1.
La recensione di questo volume antologico, che è in realtà il manifesto di una scuola storica sorta in Francia nel lontano 1929 con la rivista Les Annales, è dovuta a due motivi: uno di ordine personale, l'altro di ordine metodologico.
Nell'Autobiografia intellettuale ho fatto cenno all'impatto che la scoperta e lo studio della nuova storia hanno avuto nella mia formazione e nella costruzione della teoria struttural-dialettica. Senza tale scoperta, difficilmente avrei potuto organizzare una serie d'intuizioni tratte dall'analisi per pervenire alla definizione di un inconscio sociale che permea tutti i rapporti interpersonali e incide potentemente nella strutturazione della personalità, soprattutto per quanto concerne la funzione superegoica. L'utilità del concetto di inconscio sociale, al di là della possibilità che esso offre di comprendere la struttura profonda delle singole esperienze soggettive e il significato non meramente privato dei conflitti psicodinamici, consiste nel consentire di risalire, dalle esperienze stesse, a problematiche di vasta portata, prodotte dalla storia, che le investono e danno ad esse un significato indiziario di più ampi processi psicosociologici.
L'inconscio sociale cui fanno riferimento i nuovi storici non ha nulla a che vedere con l'inconscio collettivo junghiano. Esso è un prodotto della storia, un prodotto culturale che definisce modi di vedere, di pensare, di sentire e di agire che scorrono al di sotto della superficie degli eventi e influenzano inesorabilmente tutte le soggettività che appartengono ad un determinato contesto. L'inconscio sociale si trasmette attraverso la catena delle generazioni, e dunque anche all'interno di ogni famiglia da padri a figli, ma secondo modalità prevalentemente inconsce. Esso serve a favorire la replicazione culturale, a stabilizzare la cultura, e oppone resistenza ad ogni cambiamento. L'importanza di questo concetto per la psicoanalisi non può essere minimizzato.
In quest'ottica, per fare un solo esempio, ho affrontato il problema della dipendenza femminile dall'uomo, che caratterizza il disagio di un numero rilevante di donne nel nostro contesto sociale. Certo, ogni soggetto femminile ha una sua storia. Il confluire, però, delle esperienze le più diverse in una via finale comune, quella per cui una donna senza un referente maschile si sente inutile e insussistente richiede, per essere spiegato, di tener conto del modo in cui storicamente è stata definita l'identità e la funzione femminile, e che sopravvive a livello d'inconscio sociale. Tanto questo è vero che lo statuto di "naturale" dipendenza della donna si ritrova ancora inconsciamente in soggetti che hanno avuto una militanza femminista e coltivano una cultura paritaria.
Sotto il profilo metodologico, l'importanza della nuova storia consiste soprattutto nell'aver promosso e alimentato l'esigenza di una scienza interdisciplinare che raccolga i contributi di tutte le scienze umane e sociali nella direzione di una panantropologia. Per quanto tale esigenza sia stata portata avanti dagli storici francesi in un'ottica panstorica che, se non misconosce, di certo non dà grande spazio ai fattori neurobiologici, non v'è dubbio che essa rappresenta ancora oggi un richiamo metodologico fondamentale per riorganizzare un campo del sapere ancora troppo frammentato.
Tale richiamo è esplicitato in maniera precisa dal curatore nel capitolo introduttivo. Tra gli sviluppi della nuova storia, egli, infatti, ne segnala due la cui portata, nella prospettiva panatropologica, è indubitabile:
"Il primo, nel campo stesso delle scienze dell'uomo, è l'interesse per la psicoanalisi. Si può addirittura parlare della nascita di una storia psicoanalitica" (p. 35) il cui sviluppo è stato bloccato da due fattori: "la difficoltà per la psicoanalisi di un passaggio scientifico dall'individuale al collettivo e la diffidenza di molti studiosi verso il pensiero di Jung." (p. 35)
E' superfluo dire che io ritengo che tale blocco possa essere facilmente superato valorizzando il ruolo della funzione superegoica, che connette immediatamente ogni esperienza soggettiva alla storia del gruppo di appartenenza e, attraverso di essa, alla storia sociale tout-court. In quest'ottica, il concetto di "mentalità" messo a frutto dagli storici francesi, la cui novità Le Goff sottolinea equiparandolo ad un "soffio di aria fresca" (p. 37), svolge un ruolo essenziale di raccordo tra psicoanalisi e storia. In questa stessa ottica, l'analisi dei documenti, che rappresentano l'inevitabile aggancio della nuova storia alla realtà, si apre su di una frontiera assolutamente inesplorata in passato, vale dire la dimensione dell'immaginario, vale a dire con una "percezione del sociale che - quando se ne analizzino bene i rapporti con le altre realtà storiche - ci porta così addentro nel cuore della società." (p. 44)
Il secondo sviluppo è "quello che tende ad abbassare, se non ad abbattere, le barriere tra le scienze umane (e la storia prima di tutto) e le scienze della vita. Il desiderio della nuova storia di costruire una storia dell'uomo totale, col suo corpo e la sua psiche situati nella durata sociale, e la preoccupazione di taluni grandi biologi di fare della storia della loro scienza uno strumento di lavoro non più esteriore ma interno e di allargare le loro ricerche alle dimensioni dell'ecologia umana ricorrendo all'analisi della storia, della geografia, dell'antropologia, della sociologia, della demografia oltreché alla biologia propriamente detta lasciano intravedere grandi prospettive. " (pp. 46 - 36)
Alla luce di questi sviluppi, secondo Le Goff si possono avanzare tre ipotesi sul futuro della storia:
"O la storia, proseguendo nella sua pressione sulle altre scienze umane, le assorbirà in una pan-storia, scienza globale dell'uomo, degli uomini nel tempo.
O si giungerà a una fusione tra le tre scienze sociali più vicine: storia, antropologia e sociologia, [che configurerà una] "antropologia storica".
Oppure, rinunciando ad essere senza frontiere e a flirtare con tutte le altre scienze dell'uomo, la storia si ritaglierà un proprio territorio, operando una nuova "frattura epistemologica". (p. 45)
La seconda ipotesi, estesa anche alla psicologia e alla psicoanalisi, oltre ad essere la più praticabile, è a mio avviso la migliore. Una panantropologia richiederà il confluire e l'integrazione di vari saperi in una disciplina della soggettività storica. Ogni individuo sperimenta se stesso nell'arco della sua esistenza temporale e in rapporto al contesto attuale di cui fa parte. Cionondimeno, ogni individuo appartiene, dal livello neurobiologico a quello psicologico e culturale, alla storia tout-court.
2.
Oltre all'introduzione, il libro costa di nove corposi saggi redatti da diversi autori. Per quanto solo una lettura di tutto il libro possa dare appieno il senso di un nuovo orizzonte che si è schiuso nella comprensione dei fatti umani, mi sembra opportuno focalizzare l'analisi sui contenuti di più immediato interesse per una nuova scienza del disagio psichico.
Un primo tema, peraltro fondamentale, è una diversa scansione del tempo storico. I fenomeni storici, che coinvolgono tutta l'umanità, si realizzano, di fatto, sotto forma di eventi unici e irripetibili, dunque nel tempo immediato o breve della cronaca, sotto forma di congiunture, vale a dire di situazioni la cui evoluzione può essere apprezzata solo sulla scala dei tempi medi, in pratica dei decenni, e sotto forma di strutture, vale a dire di situazioni che sembrano conservarsi quasi immobili nel corso del tempo finché non sopravviene un cambiamento che può essere apprezzato solo sulla base di un lungo periodo, talora secolare. Ciò definisce la storia di ogni società come un fiume la cui superficie scorre rapidamente, i cui strati intermedi fluiscono più lentamente e i cui strati profondi sono quasi vischiosi, inerziali. C'è dunque il tempo breve dell'evento, quello medio delle congiunture e quello lungo delle strutture.
Che cosa d'importante comporta questa nuova concettualizzazione del tempo storico? La scoperta, sorprendente, che, in rapporto ad ogni struttura sociale o, se si vuole ad ogni civiltà, i fattori inerziali, quelli che oppongono la massima resistenza ai cambiamenti, sono i fattori mentali, le "sovrastrutture" ideologiche che, sotto forma di quadri mentali, irretiscono le soggettività, spesso a livello inconscio, configurandosi come "prigioni o recinti mentali" di lunga durata. In pratica ciò significa che ogni società e ogni civiltà è sottesa da sistemi di valore culturali che appartengono all'inconscio sociale, definiscono in certo qual modo almeno i confini di ciò che occorre sentire, pensare e agire in nome dell'appartenenza e della condivisione di una comune identità.
La definizione dell'inconscio sociale è fornita in maniera estremamente precisa da Philippe Ariès: "Cos'è l'inconscio collettivo? Sarebbe meglio dire il non cosciente collettivo. Collettivo: comune a tutta una società in un dato momento. Non-cosciente: non percepito o scarsamente percepito dai contemporanei, in quanto spontaneo, facente parte dei dati immutabili della natura, delle idee ricevute o che sono nell'aria, luoghi comuni, norme di convenienza e di morale, conformismi o proibizioni, espressioni ammesse, imposte o escluse dei sentimenti e dei fantasmi." (p. 166)
L'appartenenza della mentalità alla lunga durata apre un fronte di ricerca alla quale nessuna scienza dell'uomo può essere indifferente: quella della storia della mentalità. Che cosa appartiene a questa storia? I temi sono molteplici. Anzitutto occorre considerare i temi di frontiera tra il biologico e il sociale, la natura e la cultura: il lavoro, la famiglia, le età della vita, l'educazione, il rapporto tra uomo e donna e tra le generazioni, il sesso, la malattia, la morte. Dimensioni che, a coloro che vivono in un determinato contesto, appaiono naturali e che, invece, implicano un complesso reticolo di valori culturali storicamente fondati. Al di là di questo piano, si danno altri temi ancora più complessi: l'alimentazione, la malattia mentale, la delinquenza, la sociabilità tradizionale, la festa, il mito e le tradizioni popolari, i pregiudizi, la religione, ecc.
E' evidente, da quest'elenco sommario, che la storia della mentalità si distacca dai contenuti tradizionalmente ritenuti oggetto degli studi storici - i grandi eventi politici e militari - e s'interessa alla vita dei soggetti che vivono nel cono d'ombra della storia tradizionale, vale a dire le masse e all'interno di esse le singole persone. Essa dunque fornisce un contributo prezioso ad una psicosociologia individuale e collettiva che non intende negare l'unicità e l'irripetibilità dell'esperienza dell'individuo, ma non può ignorare che tale unicità si realizza a partire da un patrimonio comune di credenze, valori, norme, luoghi comuni, pregiudizi che appartengono per l'appunto all'inconscio sociale, ma, sia pure in misura diversa, sono rappresentati all'interno di ogni soggettività, e la vincolano ad una storia sociale transgenerazionale.
In un'ottica psicoanalitica, il riferimento alla mentalità è essenziale per capire la struttura e la funzione del Super-io che è, per l'appunto, l'istanza psichica che mantiene in vigore i valori culturali trasmessi attraverso la catena delle generazioni. In virtù di questo riferimento, il rapporto tra soggettività e storia sociale si pone immediatamente come un rapporto che definisce l'infrastruttura culturale della personalità.
Già solo per questo aspetto, la nuova storia fornisce un contributo prezioso ad una nuova scienza dell'uomo e del disagio psichico che prescinde dal considerare la soggettività come una dimensione che può essere compresa solo tenendo conto delle interazioni interpersonali e intersoggettive, e non può non tenere conto della storia sociale all'interno della quale essa si struttura e dalla quale riceve un lascito che non è immediatamente riducibile a ciò che, di fatto, cioè a livello cosciente viene trasmesso coscientemente da una generazione all'altra.
3.
Ma c'è di più. Nella misura in cui la mentalità definisce un quadro normativo proprio di una determinata società o civiltà, essa definisce complementarmente i margini di tale quadro e ciò che cade al di fuori di esso - i fenomeni per l'appunto marginali o devianti: la povertà, la delinquenza, la malattia mentale.
La storia dei marginali è un'altra frontiera che la nuova metodologia ha aperto, sulla base di un principio che può apparire ovvio, ma che è infinitamente suggestivo: "L'ipotesi di partenza è che una società si rivela in modo completo nel modo in cui si comporta verso i propri margini. In teoria si danno due sole possibilità: quella di un'integrazione dei marginali e quella della loro esclusione." (p. 284) In ordine a quale criterio si realizza l'una o l'altra possibilità? Il criterio è quello dell'utilità sociale che "indica prima di tutto quale vantaggio materiale la collettività si attende dagli agenti sociali" (p. 284), "stabilisce inoltre il limite al di là del quale la sicurezza dei beni, delle persone e dell'ordine costituito sembra, a toro o a ragione, minacciata" (p. 284) e "indica infine un frontiera della conoscenza, al di là della quale si collocano coloro che sfuggono alle tassonomie sociali." (p. 284)
La Storia della follia di Foucault è un esempio magistrale dell'applicazione di questa nuova metodologia allo studio del rapporto tra normalità e anormalità psichica. Essa implica la costanza della spinta all'esclusione dei malati di mente dacché la civiltà occidentale ha assunto la razionalità astratta come metro di misura della normalità. Se ci si chiede oggi come stanno le cose, si giunge alla conclusione che quella spinta si è solo allentata senza essersi esaurita. Il problema sta nel capire quanto tempo si richiederà perché la normalità scopra nella follia il suo doppio, e ne recuperi il significato di denuncia di un ordine di cose inadeguato ai bisogni umani.
Un'ulteriore frontiera aperta dalla nuova storia, la più incerta e nello stesso tempo la più singolare, riguarda il campo dell'immaginario "costituito dall'insieme delle rappresentazioni che superano il limite posto dai dati dell'esperienza e dalle associazioni deduttive ad esse legate." (p. 291) Si tratta di una frontiera il cui interesse è innegabile per quanto sfiori l'azzardo. Infatti, "il limite tra il reale e l'immaginario si rivela variabile, mentre al contrario il territorio attraversato da questa linea di confine resta sempre e comunque identico, poiché non è altro che l'intero mondo dell'esperienza umana, dagli aspetti più collettivi e sociali a quelli più intimi e personali: la curiosità per gli orizzonti lontani nello spazio e nel tempo, per terre inconoscibili, per le origini egli uomini e delle nazioni; l'inquietudine e l'angoscia ispirate dalle incognite dell'avvenire e del presente, la coscienza del corpo e del vissuto,l'attenzione ricolta agli involontari moti dell'anima, ai sogni per esempio; gli interrogativi sulla morte; le alternanze tra il desiderio e la sua repressione; la costrizione sociale, generatrice delle manifestazioni di evasione o di rifiuto, per mezzo del racconto utopistico ascoltato o letto, per mezzo dell'immagine o del gioco, delle arti della festa e dello spettacolo." (p. 291)
In quest'ottica, è facile riconoscere storicamente, a partire dal Medio Evo, la follia come un dimensione privilegiata, e per alcuni aspetti ossessiva, dell'immaginario collettivo. Le cose sono di certo cambiate, ma come e quanto nessuno lo sa. C'è da pensare comunque che il fantasma del malato di mente manicomializzato incomba ancora nell'immaginario collettivo.
La storia dell'immaginario schiude anche la possibilità di una collaborazione tra le scienze storiche e la psicoanalisi. Per quanto tale collaborazione si configuri come oltremodo difficile, essa porta a chiedersi se l'immaginario soggettivo, quale per esempio si manifesta nei sogni, debba considerarsi come una dimensione strettamente privata o se esso non sia influenzato, per alcuni aspetti almeno, dalle circostanze storiche. Gli effetti a livello di psicologia collettiva e individuale dell'11 settembre, compresi gli incubi e i sogni, lasciano pensare che anche gli strati più profondi della mente umana non siano fuori del tempo.
4.
Ipotizziamo una cultura e una società che recepisse le istanze della nuova storia. La nuova cultura comporterebbe necessariamente una percezione relativistica dei valori su cui essa si fonda, lo sforzo di recuperare la loro origine e il loro significato storico, e la tendenza a credere in essi senza assolutizzarli. Questa cultura permetterebbe un più facile confronto con le altre, un'apertura all'integrazione di sistemi di valore diversi e il superamento definitivo dell'etnocentrismo.
A livello soggettivo, nessun individuo penserebbe di essere causa sui o l'espressione delle circostanze immediate con cui ha interagito, bensì un'impasto complesso di tradizioni di lunga data ch'egli ha interiorizzato, con cui ha interagito e che, in una certa misura, concorrono a mantenere, al prezzo di una qualche mistificazione, l'unità e la coerenza della sua identità. Ogni individuo sarebbe sollecitato a interrogarsi su ciò che sente, su ciò che pensa, su come e perché agisce non solo in termini psicologici e sociologici, bensì storici.
Di che mondo si tratterebbe? Di un mondo precario, privo di certezze, assillato dal dubbio, lacerato dalla relatività, o non piuttosto un mondo più consapevole, più riflessivo, più tollerante, più aperto al confronto e al cambiamento, più motivato a capire nella misura in cui questo è possibile?
La panantropologia richiede una rivoluzione culturale. La nuova storia ha aperto questo orizzonte e ha costruito una rete di concetti e di strumenti culturali che possono promuoverla. Il suo debito nei confronti della psicoanalisi è fuor di dubbio, ma tale debito è ampiamente ripagato da un contributo che non potrà mai essere minimizzato: quello per cui, al fondo della soggettività, non c'è il caos, bensì le influenze della storia sociale.
E' superfluo aggiungere in quale misura, nel mio piccolo, ritengo di avere dato credito a tale contributo.
Aprile 2004