Konrad Lorenz

L’aggressività

il Saggiatore, Milano 2005

1.

Pubblicato per la prima volta in Italia nel 1969 con il titolo, tradotto dall’originale, Il cosiddetto male: per una storia naturale dell’aggressività, il saggio si può ritenere il manifesto del determinismo biologico, che ha ricevuto la sua consacrazione con la pubblicazione, a pochi anni di distanza, delle opere di Edward O. Wilson, fondatore della sociobiologia (Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, 1979; Sulla natura umana, Zanichelli, 1980).

Le date, nella storia della cultura, hanno una notevole importanza. Il determinismo biologico, pur avendo lontani antecedenti, che si possono fare risalire alla psichiatria e alla criminologia ottocentesche, si è delineato nel Novecento in opposizione radicale al determinismo psicologico e sociologico, che accentuava in maniera estrema, sulla base della plasticità del cervello, l’influenza dei fattori storico-culturali.

Come sempre accade quando un dibattito sulla natura umana si avvia su di una base scientifica, le componenti ideologiche che inesorabilmente caratterizzano le opposte teorie tendono a degenerare. Nella temperie degli anni ‘70, esso si è rapidamente politicizzato. I deterministi genetici sono stati identificati come conservatori o addirittura criptofascisti, i deterministi ambientali come progressisti o criptomarxisti.

Sono occorsi non meno di trent’anni perché il dibattito si ponesse nuovamente sul piano di un confronto critico più dialettico e articolato. La prova che il tempo fa giustizia degli estremismi ideologici, che poco hanno a che vedere con la scienza, si può ricavare anche dalla prefazione e dalla postfazione al libro scritte da Giorgio Celli rispettivamente nel 1969 e nel 2005. Nella prefazione, Celli, sia pure con una sfumatura di dubbio, aderisce all’ipotesi di fondo di Lorenz che identifica nell’aggressività umana l’espressione di un istinto “spontaneo” e in qualche misura deterministico. Non per caso conclude lo scritto con queste perentorie parole: “Considero il meccanismo con cui ognuno di noi aliena da tempo la propria responsabilità nei determinismi economici, sociologici o storici, alquanto logoro, se non addirittura spregevole.” (p. 20)

Nella postfazione, intitolata C’era una volta Lorenz, Celli, pur confermando sostanzialmente l’ipotesi di fondo del saggio (il mister Hyde che è in noi) avanza almeno un dubbio sull’intreccio tra istinto e cultura, scrivendo:

“Se Lorenz ha torto, se l'aggressività ha esclusivamente delle origini culturali, noi andremmo a uccidere, e a farci uccidere in guerra soltanto perché indottrinati allo scopo? Saremmo non degli automi biologici, prigionieri delle nostre pulsioni, della bestia che è in noi, ma delle marionette ideologiche, fanatizzate a puntino dai nostri capi carismatici? Secondo me, la verità, come spesso succede, sta nel mezzo. Per mandare qualcuno a morire per una causa, per la patria ad esempio, bisogna sicuramente imbottirgli la testa con dei discorsi, farlo marciare a passo di parata tra due ali di folla in delirio, additargli sul suo orizzonte la stella della gloria, e versargli alfine nella gavetta una buona dose di grappa per convincerlo ad andare all'assalto fuori dalla trincea. Non c'è dubbio, però, qui sta il punto, che è facile, troppo facile militarizzarci, e nasce il sospetto più che legittimo, che esista in noi una predisposizione di fondo, un consenso oscuro, che ci dispongono a partire cantando per il fronte e a massacrare con tanta diligenza i nostri simili. Sembra esserci, insomma, nella cosiddetta natura umana una proclività che funziona come l'eminenza grigia dell'aggressione, per cui quando noi recitiamo con irreprensibile convinzione la parte dell'eroe sui campi di battaglia, è vero che qualcuno ci dà l'imbeccata dalla guardiola del suggeritore, ma è del pari vero che siamo ben disposti a dargli ascolto e a obbedirgli.” (p. 369)

Di fatto, il problema dell’aggressività umana intra-specifica (e anche inter-specifica, considerando il trattamento che l’uomo riserva agli animali da allevamento e al numero di specie che, con la devastazione dell’ambiente, destina alla scomparsa) è ancora del tutto attuale. Si può giustamente sostenere che i mass-media, rendendo puntualmente conto delle guerre, delle violenze, degli omicidi, amplificano il fenomeno. Sarebbe ingenuo, però, non riconoscere che se i comportamenti in senso proprio distruttivi sono sostanzialmente minimali in rapporto ai sei miliardi di esseri umani che abitano il Pianeta, l’éscalation della violenza e della cultura della violenza è inquietante.

Questo fenomeno giustifica una rilettura critica di Lorenz, perché, al di là delle contestazioni che gli sono state rivolte, i fatti sembrano dargli ragione.

2.

Il tema del saggio è “la pulsione combattiva nell’animale e nell’uomo, diretta contro appartenenti alla stessa specie.” (p. 25) Già l’enunciazione implica una continuità biologica, almeno sotto il profilo istintivo, tra animali e uomo che giustifica un approccio etologico. Secondo Lorenz: “l'etologia sa, della storia naturale dell'aggressività, quel tanto che basta a permetterle alcune formulazioni circa le cause di diversi suoi malfunzionamenti presso l'uomo. L'indagine sulle cause di una malattia non è certo il ritrovato di una efficace terapia, ma ne è uno dei presupposti.” (p. 26)

L’indagine postula di rispondere ad un quesito di ordine generale:

“Che scopo perseguono, in sostanza, gli esseri viventi combattendo fra loro? La lotta è un processo onnipresente nella natura, tanto i meccanismi comportamentali come le armi d'offesa e di difesa di cui si serve sono perfezionati e chiaramente frutto di una pressione selettiva imposta dalle rispettive funzioni conservative delle specie, che è senza dubbio nostro dovere porci questo quesito darwiniano.

Il profano, fuorviato dal sensazionalismo della stampa e del cinema, immagina abitualmente il rapporto esistente fra «le bestie feroci» dell'«inferno verde» della giungla come una lotta all'ultimo sangue di tutti contro tutti. Ancora non molto tempo fa vi erano in giro film nei quali per esempio si vedeva una tigre del Bengala lottare con un pitone e, subito dopo, quest'ultimo con un coccodrillo. Posso assicurare in tutta coscienza che in condizioni normali cose di questo genere non accadono mai. Che vantaggio otterrebbe uno di questi animali ad annientare l'altro? Nessuno di loro interferisce negli interessi vitali dell'altro!

A quanto mi consta si crede in genere anche, e ci si sbaglia, che l'espressione di Darwin «la lotta per l'esistenza», di cui s'è fatto largo e cattivo uso come slogan, si riferisca alla lotta fra specie diverse (lotta inter-specifica). In realtà la «lotta» alla quale alludeva Darwin, e che fa progredire l'evoluzione, è in prima linea la concorrenza fra parenti prossimi (lotta intra-specifica). Quel che fa scomparire una specie così come è oggi, o che la tramuta in una per qualche particolare diverso, è 1'«invenzione» vantaggiosa caduta per caso in grembo a uno o a pochi appartenenti alla specie per via d'un bel colpo nell'eterna partita a dadi delle varianti ereditarie. I discendenti del fortunato soverchiano presto,[…] tutti gli altri, finché quella determinata specie risulta formata solo da individui cui è propria la nuova «invenzione».” (p. 60)

La lotta interspecifica, di fatto, esiste e si realizza in tre forme: il comportamento aggressivo del predatore verso la preda, la reazione aggressiva della preda verso il predatore, la "reazione critica" di colui che, attaccato da un nemico più forte, non vedendo altra soluzione, reagisce con la forza della disperazione attaccando l'aggressore.

Riguardo alla prima, Lorenz scrive:

“Lo scontro fra predatore e preda non è lotta nel vero senso della parola. Certamente la zampata per catturare preda può somigliare al gesto con cui il leone ripaga un suo concorrente, per il resto anche un fucile da caccia somiglia esteriormente ad una carabina militare. Ma la motivazione interna dei gesti, dal punto vista della fisiologia del comportamento, è fondamentalmente diversa nel cacciatore e nel combattente. Il bufalo non suscita 1'«aggressività» leone che lo abbatte, come il bel tacchino, che con compiacimento ho appena visto appeso in dispensa, non suscita la mia.” (p. 59)

Di fatto, in tutte le sue forme, la lotta interspecifica serve solo alla conservazione della specie. “L'aggressività nel vero e stretto senso della parola” (p. 66) è, in realtà, la lotta intra-specifica. Ma quali funzioni essa assolve?

Questa domanda se l’è posta per primo Darwin che ha trovato una risposta convincente: “per il futuro di una specie è sempre vantaggioso che il più forte di due rivali conquisti un territorio o una femmina ambita.” (p. 67)

Egli ha anche “riconosciuto che la selezione sessuale, la selezione dei più forti e migliori animali per riproduzione, si realizza sostanzialmente attraverso i combattimenti degli animali rivaleggianti, soprattutto dei maschi. La forza del padre offre naturalmente un'immediata garanzia per la buona riuscita della prole di quelle specie in cui egli, partecipa attivamente alla cura piccoli e soprattutto alla loro protezione.” (p. 76)

Oggi, però, “l'ecologia ha dimostrato una ancor più essenziale funzione svolta dall'aggressività per la conservazione della specie. Ecologia deriva dal greco oikos, casa, ed è il ramo della biologia che tratta dei molteplici rapporti intercorrenti fra l'organismo e il suo naturale ambiente di vita, di cui fanno naturalmente parte anche tutti gli altri animali e i vegetali che ci vivono. Se non vi sono per esempio interessi particolari di una organizzazione sociale che impongano una stretta vita in comune, per ragioni facilmente comprensibili la cosa più conveniente è distribuire i singoli appartenenti a una specie animale il più regolarmente possibile nello spazio vitale da sfruttare. Esprimendo il concetto con un paragone tratto dal comportamento umano: se in una determinata zona o regione, in una città, vogliono vivere un numero relativamente grande di medici, di commercianti, di meccanici, i rappresentanti di ciascuno di questi mestieri faranno bene a sistemarsi il più lontano possibile l'uno dall'altro.

Al pericolo che, in una parte del biotopo a disposizione, una troppo densa popolazione di una specie animale esaurisca tutte le sorgenti di nutrimento e soffra la fame, mentre un'altra parte resti inutilizzata, viene ovviato da una mutua ripulsione che agisce sugli animali della stessa specie influenzando il loro normale spacing out, più o meno nella stessa maniera in cui cariche elettriche vengono distribuite con regolarità su tutta la superficie di un conduttore sferico. Questa è in parole povere la più importante funzione dell'aggressività intra-specifica per la conservazione della specie.” (pp. 66-67)

E’, infatti, “nell'interesse ecologico di ogni specie legata un certo territorio che ognuna pratichi per sé, senza riguardo vera le altre specie, la distribuzione dei suoi individui.”(p. 70)

“Questa aggressività territoriale, un meccanismo molto semplice dal punto di vista della fisiologia del comportamento, assolve in maniera assolutamente ideale il compito di distribuire animali di una stessa specie con «giustizia» rispetto a tutto l'insieme di quella specie, per tutta l'area disponibile. Anche il più debole, sia pure in uno spazio più ristretto, può esistere e riprodursi. Questo è particolarmente importante soprattutto presso quegli organismi che, come alcuni pesci e rettili che acquistano la maturità sessuale molto presto, assai prima di aver raggiunto il loro sviluppo definitivo, e che quindi continuano a crescere. Quale pacifico successo del « principio del male »!” (p. 75)

Alle tre funzioni fondamentali del comportamento aggressivo - la distribuzione equilibrata di esseri viventi della stessa specie nello spazio vitale disponibile, la selezione del più forte attraverso i combattimenti fra rivali e la difesa della discendenza -, occorre poi aggiungere “il ruolo che spetta all'aggressività nella complessa struttura di una società fra animali altamente sviluppati. Nonostante molti individui interagiscano in un sistema sociale, i meccanismi interni di quest'ultimo sono spesso più facili da capirsi che non le interazioni di impulsi in un singolo individuo. Un principio ordinatore, senza il quale non può evidentemente svilupparsi una qualunque convivenza comunitaria fra animali superiori è il cosiddetto principio gerarchico.

Esso consiste semplicemente nel fatto che ognuno degli individui viventi nella comunità sa quale degli altri è più forte o più debole di lui, in modo che ognuno si possa tirar indietro senza lottare davanti al più forte, e possa a sua volta pretendere che il più debole di lui si ritiri senza lottare ogni volta che si incontrino...

L'ampia diffusione dell'ordinamento gerarchico è prova della sua estrema importanza per la conservazione della specie, e ci dobbiamo quindi domandare in che cosa esattamente consista.

La risposta più immediata è naturalmente questa: argina la lotta fra i membri di una comunità. Si può però subito opporre un'altra domanda, se cioè non sia meglio inibire totalmente l'aggressività fra gli individui appartenenti alla stessa società. A questa domanda possono dare molte risposte. In primo luogo può avvenire che […] una società, come per esempio un branco di lupi di scimmie, necessiti imperiosamente di aggressività nei confronti di comunità della stessa specie, e che il combattimento debba quindi venire evitato solo all'interno del gruppo. Secondariamente però è possibile che sia i rapporti di tensione, che sorgono in una comunità dalla pulsione aggressiva e dalle sue conseguenze, sia l'ordinamento gerarchico le conferiscono una struttura e una solidità, benefiche per certi aspetti.” (pp. 81-82)

L’importanza dell’aggressività intra-specifica ai fini della conservazione della specie è, dunque, secondo Lorenz, fuori di dubbio. Ma “proprio il sapere che la pulsione aggressiva è un vero istinto indirizzato prima di tutto alla conservazione della specie, ce ne lascia riconoscere tutta la pericolosità: è la spontaneità dell'istinto a renderlo così pericoloso. Se si trattasse solo d'una reazione a determinate condizioni esterne, come molti sociologi e psicologi hanno sostenuto, la situazione dell'uomo non sarebbe poi così precaria quanto in effetti è. In questo caso si potrebbe infatti ricercare, come norma, i fattori che provocano la reazione ed eliminarli con qualche speranza di successo.” (p. 90)

Purtroppo, però, l’evoluzione non procede sulla base di un progetto, bensì per tentativi ed errori. Ciò implica la possibilità che essa imbocchi “funesti vicoli ciechi.” (p. 78)

Qualcosa del genere, secondo Lorenz, deve essere accaduto per quanto riguarda l’uomo:

“E’ più che probabile che l'intensità distruttiva della pulsione aggressiva, tuttora un male ereditario dell'umanità, sia la conseguenza di un processo di selezione intra-specifica che ha agito sui nostri avi per circa quarantamila anni, ossia per tutto il paleolitico superiore. Quando l'uomo ebbe conquistato le armi, i vestiti, e un principio di organizzazione sociale, per cui poté superare i pericoli della fame, del freddo, e del venir mangiato dai grossi animali feroci, e questi pericoli cessarono di essere i fattori essenziali a determinare la selezione, deve aver avuto inizio una maligna selezione intra-specifica. Il fattore che ora determinava la selezione era la guerra, che le tribù vicine e ostili conducevano loro. Essa deve aver prodotto un'estrema fermentazione di tutte le cosiddette «virtù guerresche», che purtroppo sono ancora oggi molti uomini gli ideali veramente meritevoli d'esser perseguiti.” (p. 80)

La conclusione appare, a dire il vero, un po’ arbitraria. Ripromettendosi di tornare su di essa successivamente (a conclusione del saggio), Lorenz si impegna a fornire le prove che l’aggressività è un istinto spontaneo e particolarmente potente, che tende inesorabilmente alla “scarica” al punto che, se esso rimane inattivo per lungo tempo, “il valore di soglia degli stimoli che lo innescano si abbassa” (p. 92).

In casi eccezionali “l'abbassamento di soglia degli stimoli d'innesco si può dire raggiunga il valore limite zero, nel senso che eventualmente quel determinato movimento istintivo può «esplodere» senza uno stimolo esterno accertabile...

L'«ingorgo» d'una attività istintiva, che ha luogo dopo una lunga assenza degli stimoli che la innescano, non provoca soltanto il descritto aumento della propensione a reagire ma processi molto più radicali che coinvolgono l'intero organismo...

Ci sono pochi moduli comportamentali nei quali, mi rincresce dirlo, abbassamento di soglia e comportamento d'appetenza sono così pronunciati come nell'aggressione intra-specifica.” (pp. 92-93)

3.

Se questo è vero, c’è da chiedersi come sia possibile che le specie sopravvivano. Lorenz ritiene che ciò dipenda da due diversi meccanismi selezionati dall’evoluzione: la ritualizzazione e la ri-direzione della pulsione aggressiva.

La ritualizzazione consiste “nel sorgere d’un moto istintivo la cui forma ricalca quella d'un comportamento variabile e originato da diverse motivazioni indipendenti” (p. 104). Ciò significa che “certi comportamenti perdono nel corso della filogenesi la loro originale funzione per diventare pure cerimonie simboliche, puri movimenti rituali” (p. 105):

“Attraverso il processo di ritualizzazione filogenetica, nasce ogni volta un nuovo istinto completamente autonomo, che per principio è indipendente esattamente quanto qualsiasi altra delle cosiddette «gran » pulsioni - la fame, la sessualità, la fuga e l'aggressività -, e che, esattamente come queste, ha seggio e voto nel grande parlamento degli istinti. Questo fatto è a sua volta importante per il nostro tema perché molto spesso è compito particolare degli impulsi formatisi da poco, attraverso la ritualizzazione, di opporsi in quel parlamento all'aggressività, di dirottarla in canali innocui e di frenare i suoi effetti dannosi alla conservazione della specie.” (p. 109)

Secondo Lorenz è agevole porre un parallelismo tra ritualizzazione filogenetica e quella storico-culturale, specificamente umana:

“Sia nella ritualizzazione filogenetica che in quella storico-culturale i moduli comportamentali di recente formazione raggiungono autonomia molto particolare. Sia i riti istintivi che quelli storico-culturali diventano motivazioni indipendenti di comportamento creando nuovi fini o scopi che l'organismo ricerca per se stessi. E’ nella natura di fattori indipendentemente motivanti che i riti trascendono loro funzione originaria di comunicazione e diventano capaci di assolvere ai loro compiti secondari ma ugualmente importanti di controllare l'aggressività e di formare un legame fra determinati individui.” (p. 120)

“Nella ritualizzazione storico-culturale, le due fasi di quello sviluppo che dalla comunicazione conduce al controllo dell'aggressività e, da questo, alla formazione di un legame, sono sorprendentemente analoghe a quelle che si svolgono nell'evoluzione dei riti istintivi... La triplice funzione del sopprimere la lotta all'interno del gruppo, del dare coesione al gruppo e dell'opporlo come entità indipendente ad altre unità simili, è svolta nel rito di origine storico-culturale in una maniera così rigorosamente analoga da meritare profonda considerazione.

Ogni gruppo umano che oltrepassi in grandezza quanto può venire unito dall'amore personale e dall'amicizia, dipende per la sua esistenza da queste tre funzioni di moduli comportamentali storico-culturali ritualizzati. Il comportamento sociale umano è talmente permeato da ritualizzazione storico-culturale che non ce ne possiamo render conto giusto a causa della sua onnipresenza. Anzi, per portare esempi di comportamenti umani che con certezza possano venir descritti come non ritualizzati, dobbiamo ricorrere a moduli la cui esecuzione in pubblico è proibita, come lo sbadigliare e lo stirarsi senza inibizioni, il ficcarsi le dita nel naso o il grattarsi in posti non nominabili. Tutto quello che vien chiamato «maniera» è naturalmente rigidamente determinato da ritualizzazione storico-culturale. Le «buone» maniere sono per definizione quelle che sono caratteristiche del proprio gruppo e noi ci conformiamo costantemente alle loro imposizioni tanto che sono diventate per noi una «seconda natura». Non realizziamo in genere né la loro funzione di inibire l'aggressività né quella di formare un legame. Eppure sono esse che producono quello che i sociologi chiamano «coesione di gruppo»...

L'aggressività prodotta da ogni deviazione dalle maniere e dai manieristi caratteristici di un gruppo costringe tutti i suoi membri ad attenersi rigidamente e uniformemente a queste norme di comportamento sociale.” (pp. 120-121)

Un aspetto particolare della ritualizzazione è da ricondurre ai meccanismi comportamentali “che inibiscono i movimenti d’attacco a carattere cruento” (p. 160) all’interno della specie.

La scoperta di questi meccanismi si può ritenere (con il fenomeno dell’imprinting) il contributo più importante che Lorenz ha dato all’etologia. Esso è noto per quanto riguarda le specie animali che, essendo predatrici abituali, sono provviste di strumenti offensivi micidiali:

“Presso carnivori solitari, come esempio presso alcuni felidi o mustelidi è sufficiente che l'eccitazione sessuale provochi un'inibizione temporanea dell'aggredire e predare, che possa durare sufficientemente a lungo da permettere un'unione dei sessi senza pericoli. Dove però animali che uccidono grosse convivono costantemente in società, come per esempio i lupi e i leoni, devono essere all'opera meccanismi inibitori sicuri e di permanente efficacia, che siano assolutamente autonomi e indipendenti dagli variabili dei singoli individui. Così si arriva al paradosso singolarmente commovente che i predatori più sanguinari, soprattutto il lupo che Dante chiama la «bestia senza pace», siano fra gli animali di più sicure inibizioni a uccidere che ci siano sulla terra. Quando miei nipotini giocano con i coetanei è assolutamente necessaria una sorveglianza da parte d'un adulto, ma rimango tranquillissimo quando li lascio soli in compagnia dei nostri grandi bastardi cani lupo-Chow che verso la selvaggina sono estremamente sanguinari. Le inibizioni sulle quali conto non sono affatto qualcosa che il cane ha appreso divenendo animale domestico, ma senza alcun dubbio sono un’eredità presa dal lupo, dalla «bestia senza pace».

Evidentemente le combinazioni di stimoli che fanno funzionare i meccanismi inibitori sociali hanno caratteristiche molto diverse da specie a specie... Dato che l'inibizione, come verrà più precisamente mostrato, è un processo assolutamente attivo che si oppone a una pulsione ugualmente attiva e la impedisce o la modifica, è assolutamente giusto parlare d'un innesco dei processi inibitori,” (p. 176)

Per quanto concerne la lotta tra individui adulti, l’innesco è attivato dagli atteggiamenti di sottomissione o di pacificazione del rivale più debole:

“Il lupo volta via la testa dall'avversario che gli è superiore e gli offre così il lato marcato estremamente vulnerabile del suo collo...

Presso il lupo e il cane sembra effettivamente che chi implori la grazia offra al vincitore le sue vene giugulari...

Sarebbe in effetti un'impresa suicida quella di un animale che volesse offrire all'improvviso al nemico, che fino a un momento prima era in forte eccitazione combattiva, una parte vulnerabilissima del corpo indifesa, confidando proprio sui fatto che la contemporanea interruzione degli stimoli innescanti la lotta è sufficiente a impedire l'attacco. Sappiamo troppo bene quanto sia lenta la trasformazione di uno stato dal prevalere di una pulsione a quello di un'altra, e possiamo tranquillamente affermare che un semplice passar sopra degli stimoli che innescano la lotta provocherebbe solo un placarsi molto graduale dell'umore aggressivo. Dove dunque l'improvviso mettersi in posizione di sottomissione frena l'imminente attacco, possiamo supporre con notevole certezza che venga innescata una inibizione attiva attraverso quella determinata specifica situazione di stimolo.

E certamente così per il cane, presso cui ho ripetutamente visto che il vincitore, quando il vinto assumeva improvvisamente la posizione di sottomissione e offriva il collo indifeso, eseguiva i movimenti dello scuotere mortale «a vuoto», e cioè molto vicino al collo del moralmente vinto, però a bocca chiusa e quindi senza mordere.” (pp. 179-180)

I meccanismi di inibizione non valgono solo per i rivali che si sottomettono, ma anche per i cuccioli e per le femmine:

“Più impenetrabile è il meccanismo inibitore che impedisce ai cani adulti di tutte le razze canine europee di mordere seriamente cuccioli sotto un limite d'età che varia dai sette agli otto mesi... In base a che cosa venga riconosciuta la giovinezza d'un compagno di specie non si riesce a spiegarlo completamente. Certamente la grandezza non conta, perché un minuscolo vecchio ringhioso fox terrier è nei riguardi di un enorme cucciolo di San Bernardo, che lo secca enormemente con le sue goffe proposte di gioco, ugualmente gentile e inibito nell'aggredire come verso un cucciolo della stessa età della sua razza. Probabilmente i caratteri essenziali, che attivano questa inibizione, risiedono nel comportamento del giovane cane, forse anche nel suo odore. Questo ci viene suggerito dal modo con il quale un cucciolo addirittura sollecita un adulto a controllargli l'odore: ogni volta che l'avvicinarsi d'un adulto gli sembra piuttosto minaccioso si butta sulla schiena presentando in questo modo la nuda pancia infantile e emette poi un paio di gocce d'urina, che vengono subito annusate dall'altro.

Quasi più interessanti e misteriosi dei freni attraverso i quali giovani animali cresciuti ma ancora goffi vengono protetti, sono quei meccanismi che impediscono un comportamento «non cavalleresco» verso il «sesso debole»…

Fra gli animali però c'è un gran numero di specie presso le quali, in condizioni normali, ossia non patologiche, non accade mai che un maschio attacchi seriamente una femmina. Questo vale per esempio per i cani e senza dubbio anche per il lupo. Diffiderei profondamente d'un cane maschio che morde una cagna e consiglierei estrema prudenza al suo padrone soprattutto se ci dovessero essere dei bimbi in casa, perché nelle inibizioni sociali di questo cane evidentemente qualcosa non è a posto.” (pp. 169-170)

Dato che le femmine sono dotate, secondo Lorenz, di un’aggressività pari al maschio, si potrebbe pensare che esse “i cui maschi hanno inibizioni assolute a morderle, siano nei riguardi del sesso. maschile molto insolenti e arroganti. Misteriosamente invece è vero proprio il contrario...

Anche cagne, soprattutto di quelle razze vicine al lupo nordico, rivolgono al maschio prescelto, nonostante che questi non le abbia mai morse e abbia dimostrato loro in modo tangibile la sua superiorità, una venerazione addirittura servile confinante quasi con quella che nutrono per il loro padrone umano.” (pp. 170-171)

“C'è una serie di atteggiamenti di sottomissione che derivano dai moduli comportamentali infantili, come altri che sorgono senza dubbio dal comportamento della femmina durante l'accoppiamento. Nella loro funzione attuale però questi gesti non hanno nulla a che fare né con infantilismo né con sessualità femminile, ma significano in termini umani nient'altro che: «Per favore, non mi far del male!» E probabile che presso i corrispondenti gruppi animali, ancor prima che questi movimenti espressivi raggiungessero un più generico significato sociale, inibizioni specifiche impedissero l'attacco di piccoli e femmine, anzi si potrebbero fare ulteriori considerazioni e cioè che presso di loro il gruppo sociale più grande si è sviluppato dalla coppia e dalla famiglia.” (p 182)

Affiora, così, il tema del vincolo affettivo tra membri della stessa specie. L’affettività, però, secondo Lorenz, comporta l’inibizione ma non una trasformazione dell’aggressività intra-specifica, che riconosce un ulteriore meccanismo di controllo, la ri-direzione, vale a dire lo scaricarsi dell’aggressività contro l’estraneo:

“Fra le varie cerimonie di pacificazione con le loro diverse origini ci restano ancora da discutere quelle che a mio parere sono le più importanti per il nostro tema, e cioè quei riti di pacificazione e di saluto nati da movimenti aggressivi ri-diretti... Si differenziano da tutte le cerimonie di pacificazione finora esposte per il fatto che non innescano un'inibizione, ma distolgono l'aggressività da certi compagni di specie per orientarla in direzione di altri. Ho già detto che questa ri-direzione del comportamento aggressivo è una delle più geniali invenzioni dell'evoluzione, ma è ancor più di questo. Dovunque si possa osservare la ri-direzione nei riti di pacificazione la cerimonia è legata alla individualità dei partner che vi partecipano. L'aggressione di un determinato individuo viene stornata da un altro individuo, ugualmente determinato, mentre lo sfogo della stessa aggressione verso tutti gli altri compagni di specie indistinti non viene impedito. Così nasce la differenza fra l'amico e lo sconosciuto, e per la prima volta appare sulla terra il vincolo personale fra gli individui.” (p. 184)

4.

L’antropomorfizzazione degli animali comporta la credenza che laddove si dà un’aggregazione sociale si diano o debbano darsi vincoli affettivi. In realtà l’affettività sembra un prodotto tardivo dell’evoluzione. L’aggregazione, infatti, può avvenire sia sotto forma di schiera anonima sia sotto forma di ordinamento sociale senza legami personali sia infine sotto forma di un gruppo che lotta sistematicamente contro un altro della stessa specie.

Riguardo alla schiera anonima Lorenz scrive:

“Da diversi sociologi è stata sostenuta l'opinione che la famiglia sia la forma più primitiva di compagine sociale e che da essa derivino filogeneticamente tutte le diverse forme di associazioni che ritroviamo presso gli animali superiori. Questo può essere limitatamente giusto per alcuni insetti che formano stati e possibilmente anche per alcuni mammiferi, ivi compresi i primati ai quali appartiene l'uomo; ciò non deve però venire generalizzato. La forma più primitiva della «società» nel senso più ampio della parola è la formazione di schiere anonime, di cui i pesci viventi nel libero mondo marino ci offrono l'esempio tipico. All'interno del branco non c'è alcuna struttura di nessuna specie, nessuno che conduce e nessuno che viene condotto, ma solo un enorme assembramento di elementi uguali. Certamente questi si influenzano a vicenda, certamente ci sono alcune semplicissime forme di « comunicazione fra gli individui che formano il branco. Se uno percepisce un pericolo e fugge, contagia col suo umore tutti gli altri che hanno percepito il suo spavento. Quanto si sparga poi il panico in un grande branco di pesci, se sia in grado di indurre tutto il branco a voltarsi e a fuggire è una questione puramente quantitativa, legata esclusivamente al numero di individui che si spaventano e fuggono e dall'intensità con cui lo fanno. Anche situazioni stimolo che attraggono il pesce possono trovare una risposta in tutto il branco anche se un solo individuo ha ricevuti gli stimoli. Il suo risoluto nuotare in una determinata direzione trascina sicurissimamente altri pesci e di nuovo è una questione di numero se tutto il branco si lascia trascinare o no.

L'azione puramente quantitativa, in certo senso molto democratica, di questo processo chiamato dai sociologi « induzione sociale » significa che un branco di pesci è tanto più lento nelle decisioni quanto più individui comprende e quanto più forte è il loro istinto gregale.” (pp. 194-195)

“L'effetto dell'aggressività intra-specifica che divide e distanzia gli animali di una stessa specie è essenzialmente opposto a quello dell'istinto gregale e perciò una forte aggressività e una strettissima tendenza a formare schiere si escludono ovviamente a vicenda. Però espressioni meno estreme dei due meccanismi di comportamento non sono affatto incompatibili. Anche presso alcune specie che formano grandissimi assembramenti, gli individui non si avvicinano mai gli uni agli altri oltre una certa distanza minima, resta sempre costante spazio intermedio fra due animali...

Nel caso generico e tipico manca presso animali di gruppo ogni aggressività e con essa ogni distanza individuale...

Presso moltissime specie volatili è uso ritirarsi, passato il tempo della cova, nell'anonimia del grande stormo; così si comportano le cicogne, gli aironi, le rondini e molti altri uccelli canori, presso i quali i coniugi di una coppia durante l'autunno e l'inverno non restano uniti da nessun legame...

Solo presso poche specie d'uccelli le coppie o i genitori e i figli restano uniti anche nei grandi stormi migratori, così presso i cigni, le oche selvatiche e le gru. In genere il gran numero di membri e la formazione serrata nella maggior parte dei grandi stormi d'uccelli rendono ovviamente difficile il restare uniti di determinati individui, cosa, del resto, a cui la maggior parte di questi animali non tiene affatto. La forma di associazione è necessariamente del tutto anonima, a ogni singolo essere la compagnia di un compagno di specie non è più gradita che quella di ogni altro. L'idea dell'amicizia personale […] non vale proprio per quegli esseri gregari, ogni camerata va bene quanto un altro, difficilmente ne trovi un migliore, ma altrettanto difficilmente uno peggiore, non avrebbe quindi nessun senso incaponirsi su un determinato individuo come amico o compagno.” (pp. 197)

“I legami che tengono unito un simile gruppo anonimo sono di natura molto diversa da quelli che conferiscono forza e consistenza alla nostra società. Ciononostante si potrebbe pensare che l'amicizia personale e l'amore siano potuti benissimo nascere in grembo alla pacifica associazione anonima, un pensiero che viene a maggior ragion suggerito dal fatto che la schiera anonima si è sicuramente formata filogeneticimente, molto prima del legame personale. Per evitar un malinteso voglio quindi anticipare fin d'ora il tema principale del XII capitolo: la formazione della schiera di anonimi e l'amicizia personale si escludono a vicenda perché quest'ultima è curiosamente sempre legata al comportamento aggressivo. Non conosciamo neppure un solo essere capace di amicizia personale che manchi di aggressività. Particolarmente efficace si dimostra questa connessione presso quegli animali aggressivi soltanto nel periodo di riproduzione, che per il resto sono, privi di aggressività e formano schiere anonime.” (p. 198)

Si danno altri tipi di organizzazioni sociali senza legami personali:

“Negli animali ci sono anche rapporti fra determinati individui che possono durare per lunghi periodi, anche per tutta la vita, senza che per questo nascano fra loro legami personali. Come fra gli uomini ci sono soci d'affari che lavorano bene insieme ma che non si sognerebbero mai di incontrarsi al di fuori, delle ore d'ufficio, così presso alcune specie animali ci sono dei legami individuali che si formano solo mediatamente, attraverso un interesse dei partner per una «impresa» comune, o per meglio dire esistono legami che consistono in questa impresa. L'amico degli animali che tende a umanizzarli non sarà contento di sapere che moltissimi uccelli, fra cui anche taluni, maschio e femmina, che convivono per tutta la vita in «matrimonio», non ci tengono affatto a stare insieme, letteralmente «non sanno che farsene» l'uno dell'altra, a meno che non abbiano appunto una funzione comune da svolgere nel nido o al servizio della futura prole.” (p. 203)

Ci sono infine organizzazioni sociali, la più tipica delle quali è quella dei ratti, caratterizzate “dal combattimento collettivo di una comunità contro un'altra della stessa specie. Tenterò di mostrare, come le disfunzioni di questa forma sociale di aggressività intra-specifica assumano il ruolo del «male» nel vero senso della parola, e come, appunto per questo, la forma d'ordinamento sociale in questione ci offra un modello su cui si possono evidenziare alcuni pericoli che minacciano noi stessi.

Nel loro comportamento verso i membri della loro comunità gli animali che ora descriveremo sono dei modelli di virtù sociale. Ma si mutano in vere belve appena hanno a che fare con appartenenti a una comunità che non sia la loro.

Le comunità di questo tipo sono sempre troppo ricche d'individui perché questi si possano conoscere fra loro individualmente: l'appartenenza a una determinata società è nella maggioranza dei casi riconoscibile da un determinato odore proprio a tutti i suoi membri.” (p. 214)

Per quanto riguarda i ratti, all’interno del gruppo la “tolleranza, anzi la tenerezza che contraddistingue il rapporto fra madri mammifere e i loro figli, non comprende soltanto il padre ma anche il nonno con tutti gli zii, le zie, i prozii, le prozie, i cugini e così via, fino a non so quale generazione. Le madri depongono le loro diverse schiere infantili nello stesso nido ed è poco probabile che ognuna di esse abbia cura solo dei propri piccoli. All'interno della grande famiglia non esistono lotte serie, anche se questa contano dozzine di animali. Persino nel branco dei lupi, i cui membri sono altrimenti così cortesi fra loro, i più alti di rango mangiano per primi dalla preda comune. Nella tribù dei ratti non c'è nessun ordine gerarchico. La tribù attacca compatta un grosso animale da preda e i membri più forti portano il contributo maggiore alla sua conquista.. Nel mangiare però, cito Steiniger testualmente, «gli animali più piccoli sono i più invadenti: i più grandi si lasciano portar via di buon grado i bocconi di cibo dai più piccoli. Anche nella riproduzione, gli animali cresciuti per metà o per tre quarti, sotto ogni rispetto più vivaci, hanno la precedenza sugli stessi adulti. Tutti i diritti spettano loro, persino il più forte adulto non contesterà loro nulla. »

All'interno della società non ci sono veri combattimenti, tutt'al più piccoli screzi che vengono sempre liquidati solo con colpi delle zampe anteriori o pedate con le zampe posteriori, mai con morsi. All'interno della tribù non esiste la distanza individuale, al contrario, i ratti sono animali da contatto nel senso di Hediger, che amano toccarsi a vicenda. La cerimonia dell'amichevole presa di contatto, è il cosiddetto «strisciar sotto», che viene praticato particolarmente dagli animali più giovani, mentre animali più grossi esprimono il loro affetto ai più piccoli piuttosto con lo « strisciar sopra ». E’ interessante vedere che è una dimostrazione d'amicizia troppo smaccata di questo tipo a essere la causa più frequente degli innocui litigi all'interno della grande famiglia. In particolar modo se un animale più anziano occupato a mangiare viene troppo seccato da un giovane che gli striscia o sotto o sopra, lo respinge con colpi di zampa o pedate. Gelosia e avidità non sono quasi mai le cause di queste ripulse.” (p. 216)

La quasi assenza di aggressività all’interno del gruppo coincide con la ri-direzione di essa su tutti i membri della stessa specie estranei al gruppo stesso, che, attivato dal diverso odore, appare senza limiti. E’ naturale chiedersi “a che serve l’odio di parte fra le tribù dei ratti? Qual è la funzione per la conservazione della specie che ha prodotto questo comportamento?” (p. 219)

La risposta di Lorenz a questo quesito è inquietante:

“Ebbene, la cosa tragica, e per noi uomini profondamente inquietante, è che questi cari vecchi concetti darwiniani si possono applicare solo laddove siano cause esterne derivanti dall'ambiente extra-specifico a provocare la selezione. Solo in questo caso la selezione produce l'adattamento. Ma dove soltanto la concorrenza fra gli stessi compagni di specie compie la selezione sessuale, sappiamo già che allora sussiste l'atroce pericolo che i compagni di specie si caccino con la loro cieca concorrenza nei più stupidi vicoli ciechi dell'evoluzione...

E’ quindi assolutamente possibile che l'odio di partito che imperversa fra le tribù dei ratti sia effettivamente solo una « invenzione del diavolo », che non serve a nulla. Naturalmente non è escluso che ci siano stati e siano tuttora in opera dei fattori sconosciuti che compiono la selezione rispetto all'ambiente esterno, ma una cosa possiamo asserire con sicurezza: quelle funzioni per la conservazione della specie dell'aggressività intraspecifica e di cui abbiamo imparato l'indispensabilità nel III capitolo, non vengono assolte dai combattimenti fra tribù. Non servono né per la distribuzione nello spazio né per la selezione di forti difensori familiari - questi sono, come abbiamo visto, raramente i padri dei discendenti - né per una qualsiasi delle funzioni elencate nel III capitolo.

E’ anche molto facile capire che il costante stato di guerra che regna fra due grandi famiglie vicine, deve esercitare una potentissima pressione selettiva in direzione di una sempre maggiore abilità nel combattere e che la tribù che è anche di poco inferiore in questo è oggetto di rapido sterminio. Probabilmente la selezione naturale ha messo un premio per famiglie il più possibile popolose, dato che evidentemente i membri di una tribù si sostengono a vicenda nel combattimento contro estranei, cosicché un popolo più piccolo è certo svantaggiato nella lotta contro uno più grande.” (pp. 219-220)

E’ assolutamente evidente che Lorenz omologa le guerre tra i ratti e le guerre umane tra individui che appartengono alla stessa specie, ma a gruppi, etnie o nazioni diverse, e quindi attribuisce alla natura umana un istinto aggressivo molto intenso.

Su questa base, i vincoli affettivi all’interno di un gruppo consentono di re-dirigere l’aggressività verso l’esterno dando luogo, all’interno, ad una pacificazione:

“La cosiddetta modificazione di una funzione è un mezzo di cui servono spesso i due grandi costruttori dell'evoluzione, per adattare a nuovi scopi quei resti di un'organizzazione, la cui funzione è stata sorpassata dal progredire dell'evoluzione. Con ardita fantasia, per un po' di esempi, hanno fatto di un'apertura branchiale che conduce acqua un meato auditivo che contiene aria e trasmette onde sonore, di due ossa della giuntura mascellare due ossicini auditivi, di un occhio parietale una ghiandola endocrina, l'epifisi o pineale, di un arto anteriore di rettile un'ala d'uccello e così via. Ma tutte queste ristrutturazioni sembrano nulla in confronto al geniale capolavoro di aver trasformato semplicemente attraverso la ri-direzione e ritualizzazione, un modulo comportamentale, che non solo era in origine ma che è anche nella forma attuale almeno in parte motivato dall’aggressività intra-specifica in un'azione di pacificazione. Questo non è né più né meno che la conversione di ogni effetto mutualmente ripulsivo dell'aggressività nel suo opposto: la cerimonia resa ritualmente indipendente diventa […] lo scopo perseguito per se stesso, un bisogno, come ogni altro atto istintivo autonomo.

Appunto così diventa saldo il vincolo che lega un compagno all'altro.

Appartiene infatti all'essenza di questa particolare cerimonia di pacificazione, che ognuno degli alleati la possa celebrare solo con l'altro e non con un individuo qualsiasi della sua specie, mentre l'autonoma pulsione aggressiva, da cui è nata, può venire sfogata indiscriminatamente su ogni individuo anonimo della specie.

Bisogna rendersi conto di quale problema quasi insolubile sia qui risolto nella maniera più semplice, più elegante e più perfetta: due animali di un'aggressività addirittura folle che, con il loro aspetto, la loro colorazione e il loro comportamento, sono forzatamente l'uno per l'altro quello che è il drappo rosso per il toro (però solo nel proverbio) devono venir indotti a tollerarsi a vicenda senza attriti nello spazio più ristretto, che è per giunta il luogo del nido, ossia proprio quel posto che ognuno di essi considera centro del suo territorio e dove quindi l'aggressività intra-specifica raggiunge il suo apice assoluto. E questo compito già di per sé difficile viene ora ulteriormente complicato dalla richiesta supplementare che l'aggressività intra-specifica dei coniugi non si indebolisca. Abbiamo appreso nel III capitolo che ogni diminuzione dello stimolo aggressivo contro i vicini della stessa specie verrebbe subito pagata con una perdita di territorio e quindi di pascolo per i futuri discendenti. In queste circostanze una specie «non se lo può permettere» di ricorrere, allo scopo di evitare combattimenti fra coniugi, a cerimonie di pacificazione che, come gli atteggiamenti di sottomissione o i gesti infantili, hanno per presupposto una diminuzione dell'aggressività. La ri-direzione ritualizzata non solo evita questa conseguenza indesiderata, ma per di più sfrutta gli stimoli chiave che inevitabilmente partono dal coniuge e innescano l'aggressione per aizzare il compagno contro il vicino territoriale. Questo meccanismo del comportamento mi sembra senz'altro geniale e oltretutto molto più cavalleresco, che non il comportamento inversamente analogo presso l'uomo che sfoga la rabbia interna contro il caro vicino o contro il suo principale, a casa, la sera, nervoso e irritabile, sulla sua povera moglie!” (pp. 232-233)

La conclusione di Lorenz sul significato del vincolo affettivo è la seguente:

“Come sappiamo dal capitolo VIII ci sono animali assolutamente privi d'aggressività intra-specifica e che restano insieme tutta la vita in schiere saldamente compatte. Si penserebbe che simili esseri sian predestinati a sviluppare un'amicizia permanente e una unione fraterna fra singoli individui, invece proprio fra questi pacifici animali gregari non si incontra mai nulla di simile, la loro compagine è sempre assolutamente anonima. Un vincolo personale, un'amicizia individuale si trovano soltanto negli animali con un'aggressività intra-specifica altamente sviluppata, anzi, questo vincolo è tanto più saldo quanto più aggressiva è la rispettiva specie animale. […] Colui che proverbialmente è il mammifero più aggressivo, la «bestia senza pace » dantesca, il lupo, è il più fedele di tutti gli amici. Se gli animali sono a seconda delle stagioni alternativamente territoriali e aggressivi, e non aggressivi e sociali, ogni legame eventualmente personale si limita soltanto al periodo dell'aggressività.

Il vincolo personale s'è formato nel corso del grande divenire senza alcun dubbio nel momento in cui, presso animali aggressivi, si sia resa necessaria la collaborazione di due o più individui ai fini della conservazione della specie, in genere certo per la cura della covata Il vincolo personale, l'amore, s'è formato senza dubbio in molti casi da aggressività intra-specifica, in diversi casi noti attraverso ritualizzazione di un attacco o di una minaccia ri-diretti. Dato che i riti così formatisi sono legati, alla persona del compagno e dato che poi in qualità di azioni istintive indipendenti diventano un bisogno, essi rendono anche la presenza del compagno un bisogno insopprimibile e il compagno stesso l'animale con la valenza di casa.

L’aggressività intra-specifica è di milioni d'anni più vecchia dell'amicizia personale e dell'amore. Ci sono stati animali per lunghe epoche della storia terrestre che con tutta certezza erano straordinariamente maligni e aggressivi. Quasi tutti i rettili che conosciamo oggi lo sono e non c'è ragione di ritenere che quelli della preistoria lo fossero meno. Ma un vincolo personale ci è noto solo presso i teleostei superiori, gli uccelli e i mammiferi, in gruppi quindi che non sono apparsi sulla terra prima del più antico periodo dell'era mesozoica. Si dà quindi benissimo l'aggressività intra-specifica senza il suo antagonista, l'amore, ma viceversa non c'è amore senza aggressività.” (p. 274)

E’ importante tenere conto che questa considerazione di Lorenz mira a spiegare l’ambivalenza che la psicoanalisi ritiene costitutiva di ogni legame affettivo. Essa, però, non fa riferimento alla psicologia ma alla filogenesi. In questa ottica, l’affettività non è una dimensione autonoma, bensì un derivato della necessità di stare insieme per l’allevamento dei figli: necessità che non si sarebbe potuta realizzare senza un’inibizione ritualizzata e una ri-direzione dell’aggressività stessa.

5.

La filogenesi spiegherebbe, secondo Lorenz, il fatto che l’uomo, animale dotato di ragione, esprime l’aggressività intra-specifica in maniera più drammatica rispetto a tutti gli altri animali.

Questo sorprendente paradosso, che risulterebbe immediatamente chiaro ad un extraterrestre razionale precipitato sulla terra, ha una spiegazione naturale “se assumiamo che il comportamento umano e in particolare il comportamento sociale umano, lungi dall'essere determinato soltanto dalla ragione e dalla tradizione culturale, sia, ancora soggetto a tutte quelle leggi che governi i comportamenti istintivi filogeneticamente adattati. Di queste leggi siamo sufficientemente edotti per via di studi sugli istinti animali. Anzi se il nostro osservatore extraterrestre fosse un etologo competente giungerebbe inevitabilmente alla conclusione che la società umana deve essere costruita in maniera molto simile a quella dei ratti, anch'essi sono e pacifici all'interno del gruppo limitato ma diavoli scatenati contro ogni compagno di specie non appartenente al proprio partito. Se poi il nostro naturalista marziano sapesse anche dell'esplosivo aumento della popolazione, della crescente spaventosità delle armi e della distruzione dell'umanità in alcuni pochi lager politici, non giudicherebbe il nostro futuro più roseo di quello di alcuni gruppi di ratti nemici su di una nave dove i viveri sono quasi del tutto esauriti. E la prognosi sarebbe ancora ottimistica, perché nel caso dei ratti la riproduzione si interrompe automaticamente a un certo livello di sovrappopolazione mentre a tutt'oggi l'uomo non ha trovato un sistema adatto a controllare la cosiddetta esplosione demografica. E poi nel caso dei ratti è molto probabile dopo la grande moria ne restino sempre a sufficienza da assicurare conservazione della specie, mentre dopo la conquista della bomba H non si può affermare lo stesso dell'uomo con altrettanta certezza.

E’ un curioso paradosso che le più grandi doti dell'uomo, le facoltà del pensiero concettuale e del linguaggio verbale, che lo hanno innalzato molto al di sopra di tutte le altre creature e che gli hanno dato il dominio della terra, non siano propriamente una benedizione o perlomeno, se tale, siano una benedizione che gli viene a costare molto cara. Tutti i grandi pericoli che minacciano di estinguere l'umanità sono conseguenze dirette del pensiero concettuale e del linguaggio verbale: hanno cacciato l'uomo dal paradiso dove poteva seguire indisturbato i suoi istinti e fare o non fare quel che gli talentava. C'è una profonda verità nella parabola dell'albero della conoscenza e dei suoi frutti, anche se per far sì che si adatti alla mia visione privata di Adamo devo apporvi un'aggiunta: che la famosa mela era davvero acerba! La conoscenza che nasce dal pensiero concettuale ha privato l'uomo della sicurezza che gli offrivano i suoi istinti ben adattati, molto, molto prima che essa fosse in grado di procurargli un adattamento similmente efficace. L'uomo, come ha detto con tanta giustizia Arnold Gehlen, è per natura una creatura in pericolo.

Il pensiero concettuale e il linguaggio hanno cambiato completamente l'evoluzione umana provocando qualcosa di equivalente all'eredità di caratteristiche acquisite. Noi oggi abbiamo quasi dimenticato che il verbo «ereditare» aveva una connotazione giuridica molto prima di acquisire quella biologica. Quando un uomo inventa, diciamo, arco e freccia, non solo la sua progenie ma l'intera comunità ne eredita la conoscenza e l'uso e li possiede con la stessa sicurezza come se fossero organi cresciuti sui corpo umano. Né la loro perdita è verosimile, o almeno lo è tanto quanto io è il pericolo per un organo di uguale importanza per la conservazione della specie di tornare allo stato rudimentale. Così in una o due generazioni può svolgersi un processo di adattamento ecologico che, nella filogenesi normale e senza l'interferenza del pensiero concettuale, avrebbe richiesto un tempo di un ordine di grandezza molto, molto superiore.” (pp. 300-301)

Ecco dunque il nodo della condizione umana. Con l’ingegno l’uomo, privato di strumenti di offesa naturali, ha prodotto strumenti artificiali - le armi - che hanno inibito i meccanismi naturali di controllo e sono divenute via via più pericolose perché possono essere utilizzate a distanza, senza un’interazione diretta tra chi le usa e le vittime:

“Nell'evoluzione umana non furono necessari meccanismi inibitori che impedissero improvvisi omicidi, perché un uccisione veloce era ogni caso impossibile: la vittima potenziale aveva innumerevoli opportunità di suscitare la pietà dell'aggressore con gesti di atteggiamenti pacificatori. Nessuna pressione selettiva si formò nella preistoria dell'umanità per generare meccanismi inibitori che evitassero l'uccisione di conspecifici finché, tutto d'un tratto, l'invenzione di armi artificiali portò lo squilibrio fra la capacità omicidiale e le inibizioni sociali. Quando questo accadde la posizione dell'uomo fu a momenti quella di una colomba che per un qualche lusus naturae assolutamente eccezionale si ritrovi improvvisamente il becco di un corvo. C’è da rabbrividire al pensiero di un essere della eccitabilità e irascibilità di uno scimpanzé, o di tutti i primati preumani, che brandisce una mazza affilata. L'umanità si sarebbe davvero autodistrutta con le sue prime invenzioni se non fosse stato per il meraviglioso fatto che sia le invenzioni sia la responsabilità sono tutte e due frutto della stessa facoltà specificamente umana del porsi domande.

Non che il nostro antenato preumano, anche nello stadio ancor privo di responsabilità morale, fosse un diavolo incarnato; non era per nulla meno fornito di istinti e di inibizioni sociali di uno scimpanzé che, dopo tutto tutto - a parte la sua irascibilità - è una creatura sociale e amichevole. Ma quali che fossero le sue norme innate di comportamento sociale, esse erano destinate a venir turbate dall'invenzione delle armi. L'umanità è certo riuscita a sopravvivere, ma non ha mai acquistato la certezza d'essere al sicuro dal pericolo dell'autodistruzione. La responsabilità morale e la riluttanza a uccidere si sono senza dubbio rafforzate, ma di pari passo sono progredite anche la facilità e l'impunità emozionale ad uccidere. Tutte le nostre armi da sparo hanno effetto a distanza, per cui l'uccisore non viene a trovarsi nella situazione-stimolo che altrimenti attiverebbe le sue inibizioni a uccidere. I nostri strati emotivi più profondi non registrano minimamente il fatto che il curvare un indice che fa partire un colpo lacera le budella a un altro uomo. E nessun uomo sano andrebbe più a caccia per diporto, neppure della lepre, se, dovendo uccidere la selvaggina coi denti e con le unghie, dovesse ogni volta rendersi emozionalmente conto di quello che in realtà sta facendo.

Lo stesso principio è a maggior ragione applicabile all'uso delle moderne armi comandate a distanza. L'uomo che preme il pulsante d'innesco è così totalmente schermato dal vedere, sentire o altrimenti realizzare emozionalmente le conseguenze della sua azione che la può compiere con impunità -. anche se è afflitto dal peso di una buona immaginazione. Soltanto così si può spiegare come un buon uomo, che non riuscirebbe quasi a dare uno scapaccione ben meritato a un bambino discolo, si ritrovi senz'altro il coraggio di lanciare missili o di stendere tappeti di bombe incendiarie su città addormentate, condannando così a un'orribile morte fra le fiamme centinaia e migliaia di amabili bambini. Il fatto che si tratti di buona gente, di uomini normali ad aver agito in questo modo è impressionante quanto qualsiasi altra diabolica atrocità di guerra.

Come conseguenza indiretta, l'invenzione delle armi artificiali ha prodotto nell'umanità una sgradevolissima predominanza della selezione intra-specifica. Ho già esposto piuttosto diffusamente, nel III capitolo, nel quale si parla della funzione dell'aggressività per la conservazione della specie, e anche nel X, che tratta dell'ordinamento sociale dei ratti, come la concorrenza del compagno di specie, quando guidi la selezione senza alcun rapporto con l'ambiente extra-specifico, possa portare alle alterazioni più curiose e più afunzionali.

Quando l'uomo, per virtù delle sue armi e di altri arnesi, dei suoi vestiti e del fuoco, ebbe più o meno dominato le forze nemiche dell’ambiente extra-specifico, deve aver prevalso uno stato di cose per furono le contro-pressioni delle orde vicine e ostili a diventare il fattore selettivo principale nel determinare i gradini susseguenti dell'evoluzione umana. C'è davvero poco da sorprendersi se il risultato è stato un pericoloso eccesso di ciò che vien definito «le virtù guerresche» dell'uomo.” (pp. 304-306)

Il venire meno nell’uomo delle ritualizzazioni che negli animali arginano l’aggressività intra-specifica è, dunque, più un prodotto della cultura che della natura:

“Il comportamento aggressivo e le inibizioni a uccidere rappresenta soltanto un caso speciale fra i molti in cui i meccanismi comportamentali filogeneticamente adattati vengono turbati nel loro equilibrio dal rapido cambiamento apportato all'ecologia e alla sociologia umana dello sviluppo culturale. Per riuscire a spiegare la funzione della morale responsabile nel ristabilire un tollerabile equilibrio fra gli istinti dell’uomo e le necessità di un ordine sociale culturalmente evoluto, bisogna prima dire alcune parole intorno agli istinti sociali in generale. E opinione comune, condivisa da alcuni filosofi contemporanei, che tutti i moduli comportamentali umani che servono al bene della comunità, in opposizione a quello dell'individuo, siano dettati dal pensiero razionale specificamente umano. Non solo questa opinione è errata ma è vero esattamente l'opposto. Se non fosse per una ricca dotazione di istinti sociali l'uomo non avrebbe mai potuto elevarsi al di sopra del mondo animale. Tutte le facoltà specificamente umane, il potere del linguaggio, la tradizione culturale, la responsabilità morale, si potevano evolvere soltanto in un essere che ancor prima degli albori del pensiero concettuale vivesse in comunità bene organizzate. Il nostro avo preumano era senza dubbio un fedele amico del suo amico, tale e quale uno scimpanzé o persino un cane, tenero e pieno di sollecitudine verso i giovani della sua comunità e pronto a immolarsi per la difesa di questa, molto ma molto prima di sviluppare il pensiero concettuale e di rendersi conto delle conseguenze delle sue azioni.” (pp. 308-309)

Se questo è vero, è evidente per Lorenz che la scoperta del potere micidiale della armi deve avere contribuito a potenziare i meccanismi di ri-direzione dell’aggressività verso l’esterno:

“Possiamo dare per certo che il primo Caino, dopo aver atterrato membro della sua orda con una mazza, fosse profondamente scosso dalle conseguenze della sua azione. Avrà colpito con poca malizia, giusto come un bimbo di due anni può colpire un coetaneo con un oggetto duro pesante senza prevedere l'effetto. Sarà stato spiacevolmente sorpreso che il suo amico non si rialzasse, può persino aver tentato di aiutare a farlo, come vien riferito che l'elefante Wastl abbia fatto col suo custode. Ad ogni modo andiamo sul sicuro se assumiamo che il primo assassino abbia subito riconosciuto tutta l'enormità della sua azione. Non ci sarà voluto molto tempo perché si diffondesse l'informazione che l'uccisione di troppi membri della stessa orda ha per conseguenza un indesiderato indebolimento della medesima.

Non importa quali possano essere state le conseguenze che avranno ridotto l'uso sfrenato della nuova arma, certo si è che già allora la realizzazione di queste conseguenze e quindi una forma di responsabilità, anche se primitiva, deve essere stata all'opera. La prima funzione compiuta dalla morale responsabile nella storia dell'umanità consistette quindi nel ripristinare l'equilibrio perduto fra capacità e inibizione a uccidere. In tutti gli altri punti le pretese poste dalla responsabilità razionale al singolo devono essere state presso i primi uomini ancora molto semplici e facili da soddisfare. Non è affatto una speculazione troppo ardita supporre che i primi veri uomini che conosciamo dalla preistoria, per esempio quelli di Cro-Magnon, avessero con molta approssimazione gli stessi istinti, le stesse tendenze naturali nostre, e inoltre che nella struttura delle loro società e nelle guerre tribali non si comportassero molto diversamente da certe tribù tuttora viventi, come per esempio papuasi nella Nuova Guinea centrale. Presso questi ogni minimo agglomerato è in perpetuo stato di guerra col vicino e in rapporto di blanda caccia di teste; «blando » è da intendersi qui nel senso di Margaret Mead, e cioè che non si organizzano scorrerie allo scopo di ottenere ambite teste di maschi, ma che soltanto occasionalmente, se si incontrano ai confini per caso una qualche vecchia o un paio di bambini, si «fanno saltare» le loro teste.

Supponiamo ora che la nostra ipotesi sia corretta e che gli uomini di una tale tribù paleolitica avessero davvero le stesse inclinazioni naturali, la stessa dotazione di istinti sociali che abbiamo noi, immaginiamo una vita pericolosamente vissuta nell'esclusiva compagnia di una dozzina circa di amici intimi con mogli e figli. Ci sarà stata fra loro una certa rivalità per quanto riguarda le ragazze, l'ordine gerarchico, ma nel complesso penso che questo tipo di rivalità passasse in seconda linea davanti alla continua necessità di difendersi in comune contro le tribù vicine ostili. Gli uomini avranno combattuto fianco a fianco da tempo immemorabile, si saranno salvati la vita a vicenda parecchie volte, tutti avranno avuto ampia possibilità di sfogare l'aggressività intra-specifica contro i loro nemici, nessuno avrà sentito l'impulso a danneggiare un membro della sua stessa comunità.

In breve, la situazione sociologica deve essere stata per molti aspetti paragonabile a quella di soldati di una piccola unita combattente in una missione particolarmente pericolosa e indipendente. Sappiamo a quali altezze di eroismo e di pura abnegazione siano potuti arrivare nostri contemporanei tutt'altro che romantici in simili circostanze. E incidentalmente tipico per l'uomo che le sue più nobili e ammirevoli qualità si mostrino in situazioni in cui ne va della vita di altri uomini nobili quanto lui stesso. Per quanto crudele e selvaggia possa essere una tale comunità verso un'altra, all'interno dei suoi limiti la sola inclinazione naturale è quasi del tutto sufficiente a fare in modo che gli uomini osservino i dieci comandamenti - forse ad eccezione del terzo. Non si rubano le razioni di un uomo né le sue armi, ed è di dubbio gusto rubare la moglie di un uomo che ci ha salvato la vita un buon numero di volte.” (pp. 312-313)

Gran parte dei problemi che affliggono il mondo contemporaneo vanno ricondotti, per quanto riguarda un gruppo sociale, all’estrema competitività che vige al suo interno tra individui anonimi e, per quanto riguarda il rapporto che il gruppo intrattiene con gli estranei, alla necessità di ri-dirigere l’aggressività:

“Il cuore umano non è realmente cattivo fin dalla nascita, come si legge nella Genesi. L'uomo si sa comportare assai decentemente nel bisogno, premesso che sia di un tipo occorso abbastanza frequentemente nel paleolitico in modo da aver prodotto norme sociali filogeneticamente adottate in grado di trattare con la situazione. Amare il prossimo tuo come te stesso o rischiare la vita nel tentativo di salvare la sua è una cosa pacifica se lui è il tuo migliore amico e se ti ha salvato la vita un gran numero di volte, lo si fa senza neppure pensarci. La situazione è completamente diversa se l'uomo per cui sei tenuto a rischiare la pelle o per cui si suppone tu debba fare sacrifici è un anonimo contemporaneo che non hai mai visto. In questo caso non è amore per il collega umano che attiva il comportamento di abnegazione - sempre che venga attivato - ma l'amore per una qualche norma di comportamento sociale dovuta alla tradizione e di formazione culturale. L'amore per qualcosa o per qualcuno è in moltissimi casi la motivazione che dà forza all'imperativo categorico - un'asserzione che, penso, Kant rinnegherebbe.

Il nostro guerriero di Cro-Magnon aveva un mucchio di vicini ostili su cui sfogare la sua pulsione aggressiva, e aveva proprio il giusto numero di amici fedeli da amare. La sua responsabilità morale non veniva strapazzata dall'esercizio della funzione che gli vietava di picchiare, in furia improvvisa, una mazza acuminata sui suoi compagni. L'aumento del numero di individui appartenenti alla stessa comunità è di per sé sufficiente a sconvolgere l'equilibrio fra vincoli personali e pulsione aggressiva.” (p. 314)

“D'altra parte nella comunità moderna non c'è posto per uno sbocco legittimo del comportamento aggressivo. La pace è il primo dei doveri civici e l'ostile tribù vicina che una volta era il grato obiettivo su cui sfogare l'aggressività filogeneticamente programmata s'èdileguata verso regioni remote .” (p. 315-316)

Che fare, dunque? L'unica soluzione appare quella di incanalare l'aggressività, ri-dirigendola verso forme di scarica periodica come ad esempio le competizioni sportive, l'entusiasmo per la scienza e per le arti. Si tratta, per Lorenz, di una vera e propria catarsi, di una ritualizzazione che ha come scopo quello di impedire gli effetti dell'aggressione socialmente dannosa e mantenere invece invariate le funzioni per la conservazione della specie umana.

Per fare ciò è necessario che l'uomo si appelli alle sue facoltà razionali in modo da educarsi ad un controllo cosciente e responsabile della sua istintiva pulsione alla lotta:

“Chiaramente, il compito di compensazione che ricade sulla morale responsabile aumenta nella misura in cui le condizioni ecologiche e sociologiche create dalla cultura deviano da quelle a cui il comportamento istintivo è filogeneticamente adatto. Non solo questa deviazione continua ad aumentare, ma lo fa a un ritmo spaventoso.

Il destino dell'umanità dipende dalla questione se la morale responsabile possa essere o meno in grado di far fronte al suo onere in rapido aumento. Non alleggeriremo certo questo gravoso carico sopravvalutando la forza della morale, e ancor meno attribuendole onnipotenza. Avremo migliori opportunità di sostenere la morale responsabile nel suo compito sempre più arduo se realizziamo e riconosciamo umilmente che essa è «soltanto» un meccanismo di compensazione dalla resistenza molto limitata e che […] deriva quella poca energia che ha dallo stesso tipo di sorgenti motivazionali che è stata creata a controllare.” (p. 316)

Lorenz conclude la sua opera con una grande dichiarazione di speranza: speranza nella selezione naturale e speranza nella razionalità umana. Scrive: "Sappiamo che nell'evoluzione dei vertebrati il vincolo dell'amore personale e dell'amicizia fu un'invenzione che fece epoca, creata da due grandi costruttori quando divenne necessario per due o più individui d'una specie aggressiva vivere pacificamente insieme e cooperare ad un fine comune. Sappiamo che la società umana si è costituita sulle fondamenta di questo vincolo, ma dobbiamo accettare il fatto che il vincolo è diventato troppo limitato per comprendere tutto quanto dovrebbe: blocca l'aggressione soltanto fra quanti si conoscono fra loro e sono amici mentre si tratta di bloccare le ostilità tra gli uomini di tutte le nazioni e di tutte le ideologie. L'ovvia conclusione è che l'amore e l'amicizia dovrebbero abbracciare tutta l'umanità, che tutti noi dovremmo indiscriminatamente amare tutti i nostri fratelli umani. Questo non è un comandamento nuovo. (…) Credo nel potere della ragione umana, come credo nel potere della selezione naturale. Credo che la ragione può e vorrà esercitare una pressione selettiva nella direzione giusta. Credo che in un futuro non troppo lontano questo doterà i nostri discendenti della facoltà di adempiere il più grande e il più bello di tutti i comandamenti”. (pp. 361-362)

6.

Nella prefazione e nel saggio Lorenz confessa la sua meraviglia e la soddisfazione di avere scoperto, attraverso il confronto con alcuni psicoanalisti, che le sue ipotesi sull’istinto aggressivo coincidono per molti aspetti con la teoria freudiana della pulsione di morte. Egli però, è convinto che le sue ipotesi si fondino su basi più solide rispetto a quelle freudiane, vale a dire sulla storia naturale dell’aggressività ricostruita attraverso l’etologia.

Sembra che sia quasi impossibile, per gli autori che affrontano il problema della natura umana, riconoscere che essi, vivendo il problema in prima persona, vale a dire avendo un’esperienza personale, culturale e storica, possono esserne influenzati.

Freud è giunto a formulare la teoria dell’istinto di morte dopo la prima Guerra Mondiale, vale a dire dopo un massacro di enormi proporzioni, che egli, all’inizio, aveva salutato con un entusiasmo patriottico quasi infantile. La crudeltà della guerra incide duramente sulla sua fiducia nell’elevatezza della civiltà occidentale, ma non lo sollecita ad una critica storica. Se l’uomo è il più aggressivo degli animali nei confronti dei suoi simili e se l’aggressività persiste nonostante lo sviluppo della civiltà, ciò, secondo Freud, non si può spiegare se non ammettendo che, nell’inconscio, agisca una pulsione primordiale e “animalesca”: la pulsione di morte, appunto.

Lorenz scrive il suo saggio dopo l’esperienza della seconda Guerra Mondiale e del nazismo, cui ha partecipato. Non si dà alcuna prova della sua adesione all’ideologia nazista. E’ certo, però, che non è riuscito a prendere rispetto ad essa una distanza critica se non a posteriori. Per uno studioso, la consapevolezza del precario statuto della coscienza, che può essere facilmente fuorviata dall’ambiente, è particolarmente dolorosa.

Il cosiddetto Male è una rivendicazione delle funzioni positive che l’aggressività intra-specifica, in quanto istinto selezionato, svolge nell’assicurare la conservazione della specie, e, al tempo stesso, la presa d’atto che l’evoluzione, procedendo sulla base dei tentativi e degli errori, può imboccare funesti vicoli ciechi. Il vicolo cieco più critico, che rappresenta il nodo del saggio, è il rapporto tra aggressività, socialità e affettività.

A riguardo Lorenz è assolutamente esplicito. Egli ritiene che la socialità affettiva sia una conseguenza della necessità di allevare una prole le cui esigenze e i cui tempi di maturazione sono più lenti rispetto a quelli delle specie inferiori; una necessità che si delinea in maniera embrionale nei pesci e raggiunge la sua massima espressione nei mammiferi.

Sarebbe, insomma, la famiglia, intesa in senso lato, l’organizzazione deputata a soddisfare le nuove esigenze dei piccoli. Stante un intenso corredo di aggressività innata, tale organizzazione non si sarebbe potuta produrre se l’istinto a lottare contro il membro della stessa specie, funzionale a promuovere la conservazione e il miglioramento di essa, non fosse stato inibito, ritualizzato e ri-diretto.

L’inibizione non implica un allentamento dell’aggressività intra-specifica: il lupo che morde a vuoto in prossimità del collo che il rivale gli offre in segno di sottomissione lo sbranerebbe se l’istinto non fosse bloccato dalla necessità di non eliminare tutti i membri più deboli della propria specie. Un’estensione di tale inibizione si può considerare il rispetto dei cuccioli e delle femmine.

Date le funzioni positive dell’aggressività intra-specifica, ammettere che essa sia attiva anche nell’uomo è, per Lorenz, scontato. A livello umano, però, la necessità della socializzazione è ancora più marcata che negli altri animali: primo, perché, da solo, l’uomo sprovveduto di strumenti naturali di difesa, soccomberebbe facilmente all’assalto dei predatori; secondo, perché i cuccioli dell’uomo hanno un’evoluzione estremamente lenta e sono, dunque, bisognosi di cure e di protezione per molti anni.

Si sarebbe così definito il dramma umano della coesistenza tra un’aggressività intra-specifica intensa e una necessità di socializzazione altrettanto marcata: dimensioni entrambi funzionali alla conservazione e alla perpetuazione della specie.

In questa ottica, la cultura assolve un ruolo di mediazione: essa vincola, attraverso la ritualizzazione storico-culturale, l’aggressività all’interno del gruppo, ma non può estinguerla del tutto, anche se può essere compensata dall’affettività. Essa, inoltre, è costretta a ri-dirigerla verso l’esterno creando una scissione tra Noi e Loro che può consentirne la scarica sia sul piano simbolico che reale.

Secondo Lorenz, dunque, il modello di organizzazione sociale più vicino a quello umano è dato dai ratti con la loro sostanziale “tenerezza” all’interno del gruppo e una crudeltà “sadica” nei confronti dei simili appartenenti ad altri gruppi.

E’ o dovrebbe essere del tutto evidente che questo paragone è facilmente riconducibile alla Germania nazista, vale a dire ad una nazione la cui coesione interna era fortissima e la cui aggressività nei confronti degli altri popoli, e degli ebrei in particolare, è stata estrema.

A Lorenz va indubbiamente dato il merito di avere riproposto all’attenzione del grande pubblico un problema - quello dell’aggressività umana - di grande importanza per la conoscenza dell’uomo su se stesso e per i destini dell’umanità.

Avere ipotizzato però che l’aggressività intra-specifica abbia mantenuto la stessa intensità, estrema, nel corso dell’evoluzione animale e che quindi essa sia giunta all’uomo indirizzandolo in un funesto vicolo cieco, è un errore concettuale.

Pur citando Gehlen (ma non L. Bolk), Lorenz non ha tenuto conto che l’uomo è un animale neotenico, e che la neotenia, come è evidente nel confronto tra canis lupus e cani domestici, allenta in misura direttamente proporzionale l’aggressività, facendo affiorare al suo posto un’organizzazione sociale fondata sull’affettività il cui significato è la tutela di tutti i membri del gruppo dai pericoli che incombono su di essi.

La neotenia, in virtù dell’affettività, ha trasformato il divieto preesistente di attaccare i deboli (i cuccioli, le donne) in un orientamento comportamentale supportato, soprattutto per quanto riguarda i primi, dalla tenerezza.

Per quanto concerne l’uomo, poi, l’empatia, prodotta dall’identificazione con l’altro che soffre, ha contribuito a restituire drammaticamente all’uomo la consapevolezza della sua dimensione esistenziale, che deve avere rafforzato lo spirito di gruppo.

Ciò è confermato dal fatto che, originariamente, l’empatia si è estesa anche agli animali superiori, rendendo la caccia una necessità colpevolizzata al punto da richiedere riti di espiazione per l’animale ucciso.

A livello umano, dunque, ma anche a quello dei primati, non sembra assolutamente vero che la socialità è una conseguenza dei meccanismi di ritualizzazione e di ri-direzione dell’aggressività intra-specifica. L’affettività è una dimensione autonoma, del tutto nuova e di grande importanza.

Se questo è vero, però, rimane il problema che Lorenz ha proposto: è un fatto che la specie umana, nel corso della sua storia, ha espresso un’aggressività intraspecifica incommensurabile rispetto a quella che si osserva tra animali sociali appartenenti alla stessa specie (eccezion fatta per i ratti). Come spiegare questo paradosso?

Lorenz fa riferimento alla ri-direzione, che investe l’estraneo al gruppo di un significato univocamente pericoloso e ostile. Il problema è capire, posta la dotazione empatica dell’uomo, che va ritenuta una qualità universale, come si è definita l’estraneazione. Nei ratti l’identificazione dell’estraneo si realizza sulla base dell’odore; nell’uomo sulla base di indizi somatici e comportamentali che attestano l’appartenenza ad una diversa etnia e ad una diversa cultura.

Se ci poniamo nei panni dei primi uomini, che vivevano in piccoli gruppi limitrofi costretti a scambiarsi le donne, vale a dire ad imparentarsi, gli indizi cui ho fatto cenno non potevano esistere. Può darsi che, in qualche circostanza, si sia data qualche scaramuccia per motivi territoriali, ma deve essersi trattato di cose di poco conto.

E’ evidente che l’estraneazione presuppone un processo di dispersione degli esseri umani sul pianeta che ha dato luogo a modificazioni fisiche (“razziali”), ad un diverso linguaggio e ad un sistema di valori culturali diversi.

Tenendo conto che quel processo può avere prodotto un certo isolamento genetico, si può pensare che esso abbia dato luogo, in alcuni gruppi, alla selezione intra-specifica sulla base della forza e della violenza, e, in altri, sulla base della capacità di socializzazione e sulla saggezza. Questo spiegherebbe il fatto che gli antropologi culturali oscillano tra la descrizione di gruppi tribali particolarmente aggressivi e di gruppi tribali sostanzialmente pacifici.

Non sarebbe, in gioco, dunque in questi casi la natura umana ma l’interazione tra una natura selezionata intraspecificamente e l’ambiente. I gruppi pacifici, però, sarebbero più espressivi della natura neotenica dell’uomo originario.

Se l’estraneazione dipende dalla diversità somatica e culturale, è evidente che essa non ha nulla a che vedere con la ri-direzione, quanto piuttosto con un processo di differenziazione legato alla cultura e alla storia.

C’è, a riguardo, una circostanza di ordine storico di particolare significato: la scoperta dell’America. Tutti i documenti attestano che l’accoglienza degli uomini caraibici nei confronti dei Bianchi fu tale da lasciare pensare che essi non abbiano avuto alcuna difficoltà ad identificare in questi ultimi esseri appartenenti alla propria specie. La difficoltà, con conseguenze tragiche, l’ebbero i Bianchi, che scambiarono i caraibici per una sorta di incrocio tra i bambini e gli animali.

Questa circostanza attesta che la cultura e la civilizzazione fondata sulla razionalità può inibire l’empatia.

Ciò spiega a sufficienza i massacri intervenuti tra le popolazioni europee nel corso del XX secolo che, pur diverse linguisticamente, non avevano certo motivi per considerarsi estranee, non fosse altro che per la loro comune origine legata all’Impero romano e al Cristianesimo.

Il dramma dell’uomo verte sulla dinamica tra identificazione empatica ed estraneazione. Ma questa dinamica che, in conseguenza dell’estraneazione, può produrre una violenza intra-specifica senza limite, non ha nulla a che vedere con l’istinto aggressivo.

Volendo naturalizzarla si può fare riferimento ad un passaggio legato allo sviluppo della personalità molto importante: quello che fa seguire alla reazione al sorriso nei confronti di qualunque volto umano, che interviene introno al terzo mese, l’angoscia dell’estraneo, che sopravviene intorno all’ottavo mese.

E’ evidente che la distinzione tra familiare ed estraneo ha un fondamento genetico. Essa attesta però che, via via che l’infante sviluppa legami affettivi con le persone con cui interagisce, tutte le persone che non appartengono al suo contesto di interazione familiare assumono una configurazione potenzialmente pericolosa.

Questo passaggio però prelude alla lenta e graduale familiarizzazione con il mondo che, al limite, può comportare lo sviluppo di una coscienza universale, vale a dire alla generalizzazione dell’empatia.

E’ il fallimento di tale processo che mantiene o promuove l’estraneazione. Il ruolo della cultura a riguardo è fuor di dubbio.

L’aggressività umana è dunque riconducibile alla complessità dell’apparato mentale umano piuttosto che dal suo essere impregnato da un istinto ancestrale.

I parallelismi tra comportamenti animali e comportamenti umani possono essere suggestivi e facilmente equivocabili; essi però, almeno per quanto riguarda l’argomento in questione, non hanno valore esplicativo.