1.
Il saggio in questione affronta il problema del “male” partendo dalla vexata quaestio sul rapporto tra natura umana e cultura:
“II filosofo sociale Jean-Jacques Rousseau ha sviluppato il tema dell'influenza corruttrice delle forze sociali rappresentando gli esseri umani come «nobili, primitivi selvaggi" le cui virtù sono scemate a contatto con la società corruttrice. A questa concezione degli esseri umani come vittime innocenti di una società malvagia e onnipotente si contrappone nettamente quella secondo cui gli uomini nascono cattivi, sono una specie geneticamente malvagia, in balia di desideri sfrenati, di appetiti insaziabili e di impulsi ostili, a meno che gli uomini non vengano trasformati in creature razionali, ragionevoli e compassionevoli dall'educazione, dalla religione e dalla famiglia, o non siano controllati dalla disciplina imposta loro dall'autorità dello Stato.” (p. 431)
Philip Zimbardo si cimenta nell’impresa alla luce di un’esperienza singolare. Inventore di uno dei più famosi esperimenti realizzati nell’ambito della psicologia sociale, si è assicurato in virtù di questo una fama permanente. Il risultato del tutto inaspettato dell’esperimento lo ha indotto a dedicarsi ad un unico problema: interpretare e spiegare la “cattiveria” espressa in alcune situazioni da soggetti apparentemente normali, quella che la Arendt ha definito la “banalità del male”.
L’esperimento in questione, che risale al 1971 ed è durato solo sei giorni, è stato pubblicato all’epoca su una rivista scientifica, ma ha ricevuto successivamente una sorprendente divulgazione mediatica. Solo ora, però Philip Zimbardo fornisce una cronaca dettagliata di “come sono andate le cose” in quei fatidici (soprattutto per la sua carriera) giorni corredata da un’introduzione e da un ricco apparato di considerazione teoriche.
Anticipo d’emblée che si tratta di un saggio di interesse, ma estremamente prolisso (consta di settecento pagine, trecento delle quali sono dedicate alla ricostruzione minuziosa degli eventi accaduti nel corso dell’esperimento e ai commenti di coloro che hanno partecipato ad esso) e strutturato in maniera eterogenea. Zimbardo strizza con evidenza l’occhio al grande pubblico, il cui interesse per il problema del “male” dovrebbe essere soddisfatta dai numerosi fenomeni ed eventi storici cui fa riferimento e che ricostruisce accuratamente, e, al tempo stesso, non rinuncia al suo ruolo di studioso accademico nell’ambito delle scienze umane, abbandonandosi a considerazioni e riflessioni teoriche sparse qua e là.
Nella densa prefazione all’edizione italiana, Roberto Escobar illustra in questi termini la problematica affrontata nel saggio e i dati empirici su cui si articola l’analisi dell’autore:
“La mostruosità è la prima e la più efficace delle vie di fuga dall'orrore per il cosiddetto male assoluto, radicale. Non è come noi, e dunque non è uno di noi chi violenta le anime e i corpi, chi tortura, chi stermina, chi trucida le donne e gli uomini, i vecchi e i bambini, a migliaia o a milioni. Così, illudendoci, amiamo consolarci di fronte alla violenza e alla morte che hanno segnato e segnano la nostra epoca.
Mostri sarebbero dunque i volonterosi carnefici dei Lager nazisti, e mostri, ancora, gli sterminatori e i violentatori che hanno devastato la ex Iugoslavia o il Ruanda, allo stesso modo di quelli che ancora infieriscono nel Darfur. Mostri sarebbero i militari statunitensi, uomini e donne, che a Abu Ghraib si fanno fotografare con un largo sorriso sullo sfondo dei corpi delle loro vittime, o i tagliagole di dio orgogliosi di farsi riprendere dalla telecamera mentre si avventano con devozione su Nick Berg, annichilito ai loro piedi, staccandogli di netto la testa. E tanti, troppi altri mostri si dovrebbero aggiungere. Nel secolo scorso, breve o lungo che sia stato, si calcola siano stati uccisi 150 milioni di esseri umani. E c'è chi osserva che non s'è trattato di un record. Se poi invece lo fosse, resterebbe sempre l'ironia amara di Woody Allen a proposito della Shoah: ogni record è fatto per essere battuto.
Ma che cos'è un mostro? Un indizio ci viene dal termine corrispondente tedesco: Unmensch, alla lettera non uomo. E la si può intendere almeno in due modi, questa parola densa di negazione e ombre. E non uomo chiunque non sia Noi, chi non appartenga al Noi in quanto lo consideriamo inferiore, per razza o etnia (ammesso che razza ed etnia abbiano un significato che non sia quello di slogan minacciosi, di parole d'ordine della politica fondata sull'odio). In questo senso, non uomo è il calco, il volto oscuro e sanguinante della cimice fastidiosa, della feccia degna solo di essere pulita via dal mondo, e cioè del perseguitato, della vittima.
Nell'altro senso, opposto e però complementare, non uomo è chi compia atti che ci appaiano riprovevoli, inammissibili. Mostro è il persecutore, il torturatore, lo sterminatore. Mostro è l'assassino dei figli, o dei genitori. Mostro, ancora, è lo stupratore del branco, il linciatore, l'assassino seriale, e ogni altro fra gli innumerevoli non uomini di cui vivono (orrendamente) i nostri palinsesti televisivi.
Noi invece non lo siamo, mostri, né potremmo mai esserlo.
Il fatto è che noi siamo gli uomini e le donne normali. Così, sicuri della nostra piena umanità, siamo anche certi che mai potrebbe capitarci di frequentare la follia del male. E questa certezza ci induce ancor più a pensarlo come assoluto, radicale e folle, quel male. Se è così, la loro - ossia, quella degli altri che lo compiono, quel male - è una condizione patologica: "qualcosa" li fa essere quel che sono, qualcosa che siamo indecisi se considerare del tutto uno stigma morale, un marchio indelebile, o anche e insieme una orrida "necessità" caratteriale, patologica, fors'anche razziale o etnica. In ogni caso, quei mostri sono da estirpare dal Noi, sono da tagliar via dal tessuto sociale come si fa con le cellule cancerogene. Occorre fare a loro quel che essi fanno alle loro vittime, ma ora per una buona causa. Noi - i normali, i buoni - siamo in diritto e in dovere di correggerli, di curarli. E se non ci è possibile, siamo in diritto e in dovere di rinchiuderli, e in casi (che riteniamo) estremi di eliminarli. E il Bene che difendiamo e preserviamo, liberandolo dal Male.
Ne siamo tanto convinti, che ci stupiremmo di riconoscere una convinzione molto simile nel mostro Adolf Eichmann, per esempio. Di questo era sicuro il "ferroviere" e burocrate della soluzione finale: dell'idealismo che lo induceva a perseverare nel suo ingrato dovere, e dell'abnegazione che esso gli costava. In tal modo si dava sollievo dallo schifo "materiale" che talvolta gli procuravano gli effetti del suo lavoro, quando gli capitava di vederli nella loro imbarazzante "attualità". Lo faceva per un'ottima causa, per una causa assoluta, e quello schifo non era che il prezzo da pagare al bene, e anzi proprio al Bene assoluto. Così infatti Heinrich Himmler faceva ripetere alle sue SS, cui era affidato "in cura" lo sterminio di milioni di donne, uomini e bambini: "Noi ci rendiamo conto che ciò che ci attendiamo da voi è 'sovrumano', di essere 'sovrumanamente inumani". E però, "queste sono battaglie che le generazioni future non dovranno mai più combattere". Ecco il Bene che legittima il Male, per quanto gravoso e ripugnante possa apparire agli stomaci più sensibili. Non a caso, Eichmann chiamava queste di Himmler geflugelte Worte, parole alate.
C'è qualcosa, nel cosiddetto Male assoluto, che non è affatto mostruoso e non umano, ma proprio umano, troppo umano: qualcosa che ci riguarda tutti, almeno come terribile possibilità non ancora espressa. Sapere, o almeno sospettare che non ci sono uomini e donne "normali" e immuni - e che non ce ne sono di votati alla mostruosità -, tutto questo, dunque, potrebbe esserci utile. Lo potrebbe se non altro perché ci indurrebbe a cercare le ragioni e le circostanze che troppo spesso spingono alcuni di noi "normali" a violentare corpi e anime, a incrudelire, a torturare, a sterminare. E dopo aver compreso? Ce la propone Philip Zimbardo, una risposta convincente: comprendere il perché di ciò che è stato fatto non significa scusare ciò che è stato fatto.
L'analisi psicologica, aggiunge, non è una "scusologia". E non lo è neppure quella filosofico-politica. Dopo aver compreso, occorrerà scegliere, e prender partito.
Non erano in primo luogo le guardie, che Philip Zimbardo intendeva studiare con il suo esperimento della "prigione simulata", nella seconda metà d'agosto del 1971. II mio interesse iniziale, scrive, era rivolto ai prigionieri e al loro adattamento al carcere. Uno dei motivi di questo orientamento di ricerca, aggiunge, era la mia estrazione sociale "bassa", che mi portava a identificarmi più con questi che con quelle. E tuttavia presto fu chiaro "che il comportamento delle guardie era altrettanto interessante di quello dei prigionieri, e talvolta anche di più".
Che cosa succede, dunque, in quell'estate di più di trentacinque anni fa all'Università di Stanford, in California? Nei locali del Dipartimento di psicologia un gruppo di volontari partecipa a un esperimento di "prigionia simulata". Si tratta di ventiquattro persone, scelte fra il centinaio che hanno risposto a un annuncio sui giornale locale. Il loro compenso sarà di 15 dollari al giorno, per due settimane. I prescelti sono i più stabili psicologicamente, e nessuno fra loro ha trascorsi penali né di droga. "Abbiamo eliminato quelli che avevano un'aria chiaramente strampalata, quelli con precedenti arresti di qualunque genere, e quelli con problemi medici o mentali", ricorda lo stesso Zimbardo. Insomma, si tratta di giovani maschi di media estrazione sociale, intelligenti e sani. A noi verrebbe da dire normali, se questo aggettivo non fosse denso di pregiudizio.
A una metà di loro, presi a sorte, viene assegnato il ruolo di guardie, suddivise in tre turni di otto ore, e all'altra quello di prigionieri (all'esperimento poi partecipano nove guardie e nove prigionieri: gli altri tre più tre restano a disposizione, in caso si renda necessaria qualche sostituzione). A questo punto, i due sottogruppi sono ancora intercambiabili: chi sta in uno potrebbe anche stare nell'altro, e inversamente. Ai primi, alle guardie appunto, è detto che dovranno fare quel che riterranno necessario per mantenere l'ordine tra i secondi. Non vengono loro indicate regole specifiche, né esposti criteri di comportamento, se non per minimi cenni, ma sempre con l'avvertenza che dovranno evitare abusi e punizioni fisiche.
L'esperimento inizia la mattina del 15 agosto, una domenica. Senza preavviso, ignari di quel che sta per accadere, i "prigionieri" sono arrestati nelle loro case, con la collaborazione molto realistica dei poliziotti di Palo Alto. Portati prima alla sede della polizia e poi nella prigione, cioè nei locali del Dipartimento di psicologia trasformati allo scopo, vengono sottoposti a vari rituali di degradazione, più o meno simili a quelli in uso per gli arresti veri: fotografati e schedati, e poi bendati, denudati, cosparsi di disinfettante, e di nuovo fotografati. Più tardi sono rivestiti con uniformi da galeotti: camiciotto di cotone con un numero di identificazione sui petto e sulla schiena, sandali di gomma, nessun indumento intimo (sedendosi, sono costretti ad assumere precauzioni "femminili"). In testa portano una calza di nylon, che nasconde le differenze delle loro capigliature. Arrotolata attorno alla caviglia, infine, hanno una pesante catena, in modo che ricordino di continuo la loro condizione. E, infine, d'ora in avanti non saranno più chiamati per nome, ma con il numero che li "identifica".
Le guardie indossano invece uniformi color cachi, brandiscono un manganello e hanno un fischietto da poliziotto attorno al collo. Come i loro "colleghi" di Nick mano fredda grande film libertario, ambientato in un carcere duro californiano -, portano occhiali a specchio che ne occultano lo sguardo. Per loro la "prigione" non è una sorpresa. Qualche giorno prima sono stati coinvolti negli ultimi lavori per la sua preparazione. Così, ricorda Zimbardo, hanno imparato a sentirsi là come "a casa loro". Oltre a tutto questo, per compiere al meglio il loro lavoro - e forse Eichmann direbbe: con spirito di abnegazione -, tutti insieme hanno discusso e redatto un corpo di regole cui i prigionieri dovranno attenersi.
Finalmente, dopo che gli arrestati sono stati portati nelle loro celle, e dopo che il capoguardia ha letto loro le "regole", la parte più lunga e più intensa dell'esperimento può iniziare. Tutti, volontari e ricercatori, si aspettano che duri due settimane. E però già dal secondo giorno si manifestano comportamenti imprevisti, e sempre più sorprendenti. Le guardie prendono molto sul serio il loro ruolo. Si sentono del tutto a casa loro, appunto. E infatti provvedono con sempre maggior entusiasmo ad applicare quella che a loro sembra la disciplina più adatta a "governare" gli altri nove. Il venerdì di quella stessa settimana, il 20 agosto, le aggressioni fisiche e psichiche sono diventate così radicali - e talvolta così vicine a modelli nazisti -, che Zimbardo e i suoi decidono di interrompere la ricerca, e liberano le vittime. Naturalmente, congedano anche i persecutori, tutti normali, stabili, sani e senza tare morali. Insomma, nessuno di loro è un mostro. (p. IX - XIV)
Che cosa è accaduto di fatto nel carcere fittizio di Stanford? Né più né meno secondo Zimbardo, - mutatis mutandis ovviamente - quello che è accaduto ad Abu Ghraib, il cui processo lo ha coinvolto come perito di parte. Egli scrive:
“La ragione per cui ero scandalizzato ma non sorpreso dalle immagini e dalle storie di violenza su detenuti nella "piccola bottega degli orrori" di Abu Ghraib è che avevo già visto qualcosa di analogo. Trent'anni prima avevo assistito a scene paurosamente simili che si erano verificate durante una ricerca che avevo ideato personalmente e coordinato: detenuti denudati, incatenati, con sacchetti in testa, guardie che montano sulla schiena dei detenuti mentre fanno le flessioni, guardie che umiliano sessualmente i detenuti, e detenuti affetti da un gravissimo stress. Alcune immagini del mio esperimento sono praticamente intercambiabili con quelle delle guardie e dei detenuti di quella remota prigione irachena, il famigerato carcere di Abu Ghraib.
Gli studenti che impersonavano i ruoli di guardie e detenuti in un esperimento di finta detenzione condotto a Stanford nell'estate del 1971 si rispecchiano nelle vere guardie e nel vero carcere iracheno del 2003.“ (p. 26)
Questo paragone implica già la tesi di fondo di Zimbardo, che egli espone nell’Introduzione:
“L'idea che un abisso invalicabile separi le persone buone da quelle cattive è consolante per almeno due ragioni. Anzitutto, crea una logica binaria, in cui il Male è essenzializzato. La maggior parte di noi percepisce il Male come un'entità, una qualità intrinseca di certe persone e non di altre. Alla fine, un cattivo seme dà cattivi frutti, come mostra il loro destino...
Inoltre, sostenere che esiste una dicotomia Bene-Male assolve "le persone buone" dalla responsabilità. Le libera dal dover prendere anche soltanto in considerazione il loro possibile ruolo nel creare, difendere, perpetuare o ammettere le condizioni che contribuiscono alla delinquenza, al crimine, ai vandalismo, alle molestie, al bullismo, allo stupro, alla tortura, al terrore e alla violenza. "Così va il mondo, non si può fare granché per cambiario, e certonon posso farlo io."
Una concezione alternativa è quella che considera il male in termini incrementalisti, come qualcosa di cui tutti siamo capaci, a seconda delle circostanze. Le persone possono, in qualunque momento, possedere in misura più o meno grande una particolare qualità (per esempio, intelligenza, orgoglio, onestà o malvagità). La nostra natura può essere modificata, tanto verso il lato buono quanto verso quello cattivo. La prospettiva incrementalista implica l'acquisizione di qualità attraverso l'esperienza o la pratica intensiva, oppure per intervento esterno, come poter fruire di una particolare opportunità. In breve, possiamo imparare a diventare buoni o cattivi indipendentemente dalla nostra dotazione genetica, dalla personalità o dal retaggio familiare.
Parallela a questa duplice concezione, essenzialista e incrementalista, è la contrapposizione fra cause disposizionali e situazionali del comportamento. Quando ci troviamo di fronte a un comportamento insolito, a un evento inatteso, a un'anomalia priva di significato, che cosa facciamo per tentare di comprenderli? L'approccio tradizionale è consistito nell'individuare qualità intrinseche che portano all'azione: predisposizione genetica, tratti della personalità, carattere, libero arbitrio, altri elementi. Dato un comportamento violento, si cercano tratti sadici di personalità. Data un'azione eroica, si cercano geni che predispongono all'altruismo...
La posizione tradizionale (fra chi appartiene a culture che enfatizzano l'individualismo) è cercare risposte - patologia o eroismo - dentro di loro. La psichiatria odierna ha un orientamento disposizionale. E così pure la psicologia clinica e la psicologia della personalità e della valutazione. La maggior parte delle nostre istituzioni è fondata su questo tipo di concezione, compresi il diritto, la medicina e la religione. Si basa sull'assunto che la colpevolezza, la malattia e il peccato vadano trovati nel colpevole, nel malato e nel peccatore.
Per cercare di comprendere partono dalla domanda "chi": Chi è responsabile? Chi ne è la causa? Di chi è colpa? Di chi è merito?
Gli psicologi sociali (come me) tendono a evitare questo ricorso affrettato al giudizio disposizionale quando tentano di comprendere le cause di comportamenti insoliti. Preferiscono incominciare a cercare un significato domandandosi "quale, che cosa": Quali condizioni potrebbero contribuire a certe reazioni? Quali circostanze potrebbero essere coinvolte nel produrre un certo comportamento? Qual era la situazione dal punto di vista degli attori? Gli psicologi sociali si chiedono: "In che misura le azioni di un individuo si possono far risalire a fattori esterni all'attore, a variabili situazionali e a processi ambientali propri di un dato contesto?".
L'approccio disposizionale sta a quello situazionale come un modello clinico di salute sta a un modello di salute pubblica. Il modello clinico cerca di reperire l'origine del disturbo, della malattia o dell'invalidità nella persona affetta. Gli studiosi della salute pubblica, invece, partono dall'assunto che i vettori della malattia vengano dall'ambiente, che crea le condizioni favorevoli alla sua diffusione. Talvolta la persona malata è il prodotto finale di patogeni ambientali, che se non combattuti colpiranno altre persone, indipendentemente dai tentativi di migliorare la salute del singolo. Per esempio, nell'approccio disposizionale, a un bambino che manifesta un deficit di apprendimento può essere somministrata tutta una gamma di trattamenti medici e comportamentali per superare quell'handicap. Ma in molti casi, specie fra i più poveri, il problema è causato dall'ingestione di piombo presente nella pittura che si scrosta dalle pareti negli stabili popolari ed è aggravato dalle condizioni di povertà: approccio situazionale. Queste visioni alternative non sono semplici variazioni astratte di analisi concettuali, ma portano a modalità molto diverse di affrontare problemi individuali e sociali.
L'importanza di siffatte analisi si estende a tutti noi che, da psicologi intuitivi, affrontiamo la nostra vita quotidiana cercando di immaginarci perché le persone facciano ciò che fanno e come possano essere cambiate in meglio. Ma è raro che in una cultura individualistica una persona non sia affetta dalla tendenza disposizionale, che per prima cosa considera sempre i motivi, i tratti, i geni e le patologie individuali. La maggior parte di noi tende a sopravvalutare l'importanza delle qualità disposizionali e a sottovalutare quella delle qualità situazionali nel cercare di comprendere le cause del comportamento altrui.” (pp. 6 -9)
E’ evidente che l’intento del saggio, non a caso pubblicato dopo lo scandalo di Abu Ghraib, che s’inquadra peraltro in un contesto socio-culturale più ampio che sta restaurando la dicotomia tra Bene e male, è scientifico non meno che culturale e politico.
Sul piano scientifico, Zimbardo cerca di opporre alla marea montante del determinismo genetico, che fa riferimento ad una disposizione individuale all’antisocialità, un approccio che sottolinea l’incidenza dei fattori ambientali e ancor più di quelli situazionali.
Sul piano ideologico e politico, poi, egli insiste sulla responsabilità a monte dell’individuo, vale a dire sul ruolo del sistema, delle gerarchie e dei capi che mettono gli esseri umani in condizioni che favoriscono la loro deumanizzazione.
L’interesse del saggio verte soprattutto sulla seconda parte (cap. 10 -16), nella quale Zimbardo tenta di dare una risposta articolata alla quaestio citata all’inizio.
2.
Il significato dell’esperimento carcerario di Stanford è ricostruito nei termini seguenti:
“L'esperimento si è rivelato un'efficace illustrazione del ruolo potenzialmente tossico dei cattivi sistemi e delle cattive situazioni nell'indurre brave persone a comportarsi in modi patologici, estranei alla loro natura. La narrazione cronologica di questa ricerca, che ho cercato di offrire qui, mostra con chiarezza lino a che punto ragazzi comuni, normali, sani abbiamo ceduto o siano stati sedotti dalle forze sociali insite in quel contesto comportamentale, come lo siamo stati io stesso e molti altri adulti e professionisti che si sono trovati entro i suoi confini. La frontiera tra Bene e Male, un tempo ritenuta stagna, si è invece dimostrata piuttosto permeabile.” (p. 293)
“Da un certo punto di vista, l'Esperimento Carcerario di Stanford non ci dice nulla di più di quanto ci avessero già rivelato, sui mali della vita carceraria, sociologi, criminologi e i racconti stessi dei detenuti. Le carceri possono essere luoghi brutalizzanti che fanno emergere quanto di peggio esiste nella natura umana. Generano violenza e crimine più di quanto non promuovano la riabilitazione costruttiva. Il tasso di recidiva del 60 per cento e oltre indica che le carceri sono diventate porte girevoli per chi abbia avuto una condanna per reati penali. Che cosa aggiunge l'Esperimento Carcerario di Stanford alla nostra comprensione del fallito esperimento sociale delle carceri come strumenti di controllo del crimine? Penso che la risposta stia nel protocollo di base dell'esperimento.
Grazie a procedure sistematiche di selezione ci siamo assicurati che tutti coloro che entravano nel nostro carcere fossero per quanto possibile normali, nella media, sani e non avessero mai avuto precedenti di comportamento antisociale, criminalità o violenza. Inoltre, poiché si trattava di studenti universitari, avevano in genere un'intelligenza superiore alla media, pregiudizi inferiori alla media e una maggiore fiducia nel proprio futuro rispetto ai loro pari meno istruiti. Inoltre, grazie all'assegnazione casuale dei ruoli, elemento chiave della ricerca sperimentale, a queste brave persone erano stati assegnati a caso il ruolo di guardia o di detenuto, indipendentemente dalle loro eventuali preferenze. Ha dominato il caso.” (p. 310)
“In certi potenti contesti sociali la natura umana può subire drastiche trasformazioni come la trasformazione chimica nell'affascinante storia del Dottor Jekyll e del Signor Hyde di Robert Louis Stevenson. L'interesse pluridecennale che ha suscitato l'Esperimento Carcerario di Stanford deriva, a mio avviso, dall'impressionante rivelazione della "trasformazione del carattere": brave persone che diventano improvvisamente perpetratori di male, come guardie, o vittime patologicamente passive, come detenuti, in risposta alle forze situazionali che agiscono contro di loro.
Le brave persone possono essere indotte, sedotte e spinte a comportarsi in modo cattivo. Possono anche essere condotte ad agire in modo irrazionale, stupido, autodistruttivo, antisociale e insensato quando sono immerse in "situazioni totali" che hanno un tale impatto sulla natura umana da mettere in discussione il senso di stabilità e coerenza della personalità individuale, del carattere e dell'etica.” (p. 317)
“L'Esperimento Carcerario di Stanford […] rivela un messaggio che non vogliamo accettare: che la maggior parte di noi può subire significative trasformazioni del carattere quando si ritrova nel crogiuolo delle forze sociali. Ciò che immaginiamo che faremmo quando ne siamo fuori non somiglia molto a ciò che diventiamo e a ciò che siamo capaci di fare una volta intrappolati nel sistema...
La semplice lezione fondamentale impartita dall'Esperimento è che le situazioni contano. Le situazioni sociali possono avere sul comportamento e sul funzionamento mentale di individui, gruppi e leader nazionali effetti più profondi di quanto non crederemmo possibile. Alcune situazioni possono esercitare un'influenza così potente su di noi da indurci a comportarci in modi che non avremmo previsto, che non avremmo mai potuto prevedere...
Le società che promuovono l'individualismo, come gli Stati Uniti e varie altre nazioni occidentali, hanno finito per credere che le disposizioni importino più delle situazioni. Spiegando un comportamento, sopravvalutiamo la personalità e al tempo stesso sottovalutiamo le influenze situazionali.” (p. 319)
“Le Situazioni sono create dai Sistemi.
I Sistemi forniscono il supporto istituzionale, l'autorità e le risorse che permettono alle Situazioni di operare. Dopo aver sottolineato tutte le caratteristiche situazionali dell'Esperimento Carcerario di Stanford, scopriamo che viene raramente sollevato un interrogativo chiave: "Chi o cosa fa sì che vada in questo modo?". Chi ha il potere di progettare il contesto comportamentale e farlo funzionare in certi particolari modi? Chi, quindi, dovrebbe essere ritenuto responsabile delle sue conseguenze e dei suoi risultati? Chi ha il merito dei successi, e chi la colpa degli insuccessi? Nel caso dell'Esperimento Carcerario di Stanford la risposta è semplice: io! Tuttavia, non è altrettanto facile trovare una risposta quando abbiamo a che fare con organizzazioni complesse, come sistemi educativi o correzionali mediocri, multinazionali corrotte, o con il sistema che è stato creato nel carcere di Abu Ghraib.
II Potere del Sistema implica un'autorizzazione o un permesso istituzionalizzato a comportarsi in modi prescritti o a vietare o punire azioni contrarie. Fornisce la "più alta autorità" che legittima a recitare nuovi ruoli, seguire nuove regole, e intraprendere azioni che normalmente sarebbero vietate da preesistenti leggi, norme, morali ed etiche. Tale legittimazione si presenta, di solito, sotto le spoglie dell'ideologia. L'ideologia è uno slogan o una proposta che legittima qualunque mezzo sia necessario per raggiungere lo scopo ultimo. L'ideologia è il "Big Kahuna" che non viene messo in discussione né messo in dubbio perché è così evidentemente "giusto" per la maggioranza in una particolare epoca e in un particolare luogo. Coloro che detengono l'autorità presentano il programma come buono e virtuoso, come un imperativo morale di elevatissimo valore.
I programmi, le politiche e le procedure operative standard che vengono create per supportare un'ideologia diventano una componente essenziale del Sistema. Le procedure del Sistema sono considerate ragionevoli e adeguate, mentre l'ideologia finisce per essere accettata come sacra.” (p. 342)
La natura umana, in sé e per sé, comporta indefinite possibilità di sviluppo fenotipico:
“Considerate la possibilità che ciascuno di noi abbia il potenziale, o gli schemi mentali, per essere santo o peccatore, altruista o egoista, gentile o crudele, sottomesso o dominatore, sano o pazzo, buono o cattivo. Forse, siamo nati con una dotazione completa di capacità, ognuna delle quali si attiva e si sviluppa a seconda delle circostanze sociali e culturali che regolano la nostra vita.” (p. 348)
La situazione e la cultura producono i loro effetti fenotipici facendo leva su di un bisogno di base:
“E fondamentale bisogno umano di appartenenza viene dal desiderio di stare con gli altri, di cooperare, di accettare le norme del gruppo. Tuttavia, l'Esperimento Carcerario di Stanford mostra che il bisogno di appartenenza può anche essere pervertito in eccessivo conformismo, acquiescenza e ostilità fra in group e outgroup. Il bisogno di autonomia e quello di controllo, le forze più importanti per l'autodirezione e la programmazione, possono essere pervertiti in eccessivo esercizio del potere per dominare gli altri o in impotenza appresa.” (p. 349)
3.
I capitoli 12 e 13 sono dedicati all’indagine delle dinamiche sociali che alienano il bisogno di appartenenza inducendo i soggetti ad agire comportamenti antisociali in nome del conformismo rispetto ad un gruppo o di una cieca obbedienza nei confronti dell’Autorità.
Zimbardo rievoca un esperimento famoso al pari del suo: quello del collega e amico Stanley Milgram condotto presso l’Università di Yale nel 1961, pubblicato sul Journal of Abnormal and Social Psychology e discusso poi in un saggio del 1974 (Obedience to Authority: An Experimental View).
Nel corso dell’esperimento, un numero di volontari è sollecitato da un Professore universitario in camice bianco a somministrare delle scosse elettriche di intensità crescente ad un altro individuo. Le scosse in realtà sono fittizie, ma la “vittima” recita, fingendo di riceverle e reagendo ad esse con espressioni vocali e mimiche di crescente dolore. L’esito dell’esperimento è inquietante. Due volontari su tre (il 65%) arrivano al livello massimo della scossa nonostante le suppliche sempre più disperate della “vittima”.
Zimbardo scrive:
“In una serie di esperimenti Milgram ha voluto dimostrare che i suoi risultati non erano dovuti al potere dell'autorità dell'Università di Yale - che coincide con New Haven. Così ha trasferito il suo laboratorio in un malandato palazzo di uffici nel centro di Bridgeport, in Connecticut, e ha ripetuto l'esperimento presentandolo come il progetto di un ente di ricerca privato senza nessun legame con Yale. Non c'è stata differenza; i partecipanti hanno continuato a farsi ammaliare da questo potere situazionale.
I dati hanno rivelato chiaramente l'estrema flessibilità della natura umana: quasi tutti potevano essere totalmente obbedienti o quasi tutti potevano resistere alle pressioni dell'autorità. Tutto dipendeva dalle variabili situazionali che sperimentavano. Milgram è riuscito a mostrare che le percentuali di acquiescenza potevano salire vertiginosamente oltre il 90 per cento delle persone che raggiungevano il livello massimo di 450 volt oppure ridursi a meno del 10 per cento, introducendo una sola variabile cruciale nella ricetta dell'acquiescenza.
Volete l'obbedienza massima? Mettete il soggetto in una "équipe di insegnanti", in cui il compito di spingere il pulsante è affidato a un'altra persona (un complice), mentre il soggetto dà un aiuto in altre parti della procedura. Volete che le persone resistano alle pressioni dell'autorità? Fornite modelli sociali di pari che si sono ribellati. I partecipanti si sono anche rifiutati di somministrare le scosse se l'allievo dichiarava di volerle ricevere; è masochismo, e loro non sono sadici. Inoltre, erano riluttanti a somministrare alti livelli di scossa quando lo sperimentatore sostituiva l'allievo. Era più probabile che procedessero quando l'allievo era lontano che quando era vicino. In ciascuna delle altre variazioni di questo campionario di comuni cittadini americani, delle più varie professioni e classi di età e di entrambi i sessi, è stato possibile ottenere livelli bassi, medi o alti di obbedienza acquiescente premendo l'interruttore situazionale - come se si girasse semplicemente un "disco combinatore della natura umana" nella loro psiche. Questo ampio campione di migliaia di cittadini comuni con retroterra così diversi fa sì che i risultati degli studi di Milgram sull’obbedienza siano fra i più generalizzabili in tutte le scienze sociali.” (p. 399)
L’esperimento di Milgram conferma le ipotesi di fondo di Zimbardo, che trae spunto da questo per analizzare una serie eterogenea di fenomeni ed eventi caratterizzati da comportamenti crudeli e distruttivi. Tra questi eventi, gli abusi di Abu Ghraib assumono, nell’ottica di Zimbardo, un significato particolare.
Le conclusioni cui giunge, a seguito di una ricostruzione minuziosa dei documenti e delle testimonianze, sono, infatti, un esplicito atto di accusa nei confronti dei politici statunitensi:
“In linea con altri grossolani errori commessi dalla presidenza - come la "War on Nouns" - dichiarata alla povertà e alle droghe - l'amministrazione Bush ha dichiarato la "guerra al terrorismo" dopo gli attacchi terroristici dell'1l settembre del 2001. La nuova guerra si basava sulla premessa che il terrorismo è la minaccia principale alla "sicurezza nazionale" e alla "patria", e che va contrastato con tutti i mezzi necessari. Questa premessa ideologica è stata usata praticamente da tutti i paesi come mezzo per ottenere l'appoggio popolare e militare all'aggressione e alla repressione...
La paura è l'arma psicologica elettiva per indurre i cittadini a sacrificare le libertà elementari e le tutele giuridiche in cambio della sicurezza promessa da un governo autoritario. La paura è l'elemento che ha generato l'appoggio dell'opinione pubblica e del Congresso degli Stati Uniti prima a una guerra preventiva contro l'Irak e poi all'irragionevole protrazione di svariate politiche introdotte dall'amministrazione Bush. All'inizio, la paura fu seminata in modo orwelliano prospettando un attacco nucleare contro gli Stati Uniti e i loro alleati, attraverso le fantomatiche "armi di distruzione di massa" che avrebbe avuto a disposizione Saddam Hussein. Per esempio, alla vigilia del voto parlamentare sulla risoluzione che avrebbe approvato la guerra all'Irak, il presidente Bush disse al paese e al Congresso che l'Irak era uno "stato canaglia" estremamente pericoloso per la sicurezza dell'America. "Di fronte a queste realtà", osservò Bush, "gli americani non devono ignorare la minaccia che si va addensando contro di noi. Davanti alla certezza del pericolo, non possiamo aspettare la prova definitiva - la pistola fumante - che potrebbe assumere la forma di un fungo atomico".' Quel fungo atomico non era stato proiettato sull'America da Saddam, ma dal team di Bush.
Negli anni immediatamente successivi, tutti i componenti principali dell'amministrazione Bush rilanciarono quei moniti nei loro discorsi...” (pp-595 -597)
“Possiamo osservare come l'ossessione di Bush per la guerra al terrorismo lo abbia spinto sempre più in basso lungo la pericolosa china cui si riferisce nelle sue parole il defunto senatore Barry Goldwater: "L'estremismo a difesa della libertà non è un difetto E...] la moderazione nel perseguire la giustizia non è una virtù". In accordo a ciò, il presidente Bush ha autorizzato la cosiddetta "domestic surveillance" (alla lettera, "sorveglianza interna") dei cittadini americani da parte dell'Agenzia per la sicurezza nazionale (NSA: National Security Agency) senza mandati legali. Quale che sia l'ordine di grandezza rispetto a un'operazione di estrapolazione di informazioni su vasta scala, un'enorme mole di traffico telefonico e traffico Internet è stata raccolta dalla NSA e inviata alla FBI per essere analizzata - in realtà, si tratta di un volume di dati che travalica le effettive capacità di elaborazione delle informazioni.” (p. 603)
Alla fine di un libro che è una sorta di film dell’orrore, Zimbardo naturalmente propone una sua soluzione alla banalità del male. E’ la banalità dell’eroismo, che egli riconduce alla capacità di opporre resistenza alle influenze indesiderate e alienanti. Questa capacità postula una coscienza morale critica, che può essere corroborata, secondo l’autore, da un programma che comporta dieci formule di autoeducazione e di autocoscienza. L’elenco è il seguente:
“Ho sbagliato”;
“Sto attento”;
“Sono responsabile”:
“Affermerò la mia identità”;
“Rispetto l’autorità giusta ma mi ribello a quella ingiusta”;
“Voglio essere accettato dal gruppo, ma do valore alla mia indipendenza”;
“Sarò più attento al framing”;
“Equilibrerò la mia prospettiva temporale”;
“Non sacrificherò le libertà personali o civili all’illusione della sicurezza”;
“Posso contrastare i sistemi ingiusti”.
Il decalogo ha un suo spessore, ma è redatto sulla base della convinzione che ogni individuo, impegnandosi un po’, possa riuscire a mantenere il suo potere critico in rapporto al sistema, ai ruoli che ricopre in esso e alle situazioni in cui si trova.
4.
Il saggio di Zimbardo si presta a due diverse riflessioni. Le prime vertono sulla metodologia delle ricerche sperimentali nell’ambito della psicologia sociale: le seconde sull’analisi critica delle conclusioni teoriche cui giunge l’autore.
In rapporto al primo punto dirò l’essenziale. Inevitabilmente uno psicologo sociale deve cooptare nelle sue sperimentazioni soggetti volontari appartenenti al suo contesto storico-sociale. Per arrivare a conclusioni che abbiano una qualche oggettività, i soggetti sono sottoposti a test che mirano a confermare la loro normalità, vale a dire l’assenza di disturbi psicopatologi pregressi o attuali (tranne nei casi in cui la sperimentazione non verte sulla psicopatologia).
Il problema è che la normalità in questione è di ordine storico-culturale, vale a dire riconducibile ai criteri di normalità che vigono nel contesto di appartenenza.
Assumere tout-court i soggetti che consentono alla sperimentazione come rappresentanti della natura umana non è sbagliato, a patto però che si tenga presente che essi sono fenotipi culturali.
Quali che siano i risultati della sperimentazione, dunque, occorre sempre chiedersi in quale misura essi fanno capo alla natura umana o all’esperienza culturale che accomuna i soggetti.
Zimbardo non si pone questo quesito e ricava dai comportamenti dei soggetti che si sono prestati all’esperimento conclusioni sulla natura umana che sembrano opinabili.
Com’è noto da tempo, la cultura statunitense ha caratteristiche contraddittorie. Essa è caratterizzata da un’adesione collettiva alle credenze religiose che non ha riscontro negli altri paesi occidentali, ma, al tempo stesso, è impregnata di un radicale individualismo. Sulla base di questa contraddizione, l’altro può essere può essere vissuto, in termini religiosi, come fratello e, in termini laici, come estraneo o indifferente. L’empatia promossa dalla credenza religiosa, che, negli Usa, trova riscontro nel numero indefinito di associazioni di volontariato che si dedicano a compiti assistenziali, può venire del tutto meno nel momento in cui si la relazione con l’altro viene vissuta in termini interindividuali e non più comunitaristici.
L’attribuire un potere totale ad un soggetto su di un altro in un contesto culturale del genere può facilmente indurre la tentazione di utilizzarlo in maniera disumana, perché questa è la legge che governa il sistema economico e la competitività civile.
Ciò che Zimbardo ha scoperto, senza rendersene conto, è la schizofrenia intrinseca alla cultura statunitense, che mescola aspetti umanitaristici e aspetti disumani: “schizofrenia” presente comunemente nei soggetti normali.
Questa critica mi sembra più pregnante di quella che Fromm rivolge a Zimbardo in Anatomia della distruttività, avanzando il sospetto che un buon numero di “guardie”, pur avendo passato i test, fossero dotati di un carattere sadico.
Il sadismo, in tutte le sue forme, implica una sospensione, transitoria o permanente, dell’identificazione con l’altro che nell’uomo, in virtù della sua dotazione empatica, è naturale.
Per quanto concerne le conclusioni cui giunge Zimbardo, il discorso è più complesso. Esse, come ho accennato, sembrano articolarsi sulla base di un presupposto ideologico radicalmente comportamentista. Già questo in una certa misura le invalida perché, oggi, il comportamentismo radicale sembra poco compatibile con le scoperte della genetica. Ma c’è dell’altro.
Ho espresso più volte l’opinione che, dato un corredo genetico di base che comporta un grado di empatia diverso da soggetto a soggetto, ma universalmente presente, se l’uomo rimanesse a contatto con questa emozione, egli non potrebbe danneggiare il simile - maltrattarlo, umiliarlo, sfruttarlo, aggredirlo, torturarlo e togliergli la vita.
Ho ripetuto questo concetto in tutti i saggi che ho scritto, rendendomi conto della reazione di sostanziale incredulità che esso suscita. L’ipotesi, la cui prima origine risale alla lettura di Rousseau, che attribuisce all’uomo una pietas naturale che lo porta ad identificarsi con tutti gli esseri capaci di sentire e dunque di soffrire, ha assunto ormai nel mio sistema di pensiero un carattere di certezza, suffragato da molti dati tratti dall’esperienza psicoterapeutica e dallo studio delle scienze umane e sociali (neuroscienze comprese).
Sulla base di essa ho negato a più riprese l’esistenza di “mostri”. Gli esseri umani possono di sicuro agire comportamenti antisociali, aggressivi e distruttivi nei confronti dei simili. Sul piano oggettivo, tali comportamenti sono criticabili, riprovevoli, aberranti e talora “mostruosi”. La loro interpretazione, però, deve andare al di là delle apparenze e consentire di comprendere l’articolazione delle motivazioni soggettive, sociali e culturali che li hanno prodotti. Occorre prescindere, insomma, a mio avviso, dall’attribuire alla natura umana un’aggressività genetica che, laddove non è tenuta a freno dalla cultura, dal controllo sociale e dalla razionalità individuale, tende ad esprimersi in forme antisociali e distruttive.
Se si prescinde da tale attribuzione riesce del tutto evidente che i comportamenti aggressivi intraspecifici dipendono, sul piano individuale, dalla storia personale del soggetto in rapporto all’ambiente e, sul piano collettivo, dalla pressione esercitata dal gruppo, dalla cultura e dall’ideologia.
Tra questo approccio al problema della natura umana e quello di Zimbardo sembra esserci una notevole concordanza. Di fatto è più apparente che sostanziale.
La tesi centrale del saggio, secondo la quale “la nostra natura può essere modificata, tanto verso il lato buono quanto verso quello cattivo” per cui “ possiamo imparare a diventare buoni o cattivi indipendentemente dalla nostra dotazione genetica, dalla personalità o dal retaggio familiare” è, a mio avviso, equivoca. Sono pienamente d’accordo sulla confutazione dell’idea tradizionale secondo la quale “un abisso invalicabile separa le persone buone da quelle cattive”.
Ritengo però che, per opporsi al determinismo genetico, non c’è bisogno di avallare un determinismo ambientale estremo. Il rischio, infatti, è quello di restaurare l’ideologia della natura umana come tabula rasa, che ormai, alla luce degli sviluppi della genetica, è insostenibile.
Ogni corredo genetico presenta caratteristiche specie-specifiche e caratteristiche proprie dell’individuo. Questo significa che parlare genericamente di una natura umana senza considerare lo spettro genetico con cui essa è rappresentata nei singoli individui porta un po’ sempre fuoristrada.
L’empatia, intesa come emozione innata, per esempio, si può ritenere una caratteristica universale, specie-specifica, in difetto della quale nessun individuo potrebbe raggiungere la consapevolezza di sé e dell’altro. Nei corredi genetici, però, essa è distribuita secondo uno spettro di intensità, presumibilmente non omogeneo, che comporta una maggiore o minore dotazione.
Su questa base è agevole capire che l’effetto dell’ambiente non è affatto indipendente dalla dotazione genetica. Posta infatti una sollecitazione ambientale che richiede di trattare l’altro come una cosa, si può ammettere che essa induca in alcuni (purtroppo nella maggioranza) una sorta di anestesia emozionale, mentre in altri viene ad urtare contro una resistenza viscerale.
Gli eroi di cui parla Zimbardo nell’ultimo capitolo del saggio sono presumibilmente soggetti dotati di un’empatia particolarmente intensa, costretti in qualche misura a coltivarla, vale a dire ad affrontare riflessivamente e criticamente problematiche morali inerenti il rapporto con gli altri.
Se, dunque, l’empatia è una caratteristica universale, è evidente che laddove è rappresentata con un’intensa media, essa è particolarmente sensibile alle influenze ambientali e può andare incontro facilmente a fenomeni di anestetizzazione.
Affermare dunque che la natura umana è una miscela di bene e di male, per cui chiunque può trasformarsi in un essere disumano capace di far male al simile, intanto non è vero, perché anche tra i guardiani di Stanford (come peraltro tra i volontari che si sono prestati all’esperimento di Milgram) ci sono state notevoli differenze comportamentali, e in secondo luogo ripropone una concezione la cui matrice è religiosa. Penso che sia molto più vicino alla verità sostenere che l’uomo è, per natura, un essere sociale ed empatico che può esser indotto dalle circostanze culturali e ambientali ad agire in maniera insensibile, cinica e anche spietata.
La differenza di questo assunto rispetto alle ipotesi di Zimbardo sembra insignificante, ma non lo è se si considera che essa prescinde dal considerare che le influenze ambientali fanno affiorare un male che già c’è ed è intrinseco alla natura umana.
Merito indubbio di Zimbardo è avere valorizzato, nell’analisi dei fenomeni di trasformazione malvagia del carattere, il bisogno di appartenenza. Si tratta, infatti, di un bisogno radicalmente umano che si intreccia con l’empatia può portare l’individuo a sviluppare una coscienza universale. Esso, però, come ha intuito tra gli altri Jung, è potenzialmente pericoloso perché rende l’uomo estremamente influenzabile da parte del gruppo, della cultura, del Sistema e del potere.
Solitamente la società utilizza il bisogno di appartenenza per indurre processi di normalizzazione conformistica, riferiti a valori che possono anche essere mediocri ma raramente sono disumani. In particolari situazioni la spinta conformistica avviene, però, sulla base di valori culturali o ideologici che comportano il sacrificio dell’empatia sull’altare di essi.
Il peso che il bisogno di appartenenza esercita a livello inconscio è effettivamente l’indizio di una sostanziale vulnerabilità degli esseri umani alle influenze ambientali.
Sottolineando efficacemente questo peso, Zimbardo sfiora una complessa problematica, che però non approfondisce.
L’egemonia del modello disposizionale rispetto a quello situazionale si fonda sul fatto che il diritto occidentale si è definito sulla base della responsabilità individuale. Il codice penale fa rientrare alcune influenze ambientali tra le attenuanti e comporta la non imputabilità per soggetti che agiscono reati in condizioni di alterazioni mentali. Se esso però dovesse accogliere radicalmente il modello situazionale, l’ordinamento penale sarebbe stravolto e da rifondare.
Il modello disposizionale ritiene che, quale che sia la situazione nella quale un individuo si trova, e fatta eccezione per condizioni di disagio psicopatologico grave che inibiscono azzerano la capacità di intendere e di volere, egli dispone sempre e comunque di un potere di scelta che lo rende responsabile comunque delle azioni che agisce.
Il modello situazionale, invece, implica che la libertà umana è una variabile fortemente dipendente dalle circostanze, per cui talora il soggetto che agisce un comportamento antisociale o criminoso, e quindi ne è di fatto responsabile, non è affatto libero.
Mettere in discussione il libero arbitrio è una provocazione intollerabile per la nostra cultura, non solo perché, come accennato, su di esso si fonda l’attribuzione sociale e penale di responsabilità, ma soprattutto perché, mettendolo in discussione, il concetto stesso di individuo dotato di volontà propria andrebbe riformulato.
Per questo motivo, l’intervento di Zimbardo a difesa di uno degli imputati per gli abusi di Abu Ghraim e il suo tentativo di dimostrare il cedimento situazionale di una personalità normale prima e dopo quegli eventi sono caduti nel vuoto.
Ugualmente nel vuoto sono cadute le sue dure prese di posizione nei confronti dell’establishment statunitense. Riguardo a questo è inutile che sottolinei il mio sostanziale accordo nel merito. Il tono con cui esse sono esposte mi sembra, però, in contraddizione con il modello situazionale cui Zimbardo fa riferimento. La congiuntura situazionale non riguarda solo i subjecti ma anche i Capi. La presidenza di Bush è destinata a passare alla storia come la peggiore rispetto a tutte le precedenti. Ma cosa ci si poteva aspettare da un uomo la cui ambizione lo ha portato ad affrontare una situazione critica e complessa per la quale era del tutto impreparato?
Almeno in democrazia, la responsabilità dei Capi ricade in parte anche sui cittadini che li eleggono.