1.
Scritto, a seguito di un ciclo di conferenze universitarie, nel 1963 e aggiornato nel 1994, il libro di Bernard Lewis può vantare, a prova della sua obiettività, di essere stato tradotto in ebraico sotto l'egida del Ministero israeliano della difesa e in arabo sotto quella della Fratellanza Musulmana. Si tratta in effetti di un'opera singolare il cui ampio respiro, descrivendo le interazioni tra Islam e Occidente nel corso dei secoli fino ad oggi, realizza la formula aurea del pensiero storico, quella per cui il passato spiega il presente e il presente illumina il passato.
Il leit-motiv del libro è esposto nel primo capitolo, nel quale si rileva il significato fondamentale che la religione musulmana ha svolto nell'aggregare popoli ed etnie le più diverse e nel riattivare i fasti legati alle antiche civiltà (egiziana, mesopotamica, persiana) fiorite nella regione mediorientale:
"Il Medio Oriente è la patria di tre grandi religioni: il giudaismo, il cristianesimo, l'islamismo. Tutte e tre vi sono ancora presenti: una ha prevalso. Negli ultimi quattordici secoli, il Medio Oriente è diventato soprattutto il paese dell'Islam, il centro geografico e spirituale del mondo islamico, dove è nata la fede musulmana e la civiltà dell'Islam ha ricevuto la sua prima formulazione, quella classica." (p. 14)
"Ci fu un periodo, non tanto tempo fa, in cui l'impronta dell'Islam sul Medio Oriente sembrava sbiadire: ma era tutt'altro che cancellata, e oggi è più nitida che mai.
Ala religione persone diverse attribuiscono significati diversi. In Occidente la religione è soprattutto un sistema di fede e di culto, separato (e in epoca moderna di solito subordinato) rispetto alla collocazione nazionale e politica, ma per i musulmani significa molto di più. L'Islam è una civiltà Non si può negare che tra i popoli musulmani siano sopravvissute caratteristiche e tradizioni locali, nazionali e regionali, che in epoca moderna sono andate acquisendo importanza sempre maggiore, ma su tutti i popoli che le hanno accettate la fede e la legge dell'Islam hanno impresso un marchio d'identità comune che permane anche una volta perduta la fede o abbandonata la legge. Questa identità si fonda in prima istanza sul credo musulmano: "Dio è unico e Muhammad è il suo profeta", sul Corano e sulle tradizioni, nonché su tutto il sistema raffinato di teologia e di diritto che ne deriva. Nelle dottrine dell'Islam quale si è storicamente determinato, oltre a precetti morali e rituali e a dogmi teologici, rientra molto di quel che in Occidente verrebbe definito diritto: norme di diritto civile, penale e perfino costituzionale. Per il credente musulmano tradizionale queste norme promanano dalla medesima fonte e posseggono la medesima autorevolezza delle norme di comportamento e di culto." (p. 28)
Il collante di una religione totalizzante, che non accetta di ridursi a fede e culto privato e intende permeare l'intera organizzazione sociale e politica, è di fondamentale importanza per capire le vicissitudini mediorientali legate all'impatto con l'Occidente. Tale impatto è di antica data, comincia con l'espansione stessa dell'Islam a partire dal VI° secolo dopo Cristo, raggiunge il suo acme con l'attacco all'Impero bizantino e l'occupazione della Spagna. La dinastia ottomana succede a quella degli Omayadi e assicura coesione a tutti i paesi islamici: "Protetti dalle invasioni grazie alla potenza militare ottomana e della realtà grazie all'armamentario delle dottrine tradizionali, i popoli del Medio Oriente hanno continuato ad accarezza un sogno antico quanto l'umanità, quello dell'auotsufficienza a credere, come hanno fatto anche altre società prima e dopo di loro, nell'immutabile e incommesurabile superiorità del loro modo di vivere, e a disprezzare il barbaro occidentale infedele dall'alto della loro immacolata dottrina corroborata dal potere militare." (p. 38)
Il declino si avvia sul finire del XVII° secolo, con il fallito assalto a Vienna, e prosegue lungo tutto il corso del secolo seguente che vede la progressiva ingerenza nei paesi islamici della Gran Bretagna e della Francia. Quest'ingerenza diventa massima dopo la caduta dell'Impero ottomano seguita alla prima guerra mondiale, allorché il territorio mediorientale finisce con l'essere colonizzato, sotto forma di mandati, dalle due potenze europee. Solo dopo la seconda guerra mondiale, i paesi islamici, eccezion fatta per la Palestina, raggiungono l'indipendenza.
La valutazione dell'impatto dell'occidente con l'Islam è ardua. Esso "ha portato grandi vantaggi e ne porterà sicuramente altri, sotto forma di ricchezza e di comodità. Di conoscenze e di prodotti, di aperture di nuove strade un tempo chiuse L'occidentalizzazione però - opera di occidentali ma, più ancora, di occidentalizzatori - ha anche portato con sé trasformazioni di valore discutibile. Una di queste è la disintegrazione e frammentazione politica della regione. Fino a non molto tempo fa c'era nel Medio oriente un sistema politico consolidato, con lo scià come re di Persia e il sultano come sovrano o signore supremo del rimanente. Può darsi che non sempre i suoi sudditi amassero il sultano, ma lo rispettavano e, quel che più conta, lo accettavano come legittimo sovrano dell'ultimo tra gli imperi universali musulmani. Il sultano è stato rovesciato e l'impero distrutto. Al suo posto è venuta una serie di re, presidenti e dittatori che per un certo tempo sono riusciti a conquistarsi il consenso e l'appoggio dei rispettivi popoli, mai però quella spontanea e devota accettazione del loro diritto a governare di cui avevano goduto i vecchi sovrani legittimi
Iniseme con la vecchia legalità e fedeltà i popoli del medio Oriente hanno perduto anche la loro antica identità collettiva. Invece di far parte di una millenaria entità politica islamica si sono ritrovati cittadini di una sfilza di territori dipendenti e poi di Stati nazionali, privi per lo più di radici storiche, spesso con nomi presi a prestito e riesumati dal passato, che soltanto oggi cominciano ad affondare le radici nella coscienza e nel senso di appartenenza dei rispettivi popoli.
Allo sgretolamento e al crollo del vecchio ordine politico si è accompagnato un processo parallelo di disintegrazione sociale e culturale. Il vecchio ordine poteva essere decaduto, ma funzionava ancora, con un sistema reciprocamente accettato di fedeltà e responsabilità che legava insieme i diversi gruppi e strati della società. I vecchi modelli furono distrutti, i vecchi valori derisi e abbandonati: per sostituirli s'importò dall'Occidente una nuova serie di istituzioni, leggi e criteri che sono rimasti a lungo estranei e inadatti alle esigenze, ai sentimenti e alle aspirazioni dei popoli musulmani del Medio Oriente." (pp. 52-53)
2.
Su questo sfondo generale, vanno analizzati i tentativi, dovuti all'Occidente ma anche ai suoi ammiratori indigeni, di trapiantare nei paesi islamici i valori liberali e democratici. Tali tentativi sono risultati finora deludenti. In effetti, "solo tre sono i paesi del Medio Oriente contemporaneo in cui la democrazia politica ha funzionato con un certo successo e per un lasso di tempo ragionevole: Israele, Libano e Turchia. Questi sono anche i tre Stati più europei della regione: il primo non è islamico, il secondo è islamico solo a metà, e il terzo, pur essendo islamico per intero, vanta una lunga storia di occidentalizzazione e laicizzazione." (p. 67) Occorre concludere, come pensa qualcuno, che l'Islam e la democrazia sono incompatibili, che esista cioè qualcosa nel modello islamico del comportamento sociale e politico tale da ostacolare o impedire il buon funzionamento delle istituzioni parlamentari" (p. 67)? In linea di principio, no: "L'Islam è vigorosamente ugualitario e tanto il Corano quanto la tradizione musulmana rifiutano e condannano esplicitamente qualsiasi forma di privilegio ereditario. A stabilire il rango e il prestigio devono concorrere il merito, l'osservanza dei precetti religiosi e il successo personale, non la discendenza definita da parametri razziali o sociali." (p. 68); inoltre, "certi aspetti della tradizionale civiltà islamica quali la tolleranza, la mobilità sociale e il rispetto della legge sono decisamente favorevoli ad un'evoluzione democratica." (p. 73) Come spiegare dunque il fatto che i tentativi di introdurre la democrazia liberale, con poche e atipiche eccezioni, sono fallite?
La causa principale è, secondo Lewis, da ricondurre al fatto che, nel periodo in cui l'esperimento fu tentato, mancavano i presupposti per cui esso potesse avere successo: "Un sistema politico preso bell'e pronto non soltanto da un altro paese, ma addirittura da un'altra società, imposto dall'alto e dall'esterno per mano di governanti occidentali o occidentalizzati, non poteva reagire adeguatamente alle tensioni e agli sforzi della società islamica mediorientale. La democrazia venne instaurata per decreto autocratico Il risultato fu un ordinamento politico avulso dal passato e dal presente del paese, e irrilevante ai fini delle sue esigenze future." (pp. 74-75) Le responsabilità dell'Occidente, da questo punto di vista, sono innegabili: "il sistema mandatario, che avrebbe dovuto addestrare alla responsabilità, invece fornì un addestramento superiore all'irresponsabilità." (p. 75) In breve: "molti dei fattori economici e sociali che hanno contribuito a far funzionare la democrazia in altre parti del mondo non erano presenti in Medio Oriente, o almeno non c'erano nel periodo decisivo in cui fu tentato l'esperimento." (p. 77) In particolare, il ceto medio era scarsamente rappresentato, la classe operaia industriale esisteva appena, le masse contadine e il sottoproletariato urbano erano povere, ignoranti e disorganizzate.
Il fallimento delle esperienze liberali lasciò uno strascico di avversione nei confronti dell'occidente imperialista e capitalista. Tale avversione contribuì ad alimentare il sogno di un socialismo arabo, ugualitarista e anticapitalista, promosso da Gamal 'Abd al-Naser e confluito infine nel partito Ba'th. Anche "la rivoluzione socialista, come le costituzioni liberali, venne imposta dall'alto, non per rispondere ad una richiesta popolare e nemmeno grazie alla vittoria di un movimento socialista o della classe lavoratrice, ma per decisione di regimi militari. " (p. 82) Anch'essa è miseramente fallitafallita.
3.
I fallimenti delle esperienze di democrazia liberale di socialismo arabo hanno aperto la strada al nazionalismo etnico, vale a dire il panarabismo: "Alla causa panaraba hanno dato un ulteriore contributo il possente patrocinio giuridico e pubblico da parte dei governi arabi, l'incorporazione del panarabismo nel programma ufficiale di almeno uno dei principali partiti politici, il Ba'th, e il suo incoraggiamento da parte di altri. L'accettazione formale e pubblica del panarabismo è in effetti arrivata al punto d'incorporare questa ideologia nelle costituzioni di molti paesi arabi." (p. 118) Il problema è che "mentre sostenevano - a parole - gli ideali del panarabismo i vari governi dei paesi arabi perseguivano i propri interessi particolari, che escludevano la subordinazione dei rispettivi Stati e governi a unità centralizzate più estese con sede altrove." (p. 118) Per questo motivo, anche il panarabismo è andato incontro ad un declino via via che si è definita la "crescente delusione degli arabi per i successivi tentativi di conseguirlo" (p. 120) ed è subentrata la presa di coscienza che "vero obbiettivo dei dirigenti panarabisti fosse non tanto l'unità quanto l'egemonia." (p. 120)
Tutti questi fallimenti consentono di spiegare la "rivolta dell'Islam", che parte da lontano e, dopo un periodo di eclisse, è giunta negli ultimi venti anni a configurarsi sotto forma di fondamentalismo e a porsi sul piano di una guerra dichiarata nei confronti dell'occidente: "Dall'inizio della penetrazione occidentale nel mondo islamico sino ai nostri giorni le reazioni più originali, caratteristiche e significative, sia sul piano politico, sia sul piano intellettuale, hanno assunto carattere islamico. Queste reazioni si sono concentrate sui problemi della fede e della comunità sopraffatta dagli infedeli, più che su quelli del paese o della nazione invasa dagli stranieri. I movimenti di reazione e di rivolta più poderosi, quelli che hanno suscitato le emozioni più forti e raccolto il più vasto consenso, sono stati a loro volta religiosi o comunitari per origine e, talvolta, anche per forma di espressione. Nella sua lunga contrapposizione alla civiltà dell'Occidente il mondo islamico ha attraversato fasi successive di rinascita e resistenza, reazione e rifiuto. Fino all'ascesa del nazionalismo nel diciannovesimo secolo - e, qua e là, nel ventesimo - fu in termini religiosi che venivano formulati i problemi, proposte e dibattute le varie soluzioni. Durante il periodo in cui il pensiero politico dei paesi mediorientali fu dominato dal nazionalismo e da altre ideologie di derivazione occidentale, il sentimento religioso e la solidarietà religiosa non figuravano in primo piano, nei programmi, nei manifesti e nelle polemiche del ceto modernizzatore di politici e professori, giornalisti e intellettuali; mantenevano però la propria presa sulla maggior parte della popolazione." (p. 124)
Questa presa sulla popolazione, che è stata minimizzata dall'Occidente, giustifica la lenta crescita della rivolta islamica sino all'esplosione del fondamentalismo. Preparata da vari pensatori, il "risveglio" dell'Islam prende corpo nel secondo dopoguerra, allorché nascono leghe religiose che "riaffermando fervidamente i valori, le credenze, i criteri dell'Islam, si trovarono molto più in sintonia con i sentimenti dei ceti inferiori oppressi animati da spirito di rivolta contro i propri padroni occidentalizzati non meno che contro lo stesso Occidente." (p. 142) In tutte le leghe islamiche, dalla Fratellanza musulmana alla Fida'iyan-i Islam (I devoti dell'Islam) fino ad Al Qaeda, si ritrova la stessa miscela di idealismo e di violenza. A tutte, infatti, che pure teorizzano l'uso della violenza, si può riferire l'analisi che un autore fa della Fratellanza musulmana: "nella loro attività è presente l'encomiabile sforzo costruttivo di edificare una società moderna basata sulla giustizia e sull'umanità, estrapolando dai valori migliori consacrati nella tradizione del passato. Questo sforzo rappresenta in parte la volontà di fare piazza pulita della degenerazione in cui è caduta la società araba, dell'opportunismo sociale sostanzialmente privo di principi che s'intreccia con la corruzione individuale; di tornare ad un fondamento della società che si caratterizzi per l'accettazione di criteri morali e di una visione integrata, e di procedere verso un programma di conseguimento attivo di obiettivi popolari da parte di un insieme efficacemente organizzato di idealisti disciplinati e fidati. In parte rappresenta invece la volontà di spazzar via l'inerte dedizione ad un ideale irrilevante, statico e meramente trascendentale; e di trasformare l'Islam da entusiasmo sentimentale di ammiratori puramente inerti o tradizionalisti di professione, legati nel pensiero e nell'azione ad un'epoca trascorsa, in forza efficace che si dedichi ad affrontare i problemi moderni." (p. 144)
La violenza del fondamentalismo islamico turba profondamente l'Occidente, ma non le masse islamiche che vedono in essa il riscatto da una frustrazione secolare e lo strumento attraverso cui si può realizzare un ideale profondamente radicato nell'immaginario popolare. Sottolineare il primo aspetto, criminalizzandolo, senza cogliere in esso l'espressione (sia pure oggettivamente criminale) del secondo, è il limite che impedisce all'Occidente di adottare una strategia che non si riduca all'inutile confronto sul piano della forza.
La protesta dei fondamentalisti "è rivolta contro l'intero processo evolutivo che nell'ultimo secolo o più ha trasformato gran parte del mondo musulmano, creando strutture nuove e proclamando nuovi valori. I riformatori e i loro simpatizzanti hanno visto in queste trasformazioni un processo di modernizzazione indispensabile per sopravvivere in un mondo dominato da potenze più ricche e più forti. Per i fondamentalisti queste trasformazioni sono malefiche e disgregatrici: i loro valori minano la moralità islamica e le loro strutture sovvertono la legge musulmana." (p. 147) in conseguenza di questo, "l'obbligo della guerra santa o gihad, a cui sono tenuti tutti i musulmani, è, prima ancora di affrontare eventuali nemici esterni, quello di distruggere il tiranno in patria, rendendo in tal modo possibile la restaurazione di una società veramente islamica retta dalla legge islamica. Dopo di che, con l'aiuto di Dio, l'eliminazione del nemico esterno, la cui penetrazione sia stata resa possibile dalla peccaminosità e dalla debolezza dei musulmani, sarebbe cosa relativamente facile." (p. 147)
Il progetto fondamentalista è radicale e apparentemente assurdo e anacronistico. Il problema è che esso gode di un largo sostegno: "I fondamentalisti hanno dimostrato ripetutamente, contro tutti i loro concorrenti, di saper disporre delle parole d'ordine e dei simboli più efficaci, delle argomentazioni più comprensibili e convincenti, sia nel criticare i difetti di un regime vecchio e screditato, sia nel formulare le aspirazioni ad un ordine nuovo e migliore che lo sostituisca." (p. 152)
4.
Il libro di Lewis suggerisce alcune riflessioni sull'islamismo radicale.
L'interpretazione che il fondamentalismo, attraverso Bin Laden, dà della storia del Medio Oriente a partire dalla fine della prima guerra mondiale ad oggi è sicuramente faziosa, vittimistica e per alcuni aspetti paranoica. Eccezion fatta per la corruzione dei capi politici arabi occidentalizzati, essa rimuove del tutto le contraddizioni intrinseche all'Islam, e drammatizza le responsabilità dell'Occidente, le cui interferenze e ingerenze nel mondo musulmano sono univocamente ricondotte a una volontà imperialistica di assoggettamento e di sfruttamento. Per quanto paranoica, però, questa lettura storica non è priva di fondamento. Sia sul piano politico che su quello culturale, l'Occidente ha dimostrato nei confronti dell'Islam, almeno a partire dal XVIII° secolo, un'enorme presunzione di superiorità e non ha tenuto conto del profondo radicamento sociale della religione islamica. Certo, agli occhi degli occidentali la vocazione autocratica e teocratica dell'Islam è un indizio di arretratezza e di fanatismo. Il problema è che tale vocazione fa riferimento ad un quadro di valori, ugualitaristici e comunitaristici, che è vissuto come irrinunciabile dalle popolazioni islamiche. Dato che tali valori si sono affermati e sono stati recepiti com'espressione della tradizione classica dell'Islam, non c'è da sorprendersi che essi vengano ritenuti imprescindibili dalla religione. E' vero che quei valori, se si fa eccezione, forse, per l'originaria comunità di Maometto, non si sono mai realizzati storicamente. Essi però risuonano, nella coscienza e nell'immaginario dei musulmani, come il riferimento sul quale si fonda l'aspirazione ad un mondo giusto regolato dalla Legge.
Per combattere il fondamentalismo islamico, sarebbe necessario alimentare nelle masse la speranza che l'ugualitarismo e la giustizia sociale possano affermarsi su di un piano politico separato dalla religione. Alcuni opinionisti occidentali, illuminati rispetto alla media vincolata allo stereotipo della barbarie terroristica, sono coscienti di questa necessità. Essi ritengono che la lotta al terrorismo non possa prescindere dalla soluzione dei problemi sociali dei quali esso si fa carico, strumentalizzandoli a fini politici. Ma cosa significa questo se non anzitutto, da parte dell'Occidente, scindere l'alleanza con i vertici politici musulmani che hanno prodotto tali problemi, appropriandosi della ricchezza sociale e condividendola con gli occidentali? Cosa significa se non assumere il dramma palestinese, riguardo al quale le responsabilità occidentali sono enormi, come problema prioritario da risolvere?
La speranza deve maturare all'interno del mondo musulmano. Sconfitto il socialismo arabo, occorre augurarsi che la cultura islamica riabiliti la tradizione di tolleranza e di rispetto dell'altro ch'è ad essa intrinseca non meno del ricorso alla violenza giusta. Proporre, invece, come soluzione il modello occidentale, che ormai rifiuta esplicitamente l'ugualitarismo e subordina l'equità all'efficienza, non può che generare una reazione di rigetto e alimentare negli islamici, nonostante una realtà sociale infinitamente contraddittoria, un sentimento di assoluta superiorità culturale e morale.
L'espressione massima di tale sentimento è il culto della morte, che viene provocatoriamente opposto all'attaccamento alla vita proprio dell'Occidente, che esprime il culto dell'individuo. In quanto comunitaristico, l'Islam elegge la umma - la comunità dei credenti - al ruolo di unica realtà che, con la sua persistenza, trascende il tempo, e in nome della quale l'esistenza individuale va sacrificata. Aberrante per l'Occidente, questa concezione del rapporto tra individuo e comunità rende insignificante il ricorso alla repressione.
La lotta contro il terrorismo è ispirata da una logica che non tiene in alcun conto questa concezione. Per i musulmani, l'Islam è una realtà che trascende il tempo e i singoli individui. Pensare che la cattura di alcuni personaggi (Bin Laden, Al Zawahiri, il mullah Omar, ecc.) possa arginare il terrorismo significa ignorare che, nell'ottica integralista, il capo della rivolta è Dio, e che quei personaggi sono solo suoi umili servi sostutuibili.
Le farneticazioni di Bin Laden, associate ad atti terroristici ripugnanti, sono sistematicamente iscritte dai politici e dagli opinionisti occidentali nell'ambito della follia criminale e del fanatismo barbarico. Le denunce che esse comportano nei confronti dell'Occidente, per quanto attribuiscano a questo responsabilità che non ha, non sono però prive di fondamento. Occorrerà tenerne conto per uscire da una spirale infinita di violenza.
Per quanto riguarda i cittadini occidentali, ciò significa prendere atto che la nostra civiltà, come essa è sperimentata da chi sta al suo interno, non coincide con la realtà sperimentata dal resto del mondo.
Aiutare l'Islam ad uscire dalla crisi facendo riferimento al fanatismo paranoico che in esso si è generato lascia il tempo che trova. E' più importante alimentare, nella coscienza occidentale, un ragionevole e critico rimorso, e una più profonda comprensione della storia degli ultimi due secoli.
Aprile 2004