1.
Tra i Grandi Introversi, occorre inserire anche personaggi il cui orientamento caratteriale è indubbio, ma il cui comportamento getta qualche ombra sull’attribuzione al corredo genetico introverso di una sensibilità sociale che, sulla base dell’empatia, inibisce naturalmente la capacità di poter fare male al simile. Rimango convinto che tale attribuzione sia fondata, ma c’è da considerare il fatto che nell’uomo nessuna qualità naturale azzera la libertà individuale né pone l’individuo al riparo delle influenze dell’ambiente, della cultura e delle circostanze storiche.
Per quanto indubbiamente rari, soggetti introversi che agiscono comportamenti sociali oggettivamente sanzionabili, aggressivi e al limite distruttivi esistono. A differenza degli altri, essi di solito sviluppano, in conseguenza di tali comportamenti, sensi di colpa consci e inconsci solitamente intensi. Anche i sensi di colpa, però, non riescono sempre ad inibire i comportameti antisociali. Primo, perché se l’individuo è convinto di essere nel giusto e di affermare con essi la giustizia, può vivere come un punto d’onore la loro perpetuazione. Secondo, perché si dà sempre, da un punto di vista psicodinamico, la possibilità che la risposta soggettiva ai sensi di colpa imbocchi la via della negazione in conseguenza della quale il soggetto s’impone di dimostrare a se stesso (e agli altri) di non sentirsi in colpa reiterando i comportamenti antisociali e talora esasperandoli.
Questa premessa di ordine generale non anticipa un giudizio di valore su M. Robespierre. Serve solo a giustificare il suo inserimento nell’elenco dei Grandi Introversi contro l’opinione corrente di alcuni storici e dell’opinione pubblica (o meglio dell’immaginario popolare) che identifica in lui il Tiranno per eccellenza, l’antesignano di tutti i Rivoluzionari di sinistra che hanno sacrificato vite umane sull’altare di un ideale astratto di giustizia sociale.
Nell’ottica del sito, una biografia tradizionale non ha senso. Essa, infatti, può essere letta su qualunque libro di storia o reperita sulla Rete.
Dalla biografia mi limito a trarre alcuni spunti significativi.
Nato ad Arras, nel Nord della Francia, nel 1758, primo di quattro figli di una coppia socialmente singolare (il padre avvocato appartenente ad una famiglia di tradizioni notarili, la madre figlia di un birrario), Maximilien rimane precocemente orfano: la madre muore quando egli ha nove anni, il padre abbandona i figli e vaga per l’Europa fino alla sua morte (1777). Maximilien e i fratelli rimangono affidati al nonno materno e alle zie.
Maximilien è di sicuro un bambino precoce, sensibile e intelligente. Primogenito, egli si prende scrupolosamente cura dei fratellini. Un indizio del legame profondo che si instaura con essi è ricavabile dal fatto che uno dei fratelli – Augustin – seguirà come un’ombra la sua parabola politica e morirà con lui (per lui oserei dire, oltre che per la Rivoluzione).
Inviato al Collegio di Arras, Robespierre riceve colà un’educazione religiosa che lo segna profondamente. I valori cristiani - l’amore per la giustizia, per i poveri, la fede in Dio, la credenza nella immortalità dell’anima – rimarranno sempre vivi dentro di lui. Egli li difenderà a spada tratta contro le correnti anticlericali, laiche ed atee presenti tra le file dei Giacobini.
In Collegio si segnala per le sue doti intellettive, per la fede e il comportamento moralmente inappuntabile. Il Vescovo di Arras gli assegna una borsa di studio che gli consente di entrare, a 11 anni, al collegio Louis-le-Grand di Parigi, una delle migliori scuole di Francia. Ne esce avvocato a 23 anni premiato per la sua “buona condotta… e i successi conseguiti negli studi” con una somma mai concessa ad alcun altro borsista.
La carriera evolutiva di Robespierre è, dunque, quella tipica di un introverso che sviluppa precocemente un orientamento perfezionistico. Il perfezionismo in questione è di tipo morale. Ideologicamente esso riconosce senz’altro la sua matrice nell’educazione religiosa, ma si corrobora anche in conseguenza della passione che Robespierre ha per il modello di humanitas della Roma repubblicana (la Roma di Catone) e per l’adesione, totale e passionale, alle teorie e al pensiero di Rousseau (circostanza, questa, che ha indotto qualcuno tra le file degli intellettuali ad attribuire al ginevrino la responsabilità del Terrore).
Due circostanze confermano tale orientamento.
Quando torna ad Arras, Robespierre è già famoso al punto che il vescovo lo nomina giudice criminale per la diocesi. Egli rinuncia ben presto all’incarico per non dovere pronunciare una condanna a morte.
Si dedica, in seguito, alla libera professione ma con un orientamento inconsueto: prende a cuore le cause dei deboli, dei poveri, degli oppressi.
Riconosciuto come un paladino dei valori democratici, della libertà, della giustizia sociale, viene eletto deputato negli Stati Generali nel 1789, entra nell’Assemblea Nazionale Costituente e si batte con fermezza per la libertà di stampa, il suffragio universale, l’istruzione gratuita e obbligatoria e contro la pena di morte.
Rapidamente, nella temperie rivoluzionario, si ritrova Presidente del Club dei Giacobini. Il suo orientamento politico vira verso posizioni radicali. Egli avverte quanti altri mai - sulla pelle, si direbbe - la sofferenza e la miseria del popolo e si propone di fare il possibili per alleviarle. Il suo orientamento non può essere definito socialista perché non giunge a mettere in discussione il diritto di proprietà. Tale diritto però non avalla, ai suoi occhi, i privilegi della ricchezza e tanto meno lo spreco e il lusso.
Robespierre non deve fare alcuno sforzo per vivere austeramente. Egli ama, nei suoi discorsi, sottolineare la sua povertà. In realtà il suo tenore di vita è semplicemente sobrio: egli si accontenta di provvedere ai propri bisogni con il lavoro personale, senza disprezzare il benessere, ma senza cercare nè l’ozio né il lusso. La consapevolezza del suo valore intellettuale e morale implica il rifiuto radicale di valutare l’uomo in rapporto alla sua nascita o al denaro.
Robespierre non ha alcuna ambizione personale che vada al di là dell’essere utile all’umanità.
Di certo è orgoglioso del cambiamento che sta avvenendo in Francia. Sente che gli è dato di partecipare attivamente ad un’esperienza storica epocale. Scrive nel 1791: “L’eterna Provvidenza” grazie alle “circostanze quasi miracolose che le è piaciuto creare” ha chiamato i francesi, ed essi soli “unici dopo l’origine del mondo, a ristabilire sulla terra l’impero della Giustizia e della Libertà”.
L’appellarsi di continuo alla Provvidenza lo pone in cattiva luce agli occhi delle frange laiciste e atee dei Giacobini. Anche nel vivo di una lotta politica estremamente aspra, e con la Chiesa quasi totalmente schierata su posizioni conservatrici, Robespierre non rinuncia alla fede.
In una riunione del Club, un radicale lo attacca per il suo insistente riferirsi a Dio, ma egli risponde negando che “pronunciare il nome della divinità significhi indurre i cittadini alla superstizione”. Sì, - dice - credo in Dio, è un sentimento che mi è necessario, ho bisogno di provare la presenza, di chiedere aiuto, l’aiuto interiore dell’Eterno. Senza il suo calore e la speranza infinita data dalla fede non avrei potuto sopportare “fatiche che sono al di sopra della forza umana”.
La Costituzione del 1793, nella quale riversa gran parte delle sue idee, è un documento storico di eccezionale portata. Essa, infatti, non si limita a sancire l’esistenza di diritti umani naturali propri di ogni individuo: pretende che lo Stato non esaurisca la sua funzione nel tutelarli, ma agisca per realizzarli. E’ con quella Costituzione che la scuola elementare e l'assistenza sanitaria diventano gratuite per tutti i cittadini e viene istituita la pensione di invalidità e di vecchiaia.
2.
Il sentire la Rivoluzione francese come una rottura radicale con la tradizione e il presagio di un mondo nuovo, incentrato sui diritti e sui bisogni degli esseri umani, consente di comprendere la passione con cui Robespierre la difende dai nemici esterni e da quelli interni. Mite e inoffensivo, egli chiama i giovani alla leva e li esorta a difendere la Patria a qualunque costo. Sul fronte interno, non esita ad adottare una linea repressiva nei confronti di coloro che sabotano la Rivoluzione. Anche se presumibilmente non è a conoscenza di certe estremizzazioni del Terrore, è pur vero che a riguardo ha chiuso gli occhi: se non ha ordinato, ha lasciato che un numero indefinite di persone (tra 30000 e 40000) venissero ghigliottinate, alcune di esse senza processo. Che ciò sia accaduto soprattutto per l’azione di due tristi personaggi del Comitato di Salute Pubblica, - l’ex Prete Fouchè e l’ex Visconte Barras – che furono poi tra i più attivi nel promuovere l’arresto di Robespierre, nulla toglie alla responsabilità oggettiva di questi.
C’è un evidente paradosso nella parabola politica di Robespierre.
Per apprezzarlo, non si dà nulla di meglio che leggere il discorso fatto nella seduta del 30 maggio 1791 per chiedere la soppressione assoluta della pena di morte.
“Essendo stata portata ad Atene la notizia che nella città di Argo erano stati condannati a morte alcuni cittadini, il popolo si recò nei templi per scongiurare gli dei onde distogliessero gli Ateniesi da pensieri così crudeli e così funesti.
Io vengo a pregare non gli dei, ma i legislatori, che debbono, essere gli organi e gli interpreti delle leggi eterne che la Divinità ha dettate agli uomini, di cancellare dal Codice dei Francesi le leggi di sangue che comandano i delitti giuridici, e che vanno contro le loro nuove abitudini e la loro nuova costituzione. Io voglio provàr loro: 1° che la pena di morte è essenzialmente ingiusta; 2° che essa non è la più reprimente delle pene, e, più che impedire i delitti li moltiplica.
Fuori della società civile, se un nemico accanito viene ad attentare ai miei giorni, e, respinto venti volte, ritorna a distruggere il campo che le mie mani hanno coltivato, poiché io non posso che opporre le mie forze individuali alle sue, bisogna che io perisca o che uccida, e la legge della difesa naturale mi giustifica e mi approva. Ma nella società, quando la forza generale è armata contro un solo individuo, qual principio di giustizia può autorizzare a dar la morte? Quale necessità può assolverla? Un vincitore che fa morire i suoi nemici, presi prigionieri è chiamato barbaro! Un uomo che fa sgozzare un bambino, ch’egli può disarmare e punire, parrebbe un mostro! Un accusato che la società condanna non è per essa che un nemico vinto ed impotente; le è dinanzi un uomo adulto, ma più debole di un fanciullo. Così agli occhi della verità e della giustizia, queste scene di morte che essa ordina con tanto d’apparecchio, non sono altro che vili assassinii, che dei delitti solenni, commessi, non dagli individui, ma dalle nazioni intiere, con delle forme legali. Per quanto crudeli, per quanto stravaganti sieno queste leggi, non meravigliatevi più. Sono l’opera di qualche tiranno; sono le catene che opprimono la specie umana; sono le armi con le quali la soggiogano; esse furono scritte col sangue. “Non è, affatto permesso dare la morte a un cittadino romano. “ Tale era la legge che il popolo aveva sostenuto: ma Silla vinse e disse: Tutti coloro che si sono armati contro di me sono degni di morte. Ottavio ed i compagni suoi di delitti confermarono questa legge. Sotto Tiberio, aver lodato Bruto fu un delitto degno di morte. Caligola condannò a morte coloro che erano tanto sacrileghi da svestirsi dinanzi all’immagine dell’Imperatore. Quando la tirannia ebbe inventato i delitti di lesa maestà, che erano o delle azioni indifferenti o degli atti eroici, chi avrebbe osato pensare che potevano meritare una pena più dolce della morte, a meno di render sé stesso colpevole di lesa maestà?
Il fanatismo, nato dall’unione mostruosa dell’ignoranza col despotismo, allorché inventò a sua volta i delitti di lesa maestà divina, quando concepì nel suo delirio di vendicare Iddio, volle esso pure offrire del sangue, mettendosi al livello dei mostri.
La pena di morte è necessaria, dicono i partigiani degli antichi barbari usi; senza di essa non ci sono freni abbastanza potenti contro i delitti. Chi ve lo ha detto? Avete calcolato tutte le specie di mezzi con i quali le leggi penali possono agire sulla sensibilità umana? Ahimè! prima della morte, quanti dolori fisici e morali l’uomo deve soffrire! Il desiderio di vivere si inchina davanti all’orgoglio, la più imperiosa delle passioni che il cuore umano; la più terribile di tutte per l’uomo sociale, è l’obbrobrio, la schiacciante testimonianza dell’esecuzione pubblica.
Quando il legislatore può colpire i cittadini in tanti lati ed in tanti modi, come può credersi ridotto ad impiegare la pena di morte? Le pene non sono fatte per tormentare i colpevoli; ma per impedire il delitto, il quale teme appunto di incorrere nelle pene. Il legislatore che preferisce la morte e le pene atroci ai mezzi più dolci che sono in suo potere, oltraggia la delicatezza pubblica, affievolisce il senso morale nel popolo ch’egli governa, come un poco abile precettore che, coll’uso frequente di modi crudeli abbrutisce e degrada l’animo del suo allievo, il legislatore abusa ed indebolisce le energie del governo, volendo troppo piegare l’arco del potere. Il legislatore che stabilisce questa pena rinuncia a quel principio salutare, che “il mezzo più efficace per reprimere i delitti è quello di adattare le pene al carattere delle differenti passioni che causano il delitto”, e di punirle, per così dire. per sé stesse. Esso confonde tutte le idee, turba tutti i rapporti e contraria apertamente lo scopo delle leggi penali.
La pena di morte è necessaria, dite voi! Se è così, perché parecchi popoli hanno saputo farne a meno? Per quale fatalità questi popoli sono stati i più saggi, i più felici, i più liberi? Se la pena di morte è la più appropriata per prevenire i grandi delitti, bisogna dunque che essi sieno stati molto rari presso i popoli che l’hanno adottata e prodigata. Invece accade precisamente tutto il contrario.
Guardate il Giappone: in nessuna parte del mondo si è tanto prodighi della pena di morte, si è tanto prodighi di supplizi; in nessuna parte del mondo i delitti sono così frequenti e cosi atroci. Si direbbe che i Giapponesi vogliono disputare di ferocia con le leggi barbare che oltraggiano e che irritano. Le repubbliche della Grecia, ove le pene erano molto moderate, e dove la pena di morte era infinitamente rara o sconosciuta, forse che avevano più delitti e meno virtù dei paesi governati da leggi sanguinarie? Credete voi che Roma fosse funestata da un maggior numero di delitti, quando, nei giorni della sua gloria, la legge Porcia ebbe distrutte le pene severe portate dai re e dai decemviri, di quanti se ne consumavano quando Silla le fece rivivere, e sotto gli imperatori che ne elevarono il rigore ad un eccesso degno della loro infame tirannide? La Russia è stata forse sconvolta, dacché il despota che la governa ha intieramente soppressa la pena di morte, come s’egli volesse espiare con questo atto di umanità e di filosofia il delitto di tenere dei milioni di uomini sotto il giogo del potere assoluto?
Ascoltate la voce della giustizia e della ragione; essa ci grida che i giudizi umani non sono mai abbastanza certi, perché la società possa condannare a morte un uomo condannato da altri uomini soggetti ad errare. Se anche voi aveste immaginato il più perfetto ordinamento giudiziario, se aveste trovati i giudici più integri e più illuminati, sarà sempre possibile un errore, non evitereste assolutamente la prevenzione.
Perché impedire il mezzo di riparare? Perché condannate all’impossibilità di tendere una mano soccorritrice all’innocente oppresso? Che importano gli sterili rimpianti, le riparazioni illusorie che voi accordate ad un’ombra vana, ad una cenere insensibile? Essi sono tristi testimonianze della barbara temerità delle vostre leggi penali. Togliere all’uomo la possibilità di espiare il suo malfatto col pentimento o con degli atti di virtù, chiudergli senza pietà il ritorno alla virtù, alla stima di sé stesso, adoperarsi per farlo più presto scendere, per così dire, nel sepolcro ancora tutto avvolto dalla macchia recente del suo delitto, è ai miei occhi una delle più raffinate crudeltà.
Il primo dovere del legislatore è di formare e di conservare gli usi pubblici sorgenti di tutte le libertà, sorgenti di tutta la felicità sociale; allorché per giungere ad uno scopo particolare, egli si allontana da questo scopo generale ed essenziale, commette il più grossolano ed il più funesto degli errori.
Bisogna dunque che le leggi presentino sempre ai popoli il modello più puro della giustizia e della ragione. Se, al posto della severità potente, della calma moderata che deve caratterizzarle, esse mettono la collera e la vendetta; se esse fanno colare del sangue umano che possono risparmiare e che non hanno diritto di spargere; se esse espongono agli occhi del popolo scene crudeli e cadaveri martoriati dalle torture, allora alterano nel cuore dei cittadini le idee del giusto e dell’ingiusto, allora fanno germogliare nel seno della società dei pregiudizi feroci che alla loro volta ne producono degli altri.
L’uomo non è più per l’uomo un oggetto altamente sacro, si ha una idea meno grande della sua dignità, quando l’autorità pubblica si ride della vita umana. L’idea dell’assassinio ispira meno spavento, quando la legge stessa ne dà l’esempio e lo spettacolo; l’orrore del delitto scema, poiché lo si punisce con un altro delitto. Guardatevi bene dal confondere l’efficacia delle pene con l’eccesso della severità; l’una è assolutamente l’opposta dell’altro. Tutto asseconda le leggi moderate, tutto cospira contro le leggi crudeli.
Si è osservato che nei paesi liberi i delitti erano più rari, perché le leggi penali eran più dolci. I paesi liberi sono quelli nei quali i diritti dell’uomo sono rispettati, e dove di conseguenza le leggi sono giuste. Dappertutto dove esse offendono l’umanità con un eccesso di rigore, si ha la prova che la dignità dell’uomo non è conosciuta, che quella del cittadino non esiste; si ha la prova che il legislatore non è che un padrone che comanda a degli schiavi, e che li colpisce spietatamente seguendo la sua fantasia.
Io concludo perché la pena di morte sia abrogata.”
Al di là dello stile oratorio, che risente positivamente dell’influenza di Rousseau, nessuno può dubitare che i concetti espressi da Robespierre siano il frutto di una lunga meditazione e siano sottesi da una passione autentica per l’uomo, per questa fragile creatura che, anche quando commette crimini, non può e non deve essere ridotta all’impotenza, né assoggettata a trattamenti crudeli né reificata.
Come spiegare dunque il Terrore, nel corso del quale tutto ciò è accaduto?
3.
In un discorso del febbraio 1794, allorché il Terrore è in pieno svolgimento, Robespierre delinea il modello di società verso il quale egli intende guidare la Francia, con l’augurio implicito che possa estendersi a tutta l’umanità. Egli afferma:
“Noi vogliamo sostituire, nel nostro paese, la morale all’egoismo, la probità all’onore, i principi alle usanze, i doveri alle convenienze, l’impero della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo del vizio al disprezzo della sventura, la fierezza all’insolenza, la grandezza dell’animo alla vanità, l’amore della gloria all’amore del denaro, la buona gente alla buona compagnia, il merito all’intrigo, il genio al bello spirito, la verità al lustro, l’incanto della felicità alla noia della voluttà, la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei grandi…”
In questo modello è riconoscibile in una delle sue espressioni più limpide quello che io definisco il “sogno” degli introversi: il sogno di un mondo affrancato dai falsi valori culturali e sociali e restituito ad una sorta di fedeltà totale ai valori depositati nelle sfere più profonde della natura umana.
Il termine “sogno” non va inteso nel senso peggiorativo di un’utopia priva di fondamento. Come per molti aspetti fa fede l’esperienza di Robespierre, il suo fondamento è nel modo d’essere stesso dell’introverso che comporta una moralità naturale, un’aspirazione incoercibile verso un modello di vita elevato, il rifiuto dei falsi valori, ecc.
Se questo modo d’essere viene vissuto coerentemente, sulla base del rimanere fedele a se stesso, l’introverso diventa un esemplare eccellente della specie umana.
Capita, però, spesso che egli giunga a ritenere che tutti gli esseri umani vengono al mondo con la stessa sensibilità sociale e morale, le stesse aspirazioni, la stessa intuizione della “grandezza”.
Questa confusione fa sì che, nell’interazione con il mondo reale, storico, l’introverso viene ad urtare contro la normalità, caratterizzata comunemente da una tendenza univoca all’adattamento al mondo così com’è o addirittura da una strenua difesa ideologica dello stesso, compresi gli aspetti oggettivamente ingiusti o moralmente contestabili. L’urto traumatico produce spesso una delusione che, anziché connotare quel modello come un’utopia destinata, forse, a realizzarsi attraverso la storia, e di cui qualcuno comunque deve essere testimone, si traduce in una rabbia più o meno intensa contro gli esseri umani, come se essi fossero indegni del loro statuto – di soggetti dotati di diritti universali, di senso di giustizia e di ragione.
In genere, gli eccessi di rabbia e di intolleranza non hanno conseguenze socialmente deleterie. In gran parte gli introversi sono esseri assolutamente inoffensivi.
In Robespierre, invece, dato il potere di cui è giunto a disporre, essi si sono tradotti in decisioni e comportamenti del tutto contrastanti con la sua empatia e con le sue idee riguardo alla dignità dell’essere umano e al carattere “barbaro” della pena di morte.
Egli è rimasto, insomma, vittima del suo nobile sogno e di una congiuntura storica che sembrava aperta alla sua realizzazione; vittima, dunque, di un modello ideale e di un’illusione prospettica.
Non si finirà mai di riflettere sulle interazioni tra soggettività individuale e circostanze storico-sociali.