitamente complessi con gli altri organismi e con le condizioni fìsiche della vita, tendono alla conservazione di questi individui e a trasmettersi ai loro discendenti [...]. Questo principio per il quale ogni lieve variazione, se utile, si mantiene, e stato da me denominato "selezione naturale", per indicare la sua analogia con la selezione operata dall'uomo.

Ma l'espressione "sopravvivenza del più adatto", spesso usata da Herbert Spencer, è più idonea, e talvolta ugualmente conveniente».

Fu, si è sostenuto, proprio in seguito alle critiche di antropomorfismo mosse alla scelta dell'espressione «selezione naturale» che Darwin, nelle ultime edizioni dell'Origin, adottò la definizione di Spencer «sopravvivenza del più adatto». La scelta non si dimostrò fortunata da più punti di vista. In primo luogo, aprì un nuovo fronte polemico, secondo il quale l'intera teoria della selezione naturale si rivelerebbe come niente altro che una vuota tautologia - quelli che sopravvivono sono i più adatti, ma chi sono i più adatti se non appunto quelli che sopravvivono? - priva dunque di qualsiasi potere esplicativo. Inoltre, l'istituire un rapporto con il pensiero di Spencer non giovò certo a far chiarezza sulla concezione di evoluzione di Darwin. Spencer — che Darwin peraltro non stimava affatto, tanto da scrivere ne\YAutobiografia: «Le sue conclusioni non mi convincono mai [...]. Le sue generalizzazioni fondamentali forse sono molto importanti filosoficamente, ma non sembrano utili da un punto di vista rigorosamente scientifico» — concepiva infatti l'evoluzione proprio come progresso, sviluppo dall'omogeneo all'eterogeneo, dispiegamento di potenzialità già immanenti e, in questo senso, utilizzava in senso forte l'analogia con l'ontogenesi, cioè con lo sviluppo dell'individuo, con la crescita. Questo, in realtà, era sempre stato, fino ad allora, il significato proprio del termine «evoluzione», il che potrebbe pure spiegare perché Darwin non abbia mai utilizzato tale sostantivo nt\YOrigin, insistendo invece sull'espressione «discendenza con modificazione». L'interesse per l'evoluzione da parte di Spencer, inoltre, nasceva sul terreno della teoria sociale, e si sposò poi con il lamarckismo - paradossalmente proprio in seguito alla lettura di Lyell - avallando ancor più il cortocircuito fra quest'ultimo e l'idea di progresso. Non può, dunque, stupire che nell'intreccio tra darwinismo biologico ed evoluzionismo sociale si sia innestato un groviglio interpretativo, ben rappresentato dall'etichetta «darwinismo sociale», con tutte le ricadute a cui si è già fatto cenno.

A maggior ragione, dunque, Darwin tenne a ribadire di usare l'espressione lotta per l'esistenza «in un senso lato e metaforico, che implica la reciproca dipendenza degli esseri viventi, e implica inoltre, cosa ancora più importante, non solo la vita dell'individuo, ma il fatto che esso riesca a lasciare discendenza». Ciò non sarebbe comunque bastato a evitare quella cosiddetta interpretazione «gladiatoria» del darwinismo per cui Darwin venne presentato come il teorico di una natura, per usare l'espressione di Tennyson nel poema In memoriam (1850), «rossa nelle unghie e nei denti»; di un mondo, cioè, in cui gli organismi, per sopravvivere, non possono fare a meno di combattere e uccidersi.

Nonostante l'argomentazione di Darwin si sviluppi esplicitamente in relazione alla dimensione ecologica e alla distribuzione geografica degli organismi - «Si può affermare con certezza che due canidi, in periodo di carestia, lottano l'uno contro l'altro per carpirsi l'alimento necessario alla vita. Ma diremo anche che una pianta al limite del deserto lotta per la vita contro la siccità [...]. L'espressione sarà più veritiera quando diremo che una pianta che produce annualmente un migliaio di semi, di cui uno solo, in media, raggiunge lo sviluppo completo e la maturità, lotta contro piante della stessa specie o di specie diverse che già ricoprono il suolo» — al darwinismo capitò di essere assunto, o respinto, proprio per la presunta giustificazione morale in chiave naturalistica a precisi modelli di sviluppo sociale ed economico basati sulla concorrenza e la competizione.

In effetti, al problema di chiarire alcuni fraintendimenti a cui il termine «selezione naturale» è andato incontro, Darwin dedica un intero capitolo, spiegando come tra le innumerevoli differenze e variazioni individuali che, per cause diverse, possono presentarsi, vengano conservate quelle favorevoli ed eliminate quelle nocive. «Alcuni hanno persino immaginato che la selezione naturale dia luogo a variabilità, mentre invece la selezione comporta soltanto la conservazione delle variazioni non appena compaiono e siano vantaggiose all'individuo nelle sue particolari condizioni di vita [...]. Altri hanno obiettato che il termine selezione implica una scelta cosciente da parte degli animali che vengono modificati, e si è anche sostenuto che la selezione naturale non è applicabile alle piante, dal momento che queste non sono dotate di volontà! Indubbiamente, nel senso letterale della parola, il termine selezione è erroneo; ma chi ha mai criticato i chimici quando parlano di affinità elettive dei vari elementi? [...]. Si è detto che io parlo di selezione naturale come di una potenza attiva o di una divinità, ma chi mai muove obiezioni a un autore che disserta sull'attrazione della gravità come della forza che regola i movimenti dei pianeti? Tutti sanno che cosa significano e implicano tali espressioni metaforiche, che sono quasi necessarie per ragioni di brevità. E altresì molto difficile evitare di personificare la natura, ma per Natura io intendo soltanto l'azione combinata e il risultato di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza di fatti da noi accertati.» Darwin vuole sgombrare il campo da qualsiasi interpretazione di tipo finalistico: nessuno scopo, nessuna consapevole volontà, nessuna forza misteriosa guida il processo selettivo.

In questo contesto introduce brevemente anche un tema cui dedicherà maggior spazio nell'Origine dell'uomo: la selezione sessuale; questa non dipende dalla lotta per l'esistenza contro altri individui viventi o contro le condizioni esterne, «ma dalla lotta degli individui di un sesso, generalmente maschi, per il possesso delle femmine. Il risultato di questa lotta non è la morte del vinto, ma la mancanza di discendenti o lo scarso numero di essi».

La selezione naturale può condurre all'estinzione o alla divergenza dei caratteri e quest'ultimo è l'ulteriore principio che Darwin introduce per spiegare come «nella economia generale di un qualsiasi paese quanto più largamente e perfettamente gli animali e le piante saranno differenziati per diverse condizioni di vita, tanto più sarà grande il numero di individui capaci di mantenervisi». Estinzione e divergenza dei caratteri sono appunto quanto viene rappresentato nell'unico diagramma che compare in tutta l'opera. Si tratta di una schematizzazione puramente teorica della discendenza con modificazione delle specie nel corso di lunghissimi periodi di tempo e configura il modo in cui «tende ad agire questo principio del vantaggio derivato dalla divergenza dei caratteri, combinato con i principi della selezione naturale e dell'estinzione». Il diagramma altro non è che una classificazione genealogica in cui si evidenziano i legami di subordinazione dei diversi gruppi di organismi «È un fatto veramente meraviglioso [...] che tutti gli animali e tutte le piante, attraverso il tempo e lo spazio, siano collegati gli uni agli altri per gruppi, subordinati ad altri gruppi, nella maniera che osserviamo dovunque: che, cioè, varietà della stessa specie più strettamente collegate, e specie di uno stesso genere meno strettamente e inegualmente collegate, formino sezioni e sottogeneri, e che specie di generi distinti molto meno strettamente collegate, e generi collegati in differenti misure, formino sottofamiglie, famiglie, ordini, sottoclassi e classi [...]. Se le specie fossero state create indipendentemente, nessuna spiegazione di questo tipo di classificazione sarebbe possibile; ma essa si spiega invece con l'eredità e con l'azione complessa della selezione naturale, che comporta estinzione e divergenza dei caratteri.»

Siamo di fronte a una grande svolta teorica e metodologica: quel «sistema naturale» che i sistematici erano andati cercando trova ora nel nesso genealogico, mediato dalla differenziazione e dalla selezione, la sua fondazione concreta, potendo così abbandonare le precedenti giustificazioni metafisiche di tipo essenzialistico. Non è più la ricerca di un carattere o di un gruppo di caratteri necessari e sufficienti a decretare l'appartenenza a un gruppo, ma «l'esistenza di una serie continua di gruppi intermedi». Alla vecchia scala naturae, immagine di una perfezione crescente e lineare, di un mondo immobile e preordinato, subentra l'immagine dell'albero, che Darwin fa propria, dandole contenuto teorico: «I verdi e germoglianti rami possono rappresentare le specie esistenti; e quelli prodotti negli anni precedenti possono rappresentare la lunga successione delle specie estinte. A ogni periodo di crescita, tutti i rametti in sviluppo tentano di ramificarsi in tutte le direzioni e di sorpassare e uccidere i ramoscelli e i rami circostanti, allo stesso modo in cui le specie e i gruppi di specie hanno in tutti i tempi sopraffatto altre specie nella grande battaglia della vita [...]. Come i germogli crescendo danno origine a nuovi germogli, e questi, se vigorosi, si ramificano e superano da ogni parte un ramo più debole, così per generazioni io credo sia avvenuto per il grande albero della vita, che riempie la crosta terrestre con i suoi rami morti e rotti e ne copre la superficie con le sue sempre rinnovantisi, meravigliose, ramificazioni».

Ma come si producono le variazioni, il materiale grezzo su cui agisce la selezione? «La nostra ignoranza delle leggi della variazione - ribadisce Darwin - è profonda»: la sua strategia, si è sostenuto, consistette sostanzialmente nel trattare la variazione come una «scatola nera». Scatola nera che avrebbe cominciato a venir aperta solo molto dopo, con l'avvento della genetica e la cosiddetta riscoperta delle leggi di Mendel; successivamente, alla metà del Novecento, la scoperta della struttura del DNA ci ha consentito di cominciare a decifrare quello che oggi chiamiamo il codice genetico, in cui sono iscritte le informazioni che presiedono alla strutturazione e allo sviluppo del vivente nella sua interazione con l'ambiente.

Tutto ciò a Darwin era, ovviamente, sconosciuto e, in una certa misura, inimmaginabile alla luce di un quadro teorico in cui la variazione aveva appena acquisito la dignità di fenomeno rilevante, mentre la spiegazione stessa dell'eredità dei caratteri, ovvero della loro trasmissione da genitori a figli, era ancora ipotecata dalle teorie del mescolamento, la cosiddetta blending inheritance. Che i figli presentassero caratteri intermedi rispetto a quelli dei due genitori fu idea quasi universalmente condivisa e, per così dire, spontaneamente condivisibile. Darwin stesso aderì a questa concezione, nonostante creasse consistenti problemi alla sua teoria delle variazioni ereditarie che - come fu infatti notato, nel 1867, da Fleming Jenkin - sarebbero risultate «diluite» in seguito all'incrocio. Se, infatti, in un barattolo di vernice bianca vengono versate alcune gocce di vernice nera (la variazione), se ne otterrà un grigio da cui non è più possibile recuperare il nero puro e se, in seguito, alcune gocce di questa mescolanza vengono ulteriormente diluite nel bianco, la modificazione del colore è destinata a sparire. L'obiezione era fondata, e Darwin ne fu perfettamente consapevole, forse ancor prima della critica di Jenkin, così come fu consapevole di altre difficoltà della teoria, alla cui analisi dedicò infatti il sesto capitolo dell' Origin per poi aggiungere, in un secondo momento, anche un ulteriore capitolo, in risposta alle critiche sollevate dopo la pubblicazione delle prime edizioni dell'opera.

Quanto alle cause delle variazioni, Darwin teneva in primo luogo a chiarire il senso in cui aveva parlato di esse come se «fossero dovute al caso». La biologia evoluzionistica moderna utilizza l'espressione «mutazione casuale» proprio nell'accezione darwiniana: il termine «casuale» non rimanda, ovviamente, a un'assenza di cause, quanto al fatto che, quali che siano le cause della mutazione, essa non costituisce una risposta del patrimonio ereditario di per sé mirata a un migliore adeguamento dell'organismo all'ambiente. La mutazione non va, per così dire, nella stessa direzione in cui vanno le modificazioni dell'ambiente, fornendo la giusta soluzione ai nuovi problemi che questo pone all'organismo; è, appunto in questo senso, casuale, cioè non finalizzata. Sarà solo la selezione a intervenire a posteriori, e a sottoporre a scrutinio, conservando o eliminando, ciò che di volta in volta risulterà utile o dannoso all'individuo e, di conseguenza, alla specie.

Darwin, peraltro, aveva tutte le ragioni per temere di essere mal interpretato - il che avrebbe fatto ripiombare il suo discorso in un quadro provvidenzialistico e finalistico — e per questo tenne a precisare come «a caso» fosse espressione «del tutto inesatta, ma essa serve a riconoscere candidamente la nostra ignoranza sulla causa di ogni variazione particolare».

Detto questo, si avventurò comunque nel tentativo di individuare le possibili cause della variazione, stabilendo rapporti tra essa e «le condizioni di vita a cui ciascuna specie è stata esposta per diverse successive generazioni», per far poi subito notare, però, come «si potrebbero citare esempi di varietà simili che sono prodotte dalla stessa specie, in condizioni esterne di vita tanto differenti quanto si possa immaginare; e d'altra parte, di varietà differenti che sono prodotte in condizioni esterne di vita apparentemente identiche [...]. Considerazioni come queste mi inducono ad attribuire minor peso all'azione diretta delle condizioni ambientali che a una tendenza a variare dovuta a cause che ignoriamo completamente».

Sostenne anche che non potesse «sollevarsi alcun dubbio sul fatto che l'uso [...] abbia rinforzato e sviluppato alcune parti e il non uso le abbia ridotte; e che tali modificazioni siano ereditarie». E qui, fra gli altri, addusse l'esempio degli occhi della talpa e dell'atrofia delle ali dello struzzo, a vantaggio del grande sviluppo delle sue zampe più adeguate che non le ali a sottrarlo ai pericoli del suo particolare ambiente. Parlò dell'azione del clima, in particolare sulle piante; della correlazione di variazione tra le varie parti dell'organismo soprattutto durante l'accrescimento e lo sviluppo; sottolineò la maggiore variabilità dei caratteri specifici rispetto a quelli generici più antichi e, quindi, più consolidati. Si occupò della variabilità dei caratteri sessuali secondari; della reversione, interpretabile non tanto nel senso che «un individuo torni a rassomigliare improvvisamente a un antenato che lo ha preceduto di centinaia di generazioni, ma che il carattere in questione sia rimasto latente in tutte le successive generazioni e infine, presentandosi le condizioni favorevoli a noi sconosciute, sia ricomparso». Effetti considerevoli riconobbe anche alle differenze costituzionali prodotte dall'abitudine. E concluse: «Qualunque possa essere la causa delle lievi differenze fra i discendenti e gli ascendenti, e una causa deve esistere per ciascuna di esse, abbiamo ragione di credere che il costante accumularsi di differenze vantaggiose sia ciò che ha determinato tutte le più importanti modificazioni della struttura, in relazione alle abitudini di ciascuna specie».

L'annoverare l'ambiente, il clima, l'abitudine, l'uso e il disuso tra le potenziali cause, più o meno dirette, di variazione è stato successivamente interpretato come una sorta di ricaduta di Darwin nel lamarckismo; ma, al di là del fatto che Lamarck - al contrario di quanto gli venne attribuito - non aveva mai sostenuto la tesi di un'azione diretta dell'ambiente sull'organismo — queste concezioni cominciarono a essere etichettate come caratteristiche di un'interpretazione lamarckiana dell'evoluzione solo in un secondo momento, quando «lamarckismo» e «darwinismo» si radicalizzarono quali posizioni alternative e inconciliabili. Ciò sarebbe accaduto anche in conseguenza della chiara distinzione, operata intorno agli anni Ottanta dell'Ottocento dal biologo tedesco August Weismann (1834-1914), fra somatoplasma e germoplasma, ovvero tra cellule somatiche - soggette a modificazioni dovute a influenze esterne, che però sono transitorie e scompaiono con l'individuo stesso - e cellule germinali, depositarie dei caratteri ereditari e completamente al riparo da tali influenze. Da allora in poi ereditarietà dei caratteri acquisiti e azione diretta dell'ambiente sulla costituzione ereditaria dell'organismo sarebbero state messe al bando, quasi respinte tra le superstizioni, e l'essere tacciato di «lamarckismo» avrebbe cominciato a equivalere a una sorta di marchio di infamia. Per quanto Darwin, come si è già visto, avesse a sua volta preso le distanze da Lamarck, non era tanto l'uso e il disuso degli organi o l'azione diretta dell'ambiente quel che del lamarckismo egli respingeva, dal momento che questi non erano allora ritenuti aspetti distintivi della teoria di Lamarck in quanto tale, ma piuttosto credenze diffuse e generalmente condivise nell'ambito della concezione della cosiddetta «eredità debole». Quello che di Lamarck soprattutto rifiutava era la spinta interna all'azione, il finalismo, il progressionismo e, pertanto, ancor più giustificato era l'impegno a individuare plausibili cause naturali di una variazione copiosa e non direzionata su cui potesse esercitarsi l'azione puramente meccanica della selezione.

Nelle circa novecento pagine di La variazione negli animali e nelle piante allo stato domestico (Variation of Animals and Plants under Domestication), pubblicato nel 1868, Darwin avrebbe presentato una quantità enorme di fatti osservativi e di informazioni a sostegno delle idee espresse nell' Origin, ma l'opera è nota soprattutto per «l'ipotesi provvisoria della pangenesi», una teoria dell'eredità dei caratteri acquisiti che alcuni interpreti hanno considerato come un'ipotesi ad hoc, se non una speculazione, ideata per uscire dalle difficoltà incontrate dalla teoria dell'evoluzione. La teoria mirava a spiegare molteplici fenomeni legati alla riproduzione, allo sviluppo, all'eredità e alla variazione, ipotizzando l'esistenza di piccole particelle, chiamate «gemmule», a proposito delle quali Darwin citava Buffon, Spencer e altri autori che già avevano avanzato, sebbene in contesti teorici diversi, idee simili, né si può escludere una qualche influenza esercitata dalle opere del nonno Era- smus. Distribuite in ogni parte del corpo, le gemmule avrebbero dovuto migrare dai tessuti somatici agli organi riproduttivi, spiegando, se modificate per esempio dal maggiore o minore uso di una parte del corpo, l'ereditarietà di caratteri acquisiti.

La teoria della pangenesi si sarebbe presto rivelata sbagliata e comunque inutile una volta che la stessa ereditarietà dei caratteri acquisiti venne ritenuta smentita dai fatti ed estromessa dal novero delle ipotesi scientifiche. Alcuni interpreti hanno comunque considerato le gemmule di Darwin come una giusta intuizione in direzione della eredità «a particelle discrete» che avrebbe trovato conferma negli esperimenti di Gre- gor Mendel (1822-1884) e successivamente nel muta- zionismo di Hugo de Vries (1848-1935).

E' importante notare invece come, già in Variation, Darwin ebbe modo di affrontare una serie di critiche e fraintendimenti provenienti anche da chi, come per esempio il botanico Asa Gray (1810-1888), pur essendosi prontamente convertito all'evoluzione e, apparentemente, anche alla selezione naturale, ed essendo divenuto uno dei massimi sostenitori del darwinismo in America, non poteva rinunciare all'idea del Progetto. Ricorrendo a una sorta di similitudine, Darwin paragona la formazione di strutture adattate attraverso variazione non preordinata e selezione alla costruzione di un edifìcio con pietre scelte tra quelle raccolte alla base di un precipizio, e spiega: «La forma dei frammenti di una pietra alla base del nostro precipizio può essere definita accidentale, ma ciò non è totalmente corretto; infatti la forma di ciascuna dipende da una lunga sequenza di eventi, tutti obbedienti a leggi naturali [...]. Ma rispetto all'uso che si può fare dei frammenti, la loro forma può essere definita totalmente accidentale. Ma qui siamo di fronte a una grande difficoltà, per la quale sono consapevole di trovarmi al di fuori delle mie competenze. Un Creatore onnisciente deve aver previsto ogni conseguenza che scaturisce dalle leggi da Lui imposte. Ma può essere ragionevolmente sostenuto che il Creatore ordinò intenzionalmente, se usiamo le parole secondo il loro significato ordinario, che certi frammenti di rocce assumessero certe forme in modo tale che il costruttore potesse erigere il suo edifìcio? Se le diverse leggi che hanno determinato la forma di ciascun frammento fossero predeterminate a favore del costruttore, può essere sostenuto con sicurezza ancor maggiore che Egli progettò proprio a favore del riproduttore ciascuna delle innumerevoli variazioni dei nostri animali e piante domestici - molte di queste variazioni non avendo alcuna utilità per l'uomo, e non essendo favorevoli, ma molto spesso dannose per le creature stesse. Ordinò forse Egli che il gozzo e le piume della coda del piccione variassero in modo che l'intenditore potesse ricavarne le sue razze di piccioni gozzuti e piccioni con la coda a ventaglio? Fece variare la struttura e le qualità mentali del cane in modo che si potesse ottenere una razza di indomita ferocia, con mascelle adatte a inchiodare un toro per il brutale divertimento dell'uomo? Ma se noi rinunciamo al principio in un caso - se non ammettiamo che le variazioni del cane primordiale avessero lo scopo dichiarato di formare per esempio il levriero, quella perfetta immagine di simmetria e di vigore - nessun'ombra di ragione può essere scorta nell'opinione che le variazioni in natura, risultato delle medesime leggi generali che sono state le fondamenta attraverso la selezione naturale della formazione degli animali più perfettamente adattati nel mondo, uomo compreso, furono guidate deliberatamente e precisamente [...]. Se supponiamo che ogni variazione particolare fosse stata preordinata fin dall'inizio del tempo, allora quella elasticità di organizzazione, che porta a molte dannose deviazioni della struttura, cosi come l'eccessivo potere di riproduzione conduce inevitabilmente a una lotta per l'esistenza, di conseguenza alla selezione naturale o sopravvivenza del più adatto, devono apparirci superflue leggi di natura. D'altro canto, un Creatore onnipotente e onnisciente ordina ogni cosa e prevede ogni cosa. Così ci troviamo faccia a faccia con una difficoltà tanto insolubile quanto quella della libera volontà e della predestinazione».

La replica ad Asa Gray libera il campo anche da interpretazioni secondo cui, con la teoria della pange- nesi, Darwin avesse inteso ridimensionare il ruolo attribuito alla selezione naturale. Ad altre critiche egli rispose nel settimo capitolo dell' Origin, appositamente aggiunto alla sesta edizione del 1872. Qui, in particolare, replicò all'attacco che lo zoologo inglese Saint- Georges Jackson Mivart (1827-1900) - anch'egli inizialmente favorevole alle idee di Darwin, per poi divenirne un durissimo critico - aveva sferrato contro la selezione naturale in un libro pubblicato nel 1871 e che già dal titolo, Genesi delle specie, la diceva lunga sulle intenzioni dell'autore. Mivart, infatti, ribadiva la sua fede nel potere divino e opponeva a Darwin, tra le altre, anche l'obiezione della insufficienza della selezione naturale per spiegare gli stadi incipienti delle strutture utili. Numerosissimi i casi discussi qui da Darwin per dimostrare come l'abitudine, l'uso e la corrispondenza tra gradazioni di struttura e cambiamenti di funzione potessero pienamente consentire una spiegazione in termini di selezione naturale della graduale acquisizione di nuovi adattamenti strutturali da parte degli organismi. Non rinunciava neanche a rimbeccare Mivart sugli unici due esempi da lui citati circa il regno vegetale e che, guarda caso, riguardavano proprio la struttura dei fiori delle orchidee e i movimenti delle piante rampicanti, ovvero esattamente i temi a cui Darwin, dopo la consueta mole di studi sperimentali, aveva dedicato altri due lavori pubblicati successivamente alla prima edizione dell' Orìgin.

In On the Various Contrivances by which British and Foreign Orchids are Fertilized by Insects (I diversi apparati per mezzo dei quali le orchidee vengono fertilizzate dagli insetti, 1862), spiegava i vantaggi della fecondazione incrociata e illustrava come le orchidee avessero sviluppato strutture meravigliosamente adatte ad attrarre gli insetti a tal fine; mentre in The Movements and Habits of Climbing Plants (I movimenti e le abitudini delle piante rampicanti, 1864) illustrava le diverse strategie adottate dalle piante per conseguire, arrampicandosi, il vantaggio di «arrivare alla luce e all'aria aperta col minor consumo possibile di materia organica». I due studi, al di là della gran quantità di informazioni che offrivano, furono l'occasione per trovare ulteriore conferma al nuovo schema esplicativo di Darwin e, proprio per questo, costituirono di fatto un attacco a fondo all'idea del Progetto. Non stupisce, quindi, che fossero divenuti bersaglio polemico di quei critici che, pur convertitisi all'evoluzione, non potevano assoggettarsi alla sostituzione di una concezione metafisica della natura con una materialistica e al passaggio dall'idea del progetto divino a quella di un processo cieco e meccanicistico.

In questo senso non fu l'idea in sé di evoluzione a incontrare i maggiori ostacoli, tanto è vero che si affermò e diffuse con una notevole rapidità, quanto piuttosto quella di selezione naturale. L'evoluzione divenne presto «un fatto», la selezione è rimasta per molti e a lungo «un'ipotesi» — per giunta pericolosa - laddove parlando di ipotesi si lasciava deliberatamente filtrare l'idea negativa della speculazione non scientifica e non avvalorata dai fatti. E dunque imprudente, dal punto di vista storico, usare i termini «darwinismo» ed «evoluzionismo» come sinonimi, dal momento che molti, anche nella cerchia ristretta degli amici di Darwin, poterono dichiararsi evoluzionisti, pur continuando a respingere alcune di quelle componenti della teoria di Darwin che la caratterizzavano appunto come «darwiniana».

Anche il gradualismo darwiniano fu sottoposto fin dall'inizio ad aspre critiche, andando a colpire la concezione essenzialistica e discreta del mondo vivente. Fu così che contro l'evoluzione graduale teorizzata da Darwin — piccole variazioni casuali sottoposte all'azione della selezione che nel corso di tempi lunghi conducono al modificarsi delle specie e all'origine di specie nuove — trovò modo di affermarsi l'idea di un'evoluzione «a salti», secondo cui grosse variazioni giustificano e determinano radicali cambiamenti con conseguente e improvvisa formazione di specie nuove. Dal punto di vista metafìsico, si è sostenuto, esisteva una precisa ragione per preferire l'evoluzione a salti all'evoluzione graduale, dal momento che il «saltazionismo» consentiva di mantenere la discretezza della specie e di salvaguardare, seppure in extremis, la sua definizione in termini essenzialistici. «Forse le specie non saranno eterne - ha commentato ironicamente il filosofo della scienza David Hull, uno degli attuali esponenti dell'inesauribile dibattito sul darwinismo - ma che almeno siano discrete.»

Darwin, d'altra parte, era stato assolutamente chiaro su questo, e proprio nel ribattere a Mivart, nell'ultima edizione dell' Origin, aveva confermato la sua posizione: «Mivart è inoltre incline a credere, e alcuni naturalisti sono d'accordo con lui, che le specie nuove si manifestino "improvvisamente e per modificazioni subitanee" [...]. Egli ritiene difficile credere che l'ala di un uccello "si sia sviluppata altrimenti che per una modificazione evidente e importante e relativamente improvvisa" [...]. Questa conclusione, che implica enormi lacune e discontinuità nella serie, mi sembra improbabile al massimo grado [...]. L'esperienza ci insegna che le variazioni improvvise e molto pronunciate si presentano, nelle nostre specie domestiche, isolatamente e con intervalli di tempo piuttosto lunghi. Se ciò avvenisse in natura, tali variazioni [...] sarebbero soggette a sparire per cause accidentali di distruzione e per incroci successivi; e sappiamo che così avviene allo stato domestico, se le variazioni improvvise di tal genere non sono preservate con attenzione e tenute isolate a cura dell'uomo». Al di là dell'accenno all'isolamento come elemento fondamentale per la formazione di razze domestiche e che invece Darwin, contrariamente a quanto aveva fatto nelle prime fasi di formulazione della sua teoria, tende qui a sottovalutare come meccanismo fondamentale in natura - punto questo all'origine di un altro importante dibattito, anche all'interno della biologia evoluzionistica successiva, sul ruolo imprescindibile dell'isolamento geografico per la formazione di specie nuove o, viceversa, sulla sufficienza della selezione naturale per instaurare meccanismi di isolamento tra specie incipienti che ne garantiscano poi la definitiva separazione dalla specie d'origine - la posizione assunta da Darwin sul gradualismo e sull'importanza della selezione è chiara e categorica. E così, infatti, conclude il capitolo dedicato all'esame delle obiezioni contro la sua teoria: «Chiunque crede che una forma antica si sia improvvisamente cambiata, per una forza o tendenza interna, in un'altra, per esempio in una fornita di ali, sarà quasi costretto ad ammettere, in contraddizione con ogni analogia, che molti individui abbiano variato contemporaneamente [...]. Egli sarà inoltre costretto a credere all'insorgere improvviso di numerose conformazioni mirabilmente adatte a tutte le altre parti dell'individuo, e alle condizioni ambientali; e non potrà addurre nemmeno l'ombra di una spiegazione di tali complessi, meravigliosi coadattamenti [...]. Ammettere tutto questo mi sembra che equivalga ad abbandonare il campo della Scienza per entrare in quello del miracolo».

A questo punto Darwin passava a occuparsi dell'istinto. Affrontare il tema del comportamento era scelta decisamente delicata e Darwin premetteva di non aver «la pretesa di voler ricercare l'origine delle facoltà mentali». Tipico caso, potremmo malevolmente commentare, di excusatio non petita accusatio manifesta. Dopo di che, seguendo una strategia che parrebbe non dissimile da quella adottata per il concetto di specie, dichiarava che non avrebbe tentato di dare una definizione dell'istinto, limitandosi a spiegare che: «Un'azione che per noi richiede l'aiuto della riflessione e della pratica è considerata istintiva quando è compiuta da un animale molto giovane e privo di esperienza, oppure da molti individui nello stesso modo, senza che essi ne conoscano lo scopo». Giungeva quindi rapidamente ad applicare anche all'origine degli istinti il medesimo meccanismo che opera nell'evoluzione in generale. «Non trovo alcuna difficoltà ad ammettere che la selezione naturale possa conservare e accumulare continuamente le variazioni dell'istinto, in quanto esse sono utili. Tale è stata, ritengo, l'origine di tutti gli istinti più complessi e mirabili. Sono sicuro che gli istinti nascono e aumentano per l'abitudine e l'uso, e diminuiscono o si perdono per il non uso, allo stesso modo delle modificazioni della struttura. Ma credo che gli effetti dell'abitudine siano di secondaria importanza, ai fini della selezione naturale, di fronte a quelle che possiamo chiamare le variazioni spontanee degli istinti, cioè le variazioni prodotte dalle stesse cause sconosciute che producono le piccole deviazioni della struttura corporea.» Anche in questo caso seguiva una cospicua serie di esempi relativi ad animali domestici e non, e venivano considerati casi speciali che avrebbero potuto esporre a obiezioni la teoria.

Il nono capitolo era dedicato all'ibridismo, e Darwin si impegnava a dimostrare come la sterilità tra specie e varietà sia una questione di grado e non assoluta e netta, come in base alla teoria classica generalmente si riteneva. I due capitoli successivi riguardavano la geologia e si intitolavano rispettivamente «Sulla imperfezione della documentazione fossile» e «La successione geologica degli esseri organici». Darwin mette qui a frutto tutta la sua competenza di geologo per rispondere a quella che definisce «la più ovvia e seria obiezione che si può muovere alla teoria»: il fatto che la geologia non sveli una catena organica perfettamente graduata. Adduce una lunga serie di prove per dimostrare che «la documentazione geologica è estremamente incompleta; che soltanto una piccola parte del globo è stata esplorata con cura dal punto di vista geologico; che solo certe classi di esseri viventi sono largamente conservate allo stato fossile; che il numero delle specie e degli individui conservati nei nostri musei equivale assolutamente a zero se confrontato con il numero delle generazioni che debbono essere esistite durante una sola formazione geologica; che, poiché l'abbassamento del suolo è quasi necessario per permettere l'accumulazione di depositi ricchi di specie fossili di molti tipi e abbastanza spessi da poter resistere a ulteriori degradazioni, enormi intervalli di tempo hanno dovuto intercorrere fra la maggior parte delle nostre formazioni successive; che probabilmente ci sono state più estinzioni nei periodi di abbassamento del suolo e più variazioni nei periodi di sollevamento, essendo questi ultimi periodi meno favorevoli alla conservazione dei fossili; che ogni formazione non è stata depositata in modo continuo; che la durata di ogni formazione è stata probabilmente più breve della durata media delle forme specifiche; che le migrazioni hanno avuto una parte importante nella prima comparsa di nuove forme in ogni area e in ogni formazione; che le specie più diffuse sono anche quelle che hanno variato più frequentemente, e hanno dato più spesso origine a nuove specie; che le varietà sono state dapprima locali; e infine che, sebbene ogni specie abbia dovuto attraversare numerose fasi di transizione, è probabile che i periodi durante i quali ciascuna ha subito delle modificazioni, sebbene numerosi e lunghi se computati in anni, siano brevi in confronto ai periodi durante i quali ogni specie è rimasta immutata». E affronta qui anche un'altra critica di fondo, quella relativa al tempo. L'obiezione proveniva da William Thomson (1824-1907), in seguito lord Kelvin, e da un gruppo di fisici che, basando i loro calcoli sull'indice di raffreddamento di un corpo delle dimensioni della Terra, erano giunti alla conclusione che era tutt'altro che un tempo infinito, come inizialmente aveva sostenuto Lyell: la Terra non poteva avere più di cento milioni di anni, e più probabilmente ventiquattro milioni; un tempo di gran lunga inferiore a quello che Darwin, mediante le sue stime geologiche, aveva supposto, e comunque insufficiente per una così grande quantità di cambiamenti organici quali quelli previsti dalla teoria della selezione naturale. Dopo le critiche, passava a elencare come e in quale misura i fatti della geologia concordassero con la teoria della discendenza con modificazione.

Il dodicesimo e il tredicesimo capitolo erano entrambi dedicati alla «Distribuzione geografica». Qui Darwin esaminava dettagliatamente i problemi della migrazione, il ruolo delle barriere geografiche che possono impedire alle specie di colonizzare certe regioni, ma nello stesso tempo influiscono sulla formazione delle specie stesse. Illustrava i molteplici mezzi di dispersione attraverso cui le specie possono raggiungere regioni diverse per poi modificarsi adattandosi alle condizioni locali. Metteva a confronto le regole che determinano la durata e la continuità delle specie nel tempo con quelle che agiscono nello spazio, constatando che «in entrambi i casi esse sono connesse dal normale processo di riproduzione; in entrambi i casi le leggi della variazione sono state le stesse e le modificazioni si sono accumulate per opera della selezione naturale».

Nel penultimo capitolo si occupava di «Affinità reciproche degli esseri viventi: morfologia, embriologia e organi rudimentali». Attraverso l'analisi dei problemi della classificazione, Darwin riconfermava il significato profondo delle ricostruzioni genealogiche, dal momento che la comunanza di discendenza è l'unica causa conosciuta della stretta somiglianza negli esseri viventi. L'importanza dei caratteri morfologici, di quelli embriologici e dello sviluppo, e degli organi rudimentali diviene comprensibile e teoricamente giustificata appunto quando si ammetta che una classificazione naturale deve essere genealogica.

Siamo così giunti alle conclusioni di quella che Darwin chiama «una lunga argomentazione». Dopo una dettagliata ricapitolazione, egli rivendica il carattere scientifico del suo metodo di lavoro: «E difficile immaginare che una falsa teoria possa spiegare, in maniera così soddisfacente come fa la teoria della selezione naturale, le varie ampie classi di fatti sopra specificati. Recentemente è stata sollevata l'obiezione che questo è un metodo sbagliato di ragionamento; ma è il metodo usato per giudicare i comuni eventi della vita, ed è stato spesso usato dai più grandi filosofi della natura. Con questo metodo si è arrivati alla teoria ondulatoria della luce; e la credenza nella rotazione della Terra intorno al suo asse fino a tempi recenti non era appoggiata da prove dirette. Non è obiezione valida il fatto che la scienza non ha finora fatto luce sul problema di gran lunga superiore dell'essenza e dell'origine della vita. Chi può spiegare quale è l'essenza della forza di gravità? Nessuno oggi rifiuta di accettare i risultati conseguenti a questo ignoto elemento della forza, nonostante che Leibniz abbia in passato accusato Newton di introdurre "qualità occulte e miracoli nella filosofia "». Darwin aveva aperto le prime edizioni dell'Origin con una citazione di Bacone e una di Whewell - poi soppresse nelle edizioni successive — e più volte nella Autobiografia e nei Taccuini si era richiamato a canoni di scientificità che imponevano di procedere induttivamente a partire dai fatti. In realtà, oggi, dopo che molti studi sono stati dedicati al modo in cui egli giunse a formulare la sua teoria dell'evoluzione e ai fondamenti logici che stanno alla base del suo pensiero, esiste un consenso pressoché generalizzato sul fatto che quella di Darwin fu un'applicazione coerente e rigorosa del metodo ipotetico- deduttivo e i suoi successi, lontani dal discendere dalla pura raccolta di dati, furono il risultato della sua capacità di sviluppare una teoria e di formulare ipotesi da sottoporre a verifica. Quanto Darwin dichiara nel brano appena citato àtWOrigin può, forse, essere considerato come una presa di coscienza metodologica e una testimonianza della sua intenzione di rivendicare la legittimità del suo modo di procedere, probabilmente anche di fronte a quelle che erano state le reazioni all'Origin di alcuni tra i più insigni esponenti della filosofia della scienza ufficiale, nonché, ovviamente, di una parte della comunità scientifica ben rappresentata da autori come Alan Sedgwick e Richard Owen. In parte già conosciamo alcune di tali scandalizzate reazioni e a queste possiamo aggiungere quella di John Herschel che, a proposito della selezione naturale, si espresse chiamandola «legge del guazzabuglio» (law of higgledy- piggledy). Resta d'altra parte vero che ancora in opere successive Darwin insistette nel dichiararsi un baconiano e nel presentare il suo metodo come puramente induttivo.

Prima di chiudere l'Origin, c'è un brano, breve e lasciato cadere con apparente indifferenza da Darwin tra le tante osservazioni e auspici delle pagine conclusive, che non possiamo permetterci di eludere perché gravido di conseguenze sia per gli sviluppi successivi della sua opera sia, e soprattutto, per l'impatto che era destinato a produrre. «Per l'avvenire vedo campi aperti a ricerche molto più importanti. La psicologia sarà sicuramente basata sulle fondamenta già poste da Herbert Spencer, quelle della necessaria acquisizione di ciascuna facoltà e capacità mentale per gradi. Molta luce sarà fatta sull'origine dell'uomo e sulla sua storia.»

Barbara Continenza, docente di storia del pensiero scientifico presso la facoltà di lettere e filosofia dell'università di Roma Tor Vergata, si occupa principalmente di storia e filosofìa della biologia e storia delle scienze del comportamento, con particolare riferimento all'evoluzionismo.

Note

1 Si tratta delle variazioni individuali che per motivi diversi, condizionati in parte ambientalmente in parte geneticamente, rappresentano l'emergenza della novità nel succedersi delle generazioni. Appunto operando su tali variazioni - cioè su tali novità - la natura seleziona gli individui in base al principio della sopravvivenza del più adatto.

2 In inglese selection, oggi tradotto preferibilmente con «selezione».

3 Le variazioni, che insorgono casualmente, possono essere utili, dannose o irrilevanti ai fini della conservazione dell'individuo. Esse, infatti, non sono prodotte in funzione all'ambiente, ma vengono selezionate da esso in base al loro grado di utilità soltanto dopo che si sono sviluppate.

4 In una pagina precedente, qui omessa, Darwin aveva precisato che per natura si deve intendere «soltanto l'azione combinata e il risultato di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza di fatti da noi accertati». La personificazione della natura, tuttavia, pur dovendo essere considerata una pura metafora, è difficilmente evitabile. Così si parla di «affinità chimiche» o di «attrazione» della gravità, senza intendere con questo che gli elementi si sintetizzino, o le parti di materia si attraggano, volontariamente. Nello stesso modo, si può parlare di «selezione naturale» senza presupporre alcuna intenzionalità della natura.

5 Paradossalmente, la selezione è meno incisiva laddove è intenzionale, come nell'uomo, che vuole modificare gli animali da lui allevati. Qui si mira, infatti, a variare soltanto alcuni aspetti: quelli che soggettivamente interessano l'uomo. Per far ciò, egli rinuncia a selezionare tutti gli altri, anzi tende a conservarli, operando in maniera antiselettiva per tutto ciò che non lo interessa. La selezione della natura, invece, investe tutti gli aspetti, poiché in essa tutte le variazioni, indipendentemente dalla loro appariscenza e dall'interesse che esse rivestono per l'uomo, vengono passate al vaglio della loro funzionalità in vista della conservazione dell'individuo e, indirettamente, della specie.

6In queste parole si potrebbe ravvisare la presenza di un «disegno» della natura in vista del perfezionamento delle specie. Ma, a parte il rifiuto darwiniano di ogni personalizzazione o ipostatizzazione della natura (cfr. n. 4), il finalismo è escluso dal carattere esclusivamente causale sia dell'emergenza delle variazioni, sia della stessa selezione naturale. Le variazioni sono infatti - come si è detto - il risultato fortuito di una serie di processi naturali, di carattere ambientale o genetico. In esse non si può ravvisare alcun ordine né alcuna finalità, tant'è che la loro stragrande maggioranza va distrutta. Una funzione ordinativa ha invece la selezione naturale, la quale opera secondo un principio di discriminazione - la scelta del più adatto alla sopravvivenza - che influisce sul miglioramento della specie. Ma anche questo risultato obbedisce esclusivamente alla legge della causalità naturale, perché è il semplice effetto della naturale incapacità del più debole a vincere la lotta per l'esistenza e non risponde a nessun valore orientativo. I più adatti sono i «migliori» solo dal punto di vista della forza e della capacità di sopravvivenza. Ciò apparirà evidente soprattutto quando la selezione naturale sarà applicata - nell' Origine dell'uomo - alla sfera dell'azione umana: qui sarà chiaro che l'«ordine» instaurato dalla selezione naturale, giustificando la prevaricazione del più debole da parte del più forte, sarà scarsamente adatto a fondare una teoria della convivenza o, ancor meno, della giustizia sociale.

7 Questa conseguenza che Darwin trae dall'ipotesi evoluzionistica cozza contro il racconto biblico della creazione e per questo non poteva essere accettata dai teologi, che in effetti la impugnarono.

8Lotta per l'esistenza» e «selezione (termine oggi preferito a «scelta») naturale» sono i due principi fondamentali che Darwin pone alla base dei processi dell'evoluzione.

9 On the Limits of Natural Selection, nel «North American Review», ottobre 1870, p. 295 [N.d.A.].