Nell'introduzione generale alle conferenze avevo anticipato che la lettura critica del pensiero dei quattro Grandi Demistificatori sarebbe stata impegnativa. Chi ha partecipato continuativamente o sporadicamente ha senz'altro sperimentato la fatica richiesta per penetrare quattro mondi intellettuali ricchi, ma complessi ed eterogenei, il cui ambito disciplinare è estremamente ampio.
Di fatto, la lettura di Darwin ha richiesto di familiarizzare con la biologia, la genetica, la paleontologia, la paleoantropologia, ecc.; quella di Marx con l'economia, la sociologia, la storia sociale, la politica, ecc.; quella di Nietzsche con la filosofia, l'epistemologia, la storia della cultura, la morale, ecc.; quella di Freud con la psicologia, la psicoanalisi, la psicopatologia, la psichiatria, la neurobiologia, ecc.
Consapevole della complessità del compito e dei limiti delle mie competenze, mi sono proposto di utilizzare un linguaggio accessibile e di semplificare i concetti senza banalizzarli. Non so in quale misura sia riuscito a rimanere fedele a questo proposito.
Smaltita la fatica, ora è il momento di verificare se, dal lavoro fatto, si possano trarre dei frutti.
A tal fine, mi sembra opportuno procedere da considerazioni di ordine generale per poi giungere a considerazioni più specifiche.
Soffermiamoci, anzitutto, sulla parabola della fortuna dei quattro Grandi Demistificatori. Approssimativamente essa può essere rappresentata dal grafico seguente:
Per quanto approssimativo, il diagramma è sufficientemente suggestivo. Esso richiede poche parole di commento.
La fortuna di Darwin si è realizzata rapidamente dopo la pubblicazione de L'origine delle specie ed è cresciuta costantemente nel tempo, nonostante la forte resistenza opposta dagli spiritualisti. Essa si è incrementata ulteriormente con lo sviluppo della genetica, che ha sostanzialmente confermato la teoria darwiniana. Gli attacchi intervenuti negli ultimi venti anni da parte dei creazionisti e dei sostenitori dell'Intelligent Disegn non sembrano avere inciso sul credito che essa continua ad avere presso la comunità scientifica. Parte del merito di questa tenuta è da attribuire alla teoria degli equilibri punteggiati, che ha avuto il coraggio di affrontare un nodo critico: quello del gradualismo darwiniano, che è risultato poco compatibile con i dati della paleologia e soprattutto della paleoantropologia.
La fortuna di Marx si è avviata lentamente. Pubblicato nel 1848, il Manifesto non ha quasi nessuna risonanza sui moti rivoluzionari incentrati sull'intento della borghesia di affrancarsi da vincolo tattico con le masse popolari. La diffusione del pensiero marxista si realizza nella seconda metà dell'Ottocento allorché esso è adottato da tutti i partiti socialisti in forte crescita. Dopo l'avvento della rivoluzione sovietica, la teoria marxista, nonostante sia stata fortemente contrastata dai liberali e dai democratici, diventa il modello di riferimento di gran parte dei movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo. Negli anni Sessanta del Novecento aderiscono ad essa, sia pure sotto regimi non democratici, circa due miliardi di persone. Negli anni '70 il marxismo trova un'ampia diffusione anche in Occidente, presso gli intellettuali e gli studenti. La crisi sopravviene con il crollo del muro di Berlino e dell'URSS, che sembrano segnare la morte del comunismo. Da alcuni anni, però, sull'onda della globalizzazione, che, con le sue crisi periodiche, realizza le peggiori previsioni di Marx sullo sviluppo del Capitalismo, il pensiero marxiano torna al centro dell'interesse di molti studiosi, economisti e sociologi, particolarmente nei paesi anglosassoni.
Nietzsche, al di là di una strettissima cerchia di amici, è rimasto praticamente sconosciuto fino a quando la crisi psichiatrica lo ha messo fuori dal mondo. Da a allora in poi la sua fama è cresciuta costantemente fino al secondo dopoguerra, allorché la sua identificazione come ispiratore del nazismo ha comportato un rifiuto critico soprattutto da parte dei pensatori marxisti e dei movimenti di sinistra. La rinascita di Nietzsche si è avviata, ad opera di Foucault e di G. Deleuze, verso la fine degli anni '50 del Novecento, e da allora, con non poche opposizioni, si è estesa di continuo fino a farlo giudicare come uno dei filosofi più importanti in tutta la storia della filosofia, che ha avviato la stagione del nichilismo e del postmodernismo.
La fama di Freud si è avviata lentamente ed è stata fortemente minacciata dai due “incidenti” di cui abbiamo parlato (quello della cocaina e quello della teoria della seduzione infantile). Essa si è consolidata dopo la pubblicazione delle opere maggiori (L'interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana, Tre saggi sulla teoria della sessualità), crescendo in maniera esponenziale sino agli anni '60 del Novecento. La crisi è intervenuta con l'avvento del cognitivismo, che fin dall'origine assume un orientamento polemicamente antipsicoanalitico. Il declino della psicoanalisi è drammatico nel corso degli anni '70 anche per la valutazione critica fornita dai marxisti e da K. Popper. Paradossalmente, la rinascita della psicoanalisi è avvenuta e sta avvenendo sull'onda delle neuroscienze, che confermano l'esistenza dei processi mentali inconsci e di sistemi emozionali e motivazionali che agiscono in gran parte al di sotto della coscienza.
L'analisi del diagramma permette di capire che le teorie, soprattutto quando hanno l'uomo come oggetto, devono fare i conti con il mondo in cui vengono prodotte a due livelli: in rapporto al senso comune che, in misura più o meno radicale, contestano, violentano e trascendono, e in rapporto al patrimonio intellettuale preesistente, che, in virtù del consenso degli studiosi, tende a “normalizzarsi” (nell'accezione di T. Khun), vale a dire a mascherare le sue lacune e ad opporre resistenza alle innovazioni.
Uno degli aspetti più singolari dell'avventura umana è proprio la dialettica tra senso comune (o cultura) e patrimonio intellettuale prodotto dagli studiosi (o Cultura). Dacché è comparsa la specie, nessun gruppo ha mai potuto fare a meno di dotarsi di una cultura materiale e spirituale: necessaria, la prima, a soddisfare i bisogni umani elementari e quelli che via via si definiscono con il passare del tempo; la seconda, a dotare gli esseri umani di una visione del mondo e di un sistema di valori condivisi. La cultura che si può (impropriamente) definire “spirituale” in quanto fondata sull'uso di simboli ha riconosciuto, almeno dall'avvio della storia, due aspetti. Per un verso, in ogni gruppo, essa coincide con il senso comune, vale a dire con quell'insieme di tradizioni, opinioni, modi di sentire, di vedere e di agire, che, pur prodotti dalla storia sociale, sono nell'aria, vale a dire vengono acquisiti dalle persone con modalità prevalentemente inconsce. Il senso comune coincide né più né meno con quello che gli storici francesi della scuola de Les Annales definiscono un quadro di mentalità, che sarebbe depositato a livello di inconscio sociale. Esso si può definire anche semplicemente cultura (con la minuscola).
Per un altro verso, in ogni gruppo si dà una classe di intellettuali che lavorano per produrre la Cultura (con la maiuscola), la quale si differenzia da quella con la minuscola perché è oggettivata sotto forma di opere (religione, filosofia, letteratura, arte, scienza, ecc.).
Il rapporto dialettico tra Cultura e senso comune non è univoco. Nella storia dell'evoluzione umana, la Cultura spesso ha funzionato come una matrice del senso comune, cercando di dare ad esso un fondamento ideologico. Per capire questo aspetto, basta pensare all'incidenza che la religione cristiana ha avuto sulla Civiltà europea nel corso dell'Alto e del Basso Medio Evo. In virtù di questa incidenza, è senz'altro vero, come sostiene la Chiesa, che essa rappresenta le radici di questa Civiltà, ma ciò significa solo che alcuni contenuti teologici, volgarizzati in maniera tale da poter essere insegnati anche a bambini di 4-5 anni, sono venuti a fare parte del senso comune.
Se si pensa al fatto che gran parte dell'Arte occidentale, fino al XVIII secolo, ha come oggetto temi religiosi, la capacità della Cultura ideologica di influenzare stutte le sfere dell'attività umana appare chiara.
Il ruolo conservatore della Cultura, quando essa si pone come Ideologia, vale a dire visione del mondo che naturalizza un certo ordine di cose, è fuori di dubbio. Esso implica però anche un paradosso. Tutte le tradizioni, nel momento in cui si originano, hanno un significato rivoluzionario, ma la loro tendenza inerziale fa sì che, nel corso del tempo, tendono a cristallizzarsi. Per quanto riguarda la religione cristiana, questo aspetto è reso clamorosamente evidente dal fatto che il messaggio originario di Gesù era sostanzialmente di ordine ugualitaristico e comunistico, mentre la Chiesa, nel corso del Medio Evo, lo ha trasformato in un'Ideologia a sostegno del potere monarchico e di un ordine sociale gerarchico stabilito da Dio.
La tendenza ideologica della Cultura si realizza, dunque, in ogni caso , anche partendo da premesse potenzialmente o di fatto rivoluzionarie. Un esempio più recente rigaurda la concezione del lavoro.
Fino alla Rivoluzione francese, l'uomo vero è il Nobile, in quanto non ha bisogno di lavorare per mantenersi. Con l'avvento della borghesia, nasce invece l'etica del lavoro e l'individuo assume valore solo nella misura in cui è inserito nel contesto produttivo ed è produttore di un reddito. Su questa base, si è definito un codice valutativo che associa allo status sociale il valore della persona. Oggi si danno numerosi motivi per contestare la coincidenza tra scala sociale e scala antropologica, ma, nonostante le denunce dovute a Marx e a Nietsche (nonché ad un numero indefinito di filosofi e sociologi – da Russell a Marcuse e a Bauman -), nell'immaginario popolare tale coincidenza persiste, e la sua conseguenza è che arricchire a qualunque costo è divenuto per molti un obiettivo primario.
Le potenzialità ideologiche della Cultura sono compensate, però, dalla comparsa di personaggi e di opere che non solo sono rivoluzionarie rispetto al senso comune e alle tradizioni preesistenti, ma tendono a mantenere nel tempo questa valenza originaria. I Grandi Demistificatori di cui ci siamo interessati sono univocamente riconducibili a questa altra faccia della medaglia della Cultura, la cui funzione è di mettere in gioco radicalmente le illusioni di cui gli esseri umani hanno bisogno per sopravvivere e vivere in società al fine di portarli ad un livello di maggiore consapevolezza sulla loro condizione.
Naturalmente, una volta che esso venga accettato, anche il pensiero degli Innovatori va incontro ad un processo di normalizzazione. Questo è accaduto di fatto per tutti e quattro i Grandi Demistificatori.
Il darwinismo, che contesta radicalmente l'eccezionalità dell'uomo nell'Universo, è stato accettato dal senso comune, ma il suo concetto fondamentale, per cui l'uomo appartiene a pieno titolo alla Natura, convive di fatto con il riferimento all'eccezionalità. Anche la Chiesa è dovuta venire ad un compomesso con il darwinismo: se si fa eccezione per frange minoritarie di creazionisti integralisti, essa riconosce che il corpo umano ha avuto un'origine naturale, ma ritiene che il passaggio dall'animale all'homo sapiens sia avvenuto per una creazione divina dell'anima.
La normalizzazione del darwinismo tende, in breve, a negare il suo radicale materialismo.
Il marxismo si è imbattuto in un processo di normalizzazione terribile, riconducibile all'ortodossia sovietica, che lo ha ridotto ad una sorta di dogma, generando, a livello di senso comune, una reazione di rigetto. Anche coloro che non hanno aderito ad un anticomunismo viscerale, peraltro, ritengono il marxismo una nobile utopia che non si potrà mai realizzare del tutto, anche se l'umanità è destinata a progredire lentamente e universalmente verso la democrazia e un Capitalismo dal volto umano.
Il pensiero di Nietzsche, recuperato dai pensatori francesi del dopoguerra in un'ottica poco fedele al suo pensiero, è scaduto, con il Post-modernismo, in una forma di relativismo culturale che invalida le pretese della scienza di approssimarsi alla Verità, ed è refluito, a livello di senso comune, sotto forma di nichilismo individualista, che ingabbia l'essere umano nella ricerca di un senso egoistico della sua esperienza.
La psicoanalisi, infine, è divenuta una teoria sostanzialmente familista, che enfatizza l'importanza delle fasi originarie dello sviluppo evolutivo e, responsabilizzando di volta in volta la Natura umana o i genitori, comporta una sostanziale deresponsabilizzazione dell'individuo, la cui massima espressione è il rivolgersi a qualcuno che risolva i suoi problemi. A livello di senso comune, la teoria psicoanalitica si è paradossalmente tradotta in una sorta di psicologismo ampiamente diffuso in nome del quale i soggetti ritengono di conoscere abbastanza bene se stessi e gli altri.
Le Conferenze hanno cercato di sormontare il ricatto della normalizzazione culturale e di restaurare il significato rivoluzionario del pensiero dei Grandi Demistificatori.
Tutta l'evoluzione della specie umana si iscrive nella cornice della dialettica tra Cultura e cultura. Tale dialettica è complicata dal fatto che la Cultura può funzionare sia ideologizzando e naturalizzando l'esistente sia contestandolo e cercando di cambiarlo. E' in questa cornice che l'opera dei Grandi Demistificatori assume il suo pieno senso. Analizziamo questo aspetto per ciascuno di essi.
Il contributo fondamentale di Darwin consiste nell'avere restituito l'uomo alla Natura (in opposizione al Creazionismo) e nell'avere intuito e dimostrato che la sua origine è da ricondurre ad un processo di selezione naturale che, in sé e per sé, non postula alcun Disegno o Progetto.
Anche se tale contributo è ormai entrato nel senso comune, e fa parte della cultura corrente, la sua dimensione rivoluzionaria continua a rischiare di essere fraintesa.
Rispetto al creazionismo, infatti, che risolve il problema dell'uomo riconducendolo al fatto di essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio (metafora che, eccezion fatta per l'eessere egli dotato di un'anima spirituale, non è stata chiarita finora da nessun teologo), l'evoluzionismo, se nega l'eccezionalità dell'uomo nell'ambito della Natura, non può negarne la straordinaria complessità rispetto agli altri animali, soprattutto per quanto concerne la dotazione mentale.
Ne L'origine dell'uomo, a dire il vero, Darwin ha tentato di sfumare al massimo grado questo scarto cercando di dimostrare la continuità tra facoltà mentali nella scala animale. In realtà si danno due discontinuità nettissime.
La prima, ben nota, è legata alla capacità che l'uomo ha di produrre e manipolare simboli, vale a dire qualcosa di astratto che sta al posto di qualcosa di reale. La manifestazione primaria di tale capacità è il linguaggio. Gli esperimenti finora fatti con scimpanzé per insegnare loro un linguaggio hanno prodotto l'esito paradosasale di accentuare lo scarto. Dopo anni di apprendimento, uno scimpanzé particolarmente dotato ha acquisito la capacità di adoperare duecento simboli e di organizzarli, ma su di un registro meramente associativo. Un bambino di tre anni dispone già di qualche migliaio di simboli linguistici e li usa sintatticamente in maniera talvolta eccellente.
La seconda discontinuità è, a mio avviso, ancora più importante. Si tratta della dimensione previsionale. Tutti gli animali vivono in una sorta di hic et nunc interminabile, in una dimensione di presentificazione totale. L'uomo, invece, acquisisce rapidamente la previsione del futuro. Tra cinque e sette anni ogni bambino intuisce cosa significa morire: non esserci più mentre il mondo e il tempo continuano ad esserci e a fluire.
La dimensione previsionale rende l'uomo consapevole intuitivamente della sua finitezza, del suo destino mortale, della sua contingenza e dell'esposizione al rischio di dovere affrontare, nel corso della vita, più di una situazione dolorosa.
Alla luce di questo, non è azzardato affermare che l'uomo è un animale naturalmente ansioso se non addirittura angosciato. Gli altri animali manifestano uno stato di allarme o una reazione di paura in rapporto a pericoli reali, ma nessuno sperimenta l'angoscia.
Senza, forse, rendersene del tutto conto, Darwin, invalidando il riferimento alla trascendenza, ha posto l'umanità di fronte al suo destino di specie transeunte, contingente, effimera, e, in ultima analisi, del tutto insignificante nell'economia dell'universo. La portata antimetafisica del pensiero darwiniano è stata colta dagli spiritualisti fin dalla pubblicazione dell'Origine delle specie, ed è stata confermata sia da L'origine dell'uomo che dalle Espressioni delle emozioni nell'animale e nell'uomo.
Oggi si può affermare che il materialismo radicale della teoria darwiniana e le sue conseguenze filosofiche si sono addirittura rafforzati per effetto di due scoperte.
La prima è legata al superamento del gradualismo darwiniano che, soprattutto in virtù del modello della Nuova Sintesi, era giunto a configurarsi come un modello lineare, poco compatibile con la casualità dell'evoluzione naturale. Il superamento è avvenuto perché è ormai certo che la comparsa dell'homo sapiens, sullo sfondo di un'arborescenza a cespuglio di specie umane, è avvenuta (tra 150 e 100mila anni fa) localmente in una zona remota dell'Africa meridionale e orientale in conseguenza di variazioni genetiche il cui effetto è stato incrementato dall'isolamento del gruppo interessato, che contava appena qualche migliaio di membri (deriva genetica).
Sulle variazioni genetiche in questione, si sa ancora poco. C'è una notevole convergenza nel ritenere che esse abbiano prodotto la neotenizzazione dell'essere umano, e soprattutto del suo cervello, incrementando i livelli di socializzazione e predisponendolo all'apprendimento.
La seconda scoperta fa capo al fatto che l'adattamentismo darwiniano, che con i teorici della nuova sintesi è giunto al punto tale da simulare la perfezione del Creazionismo, non è ritenuto più valido. L'adattamentismo presume che tutte le strutture e le funzioni di un organismo siano selezionate in conseguenza della loro utilità immediata nel favorire la sopravvivenza e la riproduzione. Per quanto riguarda il cervello umano, questo pare che non sia vero. Dall'epoca della comparsa dell'homo sapiens e per non meno di cinquantamila anni, gli esseri umani hanno monotonamente continuato ad usare tecniche elementari, probabilmente comuni alle specie umane coeve. Solo dopo questo lunghissimo intervallo di tempo, è avvenuta l'esplosione neolitica, che ha determinato un salto di qualità tecnico rilevantissimo e ha messo in mostra capacità di raffigurazione artistica non espresse da nessun'altra specie umana.
Lo sviluppo biologico del cervello ha dunque preceduto di gran lunga quello culturale, almeno per quanto concerne l'ingegnosità dell'uomo e le sue capacità di simbolizzazione. E' evidente che questo dato confuta l'adattamentismo. Esso lascia pensare che l'uomo si sia ritrovato per caso dotato di un cervello ricco di potenzialità così singolari da avere impiegato decine di migliaia di anni a cominciare a sfruttarle.
Queste due scoperte hanno portato l'evoluzionismo su di un piano che è scientifico non meno che filosofico.
Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto occorre segnalare due diversi orientamenti. Alcuni autori, come per esempio P. Lecaldano, infatti, valorizzando l'attribuzione all'uomo da parte di Darwin di un potente istinto sociale, rafforzato dalla neotenia, si sono orientati verso la definizione di un'etica darwiniana che, applicata rigorosamente, dovrebbe portare l'umanità sulla via della solidarietà e del riconoscimento di un destino comune che esclude la trascendenza.
Altri autori, invece, come T. Pievani, accentuano al massimo grado lo smarrimento dell'essere umano per un “dono” - quello di un singolarissimo cervello – le cui straordinarie potenzialità comportano anche la consapevolezza della finitudine esistenziale e una serie di contraddizioni senza scampo per cui egli oscilla tra razionalità e irrazionalità, egoismo e altruismo, empatia e cinismo, solidarietà e disumanità.
Nell'ottica della filosofia darwiniana, se l'uomo non prende consapevolezza rapidamente di questa sua condizione e, avendo utilizzato l'onda lunga dello sviluppo tecnologico avviato con la rivoluzione neolitica, non si pone di fronte alla realtà di una specie che potrebbe non farcela ad uscire dalla sua preistoria, il suo destino è segnato.
Lo è comunque. Indipendentemente, infatti, dallo spegnimento del Sole, che avverrà tra cinque miliardi di anni (ma a quell'epoca, teoricamente, gli uomini potrebbero aver trovato modo di trasferirsi altrove ricostruendo artificialmente le condizioni del Pianeta), non esistono specie destinate a durare per sempre. Tutte, prima o poi, sono destinate ad estinguersi.
Da filosofo della scienza, Pievani dimostra le straordinarie potenzialità filosofiche implicite nella teoria evoluzionistica. Ma che l'intuizione di un giovane imbarcatosi perché, sulla terraferma, non trovava una collocazione sociale adeguata, abbia prodotto una catena di conseguenze per cui l'uomo si trova nudo di fronte alla realtà della sua condizione di essere casuale, contingente, indefinitamente contraddittorio, e destinato inesorabilmente a finire, è una circostanza sulla quale non si finirà mai di riflettere.
Al di là delle sue implicazioni filosofiche, la teoria darwiniana è, con la teoria della relatività, uno dei massimi esempi di scienza non sperimentale. Disciplina storica, in quanto fa riferimento ad eventi che si sono realizzati in un arco di tempo di 4 miliardi e mezzo di anni, essa, com'è proprio della scienza, sovrappone un ordine al caotico disordine apparente di quegli eventi, riconducendo
l'indefinita complessità delle forme viventi – vegetali e animali – a pochi, semplici principi che ne spiegano l'evoluzione.
Come Darwin, Marx ha un vivo interesse per la storia dell'uomo: non per quella biologica, ma per quella sociale, che, in termini temporali, è un infimo frammento della storia delle forme viventi.
La comparsa della specie umana risale a 150-100mila anni fa. Ciò che di essa conosciamo fino a 6mila anni fa si riduce a testimonianze fossili. La storia in senso proprio si avvia intorno al 4000 a. C. allorché, con la nascita della scrittura, si rendono disponibili documenti.
L'avvio della storia, preceduto dalla rivoluzione neolitica, che, in virtù dell'agricoltura, consente l'accumulo di un surplus, è caratterizzato dalla separazione tra il lavoro manuale e quello intellettuale: un evento di infinita importanza, le cui conseguenze sono ancora evidenti nel nostro mondo.
La divisione del lavoro intellettuale da quello manuale segna l'avvento delle classi sociali, vale a dire di un ordinamento sociale gerarchico che, sulla base del privilegio legato alla nascita, comporta padroni e schiavi, signori e servi, ricchi e poveri.
Solo con l'avvento della Rivoluzione francese, i privilegi di nascita vengono messi in discussione sulla base del principio per cui gli esseri umani sono uguali, hanno cioè tutti una pari dignità e godono degli stessi diritti di libertà e di giustizia.
Non è azzardato ricondurre il pensiero di Marx alla necessità di portare a compimento la Rivoluzione francese, realizzando sostanzialmente ciò che il liberalesimo, figlio di quella Rivoluzione, non può realizzare che formalmente: il superamento definitivo della divisione tra lavoro manuale e lavori intellettuale.
E' in questo senso che il comunismo propugnato da Marx rappresenta la fuoriuscita dalla preistoria del genere umano: una fuoriuscita che, secondo lui, non potrà mai avvenire in virtù della democrazia liberale perché essa, riconoscendo il suo modello di sviluppo socio-economico nel capitalismo, non potrà mai realizzare il valore dell'uguaglianza su cui si fonda.
Oggi si danno molteplici motivi per confermare la visione pessimistica di Marx riguardo alla democrazia liberale e al suo connubio con il Capitalismo.
Basta pensare che negli Stati Uniti d'America – la prima nazione che ha inaugurato l'era della democrazia – l'1% della popolazione detiene il 40 % della ricchezza, e il fenomeno della povertà riguarda circa il 20% della popolazione. L'esempio non è casuale.
Da venti anni a questa parte i teorici del neoliberismo hanno intravisto nella globalizzazione il fenomeno che avrebbe risolto i problemi della povertà mondiale e inaugurato l'epoca di un benessere universale per tutti. Al di là di come sono andate e di come stanno andando le cose, che smentiscono questa ottimistica previsione, c'è da considerare che essa era invalidata proprio dalla situazione sociale nel Paese democratico ritenuto più avanzato, laddove la disuguaglianza è un dato di fatto, i privilegi dei ricchi sono animosamente difesi da uno schieramento politico, e i poveri sono sostanzialmente ritenuti responsabili della loro condizione.
Secondo l'opinione di molti studiosi anche non marxisti, la globalizzazione, così come si è evoluta, dà ragione a Marx per quanto riguarda la logica intrinseca di un sistema – quello capitalistico – che è indubbiamente capace di produrre la crescita della ricchezza, ma determinando un suo accumulo verso l'alto della scala sociale sottraendola, in breve, alla soddisfazione dei bisogni dei singoli individui (di benessere, istruzione, sviluppo della personalità, ecc.).
In questo senso, nonostante i cambiamenti avvenuti nella composizione sociale, il principio della lotta di classe che, nel pensiero marxiano, assolve, a livello socio-culturale, la stessa funzione del principio darwiniano della selezione naturale, si può ritenere ancora valido soprattutto se esso viene ricondotto ad un conflitto riconoscibile in tutte le società che contrappone due diversi gruppi sociali portatori di una diversa visione del mondo: il primo ritiene che la società, per funzionare, postuli la differenziazione degli individui, degli status e dei ruoli secondo criteri, diversi nel corso dei secoli, che la gerarchizzano assegnando ad una classe (quella dei padroni, dei signori e, di recente, dei capitalisti) un potere egemonico (economico, sociale e culturale); il secondo, viceversa, rivendica l'uguaglianza tra gli esseri umani nei termini di una pari dignità e di un corredo primario di bisogni la cui soddisfazione va riconosciuta come un diritto,e, in conseguenza di questo, postula il superamento e l'eliminazione dei privilegi ingiusti: in breve, la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Se teniamo conto che, all'epoca di Marx, i gruppi sociali in questione, per un verso con l'avvento dell'industrializzazione, dell'urbanizzazione dei contadini e dell'addensamento degli operai nelle fabbriche,e per un altro con la nascita dei capitalisti-imprenditori, tendevano alla polarizzazione e al conflitto (tra la richiesta degli uni di ritmi di lavoro meno stressanti e di un aumento dei salari e l'esigenza degli altri di utilizzare al massimo grado le potenzialità produttive delle macchine), non è sorprendente che egli abbia utilizzato il termine di lotta di classe.
Il termine, però, non va riferito solo alla società ottocentesca. Nell'ottica marxiana, la lotta di classe, vale a dire il conflitto tra le due visioni del mondo cui ho fatto cenno, è un principio che riguarda tutta la storia umana, dacché la società, in conseguenza della divisione del lavoro manuale e di quello intellettuale, si è differenziata e gerarchizzata.
Nella lotta di classe tra capitalisti e operai, o meglio tra capitale e lavoro umano, Marx identifica la maturazione di un conflitto di antica data che, giunto all'estremo della polarizzazione tra una classe minoritaria e parassitaria di privilegiati e una massa maggioritaria di sfruttati, non può che evolvere nell'affermazione dei diritti della maggioranza, vale a dire nella riappropriazione da parte di essa dei frutti del lavoro da cui viene sistematicamente espropriata.
Il comunismo di Marx è null'altro che la riappropriazione, da parte dell'umanità, dei prodotti del lavoro che vanno utilizzati a favore della soddisfazione dei bisogni sociali. E' importante considerare che tale obiettivo non è solo di ordine economico. Esso va molto al di là di un'equa e non squilibrata distribuzione del reddito. I bisogni sociali cui fa riferimento Marx non sono solo i bisogni primari (l'alimentazione, la casa, un tenore di vita affrancato dalla miseria); essi implicano anche una serie di bisogni radicalmente umani (l'istruzione, la coltivazione di interessi che consentono agli individui di svilupparsi, la disponibilità di tempo libero per gli affetti e la partecipazione sociale, ecc.) la cui soddisfazione può comportare un aumento del tasso di umanizzazione del mondo e il suo configurarsi come un mondo fatto a misura d'uomo.
L'intensità passionale con cui Marx intravvede, nell'orizzonte della storia, la possibilità che avvenga questo salto di qualità, che segnerebbe per l'appunto la fuoriuscita della specie umana dalla sua preistoria, non può ancora oggi non sorprendere e commuovere.
Nel valutare oggi questa previsione, non si può sfuggire però ad una domanda di fondo.
In nome di cosa il mondo dovrebbe necessariamente procedere verso un'organizzazione sociale fondata, a livello universale, sulla libertà (autentica e non formale, quindi dal bisogno) la giustizia sociale e l'uguaglianza? Non potrebbe trattarsi semplicemente di nobili utopie destinate ad urtare contro l'ostacolo insormontabile dell'egoismo individuale?
Marx questo quesito se lo è posto, e ha cercato di affrontarlo, ma la sua risposta, che concerne la Natura umana, si può ritenere carente.
Egli è del tutto consapevole che la concezione antropologica borghese dell'uomo è storicamente determinata. Per sormontarla, egli però adotta uno stratagemma: nega semplicemente che si dia una natura umana in sé e per sé. Secondo Marx, la Natura umana è un'essenza generica, un insieme indefinito di potenzialità, che può essere conosciuta solo via via che essa si rivela oggettivandosi, e cioè trasformando l'ambiente in maniera da adattarlo ai bisogni umani, che vengono essi stessi progressivamente scoperti. In questo senso Marx afferma che la storia è la seconda natura dell'uomo, che fa affiorare ciò che nella prima, quella derivata dal processo dell'evoluzione naturale, si pone solo sotto forma di potenzialità generiche e indifferenziate.
Alla luce di ciò che oggi sappiamo della genetica, questo approccio alla Natura umana è sostanzialmente errato. Tutte le manifestazioni umane – dalla nascita della cultura materiale e “spirituale” all'organizzazione sociale, ecc. - sono fenotipizzazioni di un corredo genetico specie-specifico che riconosce indefinite varianti individuali (tante quante sono gli individui).
Questo concetto è particolarmente importante perché, correggendo un errore di Marx (che nella tradizione marxista si è perpetuato sotto forma di determinismo ambientale) esso ne corrobora il pensiero. Porta, infatti, a pensare che il senso di pari dignità, di uguaglianza e di giustizia sia rappresentato nella natura umana, anche se, come vale per tutte le potenzialità umane, secondo uno spettro piuttosto ampio di distribuzione. Ad un estremo dello spettro, il senso di pari dignità, di libertà e di giustizia avrebbe una valenza prevalente egocentrica, sarebbe insomma strettamente riferita ai bisogni e ai diritti dell'individuo o tutt'al più del suo gruppo di appartenenza; all'altro estremo, esso avrebbe una connotazione sociocentrica e universale, riguarderebbero cioè tutti gli altri non meno che l'individuo stesso. Tale spettro sarebbe riconducibile alla distribuzione dall'empatia, minima ad un estremo e massima all'altro.
Su questa base, il pensiero di Marx diventa più comprensibile. Posto, infatti, che l'ambiente culturale può spostare, in una certa misura, l'asse dello spettro verso l'uno o l'altro estremo (e ciò spiega il comunitarismo radicale delle società primitive e l'individualismo prevalente nella nostra), la concezione della storia marxiana incentrata sulla lotta di classe sarebbe da ricondurre al fatto che coloro che giungono a detenere il potere e il dominio in una certa misura si insensibilizzano per quanto riguarda la sorte dei subordinati, mentre questi ultimi, patendo l'oppressione e lo sfruttamento, si sensibilizzano ai propri bisogni e a quelli degli altri con cui condividono una comune condizione.
Ma, posto che i subordinati coalizzandosi, realizzino una rivoluzione, ciò potrebbe non bastare ad inaugurare il regno della libertà e della giustizia. Come infatti ha dimostrato la storia della classe operaia, il miglioramento delle condizioni di vita allenta la solidarietà, che si mantiene solo nell'esigua minoranza di soggetti dotati di grande empatia.
In realtà, negli ultimi anni della sua vita Marx ha presagito che la classe operaia correva il rischio dell'imborghesimento: rischio che, con l'avvio del sistema di previdenza e di assistenza pubblico (posto in atto dall'ultraconservatore Bismarck) e con la nascita e lo sviluppo dello Stato sociale, si è quasi compiutamente realizzato.
L'errore di Marx è consistito nel pensare che la coscienza degli operai, che all'epoca erano (almeno in Inghilterra) la maggioranza assoluta della popolazione, fosse già predisposta ad operare il salto verso un mondo di uguaglianza e di giustizia. Egli riteneva che la classe operaia, avendo sperimentato sulla pelle lo sfruttamento e la degradazione, si sarebbe orientata rivoluzionariamente verso un mondo nel quale nessun uomo sarebbe stato sfruttato e trattato come una cosa.
Questo errore di valutazione non pregiudica del tutto l'utopia marxiana. Il fatto che un grado di empatia sia rappresentata in tutti i soggetti umani, e in alcuni più intensamente che in altri, non può non avere un significato. Se questo è vero, però, il tragitto per cui l'umanità potrà arrivare a sviluppare una coscienza di specie, più ancora che di classe, è indubbiamente molto lungo, ed è probabile non certo.
L'importanza di Marx ai fini di un nuovo sapere sull'uomo non riposa però sulle sue straordinarie capacità di analisi economica e sociologica, bensì sulla scoperta che egli ha fatto del fenomeno dell'alienazione. Originariamente tale fenomeno egli lo ha riferito all'espropriazione della forza-lavoro dell'operaio che, riversandosi nella fabbricazione di beni, si incorpora ad essi, trasformandosi nel loro valore. Ben presto, però, Marx ha capito che l'alienazione non riguardava solo i beni, ma tutto il mondo culturale (materiale e spirituale) prodotto dall'uomo e in particolare le ideologie costruite dalle classi dominanti per cooptare in una comune visione del mondo quelle subordinate.
Egli ha insomma scoperto che, per il semplice fatto di nascere in un mondo già strutturato e sovrastrutturato (ideologizzato), e per di più naturalizzato sotto forma di senso comune, l'uomo corre il rischio di smarrire la capacità critica e di diventare preda delle ideologie. Ha scoperto insomma la prepotente influenza che l'ambiente storico-culturale – con le sue tradizioni, le opinioni, i costumi, la religione, la morale, il diritto, ecc. - esercita sulla mente umana promuovendo sistematicamente un adattamento all'esistente. Egli ha poi praticamente accantonato tale scoperta certo del fatto che il cambiamento strutturale (socio-economico) che sarebbe sopravvenuto in seguito alla rivoluzione proletaria, avrebbe spazzato via la sovrastruttura ideologica.
Sarebbe assurdo oggi invertire questa formula e sostenere che il cambiamento sovrastrutturale (culturale) debba precedere quello strutturale (socio-economico).
La lezione di Marx diventa efficace nel momento in cui si prende atto che la formazione di una coscienza critica richieda per un verso la demistificazione delle ideologie e , per un altro, uno sforzo pratico, individuale e collettivo, orientato a cambiare la realtà che esse naturalizzano.
Il desiderio di un mondo fatto a misura d'uomo, vale a dire capace di fornire una risposta ai biasogni di tutti i soggetti e di fornire loro adegate possibilità di sviluppo individuale e sociale, è destinato a persistere nell'orizzonte della storia umana. L'aver colto e teorizzato qeusto aspetto si può ritenere il massimo contributo che egli abbia dato ad un nuovo sapere dell'uomo su se stesso.
Perché questo nuovo sapere prenda forma, però, è necessario capire gli ostacoli contro cui esso, ancora oggi, viene ad urtare. Occorre in breve approfondire il tema della coscienza mistificata più di quanto abbia potuto fare Marx.
Il ruolo straordinario di Nietzche nella storia della cultura umana è stato quello di completare, anche senza alcuna intenzione, l'opera di Marx, trascurando, eccezion fatta per alcuni rilievi di poco conto sull'alienazione della classe operaia e quella dei ricchi borghesi, il problema dell'infrastruttura economica e dedicandosi totalmente alla sovrastruttura ideologica, vale a dire alle varie convinzioni e sistemi di valore che gli uomini hanno prodotto al fine di tenersi al riparo dalla verità inerente la loro condizione e di assegnare a se stessi uno status privilegiato nell'economia dell'universo.
La sostanziale indifferenza di Nietzsche nei confronti dell'importanza che i fattori economici svolgono nel mondo contemporaneo spiega la sua visione un po' astratta e sostanzialmente pregiudiziale delle classi sociali prodotte dalla rivoluzione industriale.
Se si vuole prendere atto della profondità della sociologia di Marx rispetto al pensiero di Nietzsche, basta pensare che l'uno coglie nel sacrificio dei lavoratori e nell'oculata tendenza al risparmio e all'investimento dei capitalisti i presupposti per una produzione di ricchezza che potrà essere utilizzata per un mondo fatto a misura d'uomo, mentre l'altro vede solo la miseria, la rozzezza culturale e l'aspirazione invidiosa ad un tenore di vita migliore della classe operaia e la stupida tendenza dei capitalisti ad accumulare avidamente denaro senza saperne che fare.
Il problema è che, a differenza di Marx, Nietzsche non ha né si interessa di avere una sufficiente esperienza del mondo per giudicare lo stato di cose esistente. Gli basta avere fede nella sua capacità di riflessione, peraltro straordinaria, che, a partire dalla sua esperienza personale di bambino e adolescente imbevuto di “stupidi” principi religiosi, scopre la tendenza universale della mente umana a nutrirsi di illusioni.
Tutta l'opera di Nietzsche si iscrive nel segno di una critica acuta e pungente della “stupidità” umana, che egli scopre non solo nel senso comune corrente, ma anche nella religione, nella filosofia, nella politica, nella letteratura e nell'arte contemporanea romantica, e persino nella scienza.
La famosa affermazione, espressa in Zarathustra, secondo la quale “Dio è morto” va ben al di là della religione propriamente intesa. Essa significa che l'uomo deve accettare per sempre uno stato di cose – dall'esistenza dell'Universo a quella della vita e, da ultimo, alla comparsa dell'uomo – che non riconosce alcun perché.
Tutte le ideologie – la religione, l'idealismo spiritualistico, la democrazia liberale, il socialismo ugualitaristico, la scienza - che cercano, sia pure su piani diversi, di fornire una risposta a questa domanda, che perseguita l'umanità fin dalle sue origini, sono illusioni e mascheramenti della verità.
Escluso ogni perché, rimane solo il dato di fatto dell'esistenza di una specie mal fatta, miserabile, mediocre, presuntuosa e infinitamente contraddittoria, dominata e sottesa da una cieca volontà di potenza che – sotto forma di un bisogno prepotente di affermazione personale – preme in tutti gli individui, ma solo in alcuni trova i presupposti per realizzarsi. Sono questi gli esseri superiori, gli spiriti liberi - in quanto affrancati dalle convenzioni e dai miti sociali, dalle tradizioni, dalle opinioni collettive, dal senso comune – naturalmente orientati verso un mondo nel quale gli esseri inferiori e mediocri, non avendo ragione di esistere, scompariranno.
Come Marx, insomma, Nietzsche è il Profeta di un Mondo nuovo e di un Uomo nuovo, che egli però riconduce non già ad una rivoluzione socio-economica, ma ad una rivoluzione culturale che, togliendo via tutti gli orpelli ideologici accumulati nel corso della storia, ponga fine ad ogni ricerca del perché e ponga gli esseri umani di fronte alla nuda verità di una condizione giustificata solo dal dedicarsi individualmente allo sviluppo del proprio essere senza alcuna considerazione degli altri, tranne che essi non siano rivali con cui competere alla pari: esseri superiori, dunque.
Ho sottolineato più volte, nel corso delle Conferenze, quanto di sgradevole e, per alcuni aspetti, ripugnante, si dà nel pensiero elitario e sostanzialmente “razzista” di Nietzsche. Negare, mascherare o minimizzare questo aspetto, come dall'epoca della Renaissace nietzschiana, hanno fatto molteplici autori, non è un tributo alla grandezza di Nietzsche, bensì, né più né meno, una mistificazione.
Al di là dello stile, di inuguagliabile eleganza, e di osservazioni psicologiche di straordinaria pregnanza, la grandezza di Nietzsche va identificata in due aspetti.
Il primo concerne lo statuto della coscienza umana, inesorabilmente mistificato perché l'Io, di fatto, convive e galleggia sul mare della complessità dell'inconscio, laddove si danno pensieri, desideri, fantasie, pulsioni caotici o, comunque, perennemente in contraddizione tra loro. Questa condizione mentale umana non comporta alcuna soluzione se non la rinuncia a pensare all'Io come ad una dimensione unitaria, continua nel tempo e coesa. Dove porta questa rinuncia? Ad accettare il limite che l'uomo ha su se stesso, a rifiutare qualunque forma di narcisismo e di onnipotenza, in nome della saggezza danzante per cui egli accetta di fluttuare nel gran mare dell'esistenza.
Il secondo aspetto, che può apparire contraddittorio, è da ricondurre all'identificazione nell'uomo di un bisogno di individuazione che si realizza anzitutto in negativo, sotto forma di rifiuto di tutto ciò che la società impone e viene avvertito intuitivamente contrastante con la propria vocazione ad essere. Posto che l'individuo riesca a raggiungere e a conservare un elevato grado di autonomia rispetto alle influenze sociali, che tendono a normalizzarlo e a subordinarlo alla legge del gregge, quel bisogno si realizza in positivo sotto forma di sì alla vita, vale a dire dell'accettazione della sua sostanziale assurdità e, al tempo stesso, di fedeltà alla volontà di potenza.
Il pensiero di Nietzsche è indubbiamente la matrice del nichilismo positivo, vale a dire di un orientamento che rifiuta ogni domanda metafisica (il perché) e, al tempo stesso, promuove l'impegno di migliorare se stessi fino al limite del possibile. Dato che non sarà più possibile, dopo Nietzsche, tornare dietro e restaurare le mistificazioni che egli ha dissolto, il nichilismo positivo va assunto come un orizzonte esistenziale ormai irreversibile. C'è solo da chiedersi se esso non possa realizzarsi, oltre che su un piano strettamente individuale, anche su un registro affettivo, sociale e collettivo.
Non è impossibile concepire un mondo di esseri consapevoli dell'assurdità e dell'insignificanza dell'esistenza che però trovano nel legame umano e solidale tra loro una ragione di esistere e di dare senso alla vita.
Con Marx il carattere storico dell'esperienza umana assume un carattere radicale. Esso implica, per un verso, che l'individuo è sempre inserito in una struttura sociale che condiziona il suo modo di vedere, di sentire e di pensare in dipendenza dello status o del ruolo che occupa in essa. Per un altro verso, l'ideologia dominante, che fa da sostegno alla struttura sociale, per quanto prodotta da coloro che hanno interesse a mantenere lo status quo, tende ad estendersi e a cooptare tutti gli individui in maniera tale da assicurare una certa coesione e ridurre il peso dei conflitti sociali.
Con Nietzsche la dimensione storica passa in secondo piano in conseguenza del rilievo che egli dà al problema dell'esistenza stessa della specie umana: una specie malfatta, malriuscita, che ha bisogno di mentire per sopravvivere alla sua insignificanza e, a tal fine, crea un reticolo di illusioni – religiose, morali, politiche e soggettive – che, analizzate criticamente si dissolvono come neve al sole.
Con Freud è il carattere microstorico dell'esperienza umana, vale a dire la sua dimensione psicologica e intersoggettiva, che viene ad assumere un'importanza che prima non ha mai avuto. Costretto ad interessarsi della storia dei singoli pazienti e a ricostruire il loro passato alla ricerca delle chiavi atte a spiegare i sintomi, Freud scopre, anche con una certa sorpresa, che l'infanzia è il periodo evolutivo decisivo per la costruzione della personalità: periodo nel quale tra la filogenesi, che assegna all'uomo un determinato bagaglio pulsionale, e l'ontogenesi, vale a dire lo sviluppo dell'individuo nell'interazione con un determinato contesto familiare, si realizza una sorta di corto-circuito decisivo decisivo per il suo futuro psicologico.
L'avere scoperto l'importanza dell'infanzia e la drammaticità dell'esperienza infantile in opposizione all'immagine sterotipica del bambino come un innocente angioletto è un merito indubbio e permanente di Freud. Essa attesta che l'esperienza umana pone fin dai suoi esordi problemi che sono complessi e del tutto diversi da quelli che affrontano gli altri animali.
Oggi tali problemi possiamo facilmente ricondurli al conflitto più o meno rilevante tra la pressione univocamente normalizzatrice dell'ambiente pedagogico, il cui fine è produrre un cittadino dotatto delle competenze necessarie per vivere in un determinato mondo storico-sociale, e le istanze di differenziazione che fanno capo al potenziale di individuazione presente nel corredo genetico. Il dramma dell'infanzia verte, insomma, sul conflitto tra ciò che gli altri desiderano che il bambino sia e diventi e ciò che egli, sia pure inconsapevolmente, desidera essere e diventare.
Posto in questi termini, il conflitto strutturale che affronta ogni individuo che entra nel mondo va al di là dello spazio privato entro cui egli vive e della personalità dei genitori. Esso si pone, infatti, immediatamente, nei termini di una pressione sociale, che passa attraverso la famiglia, orientata verso l'omologazione culturale, e la difesa, riconducibile al potenziale di individuazione, che la natura ha programmato per impedire che essa si realizzi soffocando la libertà dell'individuo e la sua vocazione ad essere.
Posto in questi termini, il conflitto che sottende l'esperienza umana fin dall'inizio è sufficientemente drammatico. Ma i termini in questione, che implicano una dimensione sociologica e storica che campisce sempre l'esperienza umana, sono sostanzialmente estranei alla cultura di Freud. Ciò lo costringe a ricondurre il conflitto strutturale ad una drammatica interazione tra il mondo filogenetico delle pulsioni e le esigenze della vita sociale, incompatibili con il principio anarchico del piacere (erotico e aggressivo) che le pulsioni veicolano. In questa ottica, il nodo decisivo dell'esperienza umana è il superamento del conflitto in conseguenza dell'accettazione del principio di realtà, che implica un certo grado di frustrazione delle pulsioni, e il loro persistere sotterraneamente in virtù di una fissazione che rappresenta la matrice di ogni nevrosi.
E' assolutamente sorprendente che Freud sia rimasto cristallizzato sull'ideologia pulsionale nonostante la scoperta del Super-io, come funzione psichica inconscia che, attraverso la famiglia, interiorizza la tradizione propria del gruppo di appartenenza, e quella originaria, sopravvenuta all'epoca degli Studi sull'isteria, della Controvolontà, vale a dire di una resistenza opposta all'influenza ambientale omologatrice, gli abbiano offerto elementi per sormontarla.
Ci siamo soffermati sufficientemente sul pessimismo ideologico freudiano in rapporto alla natura umana per tornare su questo aspetto. Possiamo metterlo tra parentesi per insistere sulle straordinarie intuizioni freudiane.
Al primo posto occorre naturalmente considerare la scoperta dell'inconscio, vale a dire di una dimensione mentale già ammessa da molti autori in precedenza (tra cui Nietzsche), ma mai sufficientemente descritta nelle sue dinamiche e nelle sue logiche.
L'inconscio freudiano è una dimensione mentale straordinariamente ricca di ricordi, di pensieri, di emozioni, che sottende la vita cosciente e la influenza molto più di quanto in genere gli individui siano disposti ad ammettere. Tale influenza non è percepita dall'Io in conseguenza di meccanismi di difesa che reprimono, rimuovono i contenuti inconsci o consentono ad essi di esprimersi secondo modalità incomprensibili per il soggetto (proiezione, formazione reattiva, sublimazione, ecc.).
Non è azzardato sostenere che il maggiore contributo di Freud alla conoscenza dell'apparato mentale umano concerna l'interazione tra coscienza e inconscio. Egli la riduce al conflitto tra mondo delle pulsioni – primitive e anarchiche -, che premono continuamente per scaricarsi, e le esigenze della vita sociale, che ne rendono necessaria la frustrazione. Si tratta di un punto di vista riduttivo (e ovviamente ideologico) smentito peraltro da molti brani delle opere freudiane in cui riesce chiaro che l'interazione tra coscienza e inconscio comporta un dialogo tra una soggettività cosciente (l'Io) che mira a mantenere non solo una percezione unitaria, coesa e continua nel tempo di sé, ma soprattutto un'immagine che consenta ad essa di raggiungere agli occhi propri e degli altri uno statuto di normalità, e una soggettività inconscia che tende a fare affiorare le contraddizioni represse ma non risolte dalla normalizzazione.
Tali contraddizioni concernono il conflitto tra la logica dell'appartenenza e quella dell'individuazione che, normalmente in tensione tra loro, possono facilmente giungere a scindersi. In conseguenza di questo, il Super-io mira a reprimere, a colpevolizzare e ad inibire la spinta verso l'individuazione, mentre l'io antitetico realizza una funzione di sabotaggio dell'ordine interiormente imposto.
L'importanza di questo punto di vista, fedele alle intuizioni freudiane se non alle sue teorie, non può sfuggire. Esso implica che in ogni esperienza umana, al di là della fase evolutiva originaria, si dà una perpetua tensione, che può assumere una configurazione più o meno aspramente conflittuale, tra il principio di realtà che, attraverso il Super-io promuove l'adesione al senso comune e all'ideologia dominante in un determinato contesto socio-storico, e una spinta motivazionale verso la critica, la contestazione e l'opposizione nei confronti del senso comune e di come si debba essere, pensare, sentire ed agire il cui fine è l'autonomia, vale a dire la capacità di operare scelte dettate dalla volontà propria e di realizzarle siano esse socialmente apprezzate o no.
In questa ottica, lo scarto tra soggettività e storia sociale si riduce di gran lunga. Forse è azzardato restaurare la formula sessantottina per il privato è politico. Di certo non è azzardato prendere atto che ogni esperienza soggettiva, quali che siano le componenti genetiche da cui muove, appartiene a pieno titolo alla storia. Ciò non contrasta con l'importanza assegnata da Freud ai primi anni di vita se si tiene conto che i genitori, oltre che persone in carne ed ossa, sono anche agenti culturali il cui obiettivo istituzionale è di produrre un cittadino capace di inserirsi nel mondo così com'è.
Alla luce di questo discorso, i meccanismi difensivi di Freud, in conseguenza dei quali il soggetto ha una coscienza di sé in qualche misura sempre mistificata, sono da ricondurre per un verso all'esigenza privata di mantenere un'immagine soggettiva il più possibile fedele all'ideale dell'io, vale a dire a ciò che il soggetto desidera essere; per un altro verso, essi rappresentano il prezzo che ogni soggetto paga alla normalizzazione e all'omologazione culturale.
La possibilità di utilizzare i contributi che i Grandi Demistificati hanno dato alla cultura umana per procedere verso un sapere integrato riferito all'uomo e ai fatti umani (sapere in riferimento al quale, da alcuni anni, utilizzo il termine Panantropologia) postula di affrontare preliminarmente alcuni problemi, che sono da ricondurre al limite inerente la genialità, alla personalità degli autori e alla storicità del loro pensiero, che comporta una elaborazione teorica inesorabilmente sottesa da una valenza ideologica.
Il limite inerente la genialità, maggiormente riconoscibile nell'ambito delle discipline sociali ed umane che non in quello strettamente scientifico, è la tendenza a costruire un sistema onnicomprensivo e onniesplicativo.
In quanto vincolato al rigore della biologia, Darwin è colui che corre tale rischio meno degli altri. Ma lo corre comunque se teniamo conto che, non pago di avere ricondotto la specie umana in un'ottica naturalistica, egli, con L'origine dell'uomo, minimizzando le differenze mentali tra l'uomo stesso e gli altri animali, pone le premesse di una spiegazione meramente biologica dei suoi comportamenti. Tali premesse si sono espresse di recente attraverso la sociobiologia e la psicologia evoluzionistico-cognitiva,rivelando appieno il loro limite. Nonostante si debba assegnare alla struttura del cervello, nella misura in cui si ritiene che esso, con tutte le sue funzioni, sia stato selezionato originariamente, una grande importanza, analizzare i comportamenti umani sulla base dell'adattamentismo sfiora il ridicolo.
Marx e Freud hanno corso quel rischio più degli altri, assumendo il primo il fattore economico come necessario, se non sufficiente, a spiegare gran parte dei comportamenti umani, e il secondo enfatizzando al massimo grado il fattore psicologico e, in particolare, la fase infantile dello sviluppo evolutivo.
Di fatto, economia e psicologia entrano dappertutto. Anche un neonato nel nostro mondo è un consumatore dipendente dal contesto familiare e storico- sociale. Basta, per convincersene, fare riferimento, oltre che al latte in polvere e alle medicine, agli infiniti oggetti che si mettono a sua disposizione per vicariare la sua separazione dal mondo della natura e il suo isolamento domestico. La crescita, poi, pone in luce maggiormente questo fattore. Gran parte dei giocattoli, dei libri e dei video che consumano i bambini fanno riferimento al mondo della natura con cui essi hanno uno scarso rapporto.
Se questo è vero, interpretare i comportamenti infantili solo sulla base delle condizioni oggettive di vita è impossibile. Essi, come ha scoperto Freud, hanno un mondo interiore fortemente agganciato e interagente con l'umano, secondo modalità che sono dettate dai loro desideri, dalle loro fantasie e dai precari strumenti interpretativi di cui dispongono. Il discorso sui fattori oggettivi va dunque completato con il riferimento ai fattori soggettivi, cui Marx non dedica sufficientemente attenzione.
E' pur vero, però, che assumere la soggettività infantile come chiave che spiega gran parte dei comportamenti umani adulti – la pretesa di Freud – urta contro l'ostacolo di una soggettività che, nel suo ulteriore sviluppo, deve fare i conti con il mondo storico-sociale e culturale.
L'economia e la psicoanalisi, dunque, da sole non bastano a permettere di spiegare la condizione umana nei suoi molteplici aspetti. La loro integrazione, che io ritengo possibile, postula per altro, il superamento del carattere sistemico e in una certa misura imperialistico del marxismo e della psicoanalisi.
Si ritiene di solito che Nietzsche, il cui pensiero è insistentemente rivolto ad invalidare una conoscenza dell'uomo che aspiri ad un qualsivoglia sistema, sia immune dal rischio di cui si è parlato. Ma non è vero. Pur procedendo sulla via di una critica a tutte le ideologie preesistenti, anche Nietzsche, almeno alla fine del suo tragitto, formula di fatto un sistema incentrato sulla volontà di potenza, il nichilismo e la teoria dell'eterno ritorno. Quando egli parla, con un entusiasmo esaltato, della trasmutazione di tutti i valori, in ultima analisi propone di sostituirli con nuovi valori che, nichilismo positivo compreso, sono scarsamente verificabili al pari delle illusioni che egli ha dissolto.
Oltre a questo aspetto occorre tenere poi conto della personalità degli autori. I Grandi demistificatori sono accomunati da un tasso di introversione più o meno spiccato. Questo orientamento, associato alla genialità, spiega la loro naturale tendenza ad andare controcorrente.
Di tale tendenza Marx e Nietzsche si fanno carico radicalizzandola. Non è un caso che, sia pure da prospettive del tutto diverse, entrambi sono intenzionati a promuovere una Rivoluzione, vale a dire uno stravolgimennto dell'ordine esistente (il passaggio da capitalismo al comunismo, il superamento del Cristianesimo e la trasmutazione di tutti i valori). Si tratta dunque di introversi oppositivi che non hanno paura di sfidare il mondo e mettono nel conto che ciò comporta un prezzo da pagare. Marx di fatto è stato perseguitato in tutta Europa e ha continuato ad esserlo anche nell'esilio londinese (da parte dei servizi segreti tedeschi). Nietzsche invece è stato praticamente ignorato o giudicato un filosofo “pazzo” (anche prima che ammalasse).
La valenza oppositiva legata all'introversione comporta sempre il rischio, a livello intellettuale, che, al di là della necessaria rottura epistemologica che essa promuove, lasciando apparire un nuovo orizzonte, essa rimanga vincolata ad un certo radicalismo. Questo aspetto è evidente in Marx che ha fondato tutta la sua analisi del Capitalismo sul concetto di plusvalore, insistendo su di esso anche quando è venuto ad urtare contro il problema insolubile di ricavare da esso i prezzi di mercato dei beni. In Nietzsche il radicalismo giunge all'estremo di pretendere di invalidare quasi tutto quello che l'umanità ha prodotto in ambito morale nel suo lungo cammino. Per quanto significativa, la sua maledizione finale del Cristianesimo esprime un'intolleranza senza limiti, e pertanto anche una scarsa comprensione di un fenomeno storico che ha segnato l'evoluzione della Civiltà occidentale.
Darwin ha un timore quasi sacro del giudizio sociale, che lo induce a rimandare per anni la pubblicazione de L'origine delle specie, che vede la luce solo in seguito al pericolo di essere anticipato da Wallace, che aveva identificato indipendentemente da lui la legge della selezione naturale. Non è un caso che in questo libro, peraltro inconfutabile nel ricondurre l'uomo alla sua condizione di essere naturale, c'è appena un accenno alla specie umana. Solo con L'origine dell'uomo Darwin sembra venire allo scoperto. Di fatto, però, anche in questo libro, la rivendicazione della condizione animale dell'uomo è, se non sfumata, ammorbidita da una serie di riferimenti all'istinto sociale e morale, che può condurre gli individui ad una forma di vita virtuosa ed elevata.
Freud è meno timoroso di Darwin, ma, animato da una volontà di riscatto in rapporto alle precarie condizioni economiche della sua famiglia e al suo essere ebreo in un contesto caratterizzato da un antisemitismo strisciante, adatta ad essa la sua originaria teoria – quella della seduzione sessuale -, incompatibile con il mito della buona famiglia borghese, e si ritrova di conseguenza sul terreno di un'interpretazione meramente intrapsichica e fantasmatica dei sintomi psicopatologici.
Il viraggio da una teoria sostanzialmente ambientalista – quale quella della seduzione originaria – ad una teoria intrapsichica è, ancora oggi, valorizzato dagli psicoanalisti ortodossi come la vera nascita della psicoanalisi. C'è in questo qualcosa di indubbiamente vero, ma sarebbe ingenuo non considerare che tale viraggio, addossando le colpe reali o presunte dei pazienti alla sfera filogenetica delle pulsioni, pone Freud al riparo da qualunque critica sociale, e fa coincidere la sua antropologia con quella egemone della borghesia.
Occorre considerare, infine, l'incidenza di una valenza ideologica che, sia pure diversa, sottende il pensiero dei quattro Grandi Demistificatori. Sinteticamente tale valenza si può ricondurre al gradualismo darwiniano, alla dialettica marxiana, al nichilismo nietzschiano e al pessimismo freudiano.
Il gradualismo darwiniano, che una conseguenza dell'ideologia liberal-democratica cui Darwin ha sempre fatto riferimento, implica che la Natura non fa salti. Per quanto riguarda l'evoluzione della vita, questo assunto non sembra più vero. Prove paleontologiche di una repentina scomparsa di gran parte delle specie esistenti, seguita da un'efflorescenza di nuove forme sono inoppugnabili almeno in due epoche geologiche. Per quanto riguarda il processo dell'ominazione, anche se esso è partito, con l'assunzione della stazione eretta, circa 3,5 milioni di anni fa, ed è evoluto in virtù di una crescita progressiva del volume del cervello, è fuori di dubbio che la comparsa dell'homo sapiens segna un evento casuale, contingente, ma straordinario per le potenzialità adattive e non adattive (exaptation) di cui il cervello umano è venuto ad essere dotato.
Anche escludendo l'eccezionalità dell'uomo (vale a dire il suo essere stato creato), rimane il fatto che egli è l'unico animale consapevole di esserci, del suo statuto precario, del suo destino mortale e della necessità di condividere la propria esperienza con i simili per sopravvivere e, superato un certo livello di sviluppo tecnologico, per non cadere a capofitto nell'angoscia dell'insignificanza e della solitudine cosmica.
La dialettica marxiana, che riprende rovesciandola quella hegeliana, e come essa tende a definire un approdo teleologico per la storia umana, è l'espressione di una visione dell'uomo che, pur non escludendo cadute e alienazioni di ogni genere, implica un valore assoluto nella cornice dell'Universo. L'uomo, per Marx, è l'unico animale dotato di un senso di dignità, di libertà e di giustizia. Su questa base, dare per scontato che la storia debba giungere a valorizzare al massimo grado tali caratteristiche, è logicamente coerente, ma non realisticamente fondato. L'umanità, infatti, potrebbe rimanere per sempre nella sua preistoria.
Depurato dall'aspetto ideologico, il pensiero marxiano è una risposta all'insignificanza dell'esistenza individuale, che viene drammatizzata da condizioni di vita miserabili e assoggettate a sfruttamento. Essa sollecita l'uomo a recepire la sfida della Natura valorizzando una solidarietà sociale e un uso delle risorse e dei beni disponibili, che postula il superamento del Capitalismo, al fine di mettere ogni individuo in grado di raggiungere il massimo sviluppo possibile del suo essere. Tale sviluppo non ha nulla a che vedere con il bisogno di autorealizzazione borghese, perché Marx dà come scontato che l'individuo pienamente sviluppato raggiunge una coscienza di specie che lo porta a considerare gli altri simili a sé.
Il nichilismo nietzschiano è una risposta al trionfalismo di una Civiltà che, dopo aver accettato secolarmente la suggestione della religione cristiana, e coltivato l'illusione di un destino trascendente, si orienta, nella seconda metà del Novecento, verso un benessere mondano all'insegna dell'ipocrisia, di una crescente avidità di beni e una progressiva mediocrità, mascherata dai valori elevati della democrazia e del liberalismo, i quali concorrono ad alimentare il mito dell'uguaglianza nonostante accrescano la disuguaglianza.
L'elitarismo nietzschiano vede, con largo anticipo sui sociologi dell'800, nella società di massa il pericolo di un'omologazione che potrebbe soffocare del tutto la tensione degli spiriti liberi verso una forma di esistenza autentica all'isegna della volontà di potenza.
Se si pone da parte la mostruosa rivoluzione che Nietzsche anticipa, la quale comporterebbe l'estinzione di tutti gli esseri normali e mediocri, quindi della maggioranza della popolazione, il suo pensiero si può ricondurre ad un'esaltazione del bisogno di individuazione in ciò che esso ha di originale, creativo e innovativo. Che tale bisogno postuli, com'è accaduto nell'esperienza di Nietzsche, un progressivo isolamento e ritiro dal mondo all'insegna del disprezzo dell'alito impuro e inquinante del mondo si può ritenere espressione di una drammatizzazione estrema del conflitto tra appartenenza e individuazione le cui matrici biografiche, legate al catastrofico risveglio della cocsienza dall'ipnosi religiosa durata sino a circa 16 anni, sono fin troppo evidenti.
Al di là della drammatizzazione, è fuor di dubbio che il pensiero di Nietzsche ha messo in luce in maniera inconfutabile l'impegno richiesto dal bisogno di individuazione per realizzarsi autenticamente. Esso, infatti, anche in una persona geniale, deve fare perpetuamente i conti con le tradizioni e i valori originariamente trasmessi e interiorizzati. Non è certo per caso che le ultime opere di Nietzsche siano dedicate al Cristianesimo e alla figura del Cristo. Un soggetto autenticamente laico, come per esempio il Lévi-Strauss dell'ultima pagina di Tristi tropici, non ha alcuna preoccupazione del genere.
Il pessimismo freudiano è agevolmente riconducibile all'influenza della tradizione ebraica e del pensiero di Hobbes (oltre che di Schopenhauer). Esso comporta l'attribuzione alla natura umana di pulsioni primitive e selvagge, che fanno storicamente riferimento alla liberazione degli “spiriti animali” prodotta dal Capitalismo.
Freud ritiene di avere visto in azione le pulsioni nei sogni e nelle fantasie inconsce dei pazienti. Ma si tratta di un fraintendimento. Le impulsioni che attraversano l'inconscio dei pazienti rappresentano o una rabbiosa protesta contro un Super-io rigido e severo o una rivendicazione di libertà totale che, non potendosi realizzare sul piano della vita quotidiana, imbocca il vicolo cieco dell'anarchia.
Se si sormonta tale fraintendimento, è possibile ridefinire l'inconscio come una dimensione della mente che cerca incessantemente un punto di equilibrio tra le due logiche che lo sottendono, quella dell'appartenenza e dell'individuazione, e, se esso non viene raggiunto per effetto di una normalizzazione che non dà luogo (come avviene in molteplici soggetti normali) all'adattamento, continua ad operare una pressione nella direzione di un'integrazione della personalità di livello superiore rispetto alla norma.
Al di là delle circostanze ambientali, che possono essere più o meno favorevoli allo sviluppo della personalità, i pazienti ammalano perché, come ha intuito Jung, il loro potenziale di sviluppo – lo sappiano o no – è iperadattivo, postula cioè di realizzare un'esperienza di vita al di là della normalità.
Messo a fuoco il nodo delle valenze ideologiche, che rendono poco o punto compatibili i mondi intellettuali dei Grandi Demistificatori, la possibilità di integrare ciò che si può ritenere autenticamente innovatore nel loro pensiero si intravede.
Invalidando il Creazionismo, e quindi l'orizzonte della trascendenza, Darwin restituisce l'uomo alla storia della Natura vedendo in esso un animale prodotto dall'evoluzione naturale. Si tratta, però, di un animale del tutto particolare: per un verso deistintualizzato, vale a dire debole, dipendente e vulnerabile; per un altro dotato, oltre che di un potente istinto sociale, di poteri cognitivi che gli consentono di sopperire alle sue carenze attraverso un'attività (definibile genericamente lavoro) che trasforma la natura, adattandola ai bisogni umani, e crea un mondo di simboli attraverso il quale egli sovrappone un ordine all'infinito disordine della realtà.
Ogni società storica riconosce un'infrastruttura economica, che comporta una distribuzione dei beni secondo criteri che variano nel corso del tempo, una sovrastruttura ideologica, che tende a convalidare, giustificare e naturalizzare l'ordine di cose esistente, e una componente motivazionale, rappresentata in un certo numero di individui, orientata a demistificare la sovrastruttura ideologica e a cambiarla, con effetti sulla realtà più o meno incisivi.
Il cambiamento auspicato da Marx mira a produrre una coscienza di specie che riconosca la pari dignità tra gli esseri umani e, superando gli squilibri socio-economici del capitalismo, promuova un mondo all'interno del quale la ricchezza – materiale e spirituale – prodotta dall'umanità sia utilizzata per fornire ad ogni individuo le opportunità per un libero e pieno sviluppo delle sue potenzialità.
Il cambiamento auspicato da Nietzsche va al di là della coscienza di specie. Esso implica l'intuizione che la specie umana, per salvarsi, deve superare se stessa, vale a dire impegnarsi in un tragitto di autenticazione e di demistificazione che le consenta di rinunciare alle infinite illusioni che essa ha prodotto e di reggere il peso di una condizione esistenziale del tutto insignificante, che non contrasta, però, con l'amore per la vita.
Se si pone tra parentesi l'elitarismo nietzschiano, che riserva il futuro a pochi eletti, c'è da chiedersi come gli esseri umani possano procedere sulla via di una maggiore consapevolezza della loro condizione, fortemente condizionata dalla struttura economica, potentemente influenzata dalle ideologie sociali e soggettivamente mistificata.
E' in rapporto a questo ultimo aspetto che il pensiero di Freud può essere utilizzato, tenendo conto del fatto che i meccanismi difensivi che riducono o inibiscono il rapporto tra la coscienza e l'inconscio possono essere sormontati togliendo all'inconscio il suo carattere caotico e selvaggio e vedendolo come funzionario della logica dell'appartenenza e dell'individuazione.
Un nuovo modello antropologico che valorizzi i contributi dei quattro Grandi Demistificatori è dunque, sulla carta, possibile.
Sarebbe ingenuo, però, non tenere conto che quei contributi oggi vanno valutati anche alla luce degli sviluppi successivi delle discipline umane e sociali. Ho cercato di fornire questa valutazione per ogni singolo autore. Adesso si tratta di operare una valutazione globale.
Anzitutto è importante sottolineare che l'evoluzionismo, la neurobiologia e gli studi sulla psicologia evolutiva neonatale e infantile hanno fornito dei dati sulla natura umana, che si possono ritenere definitivi (anche se la loro intepretazione non è univoca).
Un dato evoluzionistico ormai universalmente accettato riguarda il carattere spiccatamente neotenico della specie umana. L'intuizione, di fatto, risale all'anatomista olandese L. Bolk e all'antropo-filosofo A. Gehlen. Essa è stata però confermata nell'ambito della biologia evoluzionistica, che, per motivi diversi, sia Bolk che Gehlen rifiutavano.
Sotto il profilo anatomico, basta una sola immagine a rendere evidente il significato della neotenia. Alla nascita, il cranio di uno scimpazé e quello di un infante umano sono estremamente simili. Nel corso dello sviluppo, però, sopravviene una differenziazione che pone di fronte al fatto che il cranio del bambino conserva un aspetto infantile molto più marcato rispetto allo scimpanzé.
Al di là dell'anatomia strutturale, la neotenia incide a livello cerebrale determinando una maturazione molto più lenta rispetto a quella che si realizza nello scimpanzé. Tale maturazione spiega i tempi lunghi e lenti dell'evoluzione della personalità umana.
La neotenia assicura al cervello umano una plasticità cerebrale che non ha confronto, e sulla quale si basa un bisogno di apprendere, attraverso l'interazione con l'ambiente sociale, che, se non infinito, è indefinito.
Tale bisogno serve, tra l'altro, a compensare una delle conseguenze della neotenia, sulla quale L. Bolk ha insistito più degli altri: il drammatico allentamento del corredo di istinti che consentono agli altri animali di “sapere” come stare al mondo e come adattarsi ad esso.
Bolk ritiene che tale allentamento ha prodotto un eccesso di energia pulsionale liberamente fluttuante, che egli ritiene pericolosa tranne che non trovi canali culturali predisposti entro cui scorrere ed esprimersi. In un certo senso, questo coincide con la teoria pulsionale freudiana.
L'opposizione tra pulsionalità e Civiltà non sembra però sostenibile se si tiene conto che le potenzialità emotive e motivazionali affrancate dagli istinti sono predisposte per l'apprendimento, vale a dire per la loro canalizzazione culturale.
La contrapposizione tra Natura e Cultura, ipotizzata da Freud, che ne ricava la necessità di una frustrazione sociale delle pulsioni, e da Nietzsche, che invece tende a restaurare una condizione più naturale rispetto a quella imposta dalle tradizioni religiose, morali e culturali, e a liberare la bestia animata da una cieca volontà di potenza, è oggi insostenibile.
A riguardo, oltre alla genetica, che si sta orientando verso il riconoscimento che il corredo genetico umano è indefinitamente aperto alle influenze dell'ambiente, e quindi predisposto alla cultura, occorre tenere conto delle ricerche della psicologia evolutiva e della neurobiologia.
Le indagini sui neonati hanno messo definitivamente a fuoco che, anziché un essere originariamente chiuso nella sua sfera narcisistica e incapace di relazionarsi, l'infante precocemente cerca precocemente (fin dalle prime ore di vita) la sintonia con gli esseri umani, e la realizza sulla base dell'instaurarsi di una comunicazione mimica, gestuale e protolinguistica che sembra essenziale ai fini del suo sviluppo.
Che la natura umana sia, dunque, caratterizzata da un radicale bisogno sociale (come hanno sostenuto Darwin e Marx) sembra al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Questa conclusione è corroborata dalla scoperta, avvenuta in ambito neurobiologico, dei neuroni specchio, di neuroni che permettono al bambino in particolare (ma anche all'adulto) di specchiarsi nell'altro comprendendo intuitivamente il significato dei suoi comportamenti e promuovendone l'imitazione.
E' probabile che i neuroni specchio siano la matrice dell'empatia, della capacità di identificarsi con gli altri. Ma se anche così non fosse (riserva resa necessaria dalla carenza di prove scientifiche certe a riguardo), e in tale caso l'empatia andrebbe assunta come un'intuizione precognitiva e preriflessiva intrinseca al mondo delle emozioni umane, rimane il fatto che i neuroni specchio a lievllo di sviluppo della personalità svolgono un ruolo essenziale. Si diventa esseri umani in virtù dell'imitazione degli altri.
La scoperta dei neuroni specchio consente di capire che, in ogni contesto sociale, la cultura, incarnata nel modo di essere, di sentire e di agire degli adulti, si replica di generazione in generazione secondo modalità che, a livello inconscio e non verbale, sono sicuramente più incisive delle trasmissioni coscienti e verbali.
Ciò significa, né più né meno, che la prima configurazione della personalità umana è necessariamente alienata, in quanto corrisponde a ciò che viene ritenuto normale in un determinato contesto storico-sociale.
Riguardo a questo aspetto, il pensiero di Marx, Nietzsche e Freud si differenziano in maniera radicale.
Marx ritiene che l'educazione, dato il suo intento di normalizzazione, prescinde dalla formazione di una coscienza critica, alla quale dunque il soggetto deve giungere per proprio conto prendendo posizione in rapporto alla struttura sociale in cui vive. Dato che questa struttura, legata al Capitalismo, è sostanzialmente ingiusta e, per alcuni aspetti, lesiva dei diritti umani, la coscienza critica per Marx passa necessariamente attraverso un processo di opposizione.
Sulla base dell'esperienza personale, Nietzsche aborrisce la credulità dell'infante, e ritiene che l'unico rimedio contro di essa sia il mantenersi di una coscienza critica radicalmente avversativa nei confronti del senso comune e delle tradizioni culturali. Il problema è che, oggi, nessuno ritiene che l'essere umano possa sfuggire, in fase evolutiva, ad un processo di normalizzazione e che nessuno possa affrancarsi mai del tutto dai valori interiorizzati su cui essa si fonda.
Freud ritiene che il passaggio evolutivo fondamentale dell'essere umano corrisponde all'Edipo, che, almeno sulla carta, segna la transizione da uno stato di Natura, caratterizzata dal dominio delle pulsioni,a uno stato di cultura che ne impone in una certa misura la repressione. In Freud non si dà alcun riferimento ad una coscienza critica in rapporto all'ordine di cose esistente. L'unica consapevolezza cui l'uomo può giungere è quella di albergare un mondo di pulsioni primitive e selvagge che vanno tenute sotto controllo.
E' evidente che Marx è più vicino degli altri alla verità. Egli rifugge infatti dal considerare sia la Civiltà come un dato fisso e perenne sia dal promuoverne uno stravolgimento fine a se stesso. Lottare contro l'ordine di cose esistente, la cui ideologia viene interiorizzata nelle fasi evolutive della personalità, significa lottare per un ordine più giusto e adeguato ai bisogni umani.
Che l'uomo sia predisposto in tale direzione lo si può ricavare dalla dialettica tra appartenenza ed opposizione che sottende tutta l'evoluzione della personalità. Purtroppo tale dialettica, soprattutto per quanto riguarda il significato del bisogno di opposizione, presupposto indispensabile per l'avvio e la realizzazione dell'individuazione, è stata finora trascurata dalla psicologia. Sarebbe ingenuo riconoscere in quel bisogno una sorta di predisposizione rivoluzionaria della Natura umana. E' fuor di dubbio, però, che esso, se assolve la sua funzione soprattutto a livello adolescenziale, porta l'individuo ad un'autonomia nel sentire e nel pensare che, se supportata da una persistente empatia, lo orienta a prendere posizione contro tutto ciò che, nel mondo, umilia, opprime e mortifica l'uomo.
A questi dati occorrerebbe aggiungerne altri prodotti dalla neurobiologia, in particolare per quanto riguarda la scoperta di un'attività cerebrale intrinseca, che invalida radicalmente il principio di inerzia freudiano e la teoria dell'istinto di morte ricavata da esso, e il ruolo ormai universalmente riconosciuto delle emozioni, gran parte delle quali scorrono a livello inconscio, pur avendo effetti decisivi sul comportamento umano.
Per ora, gli aspetti di cui abbiamo parlato consentono di integrare il contributo dei Grandi Demistificatori con gli sviluppi delle scienza umane e sociali ad essi successivi.
Rimane solo da chiedersi che uso si possa fare di questo sapere, sicuramente bisognoso di ulteriori arricchimenti, ma già sufficientemente definito.
La panantropologia, così come l'ho rapidamente delineata, è un modello antropologico che integra biologia, psicologia, psicoanalisi, sociologia e storia sociale, e allude alla possibilità che si realizzi un salto di Civiltà, atto a promuovere la formazione e l'azione di esseri consapevoli, critici e perpetuamente impegnati nel compito di migliorare se stessi e lo stato di cose esistente nel mondo.
C'è da chiedersi cosa questo modello significhi sul piano della prassi, vale a dire come esso si possa realizzare. E' fuor di dubbio che l'ambito elettivo di applicazione del modello sia la produzione antropologica, vale a dire l'allevamento, l'educazione e la formazione di soggetti dotati non solo di spirito critico ma orientati consapevolmente a coltivarlo per tutta la vita.
La realizzazione del modello panantropologico sul piano della produzione antropologica postulerebbe anzitutto un massiccio investimento di risorse in maniera tale da realizzare una situazione che offra ai singoli individui adeguate opportunità di sviluppo. Questo obiettivo circola nella civiltà occidentale dall'epoca della Rivoluzione francese, ma non è mai stato raggiunto anche per una carenza teorica. Offrire ai singoli individui adeguate opportunità di sviluppo significa distribuire in maniera equa le risorse affettive, economiche e culturali di cui dispone una società.
La produzione antropologica dovrebbe essere orientata nella direzione della formazione di una coscienza critica. Perché questo termine abusato riassuma senso occorre riformularlo in rapporto a ciò che si sa della psicologia infantile. Nei primi anni di vita, i bambini hanno una percezione ipnotica della realtà degli adulti, che li rende estremamente influenzabili. Occorrerebbe a riguardo richiamare gli adulti a non abusare dell'enorme potere che la programmazione della mente infantile assegna loro, e sollecitarli a preparare il terreno per la fuoriuscita dei bambini da questo periodo (che dura 5-6 anni). Ciò significa, né più né meno, non inculcare alcun valore – in particolare per quanto riguarda la religione, che ecceda il loro modesto potere critico.
A partire dai 5-6 anni un punto fermo dell'istruzione dovrebbe vertere sulla teoria darwiniana, che può essere esposta con semplicità, nonostante un adeguato approfondimento debba sopravvenire ulteriormente. Contemporaneamente all'avvio dello studio dell'evoluzione biologica, di cui l'uomo è un prodotto, occorrerebbe, a partire dalla seconda infanzia, introdurre lo studio della storia sociale, in particolare per quanto concerne gli aspetti infrastrutturali – economici – e quelli sovrastrutturali – ideologici.
In virtù di questi insegnamenti, i bambini arriverebbero alle scuole medie con qualche idea un po' più chiara sull'evoluzione biologica e quella culturale della specie umana. Queste idee andrebbero, ovviamente, approfondite in tutto il corso degli studi superiori, fino a produrre la convinzione che l'uomo può interrogarsi sulla sua comparsa, sul suo esserci, sul passato e sul futuro.
Attrezzati laicamente (e fermo restando il fatto che se un ragazzo intende studiare e praticare la religione, ciò gli va concesso), gli adolescenti svilupperebbero probabilmente una crisi nichilistica più profonda di quanto sia accaduto in passato. Anziché fornire loro ricette confortanti, questa crisi andrebbe fatta maturare sino alle sue estreme conseguenze, cioè fino all'intuizione per cui se la condizione umana è oggettivamente insignificante essa può essere arricchita di significati soggettivi e personali che richiedono un grande impegno sia sul piano dell'affettività che della socialità e della cultura.
A questa stessa epoca, che si presta naturalmente, occorrerebbe avviare il discorso sullo statuto della coscienza umana e sul suo rapporto con l'inconscio. Realisticamente, sarebbe del tutto inutile fornire informazioni psicoanalitiche belle e fatte. L'allargamento della coscienza non può avvenire sulla base della razionalità. Sarebbe però oltremodo importante indurre la consapevolezza che la dimensione inconscia non è oscura, impenetrabile e negativa, ma è il patrimonio di potenzialità ridondanti che vanno utilizzate da ciascuno creativamente.
Si potrebbe anche fornire la chiave della teoria dei bisogni per indurre l'intuizioni che molte vicissitudini e contraddizioni degli esseri umani riconoscono la loro matrice nella doppia natura di esseri radicalmente sociali e, al tempo stessi, dotati della consapevolezza della propria identità unica e irripetibile.
Lo studio dei meccanismi difensivi andrebbe ricondotto sia alle loro valenze culturali, in nome del fatto che nessuna società potrà mai affrancarsi dalla tentazione della normalizzazione, dell'indurre cioè comportamenti fedeli al senso comune, sia alle loro valenze soggettive che, rimuovendo ciò che contrasta con l'ideale dell'io, impedisce un autentico sviluppo sulla base della presa d'atto delle contraddizioni che caratterizzano l'esperienza umana.
Acquisita la teoria dei bisogni, occorrerebbe poi promuovere nei singoli soggetti la sua accettazione come una sfida orientata a trovare il massimo punto di equilibrio tra logica dell'appartenenza e logica dell'individuazione. Il che significa, né più né meno, che una sempre più ricca partecipazione sociale e una sempre più articolata differenziazione individuale non sono affatto incompatibili, anche se sono difficili da realizzare.
Da ultimo si tratterebbe di introdurre, nelle scuole medie superiori, l'insegnamento della neurobiologia, disciplina in divenire che potrebbe comportare lo sviluppo di un interesse permanente nei confronti della sua evoluzione.
Nell'ottica di questa programmazione, l'analisi e lo studio del pensiero dei Grandi Demistificatori tenderebbero a confluire sulla base dell'integrazione tra biologia, storia sociale, sociologia, economia, filosofia, psicoanalisi, neurobiologia.
Posta in questi termini, tale programmazione sembra appartenere al libro dei sogni. Se è vero, come a me sembra, che i Grandi Demistificatori hanno operato, sia pure in modo diverso e partendo da presupposti diversi, nella prospettiva di una fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria, caratterizzata dalla mistificazione religiosa, economica, politica e culturale, il tributo che si deve al loro sforzo gigantesco è continuare a coltivare il sogno di una nuova umanità, tenendo conto che le potenzialità cerebrali atte a realizzarlo sussistono e che la ricchezza – materiale e spirituale – prodotta dalle generazioni che ci hanno preceduto lo rende ( o lo renderebbe) già realizzabile.