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Martin L. Hoffman ha dedicato tutta la sua attività di ricerca all’empatia, giungendo ad un’integrazione tra l’approccio emozionale e quello cognitivo ritenuta ormai da tutti di grande interesse. Pubblicato negli Usa nel 2000 e in Italia nel 2008, Empatia e sviluppo morale è la summa delle sue scoperte e delle sue riflessioni. La tesi di fondo del libro, come viene rilevato nella Presentazione, scritta da Anna Emilia Berti, “è che l’empatia, definita come “risposta affettiva più appropriata alla situazione di un’altra persona che alla propria” sia alla base della moralità” (p. 7)
L’approccio è relativamente nuovo. Nella Presentazione giustamente viene ricordato che c’è una lunga tradizione filosofica, che parte da Hume e, attraverso A. Smith, giunge fino a Darwin, che ha valorizzato la “simpatia” come una caratteristica intrinseca alla natura umana, espressiva di un potente istinto sociale atto a promuovere comportamenti di solidarietà e di aiuto.
Questa tradizione è stata praticamente azzerata dalla teoria freudiana, giunta a negare radicalmente quell’istinto. Fino all’avvento delle ricerche di Hoffmman, la psicologia ha cercato di recuperarla, ma prescindendo dall’empatia come caratteristica naturale, innata e prevalentemente intuitiva, e inserendola nella cornice cognitivista della Teoria della mente, che cerca di spiegare la capacità di comprendere gli stati mentali altrui sulla base di attribuzioni.
Hoffman non ha mai avuto dubbi sull’innatismo dell’empatia, prima ancora che le ricerche sullo sviluppo dei bambini e la scoperta dei neuroni specchio confermassero inequivocabilmente tale ipotesi. Egli ha lavorato per approfondire l’intreccio tra l’empatia, lo sviluppo cognitivo e il contesto culturale, giungendo a conclusioni per alcuni versi originali e addirittura azzardate.
Come accade ad ogni summa che contiene il lavoro di una vita, Empatia e sviluppo morale è articolato in maniera eccellente sotto il profilo espositivo,a partire dalla lunga e densa Introduzione , che espone sinteticamente tutte le tematiche affrontate e vale la pena leggere integralmente:
Quando dico a qualcuno che il mio campo di studio è lo sviluppo morale, di solito la prima reazione è il silenzio - o, a volte, un'esclamazione di sorpresa. Pensano, costoro, che mi riferisca alla religione, al dire la verità, al declino della famiglia tradizionale, alla proibizione di droghe e alcol e alle gravidanze adolescenziali. Quando aggiungo che mi occupo della considerazione che le persone hanno verso gli altri, gli interlocutori si fanno attenti, dopodiché osservano che deve trattarsi di un oggetto di studio piuttosto frustrante, visto che ognuno bada anzitutto a se stesso: chi mai si prende cura degli altri (famiglia a parte, forse)? Ma quando faccio notare loro che se ognuno si fosse preso cura solo di se stesso la specie umana non sarebbe sopravvissuta, si fermano, ci riflettono sopra e dicono qualcosa come: «Ma lo sai che forse hai ragione...». Quello evoluzionistico è un argomento forte; sembra ovvio che gli esseri umani debbano avere geni per il mutuo aiuto, visto che, a suo tempo, cacciatori e raccoglitori non sarebbero sopravvissuti se non si fossero aiutati l'un l'altro.
Comunque sia, quelli che studiano il comportamento morale prosociale lo fanno nel «primo mondo» alla fine del XX secolo, in una società attraversata da individualismo competitivo e indifferenza verso il prossimo, e sono tutti perfettamente consapevoli che per quanto una persona si prenda cura degli altri, ognuno alla resa dei conti pensa prima di tutto a se stesso: lui (lei) non è l'altro. Ciò nondimeno, le persone fanno sacrifici per gli altri - grandi sacrifici, a volte - e spesso li aiutano in modi meno importanti, e tutto ciò migliora la qualità della vita di tutti e rende possibile l'esistenza sociale. Vi è dunque qualcosa da studiare. Non per nulla si tratta di un tema che ha interessato i filosofi a partire (almeno) da Aristotele, e che gli psicologi studiano da quasi un secolo. La persistenza di questo tema si deve, a mio giudizio, all'ovvia importanza che esso riveste per l'organizzazione sociale e al fatto che sintetizza il dilemma esistenziale umano: come affrontare gli inevitabili conflitti tra bisogni egoistici e obblighi sociali.
La filosofia e la religione offrono diverse risposte a questo dilemma, e queste risposte si ripresentano nelle teorie psicologiche contemporanee. Secondo la «dottrina del peccato originale», ad esempio, l'uomo nasce egoista e poi, attraverso la socializzazione, acquisisce una coscienza morale che controlla l'egoismo; questa dottrina corrisponde alle prime formulazioni teoriche freudiane e alle teorie dell'apprendimento sociale, che sottolineano quanto siano importanti, per lo sviluppo morale, le ricompense e le punizioni dei genitori (soprattutto il dare o negare affetto). Diametralmente opposta, e più interessante, è la «dottrina della purezza innata», associata al nome di Rousseau. Essa considera il bambino naturalmente buono (sensibile agli altri), ma vulnerabile all'azione corruttrice della società. Questa dottrina corrisponde, per certi aspetti, alla teoria di Piaget; la quale, benché non affermi che i bambini siano naturalmente puri, suppone però che la loro relazione con gli adulti crei un rispetto eteronomo per le regole e per l'autorità che interferisce con lo sviluppo morale. Questa corruzione da parte degli adulti può essere vinta solo dal reciproco «dare e avere» dell'interazione libera, senza supervisione, con i propri pari, che, assieme alle capacità cognitive che si sviluppano naturalmente, permette ai bambini di assumere il punto di vista altrui e di sviluppare un'etica autonoma. La somiglianza con la dottrina della «purezza innata» sta nel fatto che l'interazione libera e naturale del bambino premorale favorisce lo sviluppo morale, mentre l'interazione con gli adulti (socializzati) lo ostacola.
Tra i filosofi, Immanuel Kant e i suoi eredi - che cercarono di dedurre principi di giustizia universali e applicati in modo imparziale - hanno ispirato il tentativo di Kohlberg (e, in minor misura, di Piaget) di descrivere una successione invariante di stadi morali universali. La versione britannica dell'utilitarismo rappresentata, tra gli altri, da David Hume e Adam Smith, che consideravano l'empatia un legame sociale necessario - trova espressione nelle attuali ricerche sull'empatia, la compassione e l'etica del prendersi cura.
Le teorie contemporanee dello sviluppo morale prosociale tendono a focalizzarsi su una singola dimensione, ognuna con i suoi propri processi esplicativi. Le teorie dell'apprendimento sociale si occupano del comportamento di aiuto e affrontano in particolare i processi implicati nella ricompensa, nella punizione e nell'imitazione. Le teorie dello sviluppo cognitivo riguardano il ragionamento morale e si servono di concetti come quelli di assunzione di prospettiva (perspective taking), reciprocità, disequilibrio cognitivo, costruzione progressiva e co-costruzione. Le teorie dello sviluppo emotivo e motivazionale fanno appello a concetti come quelli di identificazione con il genitore, angoscia per la perdita dell'amore, empatia, simpatia, senso di colpa e interiorizzazione morale. Mi occupo da tempo della dimensione emotivo-motivazionale e specialmente dello sviluppo dell'empatia, del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale. A mio giudizio, l'empatia è la scintilla da cui nasce l'interesse umano per gli altri, il collante che rende possibile la vita sociale. Potrà essere fragile ma, verosimilmente, ha accompagnato finora la nostra evoluzione e può ben darsi che duri tanto quanto l'umanità.
In questo libro aggiorno i miei studi precedenti e li inquadro in una teoria generale del comportamento morale prosociale e del suo sviluppo, che mette in luce il ruolo morale dell'empatia nell'emozione, nella motivazione e nella condotta, ma attribuisce anche speciale importanza alla cognizione. Il mio obiettivo è chiarire i processi che si trovano alla base dell'attivazione dell'empatia e il ruolo che questa ha nella condotta prosociale. Descriverò le forme in cui l'empatia si sviluppa, dalle forme preverbali presenti, forse nei primi esseri umani e ancor oggi nei primati, fino alle più sofisticate espressioni di interesse per le sottili e complesse emozioni umane. Esaminerò inoltre il contributo dell'empatia ai principi del prendersi cura e della giustizia, alla soluzione dei conflitti fra cura e giustizia, e al giudizio morale.
Sono trent'anni che lavoro a questa teoria. Essa include elementi degli orientamenti filosofici e psicologici menzionati sopra, ma anche della psicologia cognitiva contemporanea: memoria, elaborazione delle informazioni, attribuzione causale e, specialmente, la sintesi di affetto e cognizione. Il suo focus primario è la considerazione per gli altri - quella che spesso è chiamata «etica del prendersi cura» - ma include anche la «giustizia» e la relazione (di mutuo sostegno, benché a volte contraddittoria) tra il prendersi cura e la giustizia.
La teoria si propone di dar conto dell'azione umana in cinque tipi di incontri o dilemmi morali, che, mi sembra, abbracciano la maggior parte del dominio morale prosociale.
1. Nel primo tipo, il più semplice, vi è uno spettatore innocente del dolore o della sofferenza altrui (di tipo fisico, emotivo, economico). Il problema morale è: la persona darà aiuto? e, se non lo fa, come si sentirà?
2. Il secondo tipo implica un trasgressore che nuoce o è in procinto di nuocere a qualcuno (in modo accidentale, in una lotta, in una disputa). Qui il problema morale è: la persona eviterà di nuocere all'altro? e, in caso contrario, si sentirà poi colpevole?
3. Nel terzo tipo di dilemma, che combina elementi dei primi due, vi è un trasgressore virtuale che, pur essendo innocente, crede di avere fatto del male a qualcuno.
4. Il quarto tipo è più complesso: implica più parti morali (multiple moral claimants) tra le quali la persona è costretta a scegliere. Il problema morale è: a chi dare aiuto? e la persona si sentirà colpevole per avere trascurato gli altri?
5. Il quinto tipo, nel quale il prendersi cura si contrappone alla giustizia, implica non solo più parti morali, ma anche un conflitto fra la considerazione per il prossimo e temi più astratti quali i diritti, il dovere, la reciprocità. Il problema morale in questo caso è: quale principio prevarrà, la cura o la giustizia? e ci sentiremo colpevoli per avere violato l'altro principio? Questi dilemmi - il dilemma tra più parti morali e quello tra cura e giustizia - sono particolarmente importanti in società come le nostre, che stanno diventando sempre più diversificate culturalmente.
Tutte e cinque queste situazioni condividono una base motivazionale empatica - dove l'empatia è definita come una risposta affettiva più consona alla situazione di un altro che non alla propria. Ogni situazione è caratterizzata da sofferenza empatica - si soffre ad osservare qualcuno che soffre - e da una o più motivazioni derivate da tale sofferenza: sofferenza simpatetica, rabbia empatica, sentimento empatico di ingiustizia, senso di colpa.
Il libro inizia con un'analisi della situazione dello spettatore innocente, il cui modello si propone di rispondere alle seguenti domande: quali sono le motivazioni che inducono lo spettatore innocente ad aiutare la vittima? Quali sono i meccanismi psicologici alla base dell'attivazione di queste motivazioni? Qual è il loro corso di sviluppo? Queste domande trovano risposta nei primi tre capitoli (prima parte) del libro. Il capitolo secondo comincia definendo l'empatia come una risposta affettiva più consona alla situazione di un altro che non alla propria. Il tema centrale è la sofferenza empatica (empathic distress), giacché di solito gli spettatori sono tipicamente nella posizione di rispondere a qualcuno che soffre. Illustreremo le prove che mostrano che la sofferenza empatica agisce come una motivazione morale prosociale, ma la maggior parte del capitolo riguarda le varie modalità di attivazione dell'empatia.
Se, come ho sostenuto altrove [Hoffman 1981], l'empatia è frutto della selezione naturale, essa deve essere una risposta multideterminata, che può essere suscitata da segni o indizi di sofferenza provenienti dalla vittima o dalla situazione in cui essa si trova. Tale in effetti è, ed esamineremo qui cinque forme chiaramente distinte di attivazione empatica.
Tre sono preverbali, automatiche ed essenzialmente involontarie: a) la mimesi (mimicry) motoria e la retroazione afferente che ne segue; b) il condizionamento classico; c) l'associazione diretta tra indizi provenienti dalla vittima o dalla sua situazione e le passate esperienze dolorose dell'osservatore. L'empatia suscitata da queste tre modalità è una risposta affettiva passiva e involontaria, che dipende da stimoli superficiali e richiede il livello più basso di elaborazione cognitiva. Questa semplice forma di sofferenza empatica è tuttavia importante, proprio perché mostra che gli esseri umani sono fatti in modo tale da poter provare, involontariamente e intensamente, le emozioni di un'altra persona - che spesso la loro sofferenza dipende da un'esperienza dolorosa altrui, piuttosto che propria. Queste tre modalità preverbali sono cruciali per suscitare empatia nei bambini, specialmente nelle situazioni faccia a faccia, ma continuano ad operare e a dotare l'empatia di una dimensione di involontarietà nel corso di tutta la vita. Non solo consentono a una persona di rispondere a qualunque segnale, ma la costringono a farlo - in modo istantaneo, automatico e senza richiedere consapevolezza conscia.
Vi sono poi due modalità cognitive di ordine superiore:
d) l'associazione mediata, cioè l'associazione tra indizi espressivi provenienti dalla vittima o indizi forniti dalla sua situazione e le esperienze dolorose che la persona ha avuto in passato, associazione che è mediata dall'elaborazione semantica di informazioni provenienti dalla vittima o che la riguardano; e) e l'assunzione del ruolo o della prospettiva di qualcun altro (role-taking, perspective-taking), quando la persona immagina come si sente la vittima o come lei stessa si sentirebbe se fosse al suo posto. Tutte e due queste modalità possono essere protratte nel tempo e controllate volontariamente, ma, quando l'attenzione della persona è rivolta alla vittima, possono attivarsi involontariamente e immediatamente alla vista della sofferenza di questa. Esse contribuiscono a estendere la portata della capacità empatica e permettono di provare empatia per qualcuno che non è presente.
A causa dell'esistenza di più modalità di attivazione, la mia definizione di empatia non comporta necessariamente, benché spesso la includa, una stretta corrispondenza fra lo stato affettivo dell'osservatore e quello della vittima. Le diverse forme di attivazione empatica assicurano un certo grado di corrispondenza, anche in culture differenti (come vedremo più avanti), e ciò per due ragioni:
1. la mimesi (mimicry) che può essere automatica e avere una base neurale, assicura una corrispondenza quando l'osservatore e la vittima sono in contatto faccia a faccia;
2. il condizionamento e l'associazione assicurano una corrispondenza perché tutti gli esseri umani sono strutturalmente affini ed elaborano le informazioni in modo simile, cosicché è probabile che rispondano a eventi analoghi con analoghe emozioni.
Ma a volte l'empatia non richiede una corrispondenza ma anzi può richiedere una certa discrepanza, come quando le condizioni di vita della vittima vengono mascherate dai suoi sentimenti nella situazione immediata. E’ in queste occasioni che la mediazione verbale e l'assunzione di ruolo possono avere un ruolo centrale.
Nel capitolo terzo, uno dei capitoli chiave del libro, presento la mia teoria dello sviluppo della sofferenza empatica. La mia tesi è che nello sviluppo avvenga una sintesi tra le emozioni empatiche dei bambini e la loro crescente consapevolezza cognitiva degli altri in quanto distinti da sé. Questa sintesi dà origine a cinque «stadi» di sviluppo della sofferenza empatica: a) il pianto reattivo del neonato; b) la sofferenza empatica egocentrica, nella quale il bambino risponde alla sofferenza altrui come se fosse lui stesso a patina; ciò accade nel periodo di sviluppo in cui il bambino è capace di sofferenza empatica (sulla base delle prime forme di attivazione di tipo preverbale) ma ancora non distingue chiaramente tra sé e l'altro; c) la sofferenza empatica quasi-egocentrica, nella quale i bambini si rendono conto che la sofferenza non è loro, ma dell'altro, e tuttavia confondono gli stati interni dell'altro con i propri e cercano di aiutarlo facendo per lui ciò che darebbe conforto a loro stessi; d) la sofferenza empatica veridica, nella quale il bambino è più vicino a sentire ciò che l'altro sente realmente, perché giunge a rendersi conto che l'altro ha stati interni indipendenti dai suoi; e) l'empatia nei confronti di esperienze altrui che vanno oltre la situazione immediata (per esempio: malattie croniche, difficoltà economiche, privazioni), quando il bambino si rende conto che la vita di altre persone può essere fondamentalmente triste o lieta, e, come sottocategoria, quando il bambino prova empatia nei confronti di un intero gruppo (senzatetto, vittime di attentati terroristici).
In questo capitolo presento anche le prove dell'ipotesi che, a partire dallo stadio c), la sofferenza empatica dei bambini si trasformi, in parte, in un sentimento di sofferenza simpatetica o di compassione per la vittima, e che, da quel momento, quando il bambino osserva una persona che sta soffrendo, avverta tanto sofferenza empatica quanto simpatetica. Nel resto del volume, con il termine sofferenza empatica farò riferimento a una combinazione di ambedue i tipi di sofferenza (empatica/simpatetica).
In questo schema di sviluppo, ogni nuovo stadio comprende e riunisce in sé le conquiste dei precedenti. Nello stadio più avanzato si è esposti a un insieme di informazioni sulle condizioni della vittima che può includere segni espressivi verbali e non verbali provenienti dalla vittima stessa, conoscenze sulle sue condizioni di vita e indizi situazionali. Le informazioni che provengono da queste fonti sono elaborate separatamente: segni non verbali suscitano l'empatia attraverso forme di elaborazione essenzialmente involontarie e cognitivamente superficiali (mimesi, condizionamento, associazione); i messaggi verbali della vittima, la descrizione del suo stato o della sua condizione da parte di una terza persona, la conoscenza personale che ne abbiamo, richiedono, per suscitare una risposta empatica, forme di elaborazione più complesse (associazione mediata, assunzione di ruolo). Nello stadio più avanzato, possiamo riprodurre mentalmente le emozioni e le esperienze suggerite da queste informazioni e considerarle introspettivamente, e in tal modo possiamo comprendere e rispondere affettivamente alle situazioni, ai sentimenti e ai desideri dell'altro, pur mantenendo il senso di separazione tra questa persona e noi stessi. E se le informazioni che possediamo sulle condizioni di vita dell'altro ne contraddicono il comportamento nella situazione immediata, la nostra risposta empatica può essere influenzata da tali informazioni, oltre (e forse più) che dal suo comportamento immediato.
Già a questo punto dovrebbe essere chiaro che la cognizione ha un ruolo importante nello sviluppo della sofferenza empatica. La sua importanza appare ancora più evidente nel capitolo quarto, che illustra la tendenza umana a spiegare gli eventi in chiave causale e mostra come le attribuzioni sulla causa della sofferenza altrui possano articolare la sofferenza empatica in quattro affetti morali fondati sull'empatia.
1. Quando la causa è oltre la possibilità di controllo della vittima (malattia, incidente, perdita), la sofferenza empatica degli osservatori si trasforma, almeno in parte, in sofferenza simpatetica, come nella trasformazione evolutiva della sofferenza empatica in simpatetica analizzata nel capitolo terzo.
2. Se la causa è una terza persona, la sofferenza empatica si trasforma in rabbia empatica, cioè una risposta empatica alla rabbia della vittima o un sentimento duplice di tristezza o delusione empatica (se è questo, e non rabbia, ciò che la vittima avverte) e, insieme, di rabbia verso il colpevole. Questa forma duale di rabbia empatica può essere quella prevalente in società come la nostra, dove, a causa della socializzazione, non è usuale avere sentimenti di rabbia aperta. Anche in questo caso, l'empatia comporta una discrepanza fra i sentimenti dell'osservatore e quelli della vittima.
3. Quando vi è una discrepanza tra la natura della vittima e la sua sorte (quando, ad esempio, una brava persona se la passa male), la patente violazione del principio di reciprocità o giustizia può trasformare la sofferenza empatica dell'osservatore in un sentimento empatico di ingiustizia.
4. Infine, se gli osservatori non prestano aiuto alla vittima o se i loro sforzi sono vani (fosse anche per buone ragioni), essi possono considerarsi causa del fatto che la vittima abbia continuato a soffrire, e questa percezione può trasformare la sofferenza empatica in senso di colpa per inazione. Ovviamente, può accadere che una persona mitighi la propria sofferenza empatica incolpando la vittima della sua stessa sofferenza.
Un aspetto importante del modello dello spettatore è che la sofferenza empatica e le risposte affettive su base empatica non richiedono che la vittima sia materialmente presente. Poiché gli esseri umani hanno la capacità di rappresentarsi gli eventi e di immaginarsi al posto di un'altra persona, e poiché gli eventi rappresentati hanno il potere di evocare risposte affettive, per avvertire sofferenza empatica tutto quel che occorre è immaginare le vittime (come quando leggiamo delle disgrazie di qualcuno, consideriamo problemi economici o politici che comportano vittime reali o potenziali, o formuliamo giudizi à la Kohlberg su dilemmi morali ipotetici). Possiamo anche trasformare una questione morale astratta in una con valenza empatica immaginando, ad esempio, le vittime di una riduzione di personale e i loro sentimenti. La capacità di rappresentazione fa sì che la morale empatica trascenda gli incontri faccia a faccia tra i bambini e i membri del gruppo primario, sui quali si sono concentrate finora la maggior parte delle ricerche. In tal modo, il modello dello spettatore giunge ad abbracciare una varietà di situazioni il cui limite non è dato dalla presenza della vittima ma dall'immaginazione dell'osservatore.
Come il modello dello spettatore è l'incontro morale prototipico per ciò che riguarda l'empatia, e specialmente la sofferenza empatica, così il modello della trasgressione è l'incontro morale prototipico per ciò che riguarda il senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia (contrapposto al senso di colpa dello spettatore per inazione). Il modello della trasgressione, inoltre, pone l'accento sulla prima socializzazione del bambino nella famiglia ed è l'incontro prototipico per l'interiorizzazione morale. Le questioni morali sono le seguenti: che cosa motiva una persona a evitare di danneggiare gli altri e a tener conto
delle loro necessità, anche quando esse sono in conflitto con le proprie? Quando arrechiamo danno a qualcuno, ci sentiamo poi colpevoli? Quando pensiamo di agire in un modo strumentale e interessato, che sappiamo potrà danneggiare qualcuno (benché non sia questa la nostra intenzione), ci aspettiamo di provare sofferenza empatica e senso di colpa? E che cosa si intende esattamente per interiorizzazione morale? Questi temi sono trattati nella seconda parte del libro (capp. V e VI).
Il senso di colpa e l'interiorizzazione morale sono al centro del capitolo quinto, nel quale descrivo il senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia, presento i dati che dimostrano che esso esiste e che agisce come motivazione morale prosociale, e avanzo delle ipotesi sui processi di sviluppo che intervengono nella sua formazione. Sottolineo anche l'importanza dell'interiorizzazione morale, che definisco semplicemente così: la struttura morale prosociale di una persona è interiorizzata quando essa l'accetta e si sente obbligata a rispettarla a prescindere da sanzioni esterne; in altri termini, le ricompense e le punizioni che prima facevano sì che la persona tenesse conto degli altri hanno perso la maggior parte della loro forza, ed essa sente che la motivazione a tenere conto degli altri scaturisce autonomamente dal suo interno. Nello stesso capitolo sono analizzate le varie concezioni dell'interiorizzazione morale: dalla teoria freudiana alle teorie dell'apprendimento sociale, dello sviluppo cognitivo, dell'attribuzione, dell'elaborazione delle informazioni.
Di queste concezioni, quelle che mi sono apparse più utili trovano posto nella teoria dello sviluppo del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale esposta nel capitolo sesto. La mia definizione di motivazione morale interna è che essa: a) ha un carattere irresistibile e obbligatorio; b) è qualcosa che sentiamo provenire dall'interno; c) ci fa sentire colpevoli quando compiamo o consideriamo la possibilità di compiere delle azioni che danneggiano gli altri; d) fa sì che teniamo conto dei bisogni degli altri anche quando sono in conflitto con i nostri. Quando questo conflitto ha luogo, i processi attivatori dell'empatia che agiscono nella situazione dello spettatore possono non avere abbastanza forza da motivare una persona ad agire in modo prosociale. Per creare motivazioni prosociali sufficientemente forti da operare in situazioni di conflitto, i genitori devono attivamente socializzare il bambino al rispetto per gli altri.
I genitori interagiscono con il bambino in vari modi, ma solo negli incontri di tipo disciplinare essi creano le interconnessioni necessarie per il senso di colpa e per l'interiorizzazione morale: vale a dire, le interconnessioni tra le motivazioni egoistiche del bambino, il suo comportamento e i danni che ne conseguono per gli altri. E solo negli incontri disciplinari i genitori sollecitano il bambino a controllare il proprio comportamento e tener conto dei bisogni e dei diritti altrui. Se i genitori lo fanno in modo appropriato, possono far vivere ai loro figli l'esperienza di controllare la propria condotta attraverso l'elaborazione attiva delle informazioni sulle conseguenze delle proprie azioni per gli altri; esperienza che favorisce lo sviluppo di una motivazione interna, fondata sull'empatia, a tener conto degli altri.
Farlo in modo appropriato vuol dire ricorrere a un atto di induzione quando il bambino nuoce o è sul punto di nuocere a qualcuno. L'induzione mette in risalto sia la sofferenza della vittima sia il comportamento del bambino che l'ha provocata e, come è stato dimostrato, contribuisce allo sviluppo del senso di colpa e all'interiorizzazione dei principi morali. La mia spiegazione è questa: le pratiche disciplinari del genitore comprendono quasi sempre elementi di affermazione del potere e di ritiro dell'amore che sollecitano il bambino o la bambina a prestare attenzione al genitore: se la sollecitazione è debole può accadere che il bambino ignori il genitore; se è eccessiva è possibile che le emozioni suscitate nel bambino (ostilità, timore) gli impediscano di elaborare efficacemente le informazioni dell'induzione e di concentrare l'attenzione sulle conseguenze che le sue azioni hanno su lui stesso. Un'induzione che si adatti al livello cognitivo del bambino e lo solleciti solo quanto basta perché elabori l'informazione dell'induzione e ponga mente alle conseguenze delle sue azioni per la vittima, può suscitare sofferenza empatica e senso di colpa (tramite i meccanismi di attivazione descritti sopra). In questo modo i genitori possono approfittare di un alleato già presente nel bambino - la sua inclinazione all'empatia - e creare una motivazione morale capace di competere con le sue motivazioni egoistiche.
Quando il bambino sperimenta, più e più volte, la sequenza che comincia dalla trasgressione, segue con l'induzione da parte dei genitori, a sua volta seguita dalla sofferenza empatica e dal senso di colpa, si crea uno script (copione) della forma
Trasgressione →Induzione → Senso di Colpa, cui la sofferenza empatica e il senso di colpa conferiscono forza motivazionale. Quando uno script è attivato per la prima volta in una situazione di conflitto con gli altri, la sua componente motivazionale può non avere forza sufficiente a vincere la prospettiva del beneficio egoistico. Ma lo script può rafforzarsi con la ripetizione e, quando si combina con lo sviluppo cognitivo e la pressione dei pari, può diventare efficace. La pressione dei pari obbliga infatti il bambino a rendersi conto che anche gli altri hanno diritti; la cognizione lo mette in grado di comprendere il punto di vista altrui; la sofferenza empatica e il senso di colpa lo motivano a tenere conto dei diritti e dei punti di vista degli altri.
Questi scripts morali prosociali non sono acquisiti in modo passivo; al contrario, sono costruiti attivamente dal bambino in un processo continuo nel quale egli compone, sintetizza e organizza semanticamente le informazioni dell'induzione, mettendole in rapporto con le proprie azioni e con la situazione della vittima. Questa elaborazione mentale attiva fa sì che i processi cognitivi e affettivi interni del bambino divengano per lui salienti, e che il bambino percepisca gli scripts e la norma implicita di tenere conto degli altri come sue costruzioni e come parte del suo sistema motivazionale interno. L'intervento dei genitori non è più necessario; per attivare gli scripts, ora della forma Trasgressione → Senso di Colpa, è sufficiente che il bambino sia consapevole di nuocere a qualcuno. Una volta che lo script sia stato attivato, il bambino percepisce il senso di colpa associato allo script e la motivazione a riparare il danno come provenienti dal suo interno. Lo script può essere attivato prima del compimento di un'azione da pensieri e immagini che il bambino, o la bambina, può avere circa i suoi effetti dannosi, e il senso di colpa anticipatorio che ne risulta crea una motivazione a non commettere l'azione; se poi il bambino la commette si sentirà colpevole.
In breve, il capitolo sesto illustra le precondizioni dello sviluppo di una precoce motivazione morale a tenere conto degli altri anche quando i loro bisogni sono in contrasto con i nostri. Esperienze successive di vario genere estendono questa motivazione ad aree della vita di cui non si era trattato in famiglia; queste esperienze creano anche abilità e competenze che rafforzano la motivazione e contribuiscono a collegarla con principi morali relativamente astratti, come il prendersi cura e la giustizia. Il capitolo sesto presenta inoltre le prove empiriche della teoria e affronta la questione della direzione degli effetti.
Non dovrebbe sorprendere che, una volta acquisiti, gli scripts Trasgressione → Senso di Colpa possano attivarsi e suscitare nel bambino questo sentimento ogni volta che egli crede di avere trasgredito, che sia vero o no. A questo senso di colpa virtuale, e agli atti dannosi che presuppone, diamo il nome di trasgressioni virtuali. La nozione di senso di colpa virtuale non è nuova; una delle definizioni del termine guilt secondo il Webster's Ninth New Collegiate Dictionary è: «senso di colpa, specialmente per violazioni immaginarie».
Il capitolo settimo illustra e spiega alcune varianti del senso di colpa virtuale. Il primo tipo, il senso di colpa «relazionale», può essere endemico delle relazioni strette, giacché esse offrono innumerevoli opportunità non solo per ferire l'altro ma anche per credere di averlo ferito. Il legame tra i membri della relazione è tale che i sentimenti e gli stati d'animo dell'uno dipendono strettamente da quelli dell'altro e dalle sue azioni. Inoltre, cosa più importante, ognuno dei due sa che l'altro dipende da lui allo stesso modo, sicché può sviluppare un'acuta sensibilità per le ripercussioni che le sue parole e le sue azioni possono avere sull'altro. Può dunque apparire ragionevole che quando l'uno è triste o scontento e non ne è chiara la causa, l'altro non solo provi sofferenza empatica ma si senta anche responsabile di quella condizione; se fosse certo della propria innocenza potrebbe anche non sentirsi colpevole, ma ciò presuppone l'esistenza di accurate registrazioni mentali delle interazioni con l'altro - una forma di contabilità emozionale poco comune nelle relazioni strette.
Un altro tipo di senso di colpa virtuale - il senso di colpa per assunzione di responsabilità - si ha quando una persona si sente responsabile del danno sofferto da qualcun altro, anche se i fatti mostrano chiaramente che non ne è la causa. Ciò che accade, si direbbe, è che la persona risponde empaticamente alla sofferenza della vittima, ripercorre mentalmente gli eventi, conclude che se avesse agito diversamente avrebbe potuto impedire l'incidente, passa dall'avrei potuto all'avrei dovuto, si rimprovera e si sente colpevole.
Mentre le relazioni strette e le posizioni di responsabilità sono il contesto nel quale nascono il senso di colpa relazionale e per assunzione di responsabilità, il perseguimento degli obiettivi e degli interessi che accompagnano normalmente lo sviluppo è il contesto più adatto per le trasgressioni virtuali che creano un «senso di colpa evolutivo». Un ragazzo può credere che se lascia la famiglia per andare all'università farà soffrire i genitori - senso di colpa per la separazione -; un altro può pensare che se fa meglio dei suoi compagni li farà sentire inadeguati - senso di colpa per il successo. Ci si può sentire in colpa anche per la propria ricchezza, cioè perché si gode di benefici che altri non hanno - senso di colpa per la ricchezza. Benché anche gli adulti possano sentirsi in colpa per il proprio benessere economico, associo questo tipo di sentimento allo sviluppo perché sembra più frequente fra gli adolescenti (almeno così era negli scorsi anni Sessanta) e perché per coloro che lo sperimentano può avere un ruolo importante nello sviluppo morale prosociale.
Come è noto, gli individui che vedono un altro morire o essere ferito o incorrere in qualche disgrazia (a causa di guerre, attentati terroristici, disastri naturali, tagli di personale), mentre loro restano incolumi, spesso si sentono colpevoli di essersi salvati. Il senso di colpa si compone di emozioni in conflitto: gioia per la sopravvivenza, dolore empatico per le vittime. Se a ciò si aggiunge il segreto sollievo che il peggio sia toccato a qualcun altro, il risultato sarà un doloroso senso di colpa - il senso di colpa per la sopravvivenza. Questo sentimento può essere la risposta alla domanda: «Perché io, perché mi sono salvato proprio io e non qualcun altro?». Ciò che questo interrogativo rivela, e ciò che il senso di colpa per la sopravvivenza può avere in comune con il senso di colpa per la ricchezza, è l'impossibilità di giustificare il proprio privilegio nei confronti della vittima. Il proprio privilegio viola il principio di equità o reciprocità, e la consapevolezza del privilegio può trasformare la sofferenza empatica per la vittima in un sentimento empatico di ingiustizia e in un sentimento di colpa. La larga diffusione del senso di colpa per il proprio privilegio o per la propria sopravvivenza, nonché gli altri tipi di senso di colpa virtuale, confermano la mia convinzione che gli esseri umani, almeno nella nostra società, siano «macchine per il senso di colpa».
Il capitolo ottavo passa dal ruolo della motivazione empatica nell'agire morale prosociale alle sue limitazioni, dovute al fatto che l'empatia dipende dall'intensità e dalla salienza dei segnali di sofferenza, e dalla relazione tra l'osservatore e la vittima. Una limitazione è che anche se a tutta prima si può pensare che l'attivazione empatica sia maggiore quanto più i segnali di sofferenza sono salienti, se questi lo sono all'estremo possono risultare talmente avversivi da trasformare la sofferenza empatica dell'osservatore in un vivissimo sentimento di sofferenza personale. Questa sovrattivazione empatica (empathic over-arousal) può far sì che gli osservatori abbandonino la modalità di risposta empatica, si concentrino sulla propria sofferenza e distolgano la loro attenzione dalla vittima. Un'eccezione è quella delle persone coinvolte in una relazione di aiuto (terapeuta-paziente, genitore-figlio); in questo caso, la sovrattivazione empatica può rafforzare la sofferenza empatica e la motivazione ad aiutare la vittima.
La seconda limitazione è la vulnerabilità dell'empatia a due tipi di bias: il bias di familiarità (familiarity bias) e il bias di immediatezza (here-and-now bias). Anche se le persone tendono a rispondere in modo empatico a chiunque (o quasi) mostri sofferenza, esse tendono a favorire sistematicamente le vittime che fanno parte della loro famiglia o del loro gruppo primario, o sono amici stretti o hanno caratteristiche simili alle loro (bias di familiarità), come pure le vittime presenti nella situazione immediata (bias di immediatezza).
La vulnerabilità dell'empatia alla sovrattivazione e a questi bias può non essere un grande problema in società confinate al «gruppo primario», piccole e omogenee come sono, o in incontri morali come quelli dello spettatore e del trasgressore (reale o virtuale), quando la vittima è una sola. A guardar bene, è possibile che queste limitazioni racchiudano una virtù nascosta: se le persone rispondessero empaticamente a chiunque mostrasse sofferenza e cercassero di aiutare tutti allo stesso modo, l'esito per la società potrebbe essere la paralisi. Da questo punto di vista, il fatto che l'empatia sia soggetta a bias e alla sovrattivazione può essere un'estrema risorsa di autoregolazione e autoprotezione dell'empatia, il che concorda con le crescenti prove che la capacità di regolare le emozioni sia correlata positivamente con l'empatia e con il comportamento di aiuto.
Nondimeno, la sovrattivazione e specialmente i bias dell'empatia possono creare problemi negli incontri che implicano più parti morali e quando il prendersi cura degli altri è in conflitto con le esigenze della giustizia. Questi problemi possono ridursi, secondo la mia ipotesi, se l'empatia è «incorporata» in un principio morale con il quale sia congruente, giacché la dimensione cognitiva del principio renderà l'empatia più strutturata e più stabile.
Il capitolo nono mette in relazione l'affetto empatico con i principi morali dominanti nella società occidentale: il prendersi cura e la giustizia. Che l'empatia sia congruente con il prendersi cura è ovvio. Essa però è congruente anche con alcuni aspetti della giustizia penale, che implica l'esistenza di vittime; questo è un punto che analizzeremo brevemente. La maggior parte del capitolo riguarda la giustizia distributiva, che considera come dovrebbero essere allocate le risorse della società - in parti uguali oppure secondo il «bisogno», l'«impegno» o il «merito» (la competenza, la produttività). L'empatia è congruente con tutti questi principi di giustizia, ma di meno con la competenza e la produttività. La mia tesi che l'attivazione empatica possa modificare le preferenze di una persona in fatto di giustizia distributiva può essere argomentata, in breve, come segue: se un individuo considera come dovrebbero essere distribuite le risorse della società, un punto di vista interessato gli farà preferire i principi che coincidono con la sua condizione: chi produce molto sceglierà il merito, chi produce poco sceglierà il bisogno o l'uguaglianza. Se si attiva l'empatia, si terrà conto del benessere altrui e anche chi produce molto potrà preferire il bisogno o l'uguaglianza - o, più probabilmente, il merito regolato in modo da evitare la povertà estrema (bisogno) e le eccessive disparità di ricchezza (uguaglianza).
Il merito regolato è al centro della teoria della giustizia del filosofo John Rawls; mi riferisco, in particolare, al «principio di differenza», che annette grande importanza al modo in cui sono trattati i membri «meno favoriti» della società. Rawls fa appello a un «velo di ignoranza» che obbliga le persone, che egli immagina impegnate nella costruzione della società da una prospettiva razionale e totalmente interessata - senza però conoscere il proprio posto nella società -, ad assicurarsi che i bisogni delle persone meno favorite siano tenuti in conto. Ma il velo di ignoranza di Rawls ha anche un'altra finalità: quella di escludere l'empatia, così che il principio di differenza sia fondato su basi puramente razionali e volte alla tutela dei propri interessi. L'impostazione di Rawls è ammirevole, ma molte pagine di questo capitolo sono dedicate a dimostrare che l'empatia e il velo di ignoranza sono in effetti funzionalmente equivalenti, anche se operano in contesti diversi.
In virtù della congruenza dell'empatia con la giustizia, le persone provano empatia per le vittime di ingiustizie (ad esempio, persone che siano state defraudate dei loro guadagni o i cui diritti siano stati violati). E, quando provano empatia, possono essere consapevoli tanto del proprio sentimento empatico verso la vittima (sofferenza empatica, senso di colpa, rabbia empatica, sentimenti empatici di ingiustizia), quanto del principio di giustizia in gioco. La contemporanea attivazione di un affetto empatico e di un principio morale crea una connessione, un legame tanto più forte quanto più tale co-occorrenza si ripete. Così, anche quando li si incontra in contesti didattici, «freddi», i principi morali possono acquisire le proprietà affettive e motivazionali dell'empatia, e trasformarsi in rappresentazioni con un carico emozionale o in cognizioni prosociali «calde».
Questo concetto di cognizione «calda» ha due implicazioni. In primo luogo, quando un principio morale viene successivamente attivato in un incontro morale o in contesti didattici o di ricerca, si attiva anche l'affetto empatico. Esso avrà due componenti: una componente derivante dallo stimolo (la sofferenza della vittima) e una componente derivante dal principio. Quest'ultima avrà un effetto «accrescitivo» o «diminutivo» sull'intensità della componente derivante dallo stimolo, e così renderà meno probabile la sovrattivazione (o la sottoattivazione) empatica e contribuirà a stabilizzare l'affetto empatico dell'individuo nelle varie situazioni. La seconda implicazione è che i modelli dello spettatore e della trasgressione devono essere ampliati in modo da includere non solo l'affetto empatico suscitato dalla sofferenza della vittima, ma anche i principi morali che possono essere attivati da tale sofferenza e che possono aiutare a stabilizzare l'affetto empatico dello spettatore o del trasgressore.
Alla base di gran parte dei principi di giustizia c'è la reciprocità: le buone azioni dovrebbero essere premiate, le cattive punite; la pena dovrebbe essere proporzionata al delitto. La
reciprocità non è intrinsecamente prosociale, giacché include sia l'«occhio per occhio» sia l'idea che «chi lavora sodo dovrebbe essere premiato», ma può divenire prosociale se si associa con l'empatia, come quando il trattamento iniquo di una persona viola la reciprocità. In tal caso, la reciprocità può acuire la sofferenza empatica dell'osservatore e trasformarla in un sentimento empatico di ingiustizia.
Infine, da sola o incorporata in un principio morale, l'empatia può svolgere un ruolo importante nel giudizio morale. L'argomento fondamentale è stato formulato oltre due secoli fa da David Hume: ovviamente, approviamo le azioni che accrescono il nostro benessere e condanniamo quelle che possono danneggiarci; perciò, se proviamo empatia per qualcun altro, approveremo o condanneremo le azioni che lo aiutano o che lo danneggiano; e, salvo essere oltremodo insensibili, se vediamo una persona che fa deliberatamente soffrire qualcun altro, proveremo indignazione (rabbia empatica). Aggiungo che la maggior parte dei dilemmi morali che si incontrano nella vita possono suscitare empatia perché implicano vittime - visibili o meno - delle azioni, nostre o di un altro, che ci troviamo a giudicare. L'empatia può influenzare il giudizio morale su noi stessi o sugli altri direttamente oppure indirettamente, attraverso i principi morali da essa attivati.
Gli studi sullo sviluppo della giustizia distributiva, nei quali ai bambini viene chiesto di assegnare dei premi a destinatari che differiscono per produttività o per altri aspetti, indicano chiaramente ciò che appare equo ai bambini secondo l'età. Questi studi, presentati nel capitolo decimo, mostrano una chiara tendenza evolutiva: i bambini in età prescolare distribuiscono i premi secondo il proprio interesse; quelli di 4 o 5 anni mostrano una marcata preferenza per una ripartizione egualitaria dei premi; per i bambini di 8, 9 o più anni, diventa man mano più importante che i premi siano proporzionati al rendimento o al rendimento integrato con il bisogno (povertà). I bambini più grandi, poi, applicano principi di giustizia differenti secondo il contesto: essi privilegiano la produttività nel premiare il lavoro, l'equità nel caso di votazioni, una combinazione di uguaglianza
e bisogno quando si tratta di aiutare qualcuno. Verso gli 11 o 12 anni, essi antepongono la «produttività» al «bisogno» nel caso degli estranei, ma equiparano i due principi nel caso degli amici e, non diversamente dagli adulti, trattano allo stesso modo un amico bisognoso e un estraneo produttivo.
Vi sono pochi studi evolutivi sul ruolo dell'empatia nella giustizia. La mia ipotesi è che la socializzazione a favore dell'uguaglianza prenda le mosse dalle induzioni dei genitori in materia di condivisione e di rispetto del proprio turno. L'«uguaglianza» è incoraggiata anche dalle educatrici della scuola materna e dell'asilo nido e dalla pressione diretta dei compagni, desiderosi di ricevere la propria parte. Io penso che anche la socializzazione a favore dell'«impegno» cominci nell'ambiente domestico, ma che non sia sistematica fino all'inizio della scuola primaria, quando viene valutato il rendimento scolastico del bambino e viene premiato il miglioramento personale, che, prima di ogni altra cosa, esige impegno. La socializzazione a favore della «produttività» e della «competenza» ha inizio sul serio nelle classi quarta e quinta, quando la valutazione del rendimento scolastico si basa sul confronto con i compagni, e prosegue negli anni successivi sia a scuola sia nel mondo del lavoro.
Queste esperienze di socializzazione si aggiungono alle esperienze dirette che il bambino ha sulla giustizia, come la sofferenza che prova quando viene trattato in modo iniquo (ad esempio, quando i suoi sforzi non vengono premiati), l'osservazione che anche gli altri soffrono quando vengono trattati in quel modo, le sue risposte empatiche alla sofferenza. Queste esperienze dirette si basano sugli scripts trasgressione - senso di colpa relativi alla condivisione, che il bambino acquisisce, col loro carico empatico, in famiglia. Ne risulta una rete di esperienze che sono la materia prima con cui il bambino può costruire forme sempre più complesse di preoccupazione (concern) per gli altri e di senso dell'equità basati sull'empatia. Grazie al linguaggio, il bambino potrà classificare certi atti come moralmente inaccettabili o iniqui e, infine, dar loro la forma di principi di giustizia generali e astratti ma ancora carichi di affetto empatico.
Il linguaggio permette poi che il bambino, da solo o parlando con altri, cominci a costruire ragionamenti morali sulla base delle interpretazioni, spiegazioni e risposte emozionali degli adulti, come pure delle proprie risposte cognitive ed emozionali come spettatore e vittima. Il bambino non costruisce il proprio codice morale da zero, come sostengono alcuni psicologi dello sviluppo cognitivo, ma ha comunque un ruolo attivo nel ricostruire e interpretare le norme morali, usando le informazioni trasmesse dagli adulti e la propria esperienza.
Tutto ciò può essere descritto come una divisione del lavoro tra le induzioni dei genitori, che trasmettono regole di equità e hanno la forza dell'autorità, la capacità di decentramento del bambino e la sua preferenza per la reciprocità, e le interazioni con i pari che mettono l'accento sull'uguaglianza: i pari, con le proprie pretese, costringono il bambino a rendersi conto che i suoi desideri non sono la sola cosa che conta; il decentramento e la reciprocità gli permettono di comprendere le ragioni delle pretese altrui; le induzioni, agendo sulla tendenza naturale del bambino all'empatia, lo rendono ricettivo a queste pretese. I concetti di equità fondati sull'empatia che si formano in questo modo sono ulteriormente plasmati dai valori trasmessi da genitori, pari, insegnanti, religioni, mezzi di comunicazione. Grazie a queste esperienze, i bambini acquisiscono familiarità con le forme elementari dei principi di cura e di giustizia della nostra società.
Questi processi sono solo occasionali prima dell'adolescenza, quando l'individuo è iniziato più «formalmente» ai principi morali che dovrebbero guidare il comportamento. E in questo momento, se mai ve ne è uno, che il ruolo attivo dell'individuo nella costruzione di un codice morale, visibile in tutta la fanciullezza, viene in primo piano. La materia prima continua ad essere frutto della socializzazione, nel modo già visto. Essa include scripts di giustizia/equità carichi di affetto empatico, costruiti negli incontri disciplinari attraverso induzioni riguardanti la condivisione e l'impegno, e arricchiti dalle esperienze personali emotivamente salienti vissute in qualità di spettatore o vittima e dall'influenza dei mezzi di comunicazione. La persona riflette e ragiona su di essi, e nelle discussioni (specialmente con i pari) può analizzarli, interpretarli, confrontarli e contrapporli, e, infine, accettarli o rifiutarli, costruendo così un proprio sistema di principi morali generali e, entro certi limiti, astratti, ma con un forte carico emotivo.
Una volta che una persona abbia interiorizzato un principio di cura o di giustizia e si sia impegnata a rispettarlo, si sia resa conto di avere scelta e controllo, e si sia assunta la responsabilità delle proprie azioni, ha raggiunto un nuovo livello. La persona può ora tenere conto degli altri e agire con equità nei loro confronti, non solo a causa dell'empatia, ma anche come espressione di principi interiorizzati, come affermazione del proprio sé. Sente che tenere conto degli altri e agire con equità nei loro confronti sono doveri o responsabilità personali. In qualche caso, questo nesso tra il sé, i principi e il dovere può discendere da un «evento scatenante» di forte impatto emotivo (ad esempio, una gravissima ingiustizia) che induce a riconsiderare le proprie scelte di vita e può dare origine a una nuova prospettiva morale e a un nuovo senso di responsabilità sociale.
Seguire un principio morale non sempre equivale a conformare le proprie azioni a quel principio. Spesso gli incontri morali implicano più parti morali (multiple claimants), situazioni in cui uno spettatore si trova a dover scegliere quali vittime aiutare, e vi sono incontri che implicano un conflitto tra il prendersi cura e la giustizia. I due tipi di incontro morale sono considerati nel capitolo undicesimo. Ecco alcuni dilemmi del prendersi cura che implicano più parti morali: delle persone rischiano di annegare o sono intrappolate in un edificio in fiamme e i soccorritori devono scegliere chi aiutare; un medico deve decidere se praticare un aborto (dove le parti morali sono il feto, l'adolescente incinta e i genitori dell'adolescente); un avvocato deve decidere se difendere un uomo che ritiene colpevole di omicidio (qui le parti morali sono l'imputato, che ha diritto a una difesa legale; le sue possibili vittime, se viene rimesso in libertà; i familiari della vittima, che desiderano sia punito); il caso ipotetico di Kohlberg, nel quale un addetto alla difesa antiaerea della Seconda guerra mondiale deve scegliere se restare al suo posto o abbandonano per correre in aiuto della famiglia in un quartiere appena bombardato; il dilemma analogo - però reale - dell'infermiera che mentre soccorreva una vittima dell'attentato di Oklahoma City sentì l'esplosione della seconda bomba.
La questione etica posta da questi dilemmi è quale soggetto dovrebbe essere aiutato. La questione scientifica è chi sarà aiutato. La risposta della biologia evoluzionistica è semplice: in generale, aiutiamo le persone con cui abbiamo in comune più geni. La risposta della psicologia è che quando la parte morale è una sola, proveremo empatia verso chiunque (o quasi) stia soffrendo (cap. II). Quando vi sono più parti morali, probabilmente proveremo empatia nei confronti dei familiari e di chiunque altro susciti un bias di familiarità o di immediatezza (due bias associati all'empatia; vedi il cap. VIII), anche se potremo sentirci colpevoli verso coloro che non aiutiamo. In altri termini, la biologia evoluzionistica asserisce che aiutiamo coloro che condividono i nostri geni; la psicologia, che aiutiamo coloro che fanno parte del nostro gruppo primario. Ma il fatto che condividiamo più geni con coloro che appartengono al nostro gruppo primario pone alcuni interrogativi. La risposta della psicologia è essenzialmente la stessa della biologia evoluzionista? I bias cui è soggetta l'empatia sono l'equivalente funzionale della condivisione dei geni di un altro individuo? La risposta a queste domande può essere in entrambi i casi positiva, posto che l'empatia derivi dalle pressioni della selezione naturale nell'evoluzione umana [Hoffman 1981]. In ogni caso, nelle situazioni che implicano più parti morali, l'empatia può non essere abbastanza.
Kant e i suoi eredi, Rawls e Kohlberg compresi, sostengono che il prendersi cura è subordinato alla giustizia perché di solito è personale e particolaristico, implica decisioni di tipo affettivo piuttosto che razionale, e manca delle proprietà formali della giustizia. Io preferisco considerare il prendersi cura e i diversi tipi di giustizia come «tipi ideali» che possono presentarsi in gradi diversi in tutte le situazioni. Quando il prendersi cura e la giustizia si presentano assieme possono essere congruenti. Essi possono anche entrare in conflitto, come quando le suppliche di uno studente convincono un professore che la sua «vita sarà distrutta» se non ottiene un bel voto; o quando uno studente chiede a un amico le domande di un esame che quest'ultimo ha appena sostenuto; o come nel dilemma di Kohlberg, ispirato ai Miserabili, nel quale un uomo ruba la medicina che può salvare la vita della moglie. Nei due ultimi dilemmi che abbiamo presentato sopra (il dilemma dell'addetto alla difesa antiaerea e quello dell'infermiera di Oklahoma City), si può riconoscere un conflitto fra il prendersi cura e la giustizia, se classifichiamo le violazioni del dovere o della responsabilità di una persona come atti ingiusti o come casi di mancata reciprocità tra la condotta e le richieste del ruolo.
Per illustrare gli incontri che implicano più parti morali e quelli in cui cura e giustizia sono contrapposte, ricorrerò al dilemma di un professore cui viene chiesto di scrivere una lettera di raccomandazione per uno studente - bravo ma non eccellente - che aspira a un importante posto di lavoro. Se il professore è buon amico dello studente e ha altre informazioni su di lui (ad esempio, sa che ha un fratello malato), potrà esprimere un giudizio molto favorevole. Ma la situazione si complica se il professore prova empatia anche per il collega che è alla ricerca di un candidato particolarmente brillante, o per gli altri candidati sconosciuti che hanno anch'essi bisogno di quel posto. Il dilemma, fino a questo punto, si limita al prendersi cura, ma vi è spazio anche per le questioni di giustizia: il sistema accademico tiene in gran conto il merito (la produzione scientifica, la competenza) e l'integrità del sistema richiede che le raccomandazioni per un posto di lavoro siano veritiere (che è quanto il collega del professore si aspetta anche in questo caso). Il dilemma fra il prendersi cura e la giustizia si acuisce se il professore dubita che lo studente sia il candidato più qualificato. Se nella sua lettera, in spirito di «giustizia», il professore rivela schiettamente i difetti dello studente, contraddice il «prendersi cura» e può provare un senso di colpa empatico per avere tradito lo studente. Se l'empatia per lo studente prevale e il professore scrive una lettera che evidenzia le sue virtù e ne minimizza i difetti, contraddice la «giustizia» e può sentirsi in colpa per questo.
Se è vero che la nostra società tiene in gran conto il prendersi cura e la giustizia e che la socializzazione dei bambini provvede all'interiorizzazione di entrambi, e se sono corrette le mie tesi sul nesso tra l'empatia, la cura e la maggior parte dei principi di giustizia, ne segue che il sistema motivazionale degli individui più maturi e con una più profonda interiorizzazione morale sarà caratterizzato dalla presenza di principi di cura e di giustizia carichi di empatia. Questi individui tenderanno perciò a essere sensibili tanto alla dimensione del prendersi cura quanto a quella della giustizia, e ad essere vulnerabili alla
sofferenza empatica, al senso di colpa anticipatorio e ad altre emozioni empatiche associate al dilemma tra più parti morali e a quello fra cura e giustizia.
Vi sono due cose che la psicologia - ma non la biologia evoluzionistica - può fare: sottoporre questi dilemmi a indagine sperimentale e suggerire il modo di ridurre i bias cui è soggetta l'empatia. Il capitolo undicesimo prende in esame la ricerca sperimentale, il tredicesimo offre alcuni suggerimenti per ridurre quei bias attraverso l'educazione morale. Il capitolo dodicesimo affronta la questione se la teoria esposta in questo libro sia universale o se può valere solo per la nostra cultura.
A parte l'argomentazione evoluzionistica e le prove che la sofferenza empatica è una motivazione prosociale universale prodotte dalla ricerca su cervello e comportamento, nel capitolo dodicesimo sostengo che il sé, che svolge un ruolo centrale nella mia teoria dello sviluppo dell'empatia, sia un sé universale e non, come alcuni autori sostengono, una costruzione occidentale, e che gli stadi dello sviluppo dell'empatia siano con ogni probabilità anch'essi universali, giacché concordano con quel che sappiamo sul cervello e sullo sviluppo cognitivo. Nello stesso capitolo sostengo anche che le modalità di attivazione dell'empatia sono universali, cioè che ciascuna di esse può suscitare una risposta empatica in chiunque, indipendentemente dalla cultura di appartenenza, in modo automatico e involontario per le forme elementari (mimesi, condizionamento e associazione diretta) e in modo più dipendente dalla cultura per le forme più esigenti sul piano cognitivo (associazione mediata e assunzione di ruolo).
L'universalità del modello trasgressione - il ruolo dell'induzione nella socializzazione del senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia, e il funzionamento del senso di colpa come motivazione morale prosociale - ha fondamenta meno solide. In tutti i paesi del mondo gli adulti devono trovare necessario, a volte, modificare il comportamento dei bambini contro la loro volontà, ma la maggior parte delle prove empiriche sul ruolo dell'induzione nel senso di colpa per trasgressione e nell'interiorizzazione morale riguarda gli statunitensi bianchi di classe media. Qui mi propongo di sostenere, provvisoriamente e fino a prova del contrario, che l'induzione e l'affermazione del potere influenzano (la prima
positivamente, la seconda negativamente) il senso di colpa per trasgressione, l'interiorizzazione morale e il comportamento prosociale - almeno nelle società fondate sulla famiglia nucleare, nelle quali gli incontri disciplinari, l'affermazione del potere e l'induzione sono frequenti e i concetti di senso di colpa per trasgressione e di interiorizzazione morale sono significativi.
In definitiva, credo che vi siano più ragioni per pensare che la morale empatica sia universale che non il contrario. In una cultura fondata sul prendersi cura e sulla maggior parte dei principi di giustizia la morale empatica dovrebbe promuovere il comportamento prosociale e scoraggiare l'aggressività. Ma essa non opera nel vuoto, e nelle società multiculturali e con rivalità tra gruppi, la morale empatica, a causa del bias di familiarità dell'empatia, potrebbe anche contribuire alla violenza tra gruppi.
Ma la morale empatica può trovare ostacoli anche all'interno di un gruppo: può essere soffocata da pratiche educative basate sull'affermazione del potere e da altre norme culturali rigide e intransigenti, o sopraffatta dalle potenti motivazioni egoistiche all'opera negli individui. La morale empatica, pur essendo una motivazione morale prosociale universale, è dunque fragile (l'Olocausto è pur avvenuto). Tuttavia, all'orizzonte non v'è nulla di meglio di una morale empatica legata alla reciprocità e a certi principi di giustizia (cap. IX). La combinazione di empatia, reciprocità e giustizia non è, mi sembra, universale, e per conseguirla saranno necessarie inventiva e ricerca culturale. Nel capitolo tredicesimo discuto le implicazioni della teoria per metodi di intervento che socializzino i bambini alla morale empatica e riducano la violenza tra i delinquenti minorili maschi. Suggerisco anche vari metodi per attenuare i bias empatici e per rafforzare la motivazione ad agire in modo prosociale al di là delle barriere etniche. Alcuni di questi metodi, con qualche modificazione, possono essere utili per combinare in un tutt'uno la morale empatica, la reciprocità e la giustizia.
Nel capitolo tredicesimo osservo anzitutto che quel che dà un ruolo significativo alla socializzazione e all'educazione morale su base empatica è la relazione dell'empatia con la cognizione - una connessione sottolineata in tutto il libro. Alcuni suggerimenti per un intervento seguono direttamente dai capitoli precedenti. Per quanto riguarda i genitori, essi comprendono induzioni frequenti combinate con qualche affermazione di potere e molto amore; è anche importante che il genitore sia un modello prosociale, che non solo aiuta gli altri ma che, a volte, indica anche la causa della disgrazia di una vittima (per contrastare la tendenza a incolparla) ed esprime apertamente sentimenti empatici e simpatetici. Per ampliare il registro empatico dei bambini, i genitori dovrebbero consentirgli di sperimentare una varietà di emozioni. E’ possibile anche approfittare della tendenza naturale dei bambini a giocare a far finta, offrendogli scenari nei quali essi possano assumere ruoli diversi e possano sperimentare, indirettamente, esperienze emozionali - comprese le risposte empatiche alla sofferenza altrui - che altrimenti potrebbero non avere l'opportunità di vivere.
Questi suggerimenti possono essere utili anche nell'ambito dell'istruzione prescolare e della scuola elementare, sempre che gli incontri disciplinari non siano troppo frequenti e distruttivi. In questi incontri, gli insegnanti possono avere la tentazione di affermare il proprio potere così da ottenere obbedienza immediata: l'induzione può sembrare loro un lusso che non si possono permettere. Tuttavia, siccome in un'aula scolastica vi sono molti bambini a guardare, gli insegnanti possono trarre grande vantaggio da un'induzione formulata nel modo appropriato e al momento giusto, e adeguata al livello di sviluppo dei bambini. Il modo in cui gli insegnanti disciplinano un bambino attaccabrighe può essere una preziosa esperienza di socializzazione prosociale per l'intera classe («effetto ripple» - un effetto espansivo analogo all'allargarsi di un'onda sulla superficie di uno stagno).
I bias associati all'empatia possono indebolirsi nel corso dello sviluppo quando l'empatia viene integrata nei principi morali, giacché questi hanno un effetto stabilizzante. Ma nella società contemporanea, sempre più multiculturale, possono essere necessari sforzi maggiori da parte dei genitori e degli educatori morali per ridurre i bias cui è soggetta l'empatia e per creare la coscienza della profonda unità del genere umano. A questo scopo occorre riconoscere questi bias e insegnare ai bambini che, benché sia naturale provare più empatia per coloro che condividono le nostre esperienze, è necessario un certo grado di imparzialità empatica. Occorre anche sottolineare che, a dispetto delle differenze sociali, culturali e fisiche, le risposte emozionali delle persone sono molto simili: lo sono, ad esempio, quando le persone vengono trattate in modo iniquo o attraversano crisi quali una separazione, la perdita di una persona cara, l'invecchiamento. I mezzi di comunicazione possono essere d'aiuto: i film sono un modo efficace di presentare situazioni di vita più ampie, capaci di favorire l'identificazione empatica con la vita altrui. Vedere che altri hanno preoccupazioni simili alle nostre e condividere le loro emozioni (attraverso la mimesi e altri meccanismi di attivazione empatica), può favorire il senso di unità e l'empatia tra culture differenti. Quanto al bias di immediatezza dell'empatia, gli educatori morali possono insegnare al bambino - e dargli modo di sperimentare - una semplice regola generale: guardare al di là della situazione immediata e chiedersi se le proprie azioni influenzeranno un'altra persona non solo ora ma anche in futuro, e se vi sono altre persone che potranno essere anch'esse influenzate da quelle azioni.
Ultimo, ma non meno importante, è il fatto che l'educatore morale può rivolgere i bias associati all'empatia contro se stessi, incoraggiando i bambini a immaginare come si sentirebbe una persona cui tengono molto se si trovasse al posto degli sconosciuti o delle vittime assenti, o al posto di ciascuna delle parti coinvolte in un incontro morale complesso. L'addestramento all'arte della «empatizzazione multipla» ha un duplice effetto: attiva i bias empatici naturalmente all'opera in ogni individuo e, insieme, li contrasta. La empatizzazione multipla può ridurre la tendenza ad attribuire motivazioni negative alle persone estranee al proprio gruppo, e può rendere più civile la vita in una società multiculturale.
Alcune di queste idee si sono dimostrate utili nel trattamento dei delinquenti antisociali, ma vi sono altri metodi, concepiti specificamente per accrescere l'empatia nei delinquenti, che possono essere ancora più efficaci.
1. Un primo metodo, nella tradizione di Kohlberg, prevede che i partecipanti discutano dilemmi o problemi di tipo sociomorale, in modo da stimolare l'empatia e l'assunzione del punto di vista altrui; i partecipanti devono giustificare le proprie decisioni di fronte alle obiezioni dei leader del gruppo e dei compagni di uno stadio di sviluppo più avanzato.
2. Un secondo metodo consiste nel ridurre l'aggressività dei partecipanti dando loro l'opportunità di assumere il punto di vista altrui in situazioni sociali. L'espressione di una lamentela, ad esempio, viene suddivisa in sei passi, uno dei quali è «mostrare di comprendere i sentimenti dell'altro».
3. Un terzo metodo usa il «mettere di fronte» (confronting), un tipo di induzione che dirige l'attenzione del partecipante sui danni che le sue azioni possono arrecare ad altri membri del gruppo. L'obiettivo è contrastare l'egoismo dei partecipanti, far luce sulle loro distorsioni cognitive, suscitare e rafforzare le loro risposte empatiche. Il metodo del «mettere di fronte» obbliga l'individuo antisociale a indossare i panni dell'altro e a prendere coscienza della concatenazione di danni - comprese le conseguenze per le vittime assenti o indirette - derivante dalle sue azioni dannose.
La varietà di questi metodi è impressionante. Quel che sembra mancare è un'analisi teorica che spieghi perché le procedure che producono empatia e altri effetti desiderabili durante i «trattamenti» dovrebbero essere efficaci anche nella vita quotidiana. Credo che una spiegazione siffatta potrebbe prendere le mosse dall'analisi degli effetti a lungo termine dell'induzione (cap. VI). Supponiamo ad esempio che, grazie al metodo del «mettere di fronte» e all'induzione da parte dei compagni e dei leader del gruppo, un partecipante si senta colpevole di un atto di trasgressione per la prima volta nella vita; costui formerà uno script Trasgressione → Senso di Colpa? E lo script si attiverà quando quella persona avrà la tentazione di trasgredire nella vita reale? E, in caso affermativo, lo script sarà abbastanza potente da modificare la sua condotta?” (pp. 21-48)
2.
Hoffman stesso, dunque, identifica nel terzo capitolo il cuore del libro. In effetti, la descrizione che egli ha fornito dello sviluppo dell’empatia, da quella “viscerale” della prima infanzia a quella cognitiva, matura e universale, che dovrebbe sopravvenire nell’adulto, è in assoluto l’aspetto più noto del suo lavoro. Ne fornisco pertanto un’ampia antologia:
“La differenza tra l'empatia nella prima infanzia [basata su meccanismi di attivazione elementari: mimesi, condizionamento e associazione] e l'empatia matura mostra che lo sviluppo della sofferenza empatica può rispecchiare lo sviluppo sociocognitivo del bambino e specialmente lo sviluppo di un senso del sé come entità separata e indipendente, di un senso degli altri e di un senso della relazione tra sé e gli altri. Poiché il senso di sé e degli altri va incontro a profondi cambiamenti evolutivi, esso offre un quadro di riferimento per una sequenza di sviluppo dell'empatia.
Credo sia utile distinguere quattro grandi stadi nello sviluppo del senso di sé e dell'altro: a) differenziazione vaga o confusa tra sé e l'altro; b) consapevolezza di sé e degli altri come entità fisiche distinte; c) consapevolezza di sé e degli altri come soggetti con stati interni indipendenti; d) consapevolezza di sé e degli altri come persone con storia, identità e vita proprie, al di là della situazione immediata. Questi stadi sociocognitivi interagiscono con l'affetto empatico suscitato dai vari meccanismi di attivazione, e si traducono nello schema evolutivo che illustreremo nel resto del capitolo. E’ il caso di avvertire che i livelli di età associati agli stadi e alle transizioni tra uno stadio e il successivo non sono esatti, e che le differenze individuali possono essere molto grandi.
1. Il pianto reattivo del neonato
Gli studiosi della prima infanzia (e non solo loro) sanno bene che quando un bambino piccolo ne sente un altro piangere comincia a piangere a sua volta. Il primo studio controllato su questo tipo di pianto reattivo è stato quello di Simner [1971], che lo ha osservato in bambini di due e tre giorni di vita. Simner ha dimostrato anche che la causa del pianto reattivo non è l'intensità del pianto dell'altro bambino, giacché i bambini non cominciano a piangere quando ascoltano un grido di pari intensità prodotto da un sintetizzatore digitale. I risultati di Simner sono stati replicati in bambini di un solo giorno di vita da Sagi e Hoffman [1976], che hanno osservato anche che il pianto reattivo non è una semplice risposta vocale imitativa priva di una componente affettiva; esso è energico, intenso e indistinguibile dal pianto spontaneo di un bambino realmente afflitto. Martin e Clark [1982] hanno replicato questi risultati e hanno mostrato anche che i bambini non piangono allo stesso modo in risposta al pianto di uno scimpanzé (che, per inciso, gli adulti trovano più sgradevole del pianto dei bambini) o in risposta al suono del proprio pianto. Sembra dunque che nel pianto di un altro bambino vi sia qualcosa di particolarmente sgradevole che provoca nel neonato agitazione e disagio.
Perché succede questo? La spiegazione più plausibile è che il pianto reattivo del neonato sia una risposta innata e isomorfa di fronte al pianto di un conspecifico, una risposta adattativa premiata dalla selezione naturale. Il meccanismo psicologico primario che ne è alla base potrebbe essere una forma di mimesi nella quale il neonato imita automaticamente il pianto di un altro bambino, dopo di che il suono del suo pianto e i cambiamenti che si producono nella configurazione dei suoi muscoli facciali avviano un processo di retroazione che lo mette in agitazione.
Ma il pianto reattivo potrebbe essere anche una risposta appresa, basata sul condizionamento. Nel capitolo secondo, ho menzionato il riflesso di suzione nei bambini di un giorno di vita. Sembra che altri comportamenti frequenti nel neonato, come il pianto reattivo, possano essere anch'essi condizionati, forse nel modo seguente: il pianto reattivo può essere una risposta di sofferenza condizionata a uno stimolo (il pianto di un altro bambino) che rassomiglia ad altri stimoli (il pianto del bambino stesso) associati con precedenti esperienze di dolore e disagio - a partire, forse, dalla nascita stessa. Ma vi è anche un'altra possibilità: l'imitazione, che comincia anch'essa poco dopo la nascita. L'imitazione, tuttavia, non può spiegare da sola il pianto reattivo, che, come abbiamo sottolineato, non è solo un pianto imitato, ma, in generale, una risposta di sofferenza energica e inquieta. La spiegazione psicologica più plausibile, a mio giudizio, è una combinazione dei processi di mimesi e condizionamento, coadiuvati dall'imitazione.
Indipendentemente dalla causa, il neonato risponde un segnale di sofferenza di un'altra persona provando a sua volta sofferenza. Il pianto deve perciò essere considerato un precursore primitivo ed elementare della sofferenza empatica - precursore perché, nel rispondere all'«altro», il neonato probabilmente avverte che esso è in relazione con il «sé», cioè che fa parte della stessa entità psicologica globale cui appartiene il sé. Va sottolineato che il pianto reattivo del neonato, nonostante questa limitazione, può essere alla base di forme di sofferenza empatica più avanzate, creando uno stato nel quale un segnale di sofferenza di un'altra persona (pianto) accompagna l'esperienza di sofferenza del bambino stesso. Questa concomitanza può far sì che anche in futuro il bambino, per condizionamento e associazione, provi sofferenza ogni volta che vede qualcun altro soffrire, cioè che provi sofferenza empatica.
Dal punto di vista dello sviluppo, ci si potrebbe aspettare che il pianto reattivo del neonato sia limitato ai primi mesi di vita e che scompaia intorno ai sei mesi, col nascere nel bambino della coscienza di sé e degli altri come esseri distinti. Questa coscienza dovrebbe ostacolare le sue risposte per mimesi automatica e per condizionamento al pianto di un altro bambino, o per lo meno rallentarle. E anche il suo crescente interesse per altri aspetti della realtà e la sua maggiore capacità di regolare le emozioni dovrebbero renderlo meno sensibile al pianto. Questa supposta diminuzione della sensibilità è stata confermata da uno studio di Hay, Nash e Pedersen [1981], nel quale erano tenute sotto osservazione dodici coppie di bambini di 6 mesi che interagivano in una stanza dei giochi allestita in laboratorio in presenza delle madri. La scoperta principale fu che quando un bambino era afflitto, l'altro quasi sempre lo osservava, ma di rado piangeva o era a sua volta afflitto. Vi era però un effetto cumulativo: dopo aver visto più volte un bambino afflitto, anche l'altro bambino si affliggeva e cominciava a piangere.
Il pianto di un bambino di 6 mesi si differenzia dal pianto di un neonato anche per un altro aspetto: non è istantaneo e agitato; a 6 mesi, appena prima di scoppiare in lacrime, il bambino ha uno sguardo triste e increspa le labbra, proprio come i bambini di quell'età quando sono realmente afflitti. E’ notevole che Darwin [1877], che aveva osservato attentamente le risposte facciali ed emozionali del figlio fin dalla nascita, scriva qualcosa di simile: «A sei mesi e undici giorni dimostrò in modo esplicito comprensione simpatetica per la sua balia che fingeva di piangere» [ibidem, trad. it. 1982, 108].
La differenza tra il bambino di 6 mesi e il neonato suggerisce che man mano che il processo di differenziazione sé-altro va avanti, il fondamento delle risposte di sofferenza empatica globale si indebolisca. I bambini non rispondono più automaticamente al pianto altrui, perché l'altro bambino sta diventando ormai un vero e proprio «altro», che essi percepiscono, almeno vagamente, come un'entità fisicamente distinta da loro. Perché il bambino provi a sua volta sofferenza è ora necessario che i segnali di sofferenza altrui abbiano una durata maggiore. Inoltre, siccome il bambino può essere assorbito dai suoi pensieri, può darsi che per catturare la sua attenzione sia necessario uno stimolo più saliente, ad esempio un pianto prolungato. Infine, la faccia triste e le labbra increspate prima di scoppiare in lacrime, che il bambino mostra anche quando è realmente afflitto, riflettono, con ogni probabilità, l'emergere della sua capacità di controllare le emozioni.
2. Sofferenza empatica egocentrica
Alla fine del primo anno, il bambino risponde ancora alla sofferenza di un altro bambino suo coetaneo incupendosi in viso, increspando le labbra e poi scoppiando a piangere, ma adesso può anche mettersi a piagnucolare e a guardare silenziosamente l'altro bambino [Radke-Yarrow e Zahn-Waxler [1984]. La maggior parte dei bambini, benché alcuni prima di altri, cominciano a reagire meno passivamente alla sofferenza altrui e adottano comportamenti chiaramente diretti a ridurre la propria sofferenza.
Tre studiosi hanno descritto il medesimo fenomeno: quando la figlia di una mia studentessa, una bambina di 10 mesi, vide un'amichetta cadere e scoppiare in lacrime, la fissò, si mise a piangere, poi si portò il pollice alla bocca e appoggiò la testa in grembo alla madre, come era abituata a fare quando si faceva male [Hoffman 1975b]. Radke-Yarrow e Zahn-Waxler [1984] hanno descritto molti casi simili, come quello di una bambina di 11 mesi: «Quando Sari vedeva qualcuno sofferente per un dolore fisico, si rattristava, increspava le labbra, cominciava a piangere e camminava carponi verso la madre per essere presa in braccio e consolata» [ibidem, 89]. Kaplan [1977, 91] ha osservato una bambina di 9 mesi che aveva mostrato, in passato, intense reazioni empatiche di fronte alla sofferenza di altri bambini. Di solito in questi casi non distoglieva lo sguardo dalla scena, benché ne fosse evidentemente turbata. Quando un altro bambino cadeva, si faceva male o piangeva, Hope restava a fissarlo, con gli occhi pieni di lacrime. In quei momenti era sopraffatta dall'emozione, e finiva per scoppiare a piangere e a camminare carponi in tutta fretta verso la madre per essere consolata.
La descrizione di Kaplan è molto interessante perché rivela, al tempo stesso, la sofferenza personale della bambina (intensa e fondata sull'empatia), la consapevolezza che a un altro bambino sta accadendo qualcosa di sgradevole, ma anche una certa confusione su chi stia effettivamente soffrendo. La situazione fa soffrire la bambina, la quale cerca conforto così come fa d'abitudine quando soffre.
Io credo che questi bambini rispondano nello stesso modo alla sofferenza empatica e a quella reale perché, sebbene stiano sviluppando un senso del sé come entità coerente, continua e distinta dagli altri, davanti a sé hanno ancora molta strada da fare. Essi inoltre rimangono limitati ai meccanismi di attivazione empatica di tipo preverbale (mimesi, condizionamento e associazione), e la loro condotta fa pensare che non abbiano ancora le idee chiare sulla fonte della loro sofferenza empatica. A volte guardano intensamente la vittima, ciò che riflette un certo grado di differenziazione sé-altro. Altre volte ricorrono alle abilità motorie appena acquisite (camminare carponi) per accostarsi alla madre e dare qualche sollievo alla propria sofferenza empatica. Ma il fatto che per ridurre la propria sofferenza empatica e quella reale essi si comportino allo stesso modo rivela quanto debba essere difficile per loro distinguere la propria sofferenza empatica dalla sofferenza della vittima che l'ha causata e dalla propria sofferenza reale. L'ipotesi più semplice è che questi bambini si comportino allo stesso modo nelle situazioni di sofferenza empatica e di sofferenza reale perché non hanno le idee chiare sulla differenza tra le due situazioni, cioè tra qualcosa che accade all'altro e qualcosa che accade al sé...
L'infante sperimenta una rottura temporanea dei confini del sé, e un sentimento di confusione sull'origine della sua sofferenza. L'infante ha difficoltà a distinguere tra la sofferenza altrui e quella propria (reale o empatica), e risponde allo stesso modo a entrambe.
In ogni caso, poiché la risposta dell'infante alla sofferenza altrui e alla propria è simile, parlerò di sofferenza empatica «egocentrica». Il termine sofferenza empatica egocentrica ha l'aria di un ossimoro e di fatto, in questa fase dello sviluppo, la sofferenza egocentrica ha tratti contraddittori. Da un lato, la ricerca di conforto da parte del bambino attesta la natura egocentrica della sofferenza empatica; dall'altro, il fatto che prima il bambino fosse felice e contento e avrebbe continuato a esserlo se non fosse stato per la disgrazia toccata all'altro - il fatto cioè che la sofferenza empatica dipenda dalla sofferenza reale di un'altra persona - ne dimostra la natura prosociale. Riassumendo, verso la fine del primo anno la sofferenza empatica è una motivazione egocentrica, ma, a differenza di altre motivazioni di questo tipo, è scatenata dalla sofferenza di un'altra persona, e ciò le conferisce qualità prosociali. Non si tratta di una motivazione prosociale compiuta, ma di una forma intermedia, che può a buon diritto essere considerata un precursore della motivazione prosociale.
3. La sofferenza empatica quasi-egocentrica
Circa un mese o due più tardi, al principio del secondo anno, il pianto empatico del bambino e della bambina, il loro piagnucolare e guardare la vittima diventano meno frequenti ed essi si avvicinano alla vittima per aiutarla. I primi approcci, che includono tentativi di stabilire un contatto fisico (dare colpetti, toccare), cedono ben presto il passo ad interventi positivi più differenziati: baci, abbracci, aiuto fisico, richieste d'aiuto ad altre persone, consigli e conforto simpatetico [Radke-Yarrow e Zahn-Waxler 1984]. E’ evidente che sebbene i bambini si limitino ancora, in gran parte, alle forme di attivazione empatica preverbali, sono adesso meno legati al loro sé cinestetico e soggettivo, e più ancorati, per via cognitiva, alla realtà esterna. Benché ancora manchi loro il senso del proprio corpo come oggetto che è possibile rappresentare fuori del sé soggettivo (fino ai 18-24 mesi, essi sono incapaci di riconoscere la propria immagine allo specchio), sono però sulla strada per conseguirlo (quando un oggetto in movimento appare nello specchio alle loro spalle allungano la mano dietro di sé), e sanno che gli altri sono entità fisiche separate [Baillargeon 1987; Lewis e Brooks-Gunn 1979]. Possono pertanto rendersi conto che l'altro avverte dolore o sofferenza, e le loro azioni sono chiaramente dirette ad aiutarlo.
Tuttavia, queste stesse azioni rivelano un'importante limitazione cognitiva: i bambini hanno stati interni ma non si rendono conto che anche gli altri hanno stati interni indipendenti. Essi non sanno che i loro desideri sono in relazione con il mondo circostante, e suppongono che gli altri vedano le cose così come le vedono loro. Sanno che l'altro soffre, ma sono ancora troppo egocentrici per usare tipi di aiuto che non siano quelli da cui loro stessi ricevono conforto. Un bambino di 14 mesi rispose al pianto di un amico guardandolo con tristezza, per poi prenderlo gentilmente per mano e portarlo con sé da sua madre, benché fosse lì presente anche la madre dell'amico [Hoffman 1978]. Questo comportamento mostra chiaramente che la sofferenza empatica opera come una motivazione prosociale, ma rivela anche la confusione egocentrica del bambino tra i suoi bisogni e quelli del suo amico...
Riassumendo, in questo stadio i bambini sono consapevoli di essere fisicamente separati dagli altri, e sanno anche quando un'altra persona soffre. Sebbene ancora si limitino, in larga misura, alle modalità preverbali, i bambini sono capaci di una forma embrionale di assunzione di ruolo centrata su di sé, e non confondono più la propria sofferenza empatica con la propria sofferenza reale o con quella della vittima. In questo stadio la sofferenza empatica è senza dubbio una motivazione prosociale: il bambino cerca di dare aiuto, ma le sue azioni sono inefficaci perché non riesce a comprendere gli stati interni degli altri e suppone che ciò che va bene per lui andrà bene anche per gli altri. Questa supposizione è spesso valida (è condivisa anche dagli adulti, che però non si limitano ad essa), ma quando non lo è le limitazioni cognitive sottostanti diventano palesi.
4. La sofferenza empatica veridica
I mutamenti principali del senso di sé avvengono verso la metà del secondo anno di vita. Per la prima volta, il bambino è in grado di riconoscersi allo specchio [Lewis e Brooks-Gunn 1979]. Questo «sé allo specchio» (mirror-self) indica che il bambino sente il proprio corpo come un oggetto che può essere rappresentato in una forma separata dal sé soggettivo cinestetico, e probabilmente come un oggetto che gli altri possono vedere.
Verso la fine del secondo anno di vita i bambini cominciano a essere consapevoli che gli altri hanno stati interni (pensieri, sentimenti, desideri) e che tali stati possono, talvolta, differire dai loro. Ciò, naturalmente, fa sì che la risposta empatica dei bambini aderisca più fedelmente ai sentimenti e ai bisogni degli altri nelle diverse situazioni, e che i bambini aiutino gli altri con maggiore efficacia. La transizione dalla sofferenza empatica quasi-egocentrica a quella vendica è illustrata dal caso di David, un bambino di due anni che, per confortare un amico in lacrime che si era fatto male mentre i due si disputavano un giocattolo, gli diede il proprio orsacchiotto di pezza. Siccome il tentativo non ebbe successo, David si fermò un momento, poi corse nella stanza accanto e ritornò con l'orsacchiotto del suo amico, il quale lo strinse tra le braccia e smise di piangere. Il fatto che David porgesse all'amico il proprio orsacchiotto è un esempio tipico di empatia quasi-egocentrica, ma egli si dimostrò capace di usare la retroazione correttiva (l'amico aveva continuato a piangere). Ciò significa che David era abbastanza sviluppato cognitivamente per chiedersi perché il suo orsacchiotto non valeva a calmare il pianto del suo amico, riflettere sul problema, e concludere che il suo amico avrebbe preferito (al pari di David) il proprio orsacchiotto. In altri termini, è possibile che la retroazione correttiva avesse attivato in David l'assunzione del ruolo altrui, forse con l'aiuto del ricordo dell'amico che giocava allegramente con quell'orsacchiotto, e del ricordo dell'orsacchiotto nella stanza accanto. Ciò indica che la transizione dall'empatia quasi-egocentrica a quella vendica può avvenire quando il bambino è cognitivamente preparato a usare le informazioni di retroazione che riceve dopo avere commesso un errore «egocentrico». Col tempo, la retroazione diventa superflua (benché anche gli adulti, a volte, ne abbiano bisogno)...
L'empatia veridica è importante perché, a differenza degli stadi precedenti, che hanno vita breve e vengono meno nel momento in cui cedono il passo agli stadi successivi, questo stadio racchiude tutti gli elementi dell'empatia matura e continua a crescere e a svilupparsi per tutta la vita. Nella sua forma compiuta, permette al bambino non solo di esperire il proprio corpo come un oggetto che può essere rappresentato fuori del suo sé soggettivo cinestetico (il sé allo specchio), ma anche di esperirlo come qualcosa che contiene (ed è guidato da) un sé mentale interno, un «io» che pensa, sente, pianifica e ricorda. Questo «sé riflessivo» include la conoscenza che siamo separati dagli altri non solo sui piano fisico, ma anche sul piano dell'esperienza interna, e che la nostra immagine esterna è un aspetto di questa esperienza. Ciò ci permette di capire che lo stesso è vero degli altri: anche per loro l'immagine esterna è l'altra faccia dell'esperienza interna. L'assunzione di ruolo, quella centrata sull'altro non meno di quella centrata su di sé, è ormai alla portata del bambino, il quale sa che gli altri hanno sentimenti e pensieri indipendenti dai propri, e questa conoscenza, che non lo abbandonerà più, è la base per continuare, per tutta la vita, a rispondere empaticamente a ogni sorta di sentimento nelle situazioni più diverse.
Da principio, i sentimenti cui i bambini possono rispondere empaticamente sono semplici (come nella storia degli orsacchiotti), ma poi, comprendendo meglio le cause, le conseguenze e i correlati delle emozioni, essi possono rispondere empaticamente
a sentimenti di sofferenza altrui sempre più complessi (come la delusione quando un amico rivela un segreto, o, quando non si riesce a fare qualcosa, la paura di perdere la faccia se si accetta un aiuto). La rassegna che segue - basata principalmente, salvo indicazione diversa, su Bretherton e colleghi [1986] - dà un'idea dello sviluppo della comprensione delle emozioni e, con essa, della capacità empatica dalla prima infanzia alla fine dell'adolescenza. Seguirò grosso modo l'ordine evolutivo; se vi siano stadi o sottostadi che formano sequenze ordinate è cosa che richiede ulteriori ricerche.
Prima fanciullezza. I bambini di 2-3 anni di età cominciano a comprendere le cause, le conseguenze e i correlati delle emozioni, e si rendono conto che i sentimenti possono influenzare l'espressione facciale di una persona («Katie è triste. Katie non ha la faccia felice»); che i sentimenti possono scaturire da azioni altrui («Mamma sei triste. Papà ti ha fatto qualcosa?»; «Ti ho fatto star male perché sono stato cattivo con te»; «La nonna si è infuriata [perché] ho sporcato la parete»); infine, che i sentimenti possono causare azioni altrui («Piango [perché così] la signora mi prende in braccio»).
In età prescolare, i bambini sono in grado di parlare adeguatamente di emozioni sottili come il sentire l'assenza di un genitore («E’ triste. Quando suo padre torna a casa sarà contento», detto guardando un'illustrazione raffigurante un ragazzo dall'aspetto triste). Cominciano a capire che lo stesso evento può suscitare sentimenti diversi in persone diverse, e sono in grado di tener conto dei desideri di un'altra persona quando devono giudicare quali emozioni proverà quella persona in una determinata situazione [Harris et al. 1989]. Ma sanno anche che le persone possono controllare l'espressione delle proprie emozioni, che le emozioni mostrate non coincidono necessariamente con quelle provate, che una persona può avere un desiderio anche quando non fa nulla per realizzarlo [Astington e Gopnik 1991].
Media fanciullezza. A 6 o 7 anni, alcuni bambini cominciano a mostrare una comprensione più sottile delle relazioni tra i propri sentimenti e quelli altrui. Si rendono conto che comunicare i propri sentimenti a un'altra persona può farla sentire meglio («So come ti senti, Chris. Il primo giorno della scuola materna ho pianto anch'io»). Mostrano una consapevolezza nascente del significato dell'amicizia - ad esempio, che è più facile che un amico perdoni uno sgarbo involontario («Ho provato ad avvicinarmi a Jim per giocare di nuovo con lui, ma lui non vuole stare con me... quando un bambino non è davvero amico tuo non sa che tu non volevi fargli male»).
Non dovrebbe sorprendere che a questa età, avendo afferrato la relazione tra i sentimenti propri e quelli altrui, i bambini comincino a mostrare quella consapevolezza autoriflessiva e metacognitiva della sofferenza empatica che considero necessaria per il compiuto sviluppo dell'empatia. In uno studio di Strayer [1993], venivano mostrate a bambini di 5, 7, 8 e 13 anni delle scene filmate che presentavano altri bambini in situazioni molto penose (un bambino punito ingiustamente dai genitori; un bambino disabile che imparava a salire le scale con un bastone; un bambino separato a forza dalla famiglia). Più tardi, ai soggetti veniva chiesto se avevano provato qualche sentimento guardando le scene e, in caso affermativo, perché avevano provato proprio quel sentimento. La maggior parte dei soggetti di 7 anni o più e alcuni di quelli di 5 anni risposero che si erano sentiti tristi a causa dei sentimenti del bambino del filmato o della situazione in cui si trovava, il che significa che avevano capito che la loro tristezza era stata una risposta empatica a ciò che era successo all'altro bambino. I bambini più piccoli, invece, non sembravano rendersene conto; ciò fa pensare che prima dei 6 o 7 anni i bambini sono capaci di sofferenza empatica vendica - essi sentono ciò che è appropriato alla situazione dell'altro - ma non si rendono conto che il loro sentimento di sofferenza è stato provocato da quella situazione, e non è altro che una risposta empatica. E interessante osservare che questa consapevolezza metaempatica precede di uno o due anni la consapevolezza metalinguistica che le parole sono entità linguistiche e sono indipendenti dagli oggetti e dagli eventi cui si riferiscono [Wetstone 1977]. La ragione può stare nel fatto che la consapevolezza metalinguistica è più astratta e, diversamente dall'empatia, è slegata dall'esperienza personale...
Un momento, però. Radke-Yarrow, Zahn-Waxler e Chapman [1983] menzionano una comunicazione personale di Lois Murphy su un bambino di 4 anni che, dopo essere venuto a sapere della morte della madre di una sua amica, dichiarò solennemente: «Sai, quando Bonnie diventerà grande, la gente le chiederà chi era sua madre, e lei sarà costretta a rispondere che non lo sa. Sai, è una cosa che mi fa venire da piangere». Se prendiamo queste parole alla lettera, dobbiamo concludere che un bambino di 4 anni può essere perfettamente consapevole che l'origine della sua sofferenza sta nella penosa situazione di un'altra persona, il che contraddice i risultati delle altre ricerche. Come spiegare questa discrepanza? Una possibilità è che i bambini piccoli divengano metacognitivamente consapevoli della loro sofferenza empatica prima in condizioni naturali che in laboratorio per via degli evidenti segnali di sofferenza delle vittime, che precedono immediatamente e provocano inequivocabilmente la sofferenza empatica delle vittime stesse. E’ pure possibile che, in questo caso particolare, si tratti di un bambino precoce, più grande dei suoi 4 anni, e perciò non troppo diverso dai bambini di 5 anni che nella ricerca di Stayer avevano dato risposte avanzate. (Ma per un'altra spiegazione della sua sofferenza empatica matacognitiva «precoce» si veda sotto.)
A 8 o 9 anni, i bambini si rendono conto che lo stesso evento può suscitare sentimenti opposti («Era felice perché gli avevano dato il regalo, ma deluso perché non era quello che desiderava») [Fischer, Shaver e Comochan 1990; Gnepp 1989], ma già uno o due anni prima riconoscono diversi sentimenti in gioco se un adulto li invita a considerare la risposta emozionale di una persona a ciascun aspetto della situazione [Peng et al. 1992]. I bambini di 8 o 9 anni hanno anche qualche conoscenza sulle cause e le conseguenze dell'autostima negli altri; ad esempio, sanno che una persona si sente peggio se fallisce per incapacità che per scarso impegno [Weiner et al. 1982]. (Ciò può essere vero in particolare nelle società orientate al merito, dove l'abilità è un elemento molto importante dell'autostima.)
Secondo uno studio di Gnepp e Gould [1985], verso i 9 o 10 anni d'età la conoscenza da parte del bambino di un'esperienza recente di un'altra persona può cominciare a influenzare la sua consapevolezza dei sentimenti di quella persona in situazioni simili. Ai soggetti - alunni dell'ultimo anno di scuola materna e di terza, quinta e settima classe - venivano raccontate brevi storie (per esempio, un bambino è morso da un criceto e il giorno dopo la maestra lo incarica di dare da mangiare al criceto della classe). Circa la metà dei bambini di terza e due terzi dei bambini di quinta utilizzavano appropriatamente l'esperienza precedente del piccolo protagonista della storia (dicevano che avrebbe avuto paura a dare da mangiare al criceto). Ciò, naturalmente, significa anche che la metà degli alunni di terza e un terzo degli alunni di quinta non erano in grado di utilizzare l'esperienza precedente del bambino anche se era recente, chiaramente significativa e resa saliente dalla maestra subito prima che esprimessero il loro giudizio. Secondo questi risultati, i bambini non cominciano a rendersi conto che i sentimenti di un'altra persona sono influenzati dalle sue esperienze recenti prima dei 9 o 10 anni, un'età che però a me pare troppo avanzata, dato il livello di conoscenza delle emozioni che anche i bambini più piccoli, come abbiamo visto sopra, mostrano di avere.
I risultati di uno studio di Pazer, Slackman e Hoffman [1981] sembrano essere un po' più vicini alla realtà. I soggetti erano bambini che dovevano dire quanto si sarebbero infuriati se qualcuno li avesse danneggiati (per esempio, se avesse rubato il loro gatto). Ai soggetti del gruppo sperimentale venivano fornite anche informazioni contestuali che attenuavano le responsabilità del colpevole (per esempio, il suo gatto era scappato e i genitori non gliene avrebbero comprato un altro). I soggetti sperimentali di 8 anni o più dichiararono che si sarebbero infuriati meno dei soggetti di controllo, che avevano ricevuto informazioni contestuali di uguale lunghezza ma che non offrivano giustificazioni. I bambini più piccoli non furono affatto influenzati dalle informazioni contestuali. Ciò ci induce ad arretrare a 8 anni l'età alla quale i bambini cominciano a tener conto delle esperienze di un'altra persona quando sono chiamati a giudicare i suoi sentimenti in una certa situazione.
Ma anche 8 anni sembrano troppi se consideriamo l'aneddoto di Radke-Yarrow, Zahn-Waxler e Chapman [1983] sul bambino di 4 anni: se un bambino di questa età può pensare al futuro di qualcun altro, a maggior ragione potrà pensare al suo passato. Per questo motivo, e perché questo caso è stato citato acriticamente come prova del fatto che un bambino di 4 anni possa avere una sofisticazione sociocognitiva maggiore di quanto le ricerche appaiano giustificare - e considerando che non disponiamo di ulteriori dettagli -, credo che l'aneddoto meriti un'analisi più attenta.
Una spiegazione è che il bambino si fosse limitato a ripetere qualcosa che gli era capitato di sentire: il futuro della bambina senza la madre è proprio il tipo di cosa di cui gli adulti potevano avere parlato al funerale. D'altro lato, non è probabile che un adulto pensi che il problema principale della bambina, da grande, sarebbe quello di non conoscere sua madre; questa ha tutta l'aria di un'interpretazione del bambino. Probabilmente il bambino non ripeteva alla lettera le parole di qualche adulto, e tuttavia, se non fosse stato per la conversazione, la sua attenzione sarebbe stata attratta, come quella di qualunque bambino della sua età, dai segnali di sofferenza evidenti nella situazione immediata. I discorsi degli adulti sul futuro della bambina senza madre potrebbero benissimo aver suscitato nel bambino preoccupazioni relative alla propria madre, ma, in ogni caso, possono spiegare la sua risposta orientata al futuro. Tutto considerato, credo che il modo migliore di interpretare la risposta verbale del bambino è considerarla come una espansione iniziale, embrionale, suscitata dall'esterno e probabilmente temporanea, della prospettiva temporale di un bambino della sua età - una prefigurazione della prospettiva temporale matura e spontanea che apparirà più tardi. Questa stimolazione esterna non operava negli studi sperimentali descritti in precedenza, e ciò può spiegare perché la «competenza sperimentale» resti indietro rispetto alla «competenza naturale».
Quanto all'apparente dimensione metacognitiva della sofferenza empatica del bambino, i discorsi degli adulti sul futuro della bambina potevano averlo condotto a mettere in relazione l'immagine della bambina senza madre e le lacrime e la tristezza empatica di quel momento. Questa sarebbe una forma embrionale, provocata da una stimolazione esterna, di sofferenza empatica metacognitiva.
Adolescenza. A 12 o 13 anni, i ragazzi sono in grado di tenere conto della differenza tra quel che una persona sente in una situazione e il sentimento che normalmente in quella situazione ci si aspetta; ad esempio, sanno che coloro che appaiono tristi quando dovrebbero essere allegri (ad esempio, per avere vinto un premio), probabilmente si sentono più tristi degli altri in situazioni nelle quali dovrebbero essere tristi [Rotenberg e Eisenberg 1997].
Non sempre chi ha bisogno di aiuto vuole essere aiutato. Di fatto, credo che le persone, almeno nella nostra società individualistica, siano ambivalenti riguardo al ricevere aiuto, tranne quando sono disperate. Il colore della pelle può influire su questa ambivalenza: in uno studio, l'autostima dei soggetti neri diminuiva quando venivano aiutati da un bianco senza averlo richiesto (cosa che non succedeva quando l'aiuto veniva da un altro nero) [Schneider et al. 1996]. I bambini sembrano non rendersi conto dell'ambivalenza altrui riguardo all'aiuto, pur essendo ambivalenti quando sono loro a riceverlo: per esempio, è stato osservato che i bambini tra 8 e 10 anni d'età si preoccupano della possibilità di perdere prestigio se un compagno di pari età fa loro da tutor [Depaulo et al. 1989], ma solo a 16 anni o giù di lì cominciano a pensarci due volte prima di offrire aiuto, per evitare di mettere l'altro in una situazione sociale indesiderabile [Midlarsky e Hannah 1985].
Età adulta. Gli adulti sono a volte ambivalenti riguardo all'empatia nei loro confronti (per non parlare dell'aiuto). Ciò può avvenire dopo una lunga malattia o un periodo di lutto:
Quando [la morte di un familiare] accadde fui sconvolta e molto addolorata. Smisi di frequentare l'università per una settimana per rimettermi in sesto. Non chiedevo altro che la mia vita ritornasse com'era prima di quella morte. Quando qualcuno mi chiamava tutto quello che potevo sentire nella sua voce era compassione e pietà. Ma io non volevo sentire parole tristi e nemmeno essere triste. Quello che volevo era continuare a vivere, perché avevo accettato la morte ed ero pronta ad andare avanti. Volevo parlare di altre cose e ridere, ma non potevo perché gli altri intorno a me erano addolorati, e ridere non sembrava esattamente la cosa giusta da fare (studentessa universitaria).
Una donna rispose a un articolo che avevo scritto sull'empatia con queste parole:
Dopo un anno intero passato a combattere contro un cancro della mammella in uno stadio avanzato, mi sono fatta un'idea differente di che cosa voglio dall'empatia. Sono profondamente grata per tutte le attenzioni che gli altri mi riservano, ma non voglio pietà; la pietà non è costruttiva. Nel periodo del mio calvario, apprezzavo molto le persone che, senza smettere di interessarsi e di preoccuparsi per la mia spaventosa situazione, riuscivano a restare allegre e ottimiste, a incoraggiarmi a vedere le cose positive, belle, affascinanti - e, perché no, umoristiche... Nell'esprimere la nostra empatia, dobbiamo accostarci agli altri ricordando la loro ineluttabile mortalità, o dobbiamo piuttosto tenere presente un'altra verità - che, almeno per il momento, siamo vivi?
Secondo queste due persone, se qualcuno sta morendo o ha perduto una persona cara non per questo deve essere sempre triste e sconsolato, mai dimentico della sua malattia o del suo lutto. E quando qualcuno riesce a gettarsi alle spalle la depressione, gli altri dovrebbero celebrare la vita insieme a lui, anche se hanno difficoltà a sbarazzarsi dei loro pensieri tetri. E’ possibile che esse abbiano ragione, e questo modo di affrontare le tragedie altrui - non dimenticare la situazione dell'altro eppure condividere con lui o lei tutto ciò che sente in quel momento - può caratterizzare un tipo di empatia metacognitiva e vendica propria solo degli adulti. Ecco due esempi tratti dalla mia esperienza personale.
Il primo. Ho conosciuto una coppia che aveva un figlio affetto da paralisi cerebrale. Nei primi anni di vita il bambino non era cosciente del suo problema. I genitori, com'è naturale, avvertivano una gran pena quando erano con il figlio, ma riuscivano a sospendere la tristezza e a giocare con lui con straordinario entusiasmo, giungendo persino a dimenticare, per qualche tempo, la sua (e la loro) disgrazia.
Secondo esempio. Ho fatto visita a un caro amico e collega, ricoverato in ospedale per un cancro avanzato e diffuso. Mentre parlavamo dei suoi problemi, ebbi l'impressione, probabilmente dalla voce e dall'espressione facciale, che volesse cambiare argomento. Passammo due ore discutendo delle più recenti ricerche sulla prima infanzia (che era il suo campo di specializzazione) e delle loro implicazioni teoriche. Parlava delle ultime scoperte in modo appassionato e animato, e tutti e due ci dimenticammo ben presto della sua malattia. Al momento di salutarci, mi disse che era stato il pomeriggio più piacevole che avesse trascorso da mesi, e aggiunse che era stanco di compassione e buone parole e, più ancora, di dover mettere a proprio agio i visitatori. Questo esempio non solo illustra il tipo di sofferenza empatica adulta di cui stiamo parlando, ma anche un secondo tipo di sofferenza empatica: malgrado l'atrocità della sua condizione, quell'uomo non era tanto chiuso in se stesso da ignorare i sentimenti dei suoi visitatori: egli si sforzava di aiutarli a superare l'imbarazzo, il disagio e la tristezza che immaginava sentissero per lui.
Infine, richiamo l'attenzione sull'esperienza degli adulti che svolgono certe professioni, soprattutto le professioni di aiuto, che possono accrescere la complessità della risposta empatica di queste persone. Gli psicoterapeuti, ad esempio, possono rendersi conto che ai fini del trattamento può essere utile evitare di manifestare, almeno temporaneamente, la pena empatica che essi provano per un paziente - ad esempio, quando, se lo facessero, il paziente troverebbe più difficile esprimere i sentimenti negativi che magari nutriva per il parente o l'amico scomparso. In questi casi, la pena empatica del terapeuta può includere l'empatizzazione con l'ambivalenza del paziente verso la persona scomparsa.
Tutto ciò dovrebbe dare al lettore almeno una vaga idea del cammino fatto dall'individuo mano a mano che comprende meglio le cause, le conseguenze e i correlati di una serie di emozioni sempre più complesse. E possibile che nuove ricerche colmino le lacune e permettano di delineare un quadro più preciso delle età e degli stadi corrispondenti a ciascun passo avanti nella comprensione delle emozioni. La mia tesi di fondo è che la nostra capacità di provare pienamente empatia per gli altri sia connessa alla capacità di comprendere ciò che sta dietro ai loro sentimenti, e che questa comprensione continui a svilupparsi nell'adolescenza e nell'età adulta. Finora abbiamo limitato l'analisi alle risposte empatiche suscitate dalla situazione immediata dell'altro; resta da considerare la sofferenza empatica dovuta alla condizione di vita dell'altro.
5. La sofferenza empatica al di là della situazione immediata
In un certo momento dello sviluppo, con l'emergere della concezione del sé e degli altri come esseri dotati di continuità, con una storia e un'identità personali, i bambini diventano consapevoli che gli altri avvertono gioia, rabbia, tristezza, paura e disprezzo non solo nella situazione immediata, ma anche in ambiti più ampi. Di conseguenza, pur continuando a provare sofferenza empatica in risposta al dolore o al disagio immediati di un'altra persona, essi possono rispondere con sofferenza empatica anche al tipo di vita di un'altra persona, che immaginano stabilmente triste o sgradevole.
Questa rappresentazione mentale della condizione di difficoltà in cui si trova un'altra persona - il suo livello quotidiano di sofferenza o di deprivazione, le opportunità a sua disposizione e quelle che le sono negate, le sue prospettive future - può essere al di sotto di ciò che uno considera il livello minimo di benessere (determinato socialmente). In tal caso, ci si può aspettare che l'osservatore provi sofferenza empatica. Questa sofferenza empatica, inoltre, dovrebbe acuirsi se la rappresentazione della vita altrui da parte dell'osservatore gli ricordasse eventi simili del suo passato. L'osservatore può rivivere quegli eventi (assunzione di ruolo centrata su di sé) e/o immaginare la condizione di tristezza permanente della vittima (assunzione di ruolo centrata sull'altro). Di conseguenza, l'osservatore costruirà una rappresentazione mentale dell'infelicità della vittima che genera e insieme si carica di affetto empatico: diventa, cioè, una cognizione «calda». In questo modo, possiamo rispondere empaticamente a persone la cui vita immaginiamo triste e povera (malati cronici, persone emozionalmente deprivate, persone con problemi economici) e ciò può accadere anche quando la vittima non è presente.
D'altro lato, quando la vittima è presente, l'osservatore continua a rispondere come al solito ai segnali di sofferenza provenienti dalla vittima e dalla situazione in cui questa si trova. Ciò solleva una questione: in che modo l'empatia per le condizioni di vita di un'altra persona interagisce con l'empatia per la sua sofferenza immediata? Sembra ragionevole supporre che se i due affetti sono congruenti essi si rafforzino mutuamente: se l'altro è triste, la nostra tristezza empatica aumenterà se sappiamo che quella dell'altro non è tristezza passeggera, ma il riflesso di una vita grama; e se già da prima conosciamo e rispondiamo empaticamente alla triste vita dell'altro saremo più sensibili ai suoi segnali immediati di tristezza.
A volte però le due fonti di empatia sono in contrasto, e l'osservatore deve fare i conti con questa contraddizione, che può avere diverse cause. E’ possibile che l'altro non sia tanto triste quanto ci si potrebbe aspettare, perché il problema di cui soffre (poniamo, un male incurabile) gli è stato nascosto, o perché lo nega, o, infine, ne è perfettamente consapevole ma accetta la sua condizione e cerca di godersi la vita che gli resta. Un mio caro amico malato di cancro (non quello di prima) doveva decidere se operarsi o fare radioterapia, ma quando lo andai a trovare voleva solo parlare delle cose di sempre, di sport o di finanza, e con l'entusiasmo di sempre (insomma, di tutto voleva parlare salvo che della sua malattia). Se avessi semplicemente dato corso all'empatia, avrei potuto mettere a repentaglio la sua negazione, perciò andai avanti abbandonandomi a una piacevole conversazione; la sofferenza empatica era rimasta sotto controllo in un angolo della mia mente, ma poi riaffiorò. Il punto è che in queste situazioni gli adulti non rispondono semplicemente all'allegria momentanea dell'altro, come potrebbe fare un bambino. La mia ipotesi è che la maggior parte degli adulti sappiano che il piacere momentaneo di un'altra persona, come indice del suo benessere, è meno significativo di una vita infelice; essi perciò risponderanno con tristezza empatica, tristezza mista ad allegria, o allegria seguita da tristezza.
Ecco due testimonianze di studenti che illustrano la profonda tristezza degli osservatori a dispetto dell'allegria della vittima in quel momento. Il secondo esempio mostra anche come la risposta empatica all'infelicità della vita altrui possa spingere una persona a scegliere una professione nella quale aiutare il prossimo.
La madre di mio cugino morì. Lui era troppo piccolo per capire quello che era successo e alla notizia continuò a giocare. Mi sforzai di sorridere e giocare con lui, ma non smettevo di chiedermi quanto la perdita della madre lo avrebbe influenzato. Mai più dolci abbracci quando cadeva e si sbucciava un ginocchio. Oltretutto il padre era un uomo severo, che imponeva una disciplina ferrea. Tutto quello cui riuscivo a pensare era che la tenerezza della madre non c'era più, e che gli sarebbe mancata. Ma lui non se ne rendeva conto. Credeva che tutto andasse per il meglio.
Era una splendida giornata e giocavo nel parco con un amico. Mentre scherzavamo e ridevamo, notai la presenza di una bambina di circa 4 anni con una grave forma di sindrome di Down. Si stava divertendo un mondo, rideva. Io invece smisi di farlo. Mi chiedevo quanto dovesse essere orribile vivere con un minorazione simile, e come mi sarei sentita se fossi stata sua madre o se io stessa avessi sofferto di quella malattia. E mi chiedevo come si sarebbe sentita quella bambina quando sarebbe stata più grande e non avrebbe potuto frequentare una scuola normale come le altre bambine del quartiere. Lei ignorava completamente la sua situazione. Si godeva.., la vita che le era toccata, e qualunque difficoltà le avesse riservato il futuro.., in qualche modo l'avrebbe affrontata. Eppure, per qualche ragione, questa limpida verità non mi tranquillizzò. Quella bambina non è un caso unico, e spesso reagisco allo stesso modo quando vedo che la vita è stata ingiusta con qualcuno. Per questo ho deciso di diventare insegnante di scuola speciale, per poter aiutare queste persone.
Vi sono altre contraddizioni tra la vita di una persona e il suo comportamento immediato. Qualcuno fa qualcosa che mi danneggia e mi fa arrabbiare; scopro che il suo atto era stato provocato da una brutta esperienza che aveva avuto in passato e sapere questo suscita in me empatia e fa sbollire la mia rabbia. Un altro esempio. Vado sempre al lavoro in treno con alcuni colleghi, e per arrivare alla stazione prendiamo un autobus. Parecchie volte ci siamo infuriati nel vedere autobus che non erano pieni passarci davanti senza fermarsi. Un giorno protestammo con uno degli autisti, e scoprimmo che per conservare il posto di lavoro erano costretti a rispettare orari impossibili. Ciò fu sufficiente a suscitare la nostra empatia e a placare la rabbia verso gli autisti (non però verso l'azienda dei trasporti). Lo studio di Pazer, Slackman e Hoffman [1981] di cui abbiamo parlato sopra dimostra la stessa cosa: le circostanze attenuanti che ci fanno guardare in modo simpatetico chi ha fatto qualcosa di male riducono la rabbia nei suoi confronti.
Non intendo dire che ignoriamo i sentimenti della vittima nella situazione, ma che siamo animali pensanti, oltre che senzienti, e non possiamo toglierci del tutto dalla mente le condizioni generali dell'altro. In situazioni del genere, i nostri sentimenti empatici implicano inevitabilmente una miscela di emozioni diverse. Vi sono casi in cui l'empatia oscilla avanti e indietro tra i sentimenti della vittima e le sue condizioni di vita. In generale, la mia ipotesi è che, in un primo tempo, lo stimolo immediato proveniente dalla vittima avrà un'influenza affettiva maggiore e la conoscenza delle sue condizioni di vita sarà meno importante (a meno di non possedere quella conoscenza in anticipo). Col procedere dell'elaborazione cognitiva, tuttavia, l'influenza affettiva dei sentimenti immediati della vittima diminuisce, e può anche diventare irrilevante quando l'osservatore prende in considerazione le condizioni di vita della vittima. La risposta empatica ai sentimenti della vittima nella situazione immediata può trasformarsi in risposta empatica alle condizioni di vita; questa trasformazione - una sorta di decentramento affettivo? - comincia presumibilmente quando l'osservatore riconosce la contraddizione tra il comportamento della vittima e le sue condizioni di vita.
In altri termini, la mia ipotesi è che l'immagine mentale delle condizioni di vita dell'altro non possa essere ignorata. Essa opera indipendentemente dagli indizi situazionali immediati e dai comportamenti espressivi dell'altra persona, rendendoli a volte irrilevanti. Ne segue che rispondere empaticamente all'immagine della vita dell'altro può implicare un certo grado di distanziamento: più che allo stimolo da lui presentato immediatamente, rispondiamo all'immagine mentale che abbiamo dell'altro. Dal punto di vista evolutivo, un'altra conclusione è che una volta messo in atto questo distanziamento, una persona può non rispondere soltanto, come prima, alla stimolazione immediata dell'altro, ma anche prendere in considerazione la vita dell'altro al di là della situazione immediata, o farsi delle domande su di essa.
Alla luce di questa analisi, dovrebbe essere chiaro che le informazioni sulle esperienze passate di un'altra persona o su quelle che ci aspettiamo avrà in futuro possono influenzare la nostra sofferenza empatica in due modi: a) rispondiamo empaticamente alle condizioni di vita della vittima; b) rispondiamo empaticamente alla sua situazione immediata, e questa sofferenza empatica è influenzata dalle informazioni sulle condizioni di vita dell'altro. Quello che ci interessa qui è il primo caso, che si colloca a un livello di sviluppo più avanzato perché presuppone la capacità di rappresentarsi le condizioni di vita di qualcun altro, e di rispondere empaticamente a questa rappresentazione. Il secondo caso è stato analizzato sopra in relazione alla sofferenza empatica vendica nella fanciullezza e lo ricordiamo qui perché spesso accompagna il primo.
Questa discussione mette in evidenza un importante vantaggio che deriva dall'escludere dalla definizione dell'empatia il requisito che l'affetto dell'osservatore coincida con quello del modello: tale requisito impedirebbe che le contraddizioni tra la situazione immediata e le condizioni di vita fossero significative per l'empatia. Ciò nonostante, va detto che vi è, in fin dei conti, una sorta di coincidenza: quella tra la risposta affettiva dell'osservatore alla sua rappresentazione delle condizioni di vita della vittima, e la risposta che la vittima probabilmente darebbe a tale rappresentazione. E’ possibile che la vittima cerchi di difendersi da questa rappresentazione perché non riesce a sopportare la realtà della vita che vi è rappresentata. Di conseguenza, la sofferenza provata dalla vittima può essere minore di quella che l'osservatore prova per lei.
A che età il bambino è in grado di rispondere empaticamente alla vita di qualcun altro? A che età il bambino prende coscienza degli altri come esseri dotati di continuità, con una storia e un'identità personali, com'è necessario perché risponda empaticamente alle condizioni di vita altrui? Questo problema non è stato studiato direttamente, ma le ricerche sull'identità personale forniscono un'indicazione. Secondo lo schema di Erikson, il bambino non ha un senso di sé come essere dotato di continuità, con una storia e un'identità proprie, prima dell'adolescenza. Le ricerche sull'identità etnica e di genere [Ruble e Martin 1998] indicano che i bambini statunitensi di origine europea giungono a considerare la loro identità di genere come qualcosa di stabile, coerente e permanente tra 15 e 16 anni (per l'identità etnica accade tra 16 e 17 anni). Perciò sembra ragionevole supporre che sia tra 15 e 18 anni che i bambini diventano consapevoli che gli altri hanno una storia, un'identità e una vita proprie.
Un'altra questione è se a questa età i bambini siano in grado di rispondere empaticamente alle condizioni di vita del prossimo. Da un lato, ci si potrebbe aspettare che l'attenzione dei bambini si rivolgesse e si fissasse sui principali indizi personali e situazionali della sofferenza di un'altra persona. A causa della profonda influenza dei processi di condizionamento, associazione e mimesi, la «presa» di questi indizi può essere abbastanza grande da catturare l'attenzione del bambino, nel quale caso la sua risposta empatica sarà basata su di essi e non sarà affatto influenzata dalla conoscenza della vita infelice della vittima. Perciò potrebbe volerci del tempo prima che il bambino sia capace di andare oltre gli stimoli salienti e rispondere empaticamente alle condizioni di vita altrui. Ciò concorda con i risultati di Gnepp e Gould [1985], menzionati sopra, secondo cui è possibile che fino ai 9 o 10 anni di età i bambini non siano capaci di utilizzare le conoscenze sull'esperienza recente di un altro bambino, benché siano chiaramente rilevanti, per predire i sentimenti di quel bambino in situazioni simili.
D'altro lato, dobbiamo considerare la possibilità che la pena empatica del bambino di 4 anni per la perdita sofferta dalla sua amica fosse realmente acuita dalla visione della vita futura della bambina dopo la scomparsa della madre. Benché questa visione potesse essere stata stimolata dai discorsi degli adulti, poteva comunque implicare l'accesso a una prospettiva temporale a lungo termine, per quanto embrionale, in grado di influenzare la sofferenza empatica. Sono chiaramente necessarie altre ricerche su diversi temi: lo sviluppo di una prospettiva temporale a lungo termine, il modo in cui essa è condizionata dal contesto, il modo in cui le conoscenze del bambino sul passato o sul futuro prevedibile di un'altra persona influenzano la sua risposta empatica nel momento presente.
La risposta empatica alla sofferenza di un gruppo. E’ probabile che con lo sviluppo delle sue capacità cognitive, e specialmente della capacità di formare concetti sociali e di classificare in gruppi le persone, il bambino o la bambina giunga a rendersi conto delle condizioni di difficoltà non solo di un individuo ma di tutto un gruppo o una classe di persone; ad esempio, persone cadute in povertà, oppresse politicamente, emarginate socialmente, vittime di guerre, o con ritardo mentale. La combinazione di sofferenza empatica e rappresentazione mentale delle difficoltà di un gruppo sfortunato può sembrare la forma più sviluppata di sofferenza empatica, giacché è difficile pensare che un bambino possa provare empatia per un gruppo prima che possa farlo di fronte alla rappresentazione mentale della vita di un individuo. Il passaggio dall'empatia per la vita di un individuo all'empatia per il gruppo cui esso appartiene può avvenire in una singola occasione, come quando qualcuno prova empatia per un individuo e poi si rende conto che quell'individuo fa parte di un gruppo o una categoria di persone che soffrono del medesimo problema. Un caso del genere è quello dello studente citato prima, che provava empatia per una bambina con la sindrome di Down come singola persona, ma anche come una persona che non era «un caso unico» ma una delle tante con cui «la vita è stata ingiusta». Immagino che molti di coloro che hanno visto la famosa fotografia del vigile del fuoco che aveva in braccio un bambino ustionato a morte nella strage di Oklahoma City debbano avere provato sofferenza empatica per il bambino e per i suoi genitori, così come per altre vittime fotografate, e immediatamente dopo abbiano generalizzato questo sentimento alle vittime dell'attentato di Oklahoma City come gruppo. (Dovremmo parlare qui di sofferenza empatica per un gruppo suscitata o alimentata dai mezzi di comunicazione?)
Un gruppo che suscita un interesse non occasionale è quello formato dalle persone meno favorite economicamente. L'empatia per queste persone potrebbe essere alla base della motivazione ad adottare ideologie politiche dirette a migliorare le loro condizioni di vita [Hoffman 1980; 1990]. Potrebbe anche essere una motivazione interna all'accettazione di un criterio di distribuzione della ricchezza sociale che venga in soccorso delle persone meno favorite, anche se c'è un prezzo personale da pagare (maggiori imposte). Questo tema sarà affrontato nel capitolo nono, quando analizzeremo la relazione tra l'empatia e i principi della giustizia distributiva.
Se una persona è in grado di provare empatia per le condizioni di vita di un individuo anche quando esse sono in contraddizione con il suo comportamento immediato, dovrebbe poter fare lo stesso anche nel caso di un gruppo. La seguente testimonianza di uno studente illustra la possibilità di rispondere empaticamente sia alle condizioni di vita di un gruppo oppresso sia al suo comportamento contraddittorio ma comprensibile:
Quando leggo che nei loro riti religiosi gli schiavi d'America erano spesso straordinariamente devoti e affatto ottimisti mi rallegro un poco pensando che queste persone facevano qualcosa che dava loro gioia, perfino rapimento mistico; ma poi ricordo che erano oppressi e mi rendo conto che quello era un falso senso di gioia e di speranza,
un'isola nel mezzo di una vita sgradevole, infelice e ingiusta. Mi rallegro che fossero felici pur vivendo in schiavitù, ma mi rattristo a pensare alla loro vita nel suo complesso, specialmente se considero che quella speranza o gioia religiosa dava loro un falso senso di sicurezza. Era davvero una crudele ironia che la loro gioia nascesse dalla salvezza promessa da una religione che era stata data loro proprio dai padroni da cui speravano di liberarsi.
6. Trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica
Come già ho sottolineato, la sofferenza empatica dell'osservatore include tanto una componente affettiva quanto una componente cognitiva, frutto del suo senso cognitivo dell'altro come distinto da sé. Fin dall'inizio degli anni Sessanta, gli studiosi hanno osservato che quando una persona sperimenta un affetto, è profondamente influenzata dalla cognizione pertinente («L'individuo.., identifica questo stato di eccitazione sulla base delle caratteristiche della situazione e della propria massa appercettiva» [Schachter e Singer 1962, 380]). Questi autori si proponevano di spiegare in che modo distinguiamo tra diversi affetti (rabbia, gioia, paura) attivati direttamente. Lasciando da parte la spiegazione delle emozioni attivate direttamente - una questione sulla quale non vi è mai stato accordo [Zajonc 1980] -, il senso cognitivo di sé e dell'altro come entità separate e indipendenti è così intrinseco all'affetto suscitato empaticamente, da modificare la qualità dell'esperienza affettiva dell'osservatore. Di conseguenza, quando il bambino si forma un senso di sé come individuo separato dagli altri, la qualità della sua sofferenza empatica non è più la stessa. Una possibilità è che quando il bambino scopre che il dolore o il disagio sono di qualcun altro, si giri semplicemente dall'altra parte e risponda come se il problema non fosse il suo. Alcuni bambini fanno proprio così. Ma le prove disponibili - le ricerche che mettono in relazione la sofferenza empatica con l'aiuto (cap. II), l'argomento dell'evoluzione umana [Hoffman 1981], i molti studi e aneddoti citati qui - mostrano che in genere i bambini non si girano dall'altra parte, ma rispondono con lo stesso grado di sofferenza empatica di prima, e, in giunta, sono motivati ad aiutare la vittima.
Più specificamente, la mia ipotesi è che una volta che i bambini abbiano immagini distinte di sé e degli altri, la loro sofferenza empatica, che è una risposta parallela (vale a dire, una riproduzione più o meno esatta del sentimento di sofferenza reale o supposto della vittima), possa trasformarsi, almeno in parte, in un sentimento di preoccupazione (concern) per la vittima caratterizzato da una maggiore reciprocità; e la motivazione a trovare conforto per sé si trasformi in una motivazione ad aiutare la vittima. Questa trasformazione evolutiva concorda con il modo in cui i bambini più grandi e gli adulti descrivono i sentimenti suscitati in loro dall'osservazione di una persona sofferente. Essi continuano a rispondere, in parte, in modo egoistico - si sentono loro stessi a disagio e profondamente afflitti - ma provano anche un sentimento di compassione ovvero di sofferenza simpatetica nei confronti della vittima e, insieme, un desiderio consapevole di aiutarla.
Altrimenti detto, il medesimo progresso nella differenziazione sé-altro che fa muovere il bambino dall'empatia «egocentrica» a quella «quasi-egocentrica» provoca una trasformazione qualitativa della sofferenza empatica in simpatetica. Da questo momento, la sofferenza empatica del bambino (e poi dell'adulto) includerà una componente simpatetica e il bambino vorrà portare aiuto alla vittima perché è dispiaciuto per lei, e non solo per ridurre la propria sofferenza empatica. L'elemento di sofferenza simpatetica della sofferenza empatica è perciò la prima motivazione genuinamente prosociale del bambino.
E’ difficile mettere alla prova un'ipotesi su un cambiamento evolutivo di tipo qualitativo, ma in questo caso, a suo sostegno, vi sono prove convergenti e circostanziate. In primo luogo, vi sono gli studi (sopra citati) a sostegno della tesi che nel suo sviluppo il bambino passi da uno stadio in cui risponde alla sofferenza altrui ricercando conforto per sé a uno stadio in cui ricerca conforto per la vittima [Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King 1979; Zahn-Waxler et al. 1992]. In secondo luogo, tre studi hanno messo direttamente alla prova questa ipotesi, prevedendo che i progressi nella differenziazione sé-altro precedano l'evoluzione del bambino dalla sofferenza empatica a quella simpatetica [Bischoff-Kohler 1991; Johnson 1992; ZahnWaxIer, Radke-Yarrow e King 1979]; tutti e tre questi studi hanno mostrato che il riconoscimento della propria immagine allo specchio è un predittore della sofferenza simpatetica e del comportamento di aiuto successivi.
Più difficile è dimostrare le tappe della transizione dalla sofferenza empatica a quella simpatetica, sebbene vi siano aneddoti che illustrano la prevista combinazione dei due tipi di sofferenza nel secondo anno. Ho già descritto il caso di un bambino che, verso la fine del primo anno d'età, quando era afflitto era solito succhiarsi il pollice di una mano e tirarsi l'orecchio con l'altra. All'inizio del secondo anno, notando un'espressione di tristezza sul volto del padre, il bambino si rattristò e prese a succhiarsi il pollice, mentre tirava l'orecchio al padre [Hoffman 1978]. Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King [1979] descrivono tre casi simili: nel suo primo atto prosociale, un bambino alternava i colpetti leggeri alla vittima e a se stesso; un altro consolava la madre che piangeva asciugandole le lacrime e asciugandosi lui stesso gli occhi benché non piangesse; un terzo bambino, dopo aver visto che sua madre aveva battuto il gomito, le massaggiò il gomito, poi massaggiò il suo, disse «ah!», e fece una smorfia di dolore. Inoltre, in uno studio di Main, Weston e Wakeling [1979], un bambino che osservava un adulto vestito da pagliaccio che fingeva di piangere, disse, con aria molto triste, «uomo piange», si fece prendere in braccio dal padre, e da lì si rivolse più volte all'uomo con un'espressione triste, come per consolarlo o distrarlo.
Nei bambini piccoli, specie durante il periodo di transizione, solo parte della sofferenza empatica può trasformarsi in simpatetica, come mostra il caso del bambino che si succhiava il pollice e al tempo stesso tirava l'orecchio al padre. Quando il bambino progredisce ancora nella cognizione sociale e acquisisce un senso degli altri più chiaro, la trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica diventa più completa. Anche nell'età adulta può sopravvivere una componente puramente empatica. Questo duplice carattere empatico/simpatetico della sofferenza empatica adulta diventa evidente nel meccanismo combinato di assunzione di ruolo centrato su di sé e sull'altro, descritto nel capitolo secondo. E’ illustrato anche dai fenomeni della sovrattivazione empatica e della fatica da compassione (compassion fatigue), che esamineremo nel capitolo ottavo, e dall'osservazione che le infermiere, all'inizio della loro formazione, possono sperimentare un conflitto tra il sentimento di sofferenza simpatetica, che include un vivo desiderio di aiutare i pazienti gravemente malati, e la sofferenza empatica, che può rendere loro difficile persino stare nella stessa stanza con quei pazienti [Stotland et al. 1979].
Nella misura in cui la sofferenza empatica giunge a trasformarsi in simpatetica, gli ultimi tre stadi della sofferenza empatica (quasi-egoistica, vendica, al di là della situazione immediata) sono anche stadi della sofferenza simpatetica. Invito il lettore a tenerne conto, anche se, per comodità, continuo a usare il termine sofferenza empatica, tranne quando, per evitare confusioni, parlo di sofferenza empatica/simpatetica.
Quando una persona ha attraversato, l'uno dopo l'altro, i cinque stadi di sviluppo della sofferenza empatica, e incontra un'altra persona con difficoltà fisiche, emozionali o economiche, è esposta a una varietà di informazioni sulle condizioni della vittima. Esse possono includere stimoli espressivi verbali e non verbali provenienti dalla vittima, stimoli situazionali, e conoscenze personali sulla vita della vittima. Queste informazioni sono elaborate in modi distinti: l'empatia suscitata dagli stimoli non verbali e situazionali è mediata da forme di elaborazione largamente involontarie e cognitivamente superficiali (mimesi, condizionamento e associazione). L'empatia suscitata dai messaggi verbali della vittima o dalle proprie conoscenze sulla vittima richiede un'elaborazione più complessa, per associazione mediata e assunzione di ruolo. Nella forma più avanzata di quest'ultima, l'osservatore può riprodurre sulla scena mentale le emozioni e le esperienze evocate dalle informazioni precedenti e può considerarle introspettivamente; in tal modo comprende meglio e risponde affettivamente alle circostanze, ai sentimenti e ai desideri dell'altro, tenendo ferma, al tempo stesso, la coscienza che l'altro è una persona separata da sé.
Indizi, modi di attivazione e livelli di elaborazione, nella loro varietà, contribuiscono di solito a un medesimo affetto empatico, anche se le contraddizioni non mancano - per esempio, tra indizi espressivi differenti, come l'espressione facciale e il tono di voce, o tra indizi espressivi e situazionali. Più importante è la contraddizione (analizzata sopra) tra la conoscenza delle condizioni di vita dell'altro e la sua condotta immediata; in questo caso, gli indizi espressivi e situazionali dei sentimenti dell'altro possono perdere molta della loro forza emozionale agli occhi dell'osservatore, consapevole che esse riflettono soltanto stati passeggeri. Si immagini un bambino indigente che ride e si diverte, ignaro della sua condizione e delle implicazioni che questa potrebbe avere per la sua vita futura. Un altro bambino lo osserva senza rendersi conto della limitatezza delle sue prospettive, e avverte una schietta gioia empatica. Un osservatore maturo, d'altra parte, non riesce a ignorare facilmente quella limitatezza, poiché si rende conto che essa indica il suo livello di benessere molto meglio della gioia immediata e, di conseguenza, avverte tristezza empatica o gioia mista a tristezza. Il livello più avanzato di sofferenza empatica implica perciò un distanziamento: si tratta, in parte, di una risposta affettiva alla propria immagine mentale della vittima, non solo al suo valore di stimolo immediato. Ciò concorda con la mia definizione di empatia, intesa non come una corrispondenza esatta con i sentimenti altrui, ma come una reazione affettiva più adeguata alla situazione dell'altro che non alla propria.
7. Ampliamento cognitivo del modello dello spettatore
Anche se stiamo parlando dell'empatia affettiva, è evidente in ogni suo aspetto il ruolo della cognizione: nelle forme di attivazione empatica di livello superiore come l'associazione mediata e l'assunzione di ruolo, nel ruolo essenziale della differenziazione sé-altro nello sviluppo iniziale dell'empatia, nell'importanza della cognizione sociale per l'empatia vendica e l'empatia al di là della situazione immediata. Qui sottolineo due punti cruciali che possono finire nascosti tra i dettagli dei meccanismi di attivazione e degli stadi di sviluppo: a) lo sviluppo cognitivo ci permette di formare immagini, rappresentare persone ed eventi, immaginare noi stessi al posto di qualcun altro; e b) poiché le persone e gli eventi rappresentati possono suscitare affetto [Fiske 1982; Hoffman 1985], non è necessario che la vittima sia presente perché l'osservatore provi empatia.
Pertanto, l'empatia può essere suscitata quando l'osservatore immagina una vittima: quando legge di disgrazie altrui, parla o discute di temi economici o politici, o anche quando formula giudizi à la Kohlberg su dilemmi morali ipotetici. Un ragazzo di 13 anni rispose alla domanda: «Perché è male rubare in un negozio?» nel modo seguente: «Perché i suoi proprietari hanno lavorato sodo e hanno tutto il diritto di spendere quello che guadagnano per la loro famiglia. Non è giusto: loro si sacrificano e fanno piani per il futuro e poi va tutto all'aria perché qualcuno che non ha fatto nulla per guadagnare quei soldi arriva e se li porta via». Questo soggetto, a quanto pare, trasformava una questione morale astratta sul rubare in una questione relativa all'empatia, immaginando una vittima e i suoi stati interni (la motivazione a lavorare sodo, l'aspettativa della ricompensa, i piani per il futuro, la disillusione).
In altre parole, lo sviluppo cognitivo amplia il modello dello spettatore in modo che esso abbracci un'enorme varietà di situazioni, il cui unico limite è l'immaginazione dell'osservatore e non la presenza fisica dell'altro.” (pp. 90-120 passim)
3.
L’empatia, così come promuove comportamenti prosociali, non esclude ovviamente che gli esseri umani possano agire in prima persona comportamenti dannosi a carico degli altri. Il problema del senso di colpa e dell’interiorizzazione della morale occupano il quinto e il sesto capitolo e rivestono, nella cornice del pensiero di Hoffman, una particolare importanza. Egli scrive:
“La prima spiegazione evolutiva del senso di colpa fu proposta da Freud. Curiosamente, secondo Freud il senso di colpa non è dovuto al fatto di avere danneggiato qualcuno, ma è un ritorno, in larga parte inconscio, alla prima fanciullezza, e nasce dall'angoscia che il bambino prova di fronte alla possibilità di essere punito o di perdere l'amore dei genitori. Quando questa angoscia è suscitata da sentimenti di ostilità, in un primo momento verso i genitori ma poi verso qualunque persona, si trasforma in senso di colpa anche se i sentimenti ostili non sono espressi. Nelle parole di Freud, «una minacciosa infelicità esterna - perdita dell'amore e punizione da parte dell'autorità esterna - è stata barattata con una permanente infelicità interna, la tensione che nasce dal senso di colpa». Freud riconosceva il carattere patologico di questo senso di colpa e attribuiva agli esseri umani anche un senso di colpa più collegato alla realtà; né lui né i suoi seguaci elaborarono però una concezione alternativa del senso di colpa e del suo sviluppo [Hoffman 1970a]. Questo carattere patologico può spiegare la cattiva reputazione del senso di colpa e perché esso sia stato a lungo trascurato dagli psicologi accademici.
Verso la fine degli anni Sessanta, ho proposto una teoria del senso di colpa interpersonale più costruttiva e fondata sull'empatia. Il senso di colpa vi è definito come un doloroso sentimento di disistima di sé, accompagnato solitamente da un senso di urgenza, tensione e rammarico, che scaturisce da un sentimento empatico verso una persona sofferente, combinato con la coscienza di essere la causa di quella sofferenza [Hoffman 1982b; Hoffman e Saltzstein 1967]. Per non sentirsi colpevole, una persona può evitare di compiere atti dannosi, o, se ne ha commessi, può risarcire la vittima nella speranza di cancellare il danno e ridurre il sentimento di colpa. (Per un'estensione al dominio clinico della formula empatia-senso di colpa, vedi Friedman [1985].) Negli ultimi decenni, un corpo di ricerche piuttosto ampio ha confermato sia la realtà del senso di colpa su base empatica, sia l'ipotesi che esso agisca come una motivazione morale prosociale.” (p. 144)
“Vi sono solide prove che il senso di colpa per trasgressione su base empatica muova ad atti prosociali come scusarsi con la vittima e riparare il danno, ma anche aiutare altre persone oltre alla vittima - si veda l'analisi di Baumeister, Stillwell e Heatherton [1994]. Sembra inoltre che il senso di colpa favorisca il comportamento prosociale particolarmente nei bambini molto empatici [Krevans e Gibbs 1996]. Inoltre, nelle relazioni strette il senso di colpa su base empatica può indurre a prestare più attenzione all'altro, a cambiare comportamento per adattarsi alle sue necessità e aspettative e, a volte, a confessare, esprimendo l'impegno a salvaguardare la relazione e a non ripetere la trasgressione [Baumeister, Stillwell e Heatherton 1994].” (p. 146)
“Quando un adulto maturo è consapevole di avere violato valori o principi morali interiorizzati avverte un senso di colpa su base empatica. Il principio qui in gioco - che dovremmo prendere in considerazione il benessere altrui tanto quanto il nostro - è semplice, ma si complica non appena ci rendiamo conto che il benessere dell'altro include non solo il suo benessere fisico ma anche sentimenti e legittime aspettative per ciò che riguarda il comportamento nei suoi confronti (fiducia, lealtà, reciprocità): «Ecco, c'è questa ragazza che mi piace molto. L'altro giorno all'hotel quasi mi sono messo ad amoreggiare con un'altra ragazza... Adesso provo una specie di senso di colpa e forse dovrei parlarle» [Tangney e Fischer 1995, 120].
Il principio si complica ulteriormente se si considerano le variabili che determinano la gravità della violazione e pertanto l'intensità del senso di colpa del trasgressore. Una delle variabili che determinano l'intensità del senso di colpa è ovviamente la gravità del danno arrecato alla vittima. Altre variabili: se il danno fosse accidentale o intenzionale; se l'atto dannoso fosse controllabile dal trasgressore, dovuto a pressioni esterne, o provocato dalla vittima; se, nel compierlo, il trasgressore avesse una scelta. Arrecare deliberatamente danno ad altri quando ha un controllo o si può scegliere è una trasgressione più grave che non il farlo accidentalmente, o sotto pressione esterna, o perché si è provocati.
Queste variabili dovrebbero determinare l'intensità del senso di colpa maturo, che è il risultato finale del processo di sviluppo. Le ricerche sullo sviluppo indicano una progressione che va dalla prima fanciullezza, nella quale la gravità delle conseguenze è l'unica variabile che determina l'intensità del senso di colpa, alla media fanciullezza, quando alla gravità delle conseguenze si aggiungono - non meno importanti - la scelta e il grado di controllo, fino all'età adulta, nella quale la scelta e il grado di controllo sono variabili primarie e il senso di colpa è massimo quando viene violato intenzionalmente il principio astratto di tener conto degli altri [Baumeister, Stillwell e Heatherton 1994; Graham, Doubleday e Guarino 1984; Weiner, Graham e Chandler 1982].
Tuttavia, non credo che le intenzioni e la scelta siano sempre fattori primari e che la gravità delle conseguenze possa mai perdere tutta la sua influenza, neppure negli adulti. Chi non si sentirebbe colpevole se avesse travolto un bambino con l'auto, anche se in quel momento procedeva con prudenza e ben al di sotto della velocità consentita? Anche nelle situazioni più favorevoli e con tutte le circostanze attenuanti immaginabili, siccome il senso di colpa ha un fondamento empatico, è verosimile che, in maggiore o minor misura, sia sempre presente.
Prerequisiti evolutivi del senso di colpa maturo. Una persona non si sentirà colpevole in forma matura per avere violato il principio di tener conto degli altri se non dopo avere raggiunto un livello di sviluppo abbastanza avanzato. La persona dovrà interiorizzare il principio e riconoscere i casi in cui si applica. Dovrà rendersi conto di avere violato il principio e comprendere la gravità del danno arrecato, ciò che presuppone, a sua volta, la capacità di riflettere sulle proprie azioni e comprendere i loro effetti presenti e futuri sul benessere altrui. Dovrà essere in grado di riflettere sulle proprie motivazioni e stabilire se la propria azione fosse involontaria oppure frutto di una scelta, una tentazione, una pressione esterna o una provocazione. E, infine, la persona non solo dovrà sentirsi colpevole ma anche essere cosciente di avere commesso un'infrazione e di essere personalmente responsabile del danno arrecato.
«Stadi» dello sviluppo del senso di colpa. Il senso di colpa maturo è molto distante dalle prime manifestazioni del senso di colpa e dei comportamenti che lo prefigurano (guilt-like). Queste prime manifestazioni soddisfano i requisiti minimi del senso di colpa su base empatica: la sofferenza empatica e la consapevolezza di avere causato danno a un'altra persona, che implica anche la consapevolezza delle ripercussioni delle proprie azioni sugli altri. In generale, si può supporre che il senso di colpa su base empatica si sviluppi allo stesso modo della sofferenza empatica: il senso di colpa per avere arrecato un danno o un dolore fisico a un'altra persona è seguito prima dal senso di colpa per avere ferito i suoi sentimenti, poi dal senso di colpa per averla danneggiata al di là della situazione immediata [Hoffman 1982b]. Mascolo e Fischer [1995] hanno sviluppato e arricchito questo quadro di riferimento alla luce delle ricerche sull'emergere del senso di colpa, soprattutto quelle di Zahn-Waxler e colleghi, e hanno proposto il seguente schema di sviluppo:
1. A partire dagli 8 o 9 mesi, il bambino o la bambina prova sofferenza empatica quando una sua azione intenzionale (una botta) fa piangere qualcuno, benché debba passare ancora un anno prima che tale sofferenza assuma la forma del senso di colpa. Le risposte che prefigurano il senso di colpa per avere causato un danno fisico a un'altra persona («Ho fatto del male a Jason») sono seguite da quelle per aver detto qualcosa di offensivo (dopo avere detto «Che brutta torre», il bambino si accorge che Jason si è offeso e dice: «Ho fatto del male a Jason, Jason è triste»), e poi da quelle per non avere esaudito una richiesta (dopo avere rifiutato di dare a Jason dei cubi per costruire una torre, il bambino vede che Jason si è offeso e dice: «Ho fatto del male a Jason, Jason è triste» con tono di voce afflitto).
Benché Mascolo e Fischer non ne facciano menzione, è significativo che il numero di atti riparatori prosociali compiuti da bambini che avevano danneggiato un'altra persona aumenti bruscamente tra 18 e 24 mesi d'età [Zahn-Waxler e Robinson 1995]. Ecco un esempio di una mia studentessa:
Un giorno facevo da baby-sitter a mia cugina Ginny, una bambina di 21 mesi. Giocavo con lei afferrandola, sollevandola in aria e facendola ricadere delicatamente a terra. Dopo un po' mi stancai e la misi giù.
Ma Ginny insisteva e fece un salto quando io era ancora china su di lei, e mi diede una testata sul mento. Cominciò a piangere. Mi sentii terribilmente colpevole e le dissi: «Ginny, scusami tanto». Poi mi resi conto che mi ero morsa il labbro, che si era spaccato e sanguinava. Anche Ginny se ne accorse; subito smise di piangere e disse: «Ginny ti ha fatto questo. Ginny ti ha fatto bua». Andai a prendere una salvietta in cucina e lei mi venne dietro; poi, quando mi sedetti, mi accarezzò la gamba e disse: «Ginny chiede scusa».
Evidentemente, il disagio della bambina era soverchiato dalla sua sofferenza empatica e dal senso di colpa.
A 24 mesi, il numero di atti riparatori è correlato positivamente sia con l'empatia sia con la capacità del bambino di riconoscersi allo specchio [Zahn-Waxler et al. 1992]. Questa osservazione conferma l'ipotesi che il senso di colpa su base empatica presupponga la capacità di riflettere sulle proprie azioni e susciti atti riparatori. Ma torniamo a Mascolo e Fischer.
2. Verso i 4 o 5 anni, il bambino comincia a rappresentarsi gli altri in forme più elaborate, tenendo conto delle esigenze della reciprocità sociale. Può afferrare così la relazione tra le azioni di un altro bambino e ciò che queste azioni richiedono di fare di rimando; e può sentirsi colpevole se non contraccambia. Mark chiede a un amico se può giocare con i suoi cubi di legno, l'amico acconsente, però poi Mark non lo fa giocare con i suoi cubi di plastica quando quello glieli chiede, e l'amico si mette a piangere. Mark si rende conto che l'amico piange per il suo rifiuto, e si sente colpevole per non aver contraccambiato. (Torneremo sul tema della reciprocità nei capp. IX e X.)
3. Tra 6 e 8 anni, il bambino si sente colpevole quando non adempie a un'obbligazione: ad esempio, quando non mantiene la promessa di fare visita a un amico malato, che ci resta male. Qui il senso di colpa è reso possibile dall'emergere di una sistema di rappresentazione capace di coordinare i bisogni dell'amico, la promessa fatta, l'inadempimento di questa e l'afflizione dell'amico, e, insieme, di riconoscere che questa afflizione è dovuta al proprio inadempimento della promessa.
4. Tra 10 e 12 anni, il bambino può sentirsi colpevole per avere violato una norma morale astratta e generale sul modo di trattare le altre persone. Può fare generalizzazioni a partire da eventi particolari e trarre conclusioni come: «Non ho mantenuto le promesse che ho fatto ai miei amici», e così può imputare a se stesso una mancanza morale e sentirsi colpevole per avere violato la norma generale che prescrive di onorare gli accordi con gli amici. E come se si dicesse: «Ho deluso i miei amici: ho detto loro che avrei fatto una cosa e invece ne ho fatta un'altra». A questa età, il bambino può anche paragonarsi con gli altri e sentirsi colpevole per non avere rispettato le norme morali con lo stesso rigore e la stessa coerenza dei suoi amici. In altre parole, in questa fase il bambino è capace di sperimentare un senso di colpa su base empatica abbastanza maturo.
Lo schema di sviluppo di Mascolo e Fischer è un primo, prezioso tentativo di integrare la capacità empatica del bambino con la sua capacità di rappresentare entità personali e sociali sempre più complesse (sentimenti di afflizione, reciprocità, adempimento/inadempimento di obbligazioni, norme astratte). Al centro di questo schema è l'influenza dello sviluppo cognitivo sul senso di colpa.” (pp. 144-152)
Tale sviluppo implica l’interiorizzazione morale che può avvenire solo per effetto della socializzazione:
“La struttura morale prosociale di una persona può essere definita come una rete di affetti empatici, rappresentazioni cognitive e motivazioni. Essa comprende: principi (si deve aiutare chi soffre; le persone devono essere ricompensate per i loro sforzi); norme comportamentali (dire la verità, mantenere le promesse, aiutare gli altri; non mentire, non rubare non tradire la fiducia che ci è stata accordata; non offendere non danneggiare, non ingannare gli altri); regole (fare male a qualcuno intenzionalmente e senza alcuna provocazione è peggio che farlo accidentalmente o dopo una provocazione) una coscienza (sense) del bene e del male e del trasgredire: le immagini delle nostre azioni che hanno danneggiato o aiutato altre persone; l'autobiasimo e il senso di colpa associati
a quelle azioni.
Questi elementi sono tenuti assieme più o meno strettamente dai principi morali, dalla coscienza del bene e del male che essi condividono, dagli affetti che li accomunano: la sofferenza empatica, la sofferenza simpatetica, la rabbia empatica e il sentimento di ingiustizia, il senso di colpa fondato sull'empatia. Questi affetti compenetrano gli elementi e la totalità della struttura; e gli elementi possono essere aggiunti, omessi, ricategorizzati, e suddivisi secondo l'esperienza (le bugie sono suddivise in «bugie pietose», buone, e bugie manipolatrici, cattive).
La struttura morale di una persona è interiorizzata quando la persona accetta e si sente obbligata a rispettare i suoi principi organizzativi e a tenere conto del prossimo indipendentemente da ricompense o punizioni esterne. Le sanzioni, che erano state alla base della motivazione a tener conto degli altri, hanno perduto forza, e l'individuo sente che quella motivazione scaturisce per forza propria dal suo interno, e ne dimentica del tutto o quasi l'origine. Anche gli agenti socializzatori che avevano inflitto originariamente la sanzione (di solito i genitori) possono essere dimenticati, ma, dimenticati o no, non sono più una variabile significativa della motivazione prosociale della persona.
Questa motivazione morale prosociale interiorizzata, quando è attivata negli incontri morali, non è garanzia di condotta morale, per l'azione contraria delle motivazioni egoistiche; essa però ha una qualità interna vincolante e obbligatoria, il che implica, se non altro, un conflitto morale: una persona che desidera accettare l'invito a una festa, ma si sente obbligata a mantenere la promessa di far visita a un amico malato, può prevedere che se va alla festa si sentirà colpevole. Perciò gli atti morali non sono solo l'espressione comportamentale di motivazioni morali, ma anche il tentativo di raggiungere un equilibrio accettabile tra le motivazioni egoistiche e quelle morali.
L'interrogativo fondamentale per la psicologia dello sviluppo è: quali sono le esperienze cruciali per sviluppare questa complessa rete interiorizzata di cognizioni, sentimenti e motivazioni morali? La mia risposta è la socializzazione, soprattutto attraverso gli interventi degli adulti.” (pp. 165-166)
Nel capitolo sesto, Hoffman espone la sua teoria sull’interiorizzazione morale:
“Da tempo sostengo che il fondamento del senso di colpa e della interiorizzazione morale prosociale, elementi necessari per contrastare i bisogni egoistici in conflitto e altre situazioni di trasgressione, risiede negli incontri di tipo disciplinare, specialmente quelli effettuati quando il bambino ha danneggiato una persona. Questi incontri sono scenari (settings) nei quali i genitori cercano di modificare il comportamento di un bambino contro la sua volontà…
Ma perché gli incontri disciplinari, oltreché per la loro frequenza, dovrebbero essere più importanti di altre cose che i genitori fanno? Ecco la mia risposta: che il danno fatto dal bambino sia accidentale o deliberato, che la vittima sia un genitore o un altro bambino, è solo negli incontri disciplinari che è probabile che i genitori stabiliscano il nesso, necessario per il senso di colpa e per l'interiorizzazione morale, tra le motivazioni egoistiche del bambino, il suo comportamento, e le conseguenze dannose del suo comportamento per gli altri, ed esercitino una pressione sul bambino perché controlli il suo comportamento tenendo conto degli altri…
Resta da chiarire quale strumento di disciplina possa far leva sull'inclinazione empatica del bambino e faccia in modo che provi sofferenza empatica e si senta colpevole, si renda conto del danno che le sue azioni possono arrecare ad altri e lo metta a confronto con i suoi desideri - come accade ad interiorizzazione morale avvenuta. Lo strumento di disciplina in questione è l'induzione, nella quale i genitori mettono in evidenza il punto di vista dell'altro, sottolineano la sua sofferenza, e chiariscono che la causa di questa sofferenza è stata la condotta del bambino…
L'esperienza da parte del bambino di incontri disciplinari che implicano un danno per gli altri e nei quali i genitori ricorrono all'induzione influenza il suo comportamento negli incontri morali nei quali, senza alcun intervento esterno, egli sperimenta un conflitto interno tra i suoi desideri e i bisogni altrui. In altre parole, il suo comportamento in questi incontri disciplinari, diversamente da quello in altri scenari di socializzazione, somiglia al comportamento adottato in seguito negli incontri morali: mettere un freno ai propri desideri per non danneggiare il prossimo o non sentirsi poi colpevole. La differenza è che negli incontri disciplinari l'intervento è necessario, mentre non lo è in quelli morali.
Perché un'induzione sortisca il suo effetto, il suo messaggio deve raggiungere il bambino anche quando è tutto preso dai suoi obiettivi e malgrado il carico emozionale della situazione. Ciò richiede una certa pressione esterna; essa deve essere sufficiente a far sì che il bambino smetta di fare ciò che sta facendo, concentri l'attenzione sull'induzione e la elabori, ma non così forte da suscitare rabbia o paura in eccesso, che potrebbero interferire con l'elaborazione.
L'elaborazione e la comprensione del contenuto di un'induzione possono produrre nel bambino una risposta empatica alla sofferenza della vittima, la consapevolezza che causa di tale sofferenza è la sua condotta, e un senso di colpa per trasgressione su base empatica. Col tempo, il bambino sviluppa uno schema o uno script dell'incontro disciplinare, ed è in questa integrazione successiva di scripts e messaggi induttivi che egli costruisce una norma interiorizzata di considerazione per gli altri - una norma caricata affettivamente con la sofferenza empatica e il senso di colpa che le induzioni suscitano. Più tardi, negli incontri morali nei quali il bambino nuoce a qualcuno o è sul punto di farlo, questa norma viene attivata internamente (per effetto della sofferenza empatica o del senso di colpa anticipatorio) e diventa la componente motivazionale prosociale del conflitto morale interno dell'individuo.
Le induzioni, non più necessarie, hanno in un certo senso «posto le premesse della propria distruzione» (o, almeno, della propria irrilevanza). E’ come se gli incontri disciplinari che implicano induzioni fossero una prova generale degli incontri morali.” (pp. 173-178 passim)
Tra l’affermazione repressiva del potere genitoriale, la minaccia di un ritiro dell’amore e l’induzione, Hoffman non ha dubbio sul fatto che l’induzione sia il metodo più efficace nell’indurre l’interiorizzazione morale:
“Quando un bambino nuoce o è sul punto di nuocere a un'altra persona - un genitore, un fratello, un amico - i genitori possono assumere il punto di vista della vittima e mostrare come questa sia danneggiata dal comportamento del bambino. Come abbiamo già detto, queste sono induzioni. Le prime induzioni sottolineano le conseguenze fisiche dirette e osservabili della condotta del bambino: «Se lo spingi di nuovo, cadrà e piangerà»; «Mi dà fastidio che mi cammini sopra; per favore, lasciami stare distesa in pace»; «Se sei costretto a difenderti va bene, ma non puoi colpire chiunque ti trovi davanti con tutto quello che hai in mano, potresti fargli male sul serio»; «Se butti la neve sul loro vialetto, dovranno spazzarlo daccapo». Più avanti, possono essere sottolineati i sentimenti di sofferenza della vittima; dapprima sentimenti semplici: «E’ triste perché non lo fai giocare con le tue biglie, come ti rattristeresti tu se lui facesse lo stesso con te»; «Hai fatto male a Mary e l'hai fatta piangere quando l'hai buttata per terra e le hai preso la bambola» (detto con convinzione ed emozione) [Zahn-Waxler, Kadke-Yarrow e King 1979]; poi sentimenti più sottili: «È dispiaciuto perché era orgoglioso della sua torre e tu gliel'hai distrutta».
Gli effetti negativi della condotta del bambino possono essere segnalati indirettamente: «Ha paura del buio, perciò per favore riaccendi la luce»; «Cerca di non fare chiasso, se riesce a dormire un po' più a lungo quando si sveglierà starà meglio». E si può presentare il punto di vista della vittima sottolineando le sue intenzioni o i suoi legittimi desideri, in modo da chiarire quanto il comportamento del bambino sia stato ingiustificato:
«Non prendertela con lui; voleva solo aiutarti»; «Non potevi lasciarglielo per qualche minuto in modo che potesse guardarci dentro? Gli piacerebbe moltissimo farlo, e non credo che lo romperebbe»; «Adesso tocca a lui e ha diritto a giocarci, come ci hai giocato tu prima»; «Non lascerò che tu la picchi solo perché lei ti ha fatto male senza volerlo. Devi capire che è stato un incidente. E’ troppo piccola per sapere quello che fa. Non voleva farti male». Infine, possono essere suggeriti atti di riparazione: «Perché non chiedi scusa a tua sorella e cerchi di farla stare un po' meglio?»; «Avvicinati a lei e dalle una carezza, così si sentirà meglio»; «Mi piacerebbe che tu lo aiutassi a ricostruirla» (la torre che il bambino aveva distrutto).
Quando ricorrono a un'induzione, i genitori fanno diverse cose: in primo luogo, come tutti i tentativi di cambiare il comportamento del bambino, un'induzione comunica la disapprovazione di un'azione del bambino da parte dei genitori, e segnala, implicitamente o esplicitamente, che l'azione è sbagliata e che il bambino ha commesso una trasgressione («Dire cattiverie alle persone non è bello; le fa star male. In questa casa non ci comportiamo così»). Ma le induzioni hanno due effetti importanti che le differenziano dagli altri strumenti disciplinari: a) richiamano l'attenzione del bambino sulla sofferenza della vittima e la rendono saliente ai suoi occhi; in tal modo sfruttano l'inclinazione empatica del bambino (stringono con essa un'alleanza) attivando alcuni o tutti i suoi meccanismi di attivazione empatica e producendo sofferenza empatica; b) sottolineano il ruolo del bambino come causa di quella sofferenza. Ciò crea le condizioni per provare un senso di colpa su base empatica, che è un sentimento di profonda disistima di sé per avere danneggiato qualcuno ingiustamente.
Mettere in evidenza il ruolo causale del bambino è di importanza capitale, poiché i bambini più piccoli possono provare empatia per la vittima e mettersi a piangere assieme a lei, senza rendersi conto di essere stati loro la causa di quella sofferenza, o possono semplicemente girarsi dall'altra parte e andarsene, evitando così l'empatia e il senso di colpa. Anche i bambini più grandi possono girarsi dall'altra parte e andarsene. Anch'essi possono dimenticare il loro ruolo causale - in litigi e discussioni o quando, invece che rattristarsi e sentirsi male, le vittime delle loro azioni si arrabbiano e cercano di vendicarsi - a causa dell'ambiguità di queste situazioni, che permette loro di proiettare fuori di sé o di razionalizzare la colpa. Per superare questi ostacoli e far leva sull'empatia e sul senso di colpa dei bambini, è necessario che i genitori chiariscano il ruolo delle azioni del bambino nel causare la sofferenza dell'altro.
Perché le induzioni riescano in tutto questo, devono essere presentate in una forma che sia alla portata cognitiva e linguistica dei bambini e, specialmente nel caso di quelli piccoli, devono essere chiaramente collegate alla loro esperienza. Il senso comune suggerisce che i genitori normalmente facciano proprio questo, e se ne possono osservare le prove: essi cominciano a usare le induzioni più semplici nel terzo anno di vita del bambino, proprio quando le sue capacità linguistiche progrediscono rapidamente; e il rapporto tra le induzioni e le asserzioni di potere aumenta quando i bambini diventano più grandi [Chapman 1979]. Perché le induzioni siano efficaci è necessario che il bambino non resti passivo, ma smetta di fare quello che stava facendo e presti attenzione al genitore. Deve poi elaborare attivamente il messaggio dell'induzione, deve cioè mettere in relazione le sue azioni con la sofferenza della vittima, in modo che empatia e senso di colpa possano insorgere dentro di lui. Ma il bambino non farà tutto questo, assorbito com'è da quel che sta facendo, dalla motivazione a perseguire i suoi scopi e dall'emotività della situazione, se non vi sarà un certo livello di pressione esterna, che deve essere sufficiente perché il bambino presti attenzione al messaggio dell'induzione e lo elabori, ma non deve giungere a suscitare un eccesso di rabbia, paura o ansia per la possibile perdita dell'amore dei genitori, emozioni che potrebbero perturbare l'elaborazione cognitiva.
La spinta a prestare attenzione a un'induzione e ad elaborarla può derivare dalla componente di affermazione del potere di un intervento combinato «affermazione del potere-ragione». O, se si ricorre alla sola induzione, può bastare la pressione «di sfondo» dell'affermazione di potere e del ritiro dell'amore dovuta alla struttura di potere, come abbiamo visto sopra. In ogni caso, l'elaborazione dell'induzione può convincere il bambino che la richiesta del genitore è ragionevole. E se alla fine obbedisce, volontariamente o perché è spinto a farlo, probabilmente avvertirà sofferenza empatica e senso di colpa, e avrà la sensazione di avere agito male - molto più che in qualunque altro scenario di socializzazione.” (pp. 184-187)
L’interiorizzazione morale avviene, dunque, negli incontri disciplinari sulla base di processi affettivi e cognitivi:
“ Un'induzione, come ogni altro intervento disciplinare, comunica la disapprovazione dell'atto dannoso del bambino da parte del genitore. Ciò segnala chiaramente che il bambino ha fatto qualcosa di sbagliato e suscita in lui una certa preoccupazione per l'approvazione del genitore. Ma, a differenza di altri tipi di atti disciplinari, le induzioni hanno due effetti aggiuntivi. In primo luogo, richiamano l'attenzione sulla sofferenza della vittima, e, mettendola in rilievo, incontrano un alleato all'interno del bambino: la sua inclinazione empatica. Le induzioni mettono in moto certi meccanismi di attivazione dell'empatia - la mimesi, se fanno sì che il bambino guardi la vittima; l'assunzione di ruolo, se incoraggiano il bambino a immaginare come si sentirebbe al posto della vittima; l'associazione mediata, se chiamano in causa esperienze passate del bambino. In questo modo, le induzioni suscitano sofferenza empatica per il dolore della vittima, i suoi sentimenti feriti e, se è il caso, per il protrarsi della sua sofferenza oltre la situazione immediata. In secondo luogo, le induzioni sono comunicazioni verbali che rendono saliente il ruolo causale del bambino nella sofferenza altrui. Quando il bambino elabora le informazioni in condizioni appropriate (livello di pressione ottimale), ne risulta una forma di autobiasimo che converte la sua sofferenza empatica, almeno in parte, in senso di colpa, cioè in senso di colpa per trasgressione (in contrasto con il senso di colpa dello spettatore per inazione). Insomma, l'elaborazione cognitiva delle induzioni da parte del bambino suscita sofferenza empatica e la converte in senso di colpa.
2. Per ciò che riguarda il modo in cui il bambino forma i suoi primi scripts, Nelson [1993] suggerisce che ogni nuova esperienza lo spinga a costruire uno schema della medesima. Sebbene questo schema si conservi in memoria per qualche tempo come un ricordo «episodico» [Tulving 1972], in seguito nuove esperienze con eventi dello stesso tipo esso assume sempre di più le caratteristiche di uno script; e, mano a mano che prende la forma di uno script, lo schema integra in sé ogni nuova informazione significativa. Nelle ricerche con bambini in età prescolare su eventi nuovi e ripetuti, è emerso che questo processo di costruzione degli scripts richiede che gli eventi siano sperimentati cinque o più volte [Hudson e Nelson 1983].
Io suggerisco che nei primi incontri disciplinari del bambino in cui viene usata l'induzione accada la stessa cosa. Le condizioni per la formazione degli scripts sono soddisfatte: l'evento si ripete più volte, e le induzioni offrono informazioni e creano le condizioni necessarie per integrare semanticamente tali informazioni in uno script. La mia ipotesi è che la sequenza: trasgressione del bambino, seguita dall'induzione del genitore, seguita dal sentimento di sofferenza empatica del bambino e dal suo senso di colpa, sia rappresentata inizialmente, come nel modello di Nelson, nella forma di un ricordo o di uno schema «episodico». Poi, col susseguirsi degli incontri disciplinari, la sequenza è rappresentata come uno script. Una volta costituitosi uno script dell'incontro disciplinare, in esso sono integrate le informazioni e le caratteristiche significative degli incontri successivi. Uno script completo può includere anche gli atti riparatori suggeriti dal genitore (scuse, conforto, abbracci e baci alla vittima), le risposte positive del genitore e della vittima a questi atti, e il sollievo empatico e la riduzione del senso di colpa che il bambino può sperimentare di conseguenza. Queste integrazioni hanno un ruolo importante: offrono al bambino un repertorio di atti riparatori per il futuro e rafforzano il nesso tra gli atti, l'attivazione del senso di colpa e la sua riduzione. Lo script completo è dunque «Trasgressione → Induzione → Sofferenza Empatica e Senso di Colpa → Riparazione», ma poiché al centro del mio discorso è la motivazione, specialmente il senso di colpa fondato sull'empatia, e anche per convenienza, lo chiameremo script Trasgressione → Induzione → Senso di Colpa. Ad esso la sofferenza empatica e il senso di colpa conferiscono proprietà motivazionali.
Prima di proseguire, una nota storica: nelle sue linee generali, la nozione di script morale fu anticipata molto tempo fa da Piaget, quando sostenne che le emozioni non sono semplicemente sperimentate e poi dimenticate, ma sono memorizzate come parte delle rappresentazioni e delle interpretazioni di base degli eventi sociali e morali. «Gli affetti, grazie alla loro rappresentazione, perdurano quando gli oggetti che li hanno suscitati non sono più presenti; questa capacità di serbare il ricordo dei sentimenti rende possibili i sentimenti interpersonali e morali, e permette che questi ultimi siano organizzati in scale normative di valori» [Piaget 1954/1981, 44]. Nei miei termini, Piaget sostiene che la formazione di uno script evita che la sofferenza empatica e il senso di colpa siano dimenticati subito dopo essere stati sperimentati; i sentimenti sono inclusi in scripts che sono codificati nella memoria e che in seguito è possibile evocare.
3. I bambini possono cominciare a formare questi scripts fin dall'inizio del terzo anno, quando i genitori iniziano a ricorrere sul serio alla disciplina e quando, come mostrano le ricerche, le induzioni cominciano a motivare il bambino a tenere conto degli altri [Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King 1979]. Perché un bambino di questa età comprenda le informazioni induttive al punto da sperimentare sofferenza empatica e senso di colpa, le informazioni devono segnalare chiaramente la sofferenza della vittima e mettere in evidenza il ruolo del bambino nel causarla («Tu lo hai spinto, lui è caduto e si è messo a piangere»).
Quando il bambino elabora le sue primissime induzioni, la cosa più probabile è che integri la relazione causale tra le sue azioni e la sofferenza della vittima nei semplici scripts causali fisici, non morali, che aveva precedentemente costruito e applicato agli incontri disciplinari. Attraverso questo processo, quei semplici scripts fisici causa-effetto si arricchiscono e assumono una dimensione morale (le mie azioni possono far male ad altri). Inoltre, gli scripts possono essere infusi di sofferenza empatica e di un (embrionale) sentimento di colpa, che conferisce loro le proprietà, anche quelle motivazionali, delle rappresentazioni affettivamente cariche, o cognizioni «calde». Questi possono essere i primi e più semplici scripts Trasgressione → Induzione → Senso di Colpa.
Si può immaginare che all'inizio ogni atto dannoso abbia il proprio script: in un primo momento atti semplici, come dare calci o botte, spingere, sputare, tirare i capelli, fare dispetti e insultare, poi comportamenti più complessi come rivelare una confidenza, mancare a una promessa, rientrare tardi e far preoccupare i genitori. Questi scripts continuano ad operare e svilupparsi singolarmente, ma, al tempo stesso, si combinano a formare scripts più generali riguardanti l'infliggere danni fisici ad altri o ferirne i sentimenti o deluderne le speranze; generalizzando ancora, si giunge infine a uno script più astratto e schematico che include qualunque azione che danneggi altri.
4. All'inizio, quando sono attivati nei bambini in situazioni di conflitto, questi scripts non riescono a vincere la forza dell'aspettativa del beneficio egoistico. Col tempo, tuttavia, lo sviluppo cognitivo permette al bambino di «decentrare», cioè di trascendere il richiamo egoistico, di liberarsi dai lacci della prospettiva personale e assumere la prospettiva dell'altro. Tuttavia, la capacità cognitiva di decentramento appena acquisita dal bambino non è sufficiente a impedire che il suo punto di vista monopolizzi o quasi la sua attenzione nelle situazioni di conflitto, a meno che non sia costretto a fare diversamente. Ma da dove può scaturire una tale costrizione?
La risposta di Piaget - dai pari, quando esprimono i propri desideri - non è confermata dalle ricerche: Hay [1984] ha constatato che i bambini in età prescolare spesso risolvono i loro conflitti senza l'intervento degli adulti, ma che di solito l'esito avvantaggia coloro che hanno iniziato il conflitto o fanno uso della forza, di minacce o gesti intimidatori. Ciò indica che le prospettive conflittuali dei pari sono una manifestazione del problema, non la sua soluzione. Una risposta migliore potrebbe essere che c'è una divisione del lavoro tra il decentramento, il conflitto tra pari e le induzioni dei genitori: il conflitto tra pari obbliga il bambino ad abbandonare la modalità egocentrica e a prestare attenzione agli altri; il decentramento è la qualità strutturale cognitiva che permette al bambino di prestare attenzione a una molteplicità di pretese; e l'empatia e il senso di colpa suscitati dalle induzioni lo motivano a tenere conto delle pretese altrui.
In ogni caso, la sofferenza empatica può mitigare il piacere che il bambino può provare agendo a modo suo; in altri termini, la forza delle motivazioni egoistiche dei bambini può venir attenuata dal conoscere i bisogni altrui e i sentimenti che questi implicano, e può ridursi fino al livello delle loro motivazioni empatiche emergenti e ad esse contrapposte. In altre parole, la forza motivazionale degli scripts morali prosociali del bambino, fino ad allora debole, può uguagliare ormai e a volte superare la forza delle sue motivazioni egoistiche.
5. I primi scripts del bambino possono includere rappresentazioni cinestetiche e immagini visive dei movimenti corporei implicati nelle sue azioni dannose, così come le immagini visive e i suoni che accompagnano la sofferenza della vittima, nonché i significati che il bambino trae dalle induzioni. Io assumo che questi scripts siano codificati nella memoria e siano attivati nel successivo incontro disciplinare, la cui informazione induttiva viene integrata negli scripts, e così via. In seguito, con il linguaggio, lo sviluppo cognitivo e l'emergere di modi più sofisticati di nuocere agli altri, il contenuto induttivo degli interventi disciplinari dei genitori diventa più complesso: gli scripts diventano meno cinestetico-immaginativi e più semanticoproposizionali. Essi continuano a modificarsi e a svilupparsi negli anni della fanciullezza integrando progressivamente le informazioni di - letteralmente - migliaia di induzioni. Attraverso questo processo, i primi scripts causali, fisici e non morali, si trasformano in scripts complessi, generali, carichi affettivamente, riguardanti le conseguenze delle proprie azioni sugli altri - scripts che includono la dimensione etico-cognitiva propria della norma morale di tener conto degli altri e, al tempo stesso, mantengono gli elementi motivazionali dell'empatia e del senso di colpa.
6. Questi scripts morali prosociali non sono acquisiti passivamente; essi vengono formati attivamente dai bambini in un processo continuo di costruzione, sintesi, organizzazione semantica dell'informazione induttiva, che i bambini mettono in relazione con le proprie azioni e la condizione della vittima. Nel corso dell'elaborazione delle induzioni - supponendo, una volta di più, che il livello della pressione esterna sia ottimale -, il bambino è padrone dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. E siccome i processi mentali attivi rendono salienti agli occhi del bambino i processi cognitivi e affettivi che hanno luogo al suo interno, il bambino considera i suoi scripts, e perciò la norma morale di tener conto degli altri (sempre implicita e spesso esplicita nelle induzioni), come una costruzione che è parte del proprio sistema motivazionale interno, benché tragga origine dagli incontri disciplinari, cioè dall'esterno.
Di conseguenza, l'intervento dei genitori diventa meno necessario; la componente induttiva comincia a scomparire dallo script e il bambino è motivato a tener conto degli altri anche in assenza dei genitori. A un certo punto, l'intervento del genitore non è più necessario, e lo script Trasgressione → Induzione → Senso di Colpa si trasforma, a tutti gli effetti, in uno script Trasgressione → Senso di Colpa, che può essere attivato dalla consapevolezza del bambino di avere danneggiato un'altra persona. E una volta che lo script è stato attivato, il senso di colpa e la motivazione a riparare che lo accompagnano sono sperimentati dal bambino come qualcosa che proviene dal suo interno.
7. Attivazione anticipatoria degli scripts e del senso di colpa. Il valore degli scripts e del senso di colpa su base empatica come motivazioni morali prosociali sarebbe limitato se gli scripts fossero attivati e il senso di colpa fosse sperimentato solo a cose fatte; sembra ragionevole pensare che, come altre rappresentazioni, gli scripts Trasgressione → Senso di Colpa possano attivarsi in anticipo per effetto di stimoli pertinenti, che, in questo caso, sono i pensieri e le immagini che attraversano la mente del bambino quando considera un'azione che può danneggiare qualcuno. Quando questi pensieri e queste immagini anticipatorie attivano uno script Trasgressione → Senso di Colpa, il senso di colpa associato allo script sarà sperimentato come un «senso di colpa anticipatorio», che agisce come una motivazione a non commettere l'atto dannoso. II senso di colpa anticipatorio può prevalere, ma, in caso contrario, se il bambino compie l'atto dannoso si sentirà colpevole.
Il senso di colpa anticipatorio ha certe precondizioni, sul piano cognitivo e del controllo del comportamento. La persona deve riuscire, anche quando sotto pressione, a collegare le proprie intenzioni con le azioni e le loro conseguenze prima che si verifichino, a considerare il punto di vista altrui, a controllare l'impulso a compiere l'azione. Di conseguenza, sul piano evolutivo, il senso di colpa anticipatorio dovrebbe seguire il senso di colpa per trasgressione. In ogni caso, l'effetto del senso di colpa anticipatorio è che invece di sentirsi colpevole dopo avere danneggiato qualcuno, la persona si sentirà colpevole al solo pensiero di danneggiarlo. Invece di pensare al modo di annullare un atto dannoso, si può, in un certo senso, «disfarlo» in anticipo, semplicemente non facendolo.
Sono stati condotti diversi studi sulla capacità del senso di colpa anticipatorio di agire come motivazione contro le trasgressioni. In uno studio di Okel e Mosher [1968], degli studenti universitari maschi erano spinti a insultare un compagno (complice dello sperimentatore), che si mostrava ferito dagli insulti. I soggetti molto empatici riferirono di essersi sentiti colpevoli per ciò che avevano fatto, e aggiunsero che se avessero saputo prima che la vittima si sarebbe sentita tanto male avrebbero agito diversamente. In un altro studio, Malinowski e Smith [1985] chiesero ai soggetti, studenti universitari, se si sarebbero sentiti colpevoli qualora avessero imbrogliato; si constatò che coloro che avevano risposto affermativamente di fatto non imbrogliavano in un compito sperimentale. Infine, è stato dimostrato (vedi il cap. IV) che gli spettatori prevedono che se non aiuteranno una persona in difficoltà si sentiranno poi colpevoli; perciò si può supporre che essi prevedano che si sentiranno altrettanto colpevoli al pensiero di avere effettivamente danneggiato qualcuno.
8. Integrazione di nuove esperienze. Una volta che abbia a disposizione gli scripts per tenere conto degli altri e la capacità di sperimentare in anticipo il senso di colpa, il bambino può integrare in questi scripts le sue esperienze sui danni arrecati ad altri fuori degli incontri disciplinari. Queste esperienze possono essere nuove, perché sono legate alla crescita e hanno luogo tra i pari ma non alla presenza dei genitori. Anche la propria esperienza come vittima in queste nuove situazioni può essere integrata nello script perché aiuta a scoprire come ci si sente nei panni della vittima. In questo modo gli scripts Trasgressione - Senso di Colpa possono crescere e ampliarsi grazie all'integrazione di nuove esperienze estranee agli incontri disciplinari.
La teoria riguarda soprattutto gli interventi disciplinari dei genitori, ma anche le interazioni del bambino con gli adulti e i coetanei fuori di casa possono contribuire all'interiorizzazione dei principi morali. Sulla base del primo nucleo motivazionale costituitosi a partire dagli incontri disciplinari, il bambino può far tesoro delle comunicazioni quasi-induttive dei professori e di altri adulti; ed è possibile che l'interazione con altri bambini nella cui famiglia l'induzione è usata frequentemente abbia gli effetti costruttivi ipotizzati da Piaget, specie in caso di supervisione indiretta da parte degli adulti o di addestramento induttivo [Hoffman 1980]. Queste interazioni tra pari possono rafforzare gli effetti positivi delle induzioni dei genitori e possono contribuire a estendere l'ambito di applicazione della motivazione a tener conto degli altri (per esempio, mantenere le promesse, non tradire la fiducia, non mettere in imbarazzo gli altri); ambito che si estende ulteriormente a mano a mano che il bambino acquisisce abilità linguistiche e di assunzione di ruolo più sofisticate, così che le ripercussioni delle sue azioni sugli altri possono essere comprese molto dopo (o previste in anticipo) rispetto ai fatti. E sebbene il linguaggio e l'assunzione di ruolo siano abilità neutre, che è possibile impiegare tanto per manipolare quanto per aiutare gli altri, un bambino motivato a pensare agli altri se ne servirà più spesso a quest'ultimo scopo.
In conclusione, quelli che ho descritto sono i fattori antecedenti che possono condurre allo sviluppo di una motivazione morale a tener conto degli altri quando i propri bisogni sono in conflitto con quelli altrui. Esperienze successive di varia natura possono estendere questa motivazione ad altri aspetti della vita, e fornire le abilità e competenze che aiutano la motivazione e si basano su di essa per creare complesse strutture ideative morali” (pp. 192-200)
4.
L’interiorizzazione della morale attraverso la pratica disciplinare può comportare però un problema - il senso di colpa virtuale, che Hoffman affronta nel capitolo settimo:
“Una volta che il bambino ha acquisito gli scripts Trasgressione → Senso di Colpa e la consapevolezza di aver danneggiato qualcuno lo fa sentire in colpa, potrà sentirsi in colpa ogni volta che crede di avere trasgredito, anche quando ciò non è vero. A questo do il nome di senso di colpa virtuale, e al presunto atto nocivo do il nome di trasgressione virtuale. Nelle trasgressioni virtuali, la persona non ha causato sofferenza in altre persone, almeno non di proposito, ma se ne assume comunque la colpa. La nozione di senso di colpa virtuale non è nuova: una delle definizioni del termine guilt nel Webster's Ninth New Collegiate Dictionary [1985] è: «senso di colpa, specialmente per violazioni immaginarie» [ibidem, 542].
I primi esempi di trasgressione virtuale nel corso dello sviluppo sono stati riportati da Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King [1979]. Dei bambini dai 15 ai 20 mesi di età che vedevano la madre triste o in lacrime senza alcuna ragione apparente si rattristavano a loro volta, si avvicinavano alla madre e cercavano di consolarla. Ciò suggerisce che provassero sofferenza empatica (ma forse anche una certa ansia, giacché quella era la loro madre, la fonte della loro sicurezza). Cosa più importante in questo contesto, circa un terzo di questi bambini sembravano rimproverare se stessi della sofferenza della madre, poiché dicevano cose come: «Mamma, scusami, ho fatto qualcosa di male?», o si percuotevano. Non vi sono prove che si sentissero effettivamente in colpa: forse si limitavano a imitare la condotta di altre persone in situazioni simili. Vi sono però prove che la loro condotta rifletteva almeno una forma elementare di autobiasimo: in valutazioni di laboratorio condotte cinque anni dopo, i bambini che avevano manifestato questo quasi-senso di colpa producevano più temi di colpa rispetto agli altri bambini [Cummings et al. 1986].
Sono quattro i fattori che possono aver concorso a far sì che bambini tanto piccoli potessero autorimproverarsi: a) erano tra i bambini più empatici del campione, e pertanto erano particolarmente sensibili ai cambiamenti di umore della madre; b) i loro schemi causali elementari, fondati sulla vicinanza temporale e spaziale degli eventi, potevano averli indotti a concludere: «Ero lì vicino, perciò l'ho fatto io»; c) il loro senso di agentività (agency), dell'avere influenza sugli altri, che è potente ma limitato a una confusa consapevolezza dell'essere (o non essere) causa di ciò che accade, li poteva avere indotti a pensare: «Forse sono stato io»; e d) il loro ricordo di casi precedenti nei quali erano stati inequivocabilmente causa della sofferenza della madre poteva aver favorito la conclusione: «Ero stato io altre volte, forse sono stato io anche stavolta».
Inoltre, questa combinazione di fattori potrebbe provocare una forma di autobiasimo quando la causa della sofferenza materna non è evidente: «E’ triste, io sto vicino a lei; potrei averla rattristata; già l'ho fatto altre volte. Perciò devo essere stato io». In tal caso, questo autobiasimo potrebbe essere il precursore iniziale di un tipo di senso di colpa fondato sull'empatia che ritengo sia intrinseco alle relazioni strette: il «senso di colpa relazionale». “ (pp. 211-212)
Le relazioni strette sono esposte massimamente al rischio dello sviluppo di sensi di colpa virtuali:
“Le relazioni strette offrono innumerevoli opportunità per ferire l'altro: «da sgarbi banali e involontari, commenti frettolosi o appuntamenti dimenticati, a offese più gravi: fiducia tradita, menzogne sfacciate, umilianti infedeltà» [Tangney e Fischer 1995, 134] - cioè, innumerevoli opportunità di provare senso di colpa per trasgressione.
Ma le relazioni strette offrono anche innumerevoli opportunità di considerarsi colpevoli anche quando si è innocenti. Il legame tra i membri della relazione è tale che i sentimenti e gli stati d'animo dell'uno dipendono strettamente da quelli dell'altro e dalle sue azioni. Inoltre, cosa più importante, ognuno dei due sa che l'altro o l'altra dipende da lui o da lei allo stesso modo, e di fatto, a causa delle innumerevoli interazioni che si succedono nel tempo, è probabile che ognuno diventi acutamente consapevole dei nuovi e imprevedibili modi in cui può ferire inavvertitamente l'altro. Insomma, ognuno dei membri sviluppa un'intensa sensibilità per le ripercussioni che le sue parole e le sue azioni possono avere sull'altro.
Può dunque apparire perfettamente ragionevole che quando l'uno è triste o scontento e non ne è chiara la causa, l'altro non solo provi sofferenza empatica ma si consideri anche responsabile di quella condizione e si senta in colpa. Se fosse certo della propria innocenza potrebbe anche non sentirsi colpevole, ma ciò presuppone l'esistenza di accurate registrazioni mentali delle interazioni nelle quali si è (o non si è) ferito l'altro, e questa è una forma di contabilità emozionale poco comune nelle relazioni strette. All'incertezza bisogna aggiungere tutti i modi di danneggiare il prossimo - esclusivi delle relazioni strette - che dipendono dagli stati d'animo e dalle aspettative mutevoli e a volte imprevedibili dell'altro, che è possibile ferire o violare inavvertitamente, come accade quando non si tiene fede a un impegno, non si presta la dovuta attenzione all'altro, o si compiono azioni come quelle elencate sopra da Tangney e Fischer. Perciò, sentirsi colpevoli della sofferenza dell'altro quando non ne è chiara la causa può essere un male endemico delle relazioni strette. Lo chiamo «senso di colpa relazionale» perché la sua causa, più che un atto concreto, è la relazione stessa, e lo annovero tra le trasgressioni virtuali perché non si basa su trasgressioni reali, ma presunte…
Alcuni aspetti delle relazioni strette dai quali dipende il senso di colpa relazionale sono presenti nelle relazioni tra madre e figlio nei primi due anni di vita, e possono spiegare perché i bambini di cui abbiamo parlato sopra si sentissero colpevoli quando vedevano la madre afflitta senza ragioni apparenti. Il bambino piange e la madre accorre immediatamente; se lui si è ferito o sta male, oppure se fa male alla madre (per esempio, le tira i capelli senza farlo apposta), lei risponde con espressioni vocali, facciali o corporee di dolore o pena. Il bambino comincia a gattonare, a camminare o a parlare, e la madre esprime tutta la sua gioia. Le risposte della madre ai bisogni e alle azioni del bambino, oltre a indicare esplicitamente quanto suo figlio sia importante per lei, possono far sì che il bambino si senta onnipotente nei confronti della madre; di conseguenza, molto prima dello sviluppo di una «teoria della mente» che gli permetta di inferire quale sia l'impatto delle sue azioni sugli altri, il bambino, per semplice associazione, può collegare le sue azioni ai cambiamenti immediati nello stato d'animo della madre. In questo contesto, come accade nelle relazioni fra adulti, è ragionevole che il bambino, specialmente se è empatico, creda che se la madre si rattrista o piange senza una causa evidente sia per qualcosa che lui o lei ha fatto.
L'emergere dell'autobiasimo negli infanti può prefigurare l'autobiasimo nelle relazioni tra adulti, ma le differenze dovrebbero essere chiare: a differenza della relazione unidimensionale tra una madre e il figlioletto - tra chi accudisce e chi è accudito - le relazioni fra adulti intercorrono tra pari e sono molto più sfaccettate. L'autobiasimo nelle relazioni fra adulti non è dovuto a uno sviluppo incompleto dei rispettivi schemi causali, ma al fatto di sapere, per esperienza, che vi sono modi impercettibili di farsi del male l'un l'altro che a volte diventano evidenti solo dopo molto tempo, che l'uno può fraintendere parole e azioni dell'altro, che la memoria di incontri passati che potrebbero spiegare la sofferenza dell'altro è limitata. L'autobiasimo nelle relazioni tra adulti dipende da una complessa rete di interazioni nella quale ognuno sa di essere importante per l'altro, ma non è certo della causa dello stato emozionale dell'altro in un determinato momento. E se uno è afflitto e non ne è chiara la causa, è possibile che l'altro se ne attribuisca la colpa, proprio come fanno gli infanti (anche se per ragioni differenti).” (pp. 214-215)
I sensi di colpa virtuali vanno, però, al di là delle relazioni strette: essi possono investire una serie di situazioni sociali. Hoffman ne elenca i seguenti tipi: senso di colpa per assunzione di responsabilità, senso di colpa evolutivo, senso di colpa per la separazione, senso di colpa per il successo, senso di colpa per la ricchezza, senso di colpa del sopravvissuto, senso di colpa per il privilegio.
Per ognuna di queste categorie, Hoffman porta degli esempi abbastanza significativi. Egli sembra però poco interessato a definire la diffusione sociologica dei sensi di colpa virtuali. e giunge pertanto alla seguente conclusione:
“L'esistenza del senso di colpa virtuale conferma la mia tesi che gli esseri umani siano «macchine per il senso di colpa», il che è un bene, dato che, come abbiamo visto, il senso di colpa funziona da motivazione prosociale.” (p. 228)
L’empatia, come matrice del comportamento morale, riconosce però due limitazioni, affrontate nel capitolo ottavo:
“Le limitazioni si devono principalmente al fatto che l'empatia dipende dall'intensità e dalla salienza dei segnali di sofferenza e dalla relazione tra la vittima e l'osservatore. La prima limitazione sta nel fatto che, in generale, ci aspettiamo che l'intensità dell'attivazione empatica sia maggiore quanto più intensa e saliente è la sofferenza della vittima; quanto più intensi e salienti sono i segnali di sofferenza, tanto più intensa sarà anche la sofferenza empatica dell'osservatore. Se però questi segnali sono troppo intensi e salienti, la sofferenza empatica dell'osservatore può diventare così avversiva da trasformarsi in un sentimento di sofferenza personale. E ciò che chiamo «sovrattivazione empatica».
La seconda limitazione è la vulnerabilità dell'empatia a due tipi di effetti: il bias di familiarità e il bias di immediatezza. Le ricerche mostrano che la maggior parte delle persone risponde con empatia e presta aiuto a chi manifesta sofferenza, estranei compresi (in quasi tutte le ricerche le vittime erano sconosciute), ma è stato mostrato anche che in genere le persone provano più empatia (hanno una soglia di sofferenza empatica più bassa) se le vittime fanno parte della loro famiglia o del loro gruppo primario, o sono amici stretti o hanno bisogni personali e interessi simili ai loro. E, poiché quasi tutti i processi che suscitano empatia (almeno quelli elementari, meno cognitivi) dipendono da indizi situazionali e personali immediati, le persone sono vulnerabili ai bias in favore delle vittime presenti nella situazione immediata. Perciò può darsi che un grido di dolore susciti più sofferenza empatica di una smorfia; il grido di un amico o di un parente più di quello di uno sconosciuto; la sofferenza di una persona presente più di quella di una persona assente.” (pp. 233-234)
Queste limitazioni, secondo Hoffman, non tolgono al valore dell’empatia come fondamento motivazionale della condotta morale prosociale:
“La sovrattivazione empatica e i bias sono dei problemi, ma probabilmente non di tipo fatale. La sovrattivazione è una limitazione nella situazione dello spettatore ma, come nel caso della fatica da compassione, può intensificare l'impegno ad aiutare le persone con cui si ha una relazione, specialmente quando l'aiutarle fa parte del ruolo della persona.
Per quanto riguarda il bias di familiarità, le ricerche mostrano che gli esseri umani aiutano gli estranei (nella maggior parte delle ricerche le vittime sono sconosciute); è una questione di grado. Inoltre, il bias di familiarità può essere sfruttato per aiutare gli sconosciuti, immaginando che appartengano alla propria famiglia. Ciò può accadere spontaneamente, come nel caso dell'eroico giovane (vedi il cap. IV) che inseguì un uomo che aveva spinto una signora sui binari della metropolitana e lo bloccò «perché quella donna poteva essere mia madre, poteva essere un'amica»; o può essere incoraggiato dall'educazione morale (si veda il cap. XIII). Il bias di familiarità può inoltre venire attenuato quando l'empatia è annessa a principi morali, come vedremo. E se la persona ha principi morali molto forti, ed è mossa soprattutto dalla motivazione empatica, può vincere il bias di familiarità quando si trova di fronte a scelte di vita o di morte.” (p. 250)
Quest’ultima conclusione viene ripetuta all’inizio del capitolo nono, laddove Hoffman ribadisce che “benché la morale empatica possa spiegare molti aspetti del comportamento prosociale, una teoria completa richiede anche dei principi morali” (p. 257), che ovviamente sono di ordine culturale.
Data la diversità delle culture, è difficile identificare principi morali sui quali si dia un accordo universale. Hoffman ritiene però che due di essi possano essere ritenuti fuori discussione. Il prendersi cura e la giustizia:
“1. Prendersi cura. L'utilitarismo afferma che un'azione o una decisione è morale quando massimizza il grado in cui tutte le persone interessate raggiungono i propri scopi. Una versione, forse la più nota [per le altre, vedi Kymlicka 1990], fa riferimento alla massimizzazione della felicità o del benessere per tutti («il massimo di bene per il massimo di persone»). Secondo alcuni, nelle situazioni di contatto faccia a faccia, questa forma di utilitarismo si traduce nel principio di preoccuparsi del benessere altrui - «prendersi cura» (caring) del prossimo - che include la preoccupazione per la condizione del prossimo - bisogno di cibo, di una casa, di evitare il dolore, di dignità - e l'aiuto alle persone bisognose o sofferenti.
Prendersi cura degli altri è considerato molto importante negli Stati Uniti: il giorno dopo la morte di James Stewart (2 luglio 1997) molti osservarono che il pubblico cinematografico lo aveva tanto amato per decenni perché era l'incarnazione della gentilezza e del rispetto. Tutti i giornali che ebbi occasione di leggere pubblicavano un brano di una sua interpretazione: «Tutte le vostre complicate norme non varrebbero un nichelino se dietro non vi fosse un pizzico di semplice, ordinaria gentilezza e un po' di considerazione per il prossimo» - il senatore Jefferson Smith che fa ostruzionismo parlamentare in Mr. Smith Goes to Washington (Mister Smith va a Washington).
2. Giustizia. Il principio di giustizia è più complesso ed è stato analizzato soprattutto da Kant [1785/1964] e dai suoi eredi. In generale, si riferisce all'adeguatezza morale di ciò che spetta a una persona, del trattamento che essa riceve da altre persone o da forze non umane. Nella maggior parte dei campi della vita, la giustizia implica un equilibrio tra azioni e risultati; il disequilibrio è ingiusto. E, nel caso di pretese contrastanti e di conflitti di interesse tra individui, la giustizia esige equità. Le questioni di giustizia e di equità includono la distribuzione dei beni e dei servizi della società (secondo il merito o il bisogno), i diritti di proprietà dei beni (d'uso, di godimento, di trasferimento), il possesso temporaneo dei beni. La giustizia riguarda anche l'attribuzione dei castighi (in proporzione al delitto). E, infine, la giustizia esige il rispetto dei «diritti» di cui le persone godono in quanto esseri umani. Le persone hanno diritto a certe cose (al cibo, a un alloggio, ad evitare il dolore) e questo diritto trascende le preferenze personali dello spettatore: una cosa sono i «diritti», altra cosa è il «prendersi cura». Alla base di questi principi sostanziali di giustizia vi sono due astrazioni: l'imparzialità - i principi si applicano allo stesso modo a chiunque - e la reciprocità tra azioni e risultati.” (pp. 258-259)
Il problema è che questi principi possono essere compatibili ma anche incompatibili. Hoffman ritiene che agganciare questi principi all’empatia riduca le possibili incompatibilità:
“l'empatia può essere connessa tanto con la cura e la giustizia distributiva quanto con la giustizia penale, nonché con i diritti umani, giacché negare i diritti delle persone vuol dire trasformarle in vittime. Ciò conferma l'ipotesi (cap. VIII) che l'empatia possa essere legata ai principi morali, o incorporata in essi, e possa trarre vantaggio da questo legame perché la dimensione cognitiva del principio (interpretazione semantica, proprietà categoriale) protegge l'empatia dalla sovrattivazione e dai bias. Il principio, per parte sua, può trarre vantaggio dal legame acquisendo la forza motivazionale dell'affetto empatico. “ (p. 275)
Esso comporta inoltre un’ulteriore conseguenza:
“Quale vantaggio traggono i principi morali dal legame con l'empatia? La mia ipotesi è che i principi morali astratti, appresi in contesti educativi «freddi» (lezioni, prediche), manchino di forza motivazionale. L'empatia trasforma i principi morali in cognizioni prosociali «calde» - rappresentazioni cognitive cariche di affetto empatico, e pertanto di forza motivazionale. Come avviene questa trasformazione? La mia ipotesi è che una persona che vive un conflitto morale prenda in considerazione le possibili azioni che ha dinanzi e ne valuti le conseguenze per le altre persone. Ciò evoca immagini di persone danneggiate da quelle azioni; queste immagini suscitano sofferenza empatica e senso di colpa anticipatorio; le immagini e gli affetti empatici attivano i principi morali della persona. La compresenza di empatia e principio crea tra loro un legame che fornisce al principio una carica affettiva.” (p. 276)
“La mia ipotesi è che quando i principi si uniscono con l'affetto empatico acquisiscono una carica affettiva e, insieme, la forza motivazionale dell'affetto. Essi vengono quindi conservati nella memoria come rappresentazioni prosociali cariche affettivamente - cognizioni «calde» - che possono attivarsi di fronte a una violazione del principio. Da questa ipotesi seguono tre semplici predizioni: l'empatia è correlata con l'azione prosociale; l'adesione a un principio morale prosociale è correlata con l'azione prosociale; l'affetto empatico e il principio, uniti tra loro, sono correlati più strettamente con l'azione prosociale che non l'uno o l'altro da soli.” (p. 277)
Queste ipotesi non azzerano il conflitto potenziale tra il prendersi cura e la giustizia, cui Hoffman dedica queste riflessioni:
“Se è vero che il prendersi cura e la giustizia sono tenuti in gran conto nella nostra società e che la socializzazione dei bambini provvede alla loro interiorizzazione, e se sono nel giusto a proposito dei nessi evolutivi tra l'empatia e il prendersi cura e la maggior parte dei principi di giustizia (capp. IX e X), ne segue che gli individui più maturi e che più hanno interiorizzato la morale hanno nel loro sistema motivazionale principi di cura e di giustizia carichi di empatia. Perciò essi dovrebbero essere sensibili tanto alla prospettiva del prendersi cura quanto a quella della giustizia, dovrebbero essere capaci di sperimentare il conflitto tra le due prospettive, e dovrebbero essere vulnerabili alla sofferenza empatica, al senso di colpa anticipatorio e al senso empatico di ingiustizia, a seconda di quale principio seguono e quale ignorano.
Un esempio di conflitto tra la cura e la giustizia è quello che sperimentai quando una studentessa riuscì quasi a convincermi che la sua vita «sarebbe stata distrutta» se non le avessi dato un voto migliore. Il mio conflitto, naturalmente, era tra la sofferenza empatica (e il senso di colpa anticipatorio) nei confronti della studentessa e il torto che avrei fatto agli altri studenti se le avessi dato un voto migliore di quanto meritasse. Uno studente al quale gli amici chiedono le domande di un esame che egli ha appena sostenuto può sperimentare un conflitto simile. Due esempi molto diversi del conflitto tra cura e giustizia sono il dilemma di Kohlberg ispirato ai Miserabili, nel quale un uomo ruba la medicina che può salvare la vita della moglie, e l'esperimento descritto nel capitolo ottavo nel quale i soggetti (studenti universitari), che provavano sofferenza empatica per una bambina affetta da una malattia fatale, dovevano decidere se farla passare avanti nella lista d'attesa per una nuova cura, a danno però degli altri bambini che a buon diritto la precedevano nella lista.
Nella mia analisi dei nessi tra l'empatia e i principi di giustizia distributiva (cap. IX), ho concluso che le versioni della giustizia distributiva basate sulla «produttività» e sulla «competenza» sono più lontane dal «prendersi cura» rispetto a quelle basate sul «bisogno» e sull'«impegno». Perciò è più probabile che la produttività e la competenza entrino in conflitto con la cura. Riconsideriamo l'esempio della lettera di raccomandazione, che abbiamo analizzato sopra come un chiaro dilemma nell'ambito della cura: il professore potrebbe provare empatia per tutte le parti morali (studenti, colleghi, candidati ignoti), immaginare la delusione e la sofferenza di ognuno di loro a seconda del tipo di lettera, e forse anche avvertire, nei vari casi, un certo senso di colpa anticipatorio. Perciò potrebbe decidere di scrivere una lettera che minimizzi, nel complesso, la sofferenza empatica o il senso di colpa, oppure potrebbe semplicemente decidere che il suo studente viene al primo posto e agire di conseguenza. Tutte queste considerazioni hanno a che fare con il «prendersi cura».
Ma vi sono anche questioni attinenti alla giustizia. Il sistema accademico attribuisce grande importanza al merito (produttività e competenza intellettuali), e l'integrità del sistema richiede che chi raccomanda qualcuno per un posto di lavoro dica la verità (che è ciò che i colleghi del professore si aspettano da lui). Questo tipo di dilemma fra il prendersi cura e la giustizia si acuisce se il professore dubita che lo studente sia il candidato più qualificato. Se nella sua lettera, in spirito di «giustizia», il professore rivela schiettamente i difetti dello studente, contraddice il «prendersi cura» e può provare un senso di colpa empatico per avere danneggiato lo studente. Se l'empatia per lo studente prevale e il professore scrive una lettera che evidenzia le sue virtù e ne minimizza i difetti, contraddice la «giustizia» e per questo può sentirsi in colpa. Il professore potrebbe anche pensare agli altri candidati e immaginare ci uno di essi fosse suo figlio e che questi fosse più qualificato del suo studente. Ciò potrebbe ridurre il bias empatico per quel particolare studente. Ma sto correndo troppo: insegnare a provare empatia per l'«altro» è un metodo di educazione morale che presenteremo nel capitolo tredicesimo.
Problemi simili si presentano quando un professore raccomanda un collega per una cattedra, una promozione o un aumento di stipendio, o quando un dirigente d'azienda medita se mantenere al suo posto un impiegato inefficiente per il quale prova compassione o assumere una persona più capace. Un altro esempio: uno stimato professore universitario muore e sua moglie, un'assistente a tempo parziale con valutazioni del suo insegnamento molto al di sotto della media, vorrebbe conservare il posto. Il «prendersi cura» e il «bisogno» suggeriscono di non toglierle il lavoro, e questa è la posizione di alcuni professori. Ma altri sostengono che lasciare al suo posto una docente mediocre sarebbe moralmente sbagliato, perché andrebbe contro il miglior interesse degli studenti («cura») o perché l'università dovrebbe assumere i migliori insegnanti disponibili, e ve ne sono molti e più competenti tra cui scegliere («giustizia»). Questo ci riporta al tema dell'applicazione di differenti principi di giustizia in contesti differenti (cap. X). Nel sistema accademico, in linea di principio, il merito dovrebbe essere l'unico criterio per decidere su assunzioni, cattedre e promozioni; ma spesso il merito è in conflitto con la cura e con il bisogno, cose che per molti sono difficili da ignorare.
Riassumendo, l'empatia contribuisce a creare dilemmi tra più parti morali nell'ambito della cura, a causa dell'inclinazione umana a provare empatia per le vittime. Di fronte a più vittime e costretta a fare una scelta, una persona può aiutarne una ma sentirsi colpevole per avere trascurato le altre. I bias dell'empatia svolgono un ruolo in questa scelta, e costituiscono, come ho osservato, una delle limitazioni dell'empatia. Si può sostenere che questi bias siano tanto connaturati all'uomo quanto l'empatia stessa, e che il bias in favore del gruppo cui apparteniamo quando dobbiamo decidere chi aiutare non sia poi così negativo [Blum 1987]. Sono d'accordo, ma questi bias possono diventare dannosi quando una persona si sente costretta ad attaccare qualcuno per difendere il proprio gruppo (rabbia empatica). In che modo ridurre questa «violenza a base empatica» generata dalla rabbia empatica è un problema di educazione morale (che tratteremo nel cap. XIII).
L'empatia può contribuire a entrambi i termini del dilemma cura-giustizia, giacché l'empatia è congruente con l'una e con l'altra, anche se è più difficile che contribuisca alla giustizia quando l'obiettivo è la produttività, come accade di solito nella nostra società. Chi dà più importanza alla produttività può pensare che questo sia l'«ovvio» principio da seguire nei dilemmi cura-giustizia, e lo stesso vale per chi dà più importanza al prendersi cura. II problema è che nella nostra società sia la cura sia la giustizia sono principi influenti e legittimi, ed entrambi validi. I professori che volevano che l'assistente a tempo parziale cui era morto il marito conservasse il suo posto difendevano appassionatamente la loro tesi e stentavano a credere che i colleghi fossero tanto insensibili da voler aggiungere dolore al dolore di una vedova. Gli altri professori ribattevano con pari passione e si rifiutavano di credere che i loro colleghi non riuscissero a rendersi conto che l'unico criterio morale significativo fosse la competenza; la cosa immorale, per loro, era lasciare al suo posto l'assistente.” (pp. 308-311)
5.
“CAPITOLO DODICESIMO
LA QUESTIONE DELL'UNIVERSALITÀ E DELLA CULTURA
“Il relativismo culturale è morto con l'Olocausto. Non possiamo più permetterci il lusso di dare per scontato che i valori o i principi guida di ogni cultura soddisfino i criteri della morale e che ognuno sia tanto buono quanto l'altro. Ciò non equivale a dire che vi sia un solo principio capace di soddisfare quei criteri. Ve ne sarà anzi più d'uno: un principio soddisferà meglio i criteri in un contesto, un altro principio lo farà meglio in un altro contesto, e in altri contesti ancora due o più principi morali perfettamente validi potranno entrare in conflitto. Per queste ragioni sono d'accordo con Kohlberg e con chi, come lui, respinge il relativismo e sostiene un principio universale di giustizia. La giustizia soddisfa certamente qualunque criterio morale, benché io tenga in gran conto anche il prendersi cura, che a volte entra in conflitto con la giustizia, e abbia un'obiezione verso Kohlberg e i suoi seguaci: ciò che essi intendono per giustizia mi è sembrato troppo vago. Quando si guarda al concreto comportamento umano, la giustizia può significare molte cose: può essere sanzionatoria, retributiva, distributiva, meritocratica, egualitaria, e basata sul bisogno. L'empatia sembra essere congruente con tutti o quasi tutti questi principi di giustizia, come pure con il prendersi cura. Ciò significa che l'empatia può rivendicare la sua universalità come motivazione morale prosociale, almeno nelle società che attribuiscono grande importanza alla cura e alla giustizia.
1. Le basi biologiche dell'empatia
Ho proposto alcuni anni fa un altro argomento in favore dell'universalità dell'empatia [Hoffman 1981]. Esso fa riferimento alla teoria dell'evoluzione, alle moderne ricerche comportamentali che mostrano che la sofferenza empatica suscita comportamenti di aiuto e alle prove che mostrano che l'emozione empatica ha una base fisiologica. La base in questione è costituita dal sistema limbico, una struttura cerebrale filogeneticamente antica che è sede dell'esperienza emozionale, e dalle sue intricate connessioni con la neocorteccia prefrontale, la parte del cervello più specificamente umana e l'ultima a essersi evoluta [Brothers 1989; MacLean 1973; 1985; Panksepp 1986]. In particolare, il fondamento neurale della sofferenza empatica sembra essere costituito dall'amigdala e dalle sue connessioni con la corteccia orbito-frontale [Blair 1999]. La mia conclusione era, e continua a essere, che deve essere stata l'empatia, in quanto predisposizione all'altruismo, piuttosto che l'altruismo stesso, a passare al vaglio della selezione naturale, diventando parte integrante della natura umana [Hoffman 1981]. Ne segue che l'empatia è una potenziale motivazione prosociale per tutti gli esseri umani. Un altro supporto alla tesi che l'empatia abbia una base biologica viene fornito dai dati che mostrano che essa ha una componente ereditaria: la correlazione tra i livelli di preoccupazione empatica in risposta alla sofferenza (simulata) di un'altra persona era maggiore tra i gemelli identici che tra i gemelli fraterni (osservazioni effettuate in casa e in laboratorio con bambini di 14 e 20 mesi) [Plomin et al. 1993; Zahn-Waxler et al. 1992].
Se si mettono assieme le prove dell'esistenza di una base biologica dell'empatia e la sua congruenza con i principi di cura e di giustizia si può ragionevolmente concludere che, benché la proprietà motivazionale prosociale dell'empatia sia stata studiata solo negli Stati Uniti, l'empatia debba essere considerata il principale candidato al ruolo di motivazione universale alla base del comportamento morale prosociale di qualunque persona che ne vede un'altra che sta soffrendo. Ma che dire degli altri principi della mia teoria della morale empatica - le cinque modalità di attivazione empatica, l'influenza della disciplina induttiva sul senso di colpa per trasgressione e sull'interiorizzazione morale, e, soprattutto, l'ipotesi che l'empatia si sviluppi di pari passo con la coscienza dell'altro in quanto distinto da sé? E i processi sottostanti sono universali o sono condizionati da vincoli culturali? In mancanza di ricerche transculturali, vi è un solo modo per rispondere a queste domande: approfondire e analizzare i principali concetti in gioco per scoprire se è plausibile che almeno qualcuno sia universale. Cominceremo dallo sviluppo dell'empatia e poi passeremo alle modalità di attivazione empatica e al ruolo delle induzioni.
2. Sviluppo dell'empatia e senso del sé
Alcuni psicologi culturali [per es., Markus e Kitayama 1991; Miller e Bersoff 1992] sostengono che lo sviluppo di un senso del sé come entità separata, distinta e indipendente non è affatto universale, ma è qualcosa che gli Stati Uniti e le altre società individualistiche occidentali rendono possibile e incoraggiano. Secondo questi autori, gli obiettivi culturali di indipendenza, autosufficienza e realizzazione personale esigono che ognuno veda se stesso come un individuo il cui comportamento è organizzato e reso significativo dal riferimento a un proprio repertorio interno di pensieri, sentimenti e azioni. Di conseguenza, il sé occidentale è più sviluppato rispetto a quello di società non occidentali più «collettivistiche» che si possono trovare in tutto il mondo e che comprendono il Giappone, paesi emergenti quali la Cina, l'India, l'Indonesia e la Corea, e quelle società omogenee nelle quali l'armonia, la tradizione, l'interdipendenza sociale, la cura, la responsabilità verso il benessere altrui e le obbligazioni comunitarie sono più importanti dei diritti individuali.
Da questo punto di vista, le nozioni di interdipendenza, armonia e cura all'opera in queste società richiedono che ci sia una interconnessione di fondo tra le persone e il mantenimento di questa interdipendenza. Questo obiettivo culturale di interdipendenza crea un senso del sé e dell'altro come entità amalgamate assieme, anziché separate e distinte. L'idea che queste società siano caratterizzate da un «sé amalgamato» (merged) non è suggerita solo dall'obiettivo culturale dell'interdipendenza, ma poggia anche sull'osservazione di pratiche che sembrano riflettere un sé individuale meno sviluppato. Tra queste pratiche c'è l'evidente disposizione dei membri degli strati inferiori di queste società a mostrare deferenza verso l'élite, a rispettarne i privilegi e, a volte, a far propri i suoi obiettivi (trarre piacere dal piacere dell'élite). Se questi autori sono nel giusto, e se la differenziazione sé-altro è una costruzione culturalmente determinata e primariamente occidentale, tutto il mio schema di sviluppo dell'empatia, che si basa sulla sintesi tra l'attivazione empatica e lo sviluppo di un senso del sé separato e distinto, diventa un artefatto culturale dell'Occidente, certamente non universale.
Io penso che questi autori abbiano torto, e per varie ragioni. In primo luogo, sembra ovvio e fondamentale che il cervello e le strutture cognitive ad esso associate garantiscano, come minimo, che ogni essere umano sia cosciente delle continue sensazioni cinestetiche provenienti dal suo corpo. Questa incessante consapevolezza cinestetica non solo fornisce all'infante un primo sentimento di separazione tra sé e gli altri [Stern 1985 e sopra, cap. III], ma continua, anche dopo la prima infanzia, ad assicurare un certo grado di separazione tra sé e gli altri per tutta la durata della vita di una persona. In secondo luogo, il cervello e lo sviluppo cognitivo garantiscono che gli esseri umani, fin dalla prima fanciullezza, siano consapevoli dei loro pensieri, sentimenti e, ciò che è particolarmente importante in questo contesto, bisogni e desideri. In terzo luogo, il cervello e lo sviluppo cognitivo garantiscono che gli esseri umani possano rappresentarsi mentalmente e percepire cinesteticamente le proprie azioni. E, in quarto luogo, il cervello e lo sviluppo cognitivo garantiscono alle persone la capacità di rappresentarsi gli altri - permanenza dell'oggetto - e le loro azioni. La scoperta di Ekman che le espressioni facciali rappresentano le stesse emozioni fondamentali in tutte le culture fa pensare che se i bambini statunitensi di tre o quattro anni possono inferire i sentimenti altrui a partire dall'espressione facciale (cap. III), lo stesso possano fare anche i bambini cresciuti nelle culture «collettivistiche».
Perciò per un adulto con un cervello normale dovrebbe essere impossibile sentire che il proprio sé sia fuso o amalgamato con quello di altri. (Ciò crea un limite alla sofferenza empatica come motivazione prosociale: possiamo avvertire un'intensa sofferenza empatica ma sappiamo di non essere l'altro.) Inoltre, gli individui hanno bisogni e desideri; e i bisogni e i desideri di un individuo si scontrano inevitabilmente con quelli altrui. Benché la cultura possa minimizzare la frequenza dei conflitti (probabilmente più rari nelle culture cooperative che non in quelle competitive) e, in questo modo, possa ridurre il numero di dispute, liti e discussioni, sembra improbabile che possa cancellare ogni conflitto. Ad ogni modo, credo che nulla sia più efficace della partecipazione a discussioni e liti, negoziazioni e dispute per consolidare la consapevolezza di sé - anzi per rendere praticamente impossibile non avere consapevolezza della distinzione tra il sé e l'altro.
Perciò l'ipotesi di un universale senso di sé appare più plausibile di quella di un sé collettivo, amalgamato. Così indicano le prove empiriche, per scarse che siano. Gli studi psicologici più pertinenti sono relativi all'identità di genere, che è senza dubbio una dimensione importante del sé: lo sviluppo dell'identità di genere in culture meno individualistiche della nostra (Belize, Kenia, Nepal, Samoa) avviene secondo la stessa sequenza che si osserva nella classe media statunitense (identità, stabilità, costanza), sebbene possa manifestarsi a età differenti [Munroe, Shimmin e Munroe 1984].
Altri elementi di prova sono quelli presentati da Turiel [1998], che sottolinea, in primo luogo, che i membri delle classi superiori delle società non occidentali, più «collettivistiche», hanno una forte coscienza della propria autonomia e dei propri diritti personali e un senso del sé ben sviluppato, come dimostrano tutti gli sforzi che fanno per conservare i propri privilegi. Inoltre, e più importante, i membri meno privilegiati di queste società concepiscono anch'essi il sé come qualcosa di autonomo e indipendente; e l'interesse e gli scopi personali hanno importanza nelle loro vite. Tuttavia i membri delle classi e delle caste inferiori hanno una visione realistica di sé, e si rendono conto di far parte di una rete sociale nella quale la loro autonomia e la loro giurisdizione personale dipendono dagli altri e dalle esigenze del proprio ruolo. Una persona, in altri termini, può essere consapevole della pragmatica del potere (se disobbedisci puoi essere punito); può considerare ingiusti i privilegi dell'élite, e tuttavia adeguarsi ad essi non perché non abbia un senso del sé ma perché la struttura del potere non lascia scelta. Turiel cita un'osservazione di Spiro [1993], basata su una rassegna degli studi antropologici sull'argomento: vi è molta «differenziazione, individuazione e autonomia nel supposto sé non occidentale... e dipendenza e interdipendenza nel supposto sé occidentale». E, ancora più esplicitamente, Spiro conclude che «le ideologie culturali e i simboli pubblici non si riflettono necessariamente nella concezione e nell'esperienza che un individuo ha di se stesso e degli altri» [vedi Turiel 1998, 916].
Da ciò segue che è realmente possibile che vi siano meno esaltazione e celebrazione dell'individuo e più interdipendenza, aiuto ed empatia che non autonomia, e si dia più valore alle obbligazioni comunitarie che non ai diritti individuali nelle società «collettivistiche», che in quelle occidentali. Può darsi però che le differenze non siano così grandi come si pretende. Ad ogni modo, i valori e le pratiche di una cultura possono determinare il contesto nel quale il sé si sviluppa e vive (competizione, solidarietà), ma questi valori e queste pratiche possono non avere nulla a che fare con il grado di sviluppo del senso del sé. In mancanza di prove del contrario, l'ipotesi che ognuno possegga un senso del sé (dipendente essenzialmente dal cervello e dallo sviluppo cognitivo, e dagli inevitabili conflitti tra gli individui e i gruppi) è più plausibile dell'ipotesi che lo sviluppo del sé sia problematico e dipendente dalla cultura. Il sé, insomma, è universale.
Inoltre, alla luce di quel che sappiamo sullo sviluppo cognitivo (vedi il cap. III) e in mancanza di ricerche transculturali che mostrino il contrario, è plausibile che il sé individuale si sviluppi secondo la progressione da me ipotizzata. Esso si sviluppa a partire dalla confusione tra il sé e l'altro nella prima infanzia attraverso tre stadi: dalla consapevolezza di sé e degli altri come entità fisicamente distinte, a un sé che ha stati interni che gli altri non conoscono e proprietà esterne che gli altri conoscono, fino a un sé riflessivo la cui vita va oltre la situazione immediata e sa che ciò è vero anche degli altri - insomma, un sé che sa che anche gli altri, come lui, hanno un sé.
3. Modalità di attivazione dell'empatia
Parliamo per prima cosa della risposta di agitazione e sofferenza del neonato quando sente un altro bambino che piange probabilmente una forma rudimentale di sofferenza empatica che può essere considerata senz'altro universale e aculturale, giacché è alla portata di qualunque neonato. Vi sono poi le tre modalità elementari di attivazione dell'empatia - mimesi, sofferenza empatica condizionata, sofferenza empatica per associazione diretta - che sono anch'esse, con ogni probabilità, universali. Ciò per due ragioni (vedi il cap. II): a) dato che, con ogni probabilità, le due fasi della mimesi (imitazione e retroazione) dipendono dal sistema nervoso centrale, e data la scoperta da parte di Ekman di caratteri universali nella relazione tra espressioni facciali ed emozioni, si può concludere che chiunque, in qualunque cultura, noti l'espressione facciale di sofferenza di una persona avvertirà sofferenza empatica; e b) è probabile che la sofferenza empatica condizionata e la sofferenza empatica per associazione diretta siano universali, giacché anch'esse hanno una base nel sistema nervoso centrale e in quello autonomo. Inoltre, tutti gli esseri umani sono strutturalmente simili, sono il risultato di una comune storia evoluzionistica, e sono accomunati da certe esperienze di sofferenza (dolore, paura, perdita, separazione). Le persone di tutto il mondo dovrebbero perciò, a un certo punto del loro sviluppo, essere capaci di provare sofferenza empatica nel vedere un'altra persona che sta soffrendo, in virtù del condizionamento o dell'associazione diretta con le proprie esperienze di sofferenza, inevitabilmente simili a quelle altrui.
Perciò la mimesi, il condizionamento, e l'associazione diretta devono essere processi universali di attivazione dell'empatia, sebbene le culture possano variare nella frequenza con cui operano questi processi, date le probabili differenze culturali nelle occasioni di sperimentare i vari tipi di sofferenza. Può variare con la cultura anche la facilità con cui l'osservatore rivolge la sua attenzione alle vittime di questo o quel tipo di sofferenza, o pensa a qualche altra cosa per distogliere la sua attenzione dalle vittime. Questa possibilità potrebbe interessare in particolar modo la mimesi, dato che la mimesi dipende interamente dall'attenzione che l'osservatore presta alla vittima.
In terzo luogo, anche l'associazione mediata dal linguaggio deve essere un processo di attivazione empatica universale, per le stesse ragioni del condizionamento e dell'associazione diretta, e anche perché tutte le culture, presumibilmente, posseggono il linguaggio. Tuttavia è probabile che le lingue non siano tutte ugualmente efficaci nell'esprimere sentimenti, sentimenti di sofferenza compresi, e perciò ci si può aspettare che la frequenza della sofferenza empatica mediata dal linguaggio vari nelle diverse culture. In quarto luogo, l'assunzione di ruolo è un processo di attivazione dell'empatia più esigente dal punto di vista cognitivo. Anche se può essere automatico, come abbiamo visto nel capitolo secondo, è probabile che abbia una rilevante componente volontaria e che perciò possa dipendere dalla cultura. L'assunzione di ruolo centrata su di sé, ad esempio, potrebbe essere una risposta alla sofferenza altrui maggiormente prevalente nelle società individualistiche.
Sembra ragionevole concludere che tutte le modalità di attivazione empatica siano universali, cioè che, indipendentemente dalla cultura, ognuna di esse sia capace di suscitare una risposta empatica in qualunque essere umano. Le modalità primitive di attivazione dell'empatia agiranno in modo automatico e involontario nella maggior parte delle culture. E anche le modalità più gravose dal punto di vista cognitivo, e, in qualche misura, volontarie - l'associazione mediata dal linguaggio e l'assunzione di ruolo - possono essere universali, pur essendo influenzate dalla cultura. Questa analisi sottolinea quanto sia importante (come abbiamo visto nel cap. II) che vi siano molte e differenti modalità di attivazione empatica.
Le persone compiono attribuzioni causali in tutto il mondo, anche se gli antropologi hanno constatato da tempo che la causalità ha un significato differente in una società tradizionale e omogenea e in una società occidentale. Ad ogni modo, si può affermare a ragion veduta che nei paesi sviluppati o in via di sviluppo tutte le persone compiono attribuzioni causali, comprese quelle relative alla sofferenza altrui, e, inoltre, che queste attribuzioni causali sono più o meno in accordo con la realtà (come negli Stati Uniti). Ciò significa che quando la causa della sofferenza della vittima è fuori del controllo della vittima stessa (malattie, incidenti), l'osservatore proverà sofferenza empatica, e proverà rabbia empatica se la causa è un'altra persona. Si può inoltre supporre che l'osservatore, quando è lui la causa, proverà qualcosa di simile al senso di colpa, anche se l'universalità del senso di colpa è una questione dibattuta da lungo tempo. La mia tesi generale è che le attribuzioni causali, come altre capacità cognitive, abbiano un fondamento nel cervello e pertanto siano accessibili alle persone di tutte le culture, benché non tutte le culture le utilizzino appieno o nello stesso modo. Questo è un tema che richiede certamente ulteriori indagini.
4. Induzione, senso di colpa e interiorizzazione morale
Passiamo ora al modello della trasgressione - al ruolo dell'induzione nella socializzazione del senso di colpa per trasgressione su base empatica, e al funzionamento del senso di colpa come motivazione morale prosociale. Sono, anche questi, concetti universali? Ci troviamo qui su un terreno più scivoloso. Non v'è dubbio che in tutto il mondo a volte i genitori intervengano per modificare il comportamento dei figli contro la loro volontà, ma la maggior parte delle ricerche che dimostrano il ruolo dell'induzione nel senso di colpa per trasgressione e nell'interiorizzazione morale sono state condotte con statunitensi bianchi di classe media. Le loro conclusioni sono applicabili anche ad altre popolazioni?
È ovvio che la frequenza con cui i genitori usano l'induzione e l'affermazione del potere o anche la frequenza degli incontri disciplinari non può essere generalizzata. Le ricerche hanno documentato da tempo che l'affermazione del potere è più frequente e l'induzione (al pari di altri ragionamenti) meno frequente nei gruppi socioeconomici inferiori. In uno dei primi studi correlazionali che comprendeva un campione di persone (bianche) di classe media e un altro di classe inferiore, Hoffman e Saltzstein [1967] hanno osservato che nel secondo, a differenza del primo, il ricorso all'induzione da parte della madre non era correlato con il senso di colpa e con l'interiorizzazione morale del bambino. Essi spiegarono questo risultato con l'azione congiunta di vari fattori: le madri di classe inferiore ricorrevano meno (in misura statisticamente molto significativa) alle induzioni; un maggior numero di madri di classe inferiore lavorava a tempo pieno fuori casa (negli anni Sessanta, erano poche le madri di classe media che lo facevano); le famiglie di classe inferiore erano più grandi (spesso comprendevano tre generazioni) e dovevano vivere in uno spazio più piccolo, e questo significa che il bambino interagiva con molte altre persone oltre che con la madre. Di conseguenza, nella classe inferiore il processo di socializzazione era più diffuso (ripartito tra più persone), e perciò la disciplina materna poteva essere una variabile meno cruciale nel processo di interiorizzazione morale del bambino.
Fattori simili possono essere alla base dei risultati di uno studio di Deater-Deckard e colleghi [1996], nel quale la disciplina basata sull'affermazione del potere era correlata con l'«esteriorizzazione di problemi di comportamento» tra gli statunitensi di origine europea ma non tra quelli di origine africana. Questa correlazione tra affermazione di potere ed esteriorizzazione non corrisponde perfettamente alla correlazione tra induzione e interiorizzazione, ma è ciò che più le si avvicina, dato che tra gli afro-americani non sono state studiate né l'induzione né l'interiorizzazione morale. Pertanto, non possiamo ancora dire se l'induzione contribuisca all'interiorizzazione morale tra gli statunitensi di classe media di origine africana, come sembra fare tra quelli di origine europea. La mia ipotesi è che questo contributo vi sia, ovvero, i processi che, secondo la mia ipotesi, mettono in relazione l'induzione con il senso di colpa per trasgressione e l'interiorizzazione morale continuano ad apparire plausibili; e non solo a me, ma a tutti coloro che gli hanno esaminati e, nel complesso, confermati, sia pure limitatamente a campioni di statunitensi d'origine europea di classe media (vedi il cap. VI). In mancanza di studi transculturali e senza ipotesi alternative che godano di un supporto empirico altrettanto ampio, si può ragionevolmente concludere, finché nuove ricerche non dimostrino il contrario, che l'induzione e l'affermazione del potere contribuiscono (la prima positivamente, la seconda negativamente) al senso di colpa per trasgressione, all'interiorizzazione morale e al comportamento prosociale - almeno nelle società fondate sulla famiglia nucleare nelle quali gli incontri disciplinari sono frequenti, l'affermazione di potere e l'induzione sono usate spesso, e il senso di colpa e l'interiorizzazione morale sono concetti significativi.
Ho incluso l'ultimo requisito perché il senso di colpa per trasgressione e l'interiorizzazione morale possono avere poco senso in società piccole, tradizionali e omogenee, nelle quali gli individui per tutta la vita sono sotto la costante sorveglianza di modelli di ruolo e di altre autorità, o in alcune delle società non occidentali «collettivistiche», grandi ed etnicamente eterogenee descritte sopra. In questo tipo di società, quando un individuo mette in atto comportamenti devianti, è probabile che i suoi genitori o altre figure influenti lo scoprano e lo puniscano attraverso metodi di affermazione del potere o di ritiro dell'amore. In queste società, le induzioni possono essere rare e l'interiorizzazione morale relativamente poco importante. D'altra parte, nelle democrazie liberali, dove non c'è «un poliziotto in ogni angolo», e soprattutto nelle classi medie istruite, l'induzione, il senso di colpa e l'interiorizzazione morale sono concetti significativi, come spiega bene George Simmel nel brano citato nel capitolo quinto. Se questi concetti siano generalizzabili al di fuori della classe media della società occidentale, e fino a che punto, è un tema che richiede ulteriori indagini.
5. Conclusioni
Ricapitolando, sembrano esservi più ragioni per credere che la morale empatica sia universale che non il contrario. Nelle culture ispirate al principio di cura e alla maggior parte di quelli di giustizia, ci si può aspettare che la morale empatica promuova il comportamento prosociale e scoraggi l'aggressività. La morale empatica, tuttavia, non agisce nel vuoto: un'educazione basata sull'affermazione del potere può soffocarla, una cultura che anteponga la competizione all'aiuto può indebolirla, e non mancano motivazioni egoistiche individuali abbastanza forti da contrastarla e sopraffarla. Ciò non contraddice la tesi che, in virtù dell'evoluzione, l'empatia sia parte integrante della natura umana. Le differenze individuali in altre motivazioni a base biologica sembrano essere distribuite secondo la classica forma a campana, e lo stesso può essere vero dell'empatia. L'empatia, potenzialmente, è presente in ogni essere umano, ma può essere ridotta dall'irritabilità, dalla paura e da altre variabili temperamentali, e da tendenze depressive e autistiche che interferiscono con la mimesi, l'assunzione di ruolo e altri processi di attivazione dell'empatia. La combinazione di fattori temperamentali con certe esperienze di vita, come l'indifferenza da parte dei genitori, e un eccesso di affermazione del potere, può produrre individui incapaci di provare empatia (psicopatici?).
La moralità empatica è soggetta anche a distorsioni sistematiche (bias) in favore di amici, parenti e persone che ci somigliano. A causa di questi bias, la morale empatica può produrre un certo grado di ingiustizia, anche se, come sostengono alcuni filosofi [Blum 1980], la cosa è comprensibile e può essere considerata un problema minore. Problema comprensibile e minore - sono d'accordo - se si considera il comportamento in larga misura prosociale che la morale empatica promuove nelle comunità piccole e omogenee, con frequenti interazioni faccia a faccia. Ma il problema può diventare grave nelle società eterogenee e multiculturali, specialmente quelle caratterizzate da rivalità tra gruppi etnici, nelle quali la morale empatica, a causa della tendenza dell'empatia a favorire il proprio gruppo primario, può alimentare l'ostilità (rabbia empatica) e a volte anche la violenza tra gruppi.
La morale empatica, pur essendo universale come motivazione morale prosociale, è dunque fragile (l'Olocausto è pur avvenuto). Tuttavia, come ho suggerito nel capitolo nono, all'orizzonte non v'è nulla di meglio di una morale empatica legata alla reciprocità e a certi principi di giustizia che la guidino e la stabilizzino. Non v'è ragione di credere che l'unione della morale empatica con la reciprocità e la giustizia sia universale; al contrario, per conseguirla saranno necessarie - non ne dubito - risolutezza, inventiva e ricerca culturale. (pp. 315-327)
6.
Il saggio di Hoffman è poderoso, articolato in maniera eccellente, corroborato da dati sperimentali e osservazioni sul campo, sotteso da una riflessione che non esita a confrontarsi con problemi e contraddizioni teoriche. Il suo valore consiste nell’avere dimostrato, valorizzando le ricerche nell’ambito della psicologia evolutiva (confermate di recente dalla scoperta dei neuroni specchio) che, senza il riferimento all’empatia come capacità intuitiva innata, non si dà la possibilità di capire l’uomo e i fatti umani. Il risultato è straordinario non solo sotto il profilo scientifico, nella misura in cui esso offre un punto fermo alla costruzione di un modello panantropologico, ma anche sotto il profilo filosofico e ideologico. L'attribuzione alla natura umana di una capacità empatica innata comporta, infatti, il tramonto definitivo dell’antropologia borghese, nella tradizione che va da Hobbes a Freud e ai teorici del liberismo. L’individuo autonomo ed egoista che, in quella tradizione, rappresenta l’atomo sulla cui base si costruisce poi la società come aggregazione di individui che si arrendono a sacrificare in parte i loro bisogni egoistici in nome del vantaggio che ricavano dalla partecipazione sociale, semplicemente non esiste.
Questa conclusione, di grande significato, sembra un po’ in contraddizione con il fatto che il primo teorico del liberismo, A. Smith, ha attribuito all’uomo, per l’influenza di Hume, un istinto sociale e una modalità di relazione con l’altro incentrata sulla simpatia. Tale contraddizione fa capo alla bonomia e all’ottimismo di Smith, che intendeva il libero scambio come una modalità di rapporto economico interpersonale reciprocamente vantaggioso.
La simpatia smithiana non impediva al singolo individuo di curare i propri interessi egoistici, ma l’egoismo, necessario a tal fine, non si sarebbe potuto realizzare mai a pieno, cioè sotto forma di indifferenza e di “sfruttamento” nei confronti dell’altro, perché ciò sarebbe risultato incompatibile con la simpatia stessa e con le leggi del sistema economico, orientate naturalmente verso una condizione di equilibrio tra la domanda e l'offerta: equilibrio il cui mantenimento postulava appunto il reciproco vantaggio.
A posteriori è chiaro che l’ottimismo smithiano non ha fatto i conti con gli “spiriti animali” sprigionati dal liberismo, che si sono espressi, nel corso del tempo, sotto forma di sfruttamento dell’uomo, sia all’interno dei contesti nazionali che a livello di colonialismo, imperialismo e neo colonialismo.
Per alcuni aspetti, Hoffman dà l’impressione di essere un erede di Smith. Nell’Introduzione, egli riconosce onestamente che “quelli che studiano il comportamento morale prosociale lo fanno nel «primo mondo» alla fine del XX secolo, in una società attraversata da individualismo competitivo e indifferenza verso il prossimo, e sono tutti perfettamente consapevoli che per quanto una persona si prenda cura degli altri, ognuno alla resa dei conti pensa prima di tutto a se stesso: lui (lei) non è l'altro.”
Questo riconoscimento dovrebbe comportare, per uno studioso dell’empatia, come problema preliminare, chiedersi come sia possibile che un animale empatico sia riuscito a costruire una società caratterizzata per molti aspetti dall’indifferenza sociale. Di fatto, questo problema non viene quasi affrontato nel corso del saggio se non in riferimento ai bias, vale a dire alle distorsioni o ai limiti dell'empatia (la familiarità e l’immediatezza).
In realtà, i bias spiegano qualcosa, ma non i fenomeni di “mostruosa” indifferenza che caratterizzano le società occidentali, e in particolare quella statunitense, laddove gli homeless muoiono letteralmente per strada, sotto gli occhi di persone facoltose che non se ne accorgono neppure.
Un fenomeno del genere può essere interpretato nella cornice della teoria hoffmaniana tenendo conto che, negli Usa più ancora che altrove, la povertà implica un’attribuzione di colpa che inibisce la tendenza a prestare aiuto a chi soffre in nome del principio proverbiale per cui chi è “causa del suo mal” è giusto che ne sconti le conseguenze.
Se questo, però, è vero, ciò significa che la potenza alienante della cultura può inibire del tutto l’empatia.
Hoffman sembra consapevole di questo laddove scrive che la moralità empatica è fragile. In rapporto ai fenomeni di indifferenza sociale che caratterizzano le società occidentali, l’affermazione sembra però eufemistica.
E’ inevitabile che tutti i ricercatori nell’ambito della psicologia siano immersi in un contesto storico-sociale che, in qualche misura, influenza le loro ricerche e la loro teorizzazione, come pure che essi, per quanto siano attrezzati criticamente, non possono raggiungere un’utopistica neutralità.
Subito dopo aver riconosciuto la sua appartenenza ad un mondo caratterizzato dall’egoismo e dall’indifferenza sociale, Hoffman aggiunge che “ciò nondimeno, le persone fanno sacrifici per gli altri - grandi sacrifici, a volte - e spesso li aiutano in modi meno importanti, e tutto ciò migliora la qualità della vita di tutti e rende possibile l'esistenza sociale.”
Con questa affermazione, egli non fa riferimento solo alla famiglia, bensì ad una organizzazione sociale, quella ovviamente statunitense, che è stata già ampiamente analizzata nella sua paradossale “schizofrenia” (per esempio da Rifkin ne Il sogno europeo). Colà, infatti, l’individualismo competitivo e la responsabilità attribuita all’individuo per la sua condizione sociale comporta una sostanziale indifferenza per coloro che non ce la fanno. L’ideologia liberista si esprime anche in un rapporto con il resto del mondo contrassegnato da un’indifferenza che spesso raggiunge il vertice di un cinismo assoluto in conseguenza dell’operato delle multinazionali. E’ pur vero, però, che gli Usa sono la nazione in assoluto più ricca di associazioni del più vario genere, molte delle quali hanno finalità sociali, vale a dire si riconducono al verbo del bene comune e si propongono di aiutare i bisognosi.
Non mi soffermo ad analizzare il significato di questa contraddizione se non per fare presente che essa è riconducibile alla convivenza, nella cultura americana, di un’ideologia marcatamente liberista e di una religiosità che non ha pari nel contesto delle società occidentali.
Mi preme piuttosto sottolineare che questa contraddizione, la cui matrice è culturale, è fortemente rappresentata nelle singole soggettività e in qualche misura influenza i loro processi cognitivi, che possono, a seconda delle circostanze, dare spazio o inibire l’empatia, fermo restando che, nel complesso dell’organizzazione sociale, è l’inibizione a prevalere sull’empatia.
Questo vale anche per le famiglie alle quali Hoffman assegna il ruolo di alimentare, educare e canalizzare l’empatia dei figli verso la sua forma matura sulla base dell’induzione. Questo ruolo univoco e ideale sembra astratto, dato che la scissione cui ho fatto riferimento in tanto si riproduce nei figli in quanto essa fa parte della cultura genitoriale. Più che in Europa, i genitori statunitensi educano i figli alla religione e, al tempo stesso, li incitano a competere, ad essere intraprendenti e combattivi; ad adottare in breve la logica di potere che è propria del way of life americano
Il contesto culturale nel quale è maturato il lavoro di Hoffman si può ritenere importante anche per un altro aspetto. Per un verso, infatti, egli, assumendo l’empatia come capacità intuitiva e affettiva innata e universale, ha il merito di avere, anche se involontariamente, dissacrato l’ideologia di riferimento liberistica che in esso vige. Per un altro verso, tentando di integrare la teoria emozionale con quella cognitiva dell’empatia, egli ha pagato un prezzo piuttosto pesante sull’altare del cognitivismo.
Il cognitivismo, infatti, è la teoria psicologica più integrata con l’ideologia liberista, e per ciò, da venti anni a questa parte, ha avuto un eclatante successo. Naturalmente, asserire questo non significa negare i meriti degli studiosi cognitivisti che hanno indagato in profondità aspetti del funzionamento mentale (percezione, attenzione, memoria, ecc.) giungendo ad acquisizioni il cui valore scientifico è fuor di dubbio. Anche la psicoanalisi freudiana ha un impianto ideologico borghese, ma ciò nulla toglie al suo significato rivoluzionario, posto che si riesca a distinguere quanto nella teoria si dà di scientifico e quanto di ideologico.
Ma qual è il limite del cognitivismo e in che modo esso incide nell’opera di Hoffman?
Il cognitivismo muove dal presupposto che la mente umana è un apparato deputato ad elaborare le informazioni al fine di promuovere un adattamento dell’organismo all’ambiente. Dato che la mente umana funziona solo all’interno di singoli soggetti, quel presupposto significa che l’Io è un elaboratore di informazioni. Si ammette che il patrimonio di informazioni dell’Io è solo in parte (o addirittura in minima parte) depositato a livello conscio. Ciò però nulla toglie al fatto che il modo di sentire, di vedere e di agire di un soggetto rientra nell’ambito delle “scelte” che egli opera.
Ho fatto cenno al fatto che, negli Usa, la povertà viene ritenuta una colpa. Ciò accade in conseguenza di una concezione dell’individuo che il cognitivismo ha fatto propria.
Gli studiosi cognitivisti non escludono ovviamente l’influenza dei fattori sociali e culturali sull’esperienza individuale. Essi ritengono, però, che tale influenza non abbia un potere deterministico sul soggetto, ma sia sempre e comunque mediata dai suoi processi di elaborazione e non azzeri mai la sua capacità di scelta.
Tenendo conto di questi aspetti, è più agevole individuare i limiti della peraltro ottima opera di Hoffman.
Allorché, egli, nel capitolo terzo descrive le fasi dello sviluppo dell’empatia, che da una modalità originaria indifferenziata, giunge ad una modalità matura tale per cui il soggetto riesce a decifrare i bisogni e gli stati d’animo degli altri, ma tenendo ferma la distinzione tra la sua identità e la loro, Hoffman sembra non rendersi conto che quelle fasi, in particolare nel contesto in cui vive, sono più di ordine teorico che pratico: descrivono, insomma, il come potrebbe o dovrebbe essere, non il come è.
Una cultura individualista e competitiva, infatti, incide su quelle fasi nel senso che, tranne i casi in cui i soggetti sono dotati di un corredo empatico particolarmente intenso, essa determina inevitabilmente un grado più o meno marcato di anestetizzazione empatica. Su questa base, lo sviluppo cognitivo ovviamente prosegue e di fatto, giunge a dotare le persone di una Teoria della Mente, vale a dire della capacità di capire ciò che essi sentono o pensano. Tale capacità, però, può rimanere sottesa dall’empatia ma anche affrancarsi da essa, configurandosi come un modo razionale e emotivamente disinvestito di ricostruire ciò che passa nella mente degli altri. Al limite estremo, un torturatore deve avere (e di fatto ha) una Teoria della Mente, ma la utilizza per conseguire un fine che richiede la non identificazione empatica con la vittima.
Nello schema di Hoffman l’interferenza della cultura sulla natura, e la possibilità che tale interferenza dia luogo ad uno sviluppo alienato, non è preso in considerazione se non in maniera marginale (nell’ultimo capitolo in particolare). Essa sembra invece decisiva per interpretare lo stato di cose esistente nel suo e nel nostro mondo.
Un’analoga astrattezza è reperibile laddove Hoffman affronta il problema dei principi morali. Pur sostenendo giustamente che essi sono e non possono essere che di ordine culturale, e quindi si sovrappongono e modellano l’empatia naturale, egli sembra ricondursi ad una concezione filosofica e sostanzialmente kantiana della morale.
Non c’è motivo di negare che si dia una predisposizione morale naturale legata all’empatia. Su questo presupposto sta, di fatto, fiorendo quella che ormai va sotto il nome di etica darwiniana o evoluzionistica.
Occorre, però, tenere conto che i valori morali attivi all’interno di un determinato contesto storico non sono null’altro che principi o moduli di comportamento funzionali alla coesione e alla perpetuazione del sistema sociale. In rapporto all’empatia, dunque, essi possono essere più o meno “morali” o addirittura del tutto “immorali”. Le vicende legate ad Abu-Graim e a Guantanamo sono, da questo punto di vista, esemplari.
Il limite del cognitivismo è facilmente riconoscibile anche nel capitolo che Hoffman dedica all’interiorizzazione dei principi morali, che sembra avvenire per un processo di trasmissione lineare il quale, se fondato sull’induzione, dà luogo al realizzarsi nel soggetto di uno script che associa alla Trasgressione il Senso di colpa. Ho già accennato al fatto che la famiglia cui fa riferimento Hoffman, quella americana, di fatto funziona in maniera contraddittoria. Se un bambino ruba il giocattolo ad un altro, trasgredendo il sacro principio della proprietà privata, il genitore interviene richiamandolo al danno che arreca all’altro. Se lo stesso bambino rientra però con un occhio nero, il genitore medio lo rimprovera e lo spinge a restituire pan per focaccia.
Al di là di questo, le cose in realtà sono molto più complesse: primo, perché la trasmissione transgenerazionale avviene, in larga misura, sulla base di modalità comunicative inconsce, per cui tutti i principi presenti nella personalità dei genitori - compresi i pregiudizi e le convenzioni sociali - passano inesorabilmente nei figli. In secondo luogo, l’attecchimento dei principi sembra fortemente dipendente dal terreno costituzionale secondo uno spettro che dipende dal grado dell’empatia non meno che dal bisogno di appartenenza, che ad esso è strettamente intrecciato.
Quest’ultimo aspetto è di particolare importanza. Qua e là Hoffman fa riferimento al fatto che i soggetti differiscono tra loro per una diversa “sensibilità”. Nelle conclusioni egli ipotizza che l’empatia possa avere una distribuzione a campana. Ciò significa che la maggioranza delle persone sarebbe dotata di un’empatia media, una minoranza di un’empatia molto scarsa ed un’altra minoranza di un’empatia elevata.
L’esistenza di soggetti fortemente empatici per natura è fuori di dubbio: notoriamente essi sono introversi. A questa categoria Hoffman non fa alcun riferimento nel corso del libro. La cosa è sorprendente se si tiene conto che il capitolo sui sensi di colpa virtuali descrive vissuti che sono frequentissimi negli introversi e molto meno negli altri. Gran parte dei soggetti che fanno analisi appartengono a questa categoria, e si attribuiscono spesso o pagano per meccanismi inconsci colpe mai commesse.
Forse il discorso sull’empatia diventerebbe più realistico se si ammettesse, tenendo conto di come vanno le cose nel nostro mondo, che essa appare distribuita secondo uno spettro tale per cui in alcuni soggetti (introversi) sembra resistere alle influenze culturali alienanti, in altri cede ad esse e tutt’al più si mantiene nell’ambito privato e familiare, in altri ancora viene ad esserne inibita o anestetizzata. Uno spettro del genere, di fatto, è riconducibile ad una curva a campana, ma comporta il riferimento ad una maggioranza caratterizzata da un’empatia che, seppure resiste all’anestetizzazione, non arriva affatto alla maturità.
E’ pur vero che, ad un estremo della curva, laddove si dà un’iperdotazione empatica, negli introversi, dunque, si realizzano troppo spesso fenomeni di sovrattivazione che, a lungo andare, rendono pressoché intollerabile il rapporto tra l’Io e la sofferenza umana, determinando spesso fantasie di anestetizzazione che sono inconsciamente la matrice dei sensi di colpa virtuali.
Ma cosa significa tutto questo nella cornice di una concezione evoluzionistica dell’uomo? Anche se riesce difficile rispondere, viene da pensare che l’empatia, originariamente funzionale ad aggregare, a rendere coeso e solidale un piccolo gruppo, possa essere preservata e valorizzata solo all’interno di una struttura sociale complessa che culturalmente la salvaguardi e la potenzi in maniera tale da evitare che si producano fenomeni di scissione che oscillano tra la sovrattivazione e l’anestetizzazione.
E’ ingenuo, peraltro, pensare che un mondo umanizzato dall’empatia possa prodursi solo come effetto di una programmazione culturale. Esso postula il superamento dell’antropologia borghese, che appare profondamente radicata nella soggettività, e,da ultimo, della civiltà borghese.
Su questa conclusione, penso che Hoffman non sarebbe d’accordo, nonostante gran parte dei dati che egli fornisce la corroborano.