1.
Si immagini un enorme mosaico andato distrutto, composto originariamente da miliardi di tessere, delle quali ne vengono scoperte, ogni tanto, alcune. Mettendole insieme, esse suggeriscono qualcosa, ma permettono soprattutto di capire drammaticamente ciò che manca e che, presumibilmente, non sarà mai disponibile.
L’archeologia è una scienza di confine, una scienza disperata per alcuni aspetti, perché i ricercatori sanno i limiti invalicabili dei loro sforzi. Nelle viscere della terra, ovunque si è data presenza umana, esistono fossili e documenti da scoprire, catalogare, restaurare, interpretare. Se anche però fosse possibile disporre di tutto ciò che quelle viscere celano, le tessere ricoprirebbero una porzione infinitesimale del mosaico. Ciò che è andato definitivamente distrutto, infatti, è incomparabilmente maggiore di ciò che si è conservato.
Per alcuni aspetti, dunque, la storia della specie umana rimarrà sempre avvolta da un velo di mistero, perché gli anelli mancanti saranno sempre più numerosi di quelli di cui, per effetto dell’appassionato lavoro degli archeologi, si giungerà a disporre.
E’ evidente che questo limite non ha la stessa importanza per tutti gli eventi del lontano passato. Scoprire ciottoli levigati primo segno dell’homo faber è importante, perché sulla base di essi si definiscono diverse culture preistoriche. Se anche però giungessimo a disporre di tutti i ciottoli che l’uomo ha levigato, ciò non aggiungerebbe molto al dato acquisito di una specie, consapevole dei suoi limiti naturali, che intuisce di poter modificare l’ambiente a proprio vantaggio e si dà da fare sistematicamente sulla base di un “progetto” tecnologico.
I documenti scritti, viceversa, hanno un valore infinitamente maggiore perché, se un ciottolo viene levigato per essere utilizzato qui ed ora, la scrittura attesta non solo una necessità espressiva, ma il bisogno di tramandare, di affidare alla memoria, quanto si dà nella comunicazione orale di effimero e di esposto a rischio di fraintendimenti volontari e involontari.
Purtroppo, proprio i documenti scritti, affidati a materiali facilmente deperibili, rappresentano le tessere più carenti del mosaico che gli uomini cercano di ricomporre sul loro passato. In rapporto ad alcune circostanze storiche, questa carenza incide drammaticamente.
Una circostanza del genere è legata alla storia di Gesù e alle origini del Cristianesimo, vale a dire di una religione che ha potentemente influenzato e continua ad influenzare la civiltà mondiale. Secondo la Chiesa, non ci sarebbe nulla da scoprire, perché ciò che è accaduto la rivelazione della buona novella - è sufficientemente documentato dai testi canonici e dalla tradizione ecclesiale. Non si darebbero, dunque, misteri a riguardo, se non quelli che, per trascendere i limiti dell’intelligenza umana, vanno partecipati con un atto di fede.
In realtà, come ho fatto cenno nel saggio sulla Bibbia e sugli articoli dedicati alle origini del Cristianesimo, anche la sola riflessione critica sui testi canonici pone di fronte ad una serie pressoché indefinita di contraddizioni, che solo lentamente, nel corso dei primi secoli d. C., sono state ingabbiate in una dottrina unitaria e coerente.
Una di queste, tra le più rilevanti, concerne il “destino” di Gesù. Secondo la tradizione ecclesiale, egli Figlio di Dio sarebbe venuto sulla terra per riscattare l’umanità dal peccato originale con il sacrificio della sua vita. Si sarebbe dunque incarnato per rivelare la buona novella, della salvezza concessa a chiunque avrebbe creduto in Lui, per scontare la colpa di Adamo morendo sulla croce, e per risorgere, schiudendo agli uomini la via dell’immortalità.
Poniamo tra parentesi quanto si dà di razionalmente ostico in questo “mito”. In nome di quale criterio di giustizia la colpa di un progenitore può ricadere sulle spalle di tutti i discendenti? Perché quella colpa si configura, agli occhi di Dio, a tal punto grave da richiedere, per essere scontata, il sacrificio di una vita? Perché, infine, questo sacrificio deve essere operato dal Figlio di Dio, vale a dire da Dio stesso?
La fede, come noto, non riconosce criteri razionali.
Rimane il fatto che, a partire dalle stesse premesse - il peccato originale, la colpa da espiare, ecc. - il riscatto dell’umanità avrebbe potuto seguire un altro corso.
Inviato per completare la Rivelazione, il Figlio di Dio avrebbe potuto predicare fino alla fine dei suoi giorni. Se proprio fosse stato necessario scontare la colpa originaria, Egli avrebbe potuto avere vivere come Giobbe, gravato da mali di ogni genere e dando la prova di sopportarli eroicamente. Nulla gli avrebbe impedito, dopo la morte naturale, casomai a seguito di una lunga e dolorosa malattia, più straziante del sacrificio della Croce, di risorgere manifestando la sua onnipotenza.
La rivelazione si sarebbe realizzata ugualmente, con il vantaggio di una predicazione che, durando qualche decennio, sarebbe potuta essere teologicamente più chiara; il gratuito spirito di sacrificio di Dio si sarebbe espresso nel bere fino al fondo l’amaro calice di una esistenza terrena lunga e dolorosa, che talvolta è peggiore di una morte violenta; e la sua onnipotenza si sarebbe potuta realizzare attraverso la Resurrezione post-mortem.
Nulla sarebbe cambiato, insomma, dal punto di vista teologico, se le cose fossero andate così. La vicenda, alternativa a quella che si è realizzata, avrebbe comportato, tra l’altro, almeno un vantaggio. Non sarebbe stato necessario per l’umanità, gravata dalla colpa originaria, riconquistare la salvezza al prezzo di un’altra colpa (più grave): il deicidio.
Posto, infatti, che, per volere del Padre, il destino di Gesù era quello di morire di morte violenta, qualcuno doveva pur eseguire la condanna. Il sublime sacrificio della Croce, insomma, progettato da Dio e accolto dalla Chiesa come sublime atto d’amore, non si sarebbe potuto realizzare se non sotto forma di un crimine agito da esseri umani.
In un articolo precedente, sui responsabili della morte di Gesù, ho fatto presente ciò che è o dovrebbe risultare ovvio a chiunque legga i Vangeli con un minimo spirito critico. Che sia stato condannato dai Romani o dagli Ebrei, Gesù la morte l’ha cercata. Le sue provocazioni nei confronti del potere costituito, soprattutto del potere religioso dei Farisei e dei sacerdoti del Tempio, sono state ben più virulente di quelle degli infiniti “eretici” che la Chiesa, nella sua accorata difesa della verità dalle insidie diaboliche, ha condannato a morte.
E’ superfluo sottolineare in quale misura sul “deicidio”, attribuito dai Cristiani agli Ebrei, si è costruito un pregiudizio che è gravato secolarmente sul popolo ebraico dando luogo, anche da parte della Chiesa, ad atroci persecuzioni.
2.
In questa cornice, già di per sé inquietante, si inquadra la vicenda di Giuda, il “traditore” che consegna Gesù ai suoi carnefici e si macchia, pertanto, di un’infamia alla quale rimarrà per sempre associato il suo nome nei secoli.
Si è tornato a parlare di questa vicenda in conseguenza di una scoperta archeologica che, in verità, risale a trent’anni orsono, ma che solo di recente sarebbe stata adeguatamente valorizzata. Sta giungendo infatti a conclusione il restauro di un papiro, scoperto negli anni Settanta in Egitto, che è una copia in copto di un vangelo apocrifo: il Vangelo di Giuda. La fondazione che lo ha acquistato (Maecenas Foundation for Ancient Art di Basilea), dopo lunghe vicissitudini nel corso delle quali il papiro si è notevolmente deteriorato, ne ha promesso infatti la traduzione in Inglese, Francese e Tedesco nel tempo di un anno.
Intorno a questo scritto si è organizzato un battage pubblicitario senza precedenti in ambito archeologico. E’ uscito ad aprile un libro (Herbert Krosney. Il Vangelo perduto, National Geographic, Roma 2006) che, per quanto piuttosto prolisso, ha scalato rapidamente la classifica dei saggi più venduti. Il battage definisce la scoperta del Vangelo di Giuda come la più importante scoperta archeologica degli ultimi sessant’anni, e anticipa che esso è destinato a mettere a dura prova la tradizione ecclesiale, e a far nascere nuove domande sulla morte di Gesù.
In realtà, la scoperta è importante perché il testo, sicuramente autentico, risale ad un periodo tra l’inizio del III e il IV secolo, allorché l’organizzazione dottrinaria del Cristianesimo, che pure riconosceva già una proto-ortodossia e un’istituzione ecclesiale, era ancora minacciata da numerose correnti eretiche. Della sua esistenza sinora, in effetti, si aveva notizia solo attraverso Sant’Ireneo, che lo denunciò come eretico nel II secolo.
Da quello che è dato sapere, e che Herbert Krosney riferisce facendo riferimento alla testimonianza di Bart D. Ehrman, un esperto di storia del Cristianesimo primitivo, incaricato di valutare il manoscritto, il contenuto è piuttosto sorprendente. E’ lo stesso Ehrman, nella prefazione al libro di Krosney ad illustrarlo con semplicità:
“Si tratta di un vangelo che racconta la storia di Gesù dal punto di vista dello stesso Giuda Iscariota, l’apostolo accusato di averlo tradito. Com’era lecito attendersi, il suo punto di vista è completamente diverso da quello che troviamo nei resoconti canonici dei vangeli del Nuovo Testamento. Nei testi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, Giuda è il cattivo. In questo vangelo ritrovato, invece, è l’eroe...
E’ l’iniziato più avveduto, quello a cui Gesù affida la sua rivelazione segreta. Giuda è l’unico discepolo fedele, quello che comprende Gesù, che riceve da lui la salvezza. Gli altri discepoli, come la religione che essi rappresentano, sono immersi nell’ignoranza.” (op. cit. pp. XV XVI)
Ma in che senso Giuda, pur consegnandolo ai carnefici, non è un traditore? E’ Krosney a rivelarlo nell’ultimo capitolo del libro, dedicato appunto ai contenuti del papiro. Giuda consegna Gesù alle autorità su richiesta dello stesso Cristo, che intende spogliarsi del rivestimento corporeo. Tu Egli gli dice “sacrificherai l’uomo che mi riveste”. Giuda, dunque, deve portare a termine una speciale missione: deve fare in modo che termini la vita terrena di Gesù. Per questo, egli sarà odiato e considerato spregevole. Ma non è un caso che Gesù si rivolge a lui chiedendogli questo sacrificio. Giuda è l’unico discepolo che ha capito il suo messaggio.
Al di là delle caratteristiche della personalità di Gesù, che nel papiro appare come un maestro amichevole e benevolo, che non disdegna il sorriso e l’ironia nei confronti degli Apostoli, fermi alla loro fede nel dio minore biblico, e talora assume un’aria da bambino ispirato, la frase citata pocanzi è la chiave di tutto il Vangelo di Giuda. Essa, tra l’altro, permetterebbe di spiegare anche il versetto del Vangelo di Giovanni, laddove Gesù, rivolto a Giuda, gli dice: «Qualunque cosa tu debba fare, falla in fretta».
In effetti, nonostante Giovanni sia, tra gli evangelisti, il più implacabile nei confronti di Giuda (che assume, tra l’altro, malauguratamente come rappresentante di tutti gli Ebrei), è proprio il suo versetto che, nonostante gli sforzi della Chiesa, ha lasciato aperta una contraddizione teologica insolubile, che Bart Ehrman riassume in questi termini:
“Da un lato, Gesù conosce il proprio destino, sa perché sta per morire e sa che non può evitarlo: egli muore per volontà di Dio. D’altro canto, le persone responsabili della sua morte, in primo luogo Giuda che lo ha consegnato ai nemici, sono oggetto di riprovazione. Ciò nonostante è lecito porsi una domanda: se Gesù doveva morire in ogni caso, era necessario che Giuda lo consegnasse. Non è forse questa la volontà di Dio? E, secondo questa logica, Giuda non ha fatto un favore a Gesù?” (op. cit. 59)
Il Vangelo di Giuda sembra muovere da questa contraddizione, e fornire ad essa una soluzione paradossale: una soluzione logicamente giusta, per quanto del tutto improbabile.
Come si arriva a questa conclusione? Tenendo semplicemente conto che il Vangelo di Giuda è un documento gnostico, che interpreta la vicenda di Gesù alla luce di una complessa filosofia esoterica che si è contrapposta al Cristianesimo in via di istituzionalizzazione e di diffusione presso le masse nel corso del II e III secolo d. C., finendo per essere combattuta e debellata come un’eresia.
Da questo punto di vista, la scoperta del papiro non si può ritenere, come sostiene la Fondazione che ne è proprietaria, epocale. Essa, infatti, se non si vuole scomodare la scoperta dei Rotoli del Mar Morto, è stata preceduta nel 1946 dal rinvenimento in Egitto, presso Nag Hammadi, di un’intera biblioteca gnostica in 13 codici papiracei contenente, in traduzione copta, più di 40 opere prima sconosciute, tra cui alcuni vangeli (Vangelo di Tommaso, Vangelo di Filippo) che sono stati pubblicati. Al di là delle confutazioni presenti nelle opere ortodosse di Ireneo, Tertulliano, Clemente e Origene, i manoscritti di Nag Hammadi hanno consentito di ricostruire nei suoi punti essenziali il pensiero gnostico.
Secondo la gnosi, il mondo e il corpo, creati da una divinità inferiore (il Demiurgo), sono gabbie che intrappolano un principio spirituale, divino (riconducibile ad un Dio supremo, trascendente e in conoscibile), presente però solo in alcuni esseri umani privilegiati, gli eletti. Tale principio, oppresso dalla materialità del corpo, giace nell’abiezione, ignaro della propria origine. Solo con l’invio sulla terra da parte del Dio sommo di suo Figlio, il Cristo, gli eletti possono prendere coscienza del loro vero essere, purificarsi e riscattarsi, liberando definitivamente lo spirito divino dall’involucro corporeo. In questa cornice filosofica, ovviamente, Cristo non si è incarnato: ha assunto solo le parvenze del corpo materiale. Non ha senso dunque la Resurrezione, perché la sua morte è stata solo una spoliazione dall’involucro corporeo.
Il Vangelo di Giuda si iscrive nell’ambito del pensiero gnostico. Tra gli Apostoli, Giuda è l’unico, in quanto eletto, in grado di capire il messaggio esoterico di Gesù, l’unico in grado di aiutarlo a liberarsi del corpo che lo riveste; l’unico, infine, iniziato, che può accedere alla fede nel Dio sommo e abbandonare quella nel Dio minore dell’Antico Testamento, di cui gli altri Apostoli sono preda.
Non c’è nulla di nuovo e di rivoluzionario, dunque, da un punto di vista teologico e filosofico, nel papiro; nulla di preoccupante per la Chiesa, che il conto con la gnosi lo ha chiuso diciassette secoli orsono.
Se il documento ha un valore, questo consiste nel confermare l’esistenza di un gruppo di gnostici che Ireneo definisce “cainiti”, secondo i quali essendo il Dio dell’Antico Testamento un dio minore e ignorante, chiunque (come Caino in primis) si fosse opposto ad esso, infrangendo la sua legge, di fatto risultava un difensore della verità. In questa ottica, i cainiti ritenevano che Giuda fosse stato l’unico a comprendere i misteri di Gesù e a seguire la sua volontà. Tutti gli altri discepoli, che adoravano il falso dio degli Ebrei, non erano stati in grado di comprendere la verità del loro Maestro.
Il Vangelo di Giuda, presumibilmente, era il testo di riferimento dei “cainiti”.
3.
Molto rumore per nulla, dunque? Da un punto di vista storico e filosofico senz’altro. Il travaglio del cristianesimo primitivo, con la contrapposizione tra la Chiesa nascente e infinite sette eretiche che, prima di essere definite tali, rivendicavano di essere depositarie della vera interpretazione del messaggio di Gesù, è ormai ben noto. La gnosi è una corrente di pensiero estremamente complessa, ma, in ultima analisi, ancora più bislacca del “mito” cristiano.
Il lettore si chiederà a questo punto il significato di questo articolo, forse di non facile lettura. La risposta può venire dall’analisi della prima reazione della Chiesa ufficiale all’annuncio della scoperta, enfatizzata per motivi pubblicitari sino al punto che uno studioso americano, tra i primi ad esaminare il manoscritto, ha affermato: “Potrebbe risultare esplosivo per moltissime persone. Potrebbe provocare una crisi della fede.”
Di fronte ad un’affermazione del genere, ripetuta mutatis mutandis anche da altri studiosi, la Chiesa non poteva non prendere immediatamente posizione. Lo ha fatto addirittura per bocca del Papa. Cito da una nota comparsa sulla stampa:
“Nessuna riabilitazione per Giuda, che non denuncio' Gesu' per adempiere alla sua stessa volonta', come sostengono alcuni testi apocrifi e in particolare il 'Vangelo di Giuda', recentemente ritrovato. Il suo tradimento fu invece totalmente una scelta libera: 'un rifiuto opposto all'amore di Dio'. Lo ha affermato Benedetto XVI nell'omelia per la messa 'in coena domini', celebrata questo pomeriggio a San Giovanni in Laterano. Giuda, ha spiegato il Papa, 'valuta Gesu' secondo le categorie del potere e del successo: per lui solo potere e successo sono realta', l'amore non conta. Ed egli e' avido: il denaro e' piu' importante della comunione con Gesu', piu' importante di Dio e del suo amore'. Secondo il Papa, Giuda 'cosi' diventa anche un bugiardo, che fa il doppio gioco e rompe con la verita'; uno che vive nella menzogna e perde cosi' il senso per la verita' suprema, per Dio'. 'In questo modo - ha concluso Papa Ratzinger - egli si indurisce, diventa incapace della conversione, del fiducioso ritorno del figliol prodigo, e butta via la vita distrutta'.”
Papa Ratzinger ha forse dimenticato di avere pubblicato appena qualche settimana fa la Lettera-Enciclica sull’Amore, nella quale tra l’altro ha scritto: ""Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui " (1 Gv 4, 16)... Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un " comandamento ", ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro... In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell'odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto."
Avido, bugiardo, cinico Giuda: un mostro, insomma, che Gesù ha scelto per errore, senza riuscire a leggere nella sua anima, e da cui è stato brutalmente tradito E’ questo il linguaggio dell’amore cristiano, di un amore che ricusa l‘odio e la vendetta, di un amore che, pur senza giustificarlo, ritiene recuperabile anche il peggiore dei criminali? Non è, forse, lo stesso linguaggio utilizzato in passato per estendere la spregevolezza da Giuda ai Giudei di cui egli era assunto come rappresentante?
Rilevo, senza sorpresa e senza alcun intento irrispettoso, che nel Papa, come peraltro in molti cristiani, si dà uno scarto tra i livelli di coscienza, animati da un afflato umanitaristico senza pari, e un inconscio che esprime rabbia e disprezzo allorché, nell’uomo, scopre il Maligno.
E’ questo il “peccato originale” del Cristianesimo, che esso, a mio avviso, ha ereditato da Gesù stesso (cfr gli articoli sulla personalità di Gesù) e che si è riprodotto in maniera virulenta in Paolo di Tarso, che ha esaltato egli stesso la Carità, ma il cui atteggiamento nei confronti degli Ebrei è stata la prima matrice dell’antisemitismo cristiano.
Non ho difficoltà a comprendere l’atroce giudizio ribadito dal Papa sul traditore per eccellenza.
Il problema posto in termini espliciti è che la contraddizione rilevata da Ehrman in rapporto al “destino” di Gesù e al ruolo giocato da Giuda e dagli Ebrei nel realizzarlo è un nervo teologico scoperto. Uno dei tanti, ma, forse, tra i più sensibili.
In uno splendido racconto (Tre versioni di Giuda, in Finzioni, Mondadori, Milano 1984, p. 747)), Jorge Luis Borges, che conosceva da par suo il pensiero gnostico, non solo anticipa i contenuti del Vangelo di Giuda, ma li trascende sino all’assurdo. Egli attribuisce ad un dotto studioso, profondamente religioso, una riflessione sulla figura di Giuda durata tutta la vita. La terza versione cui egli perviene è “mostruosa”: “Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla dannazione e all’abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia: avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda.”
Si tratta, ovviamente, di un gioco dell’immaginazione letteraria. Esso però può suggerirci o ricordarci una verità inoppugnabile, per quanto inquietante: quella secondo la quale tra il migliore e il peggiore degli uomini la differenza è meno rilevante di quanto appare valutando le apparenze, vale a dire il comportamento, e che essa, talora, è dovuta solo ad un insieme di circostanze congiunturali o, addirittura, ad equivoci interpretativi.