1.
Il costante arrovellarsi di Freud sui problemi teorici posti dai sintomi psicopatologici, il suo procedere ponendosi di continuo dubbi e cercando di risolverli, il cambiamento di ipotesi interpretative in corso d'opera e, soprattutto, la complicazione insorta con l'ammettere una pulsione di morte opposta e complementare a quella libidica, rappresentano gli elementi a partire dai quali la psicoanalisi si è venuta configurando come una disciplina il cui oggetto sono gli abissi della mente.
Ho scritto altrove che la mente è un apparato complesso che riconosce di sicuro modalità di funzionamento ancora oggi misteriose. I misteri in questione di fatto sono molteplici, ma paradossalmente non riguardano la psicopatologia, vale a dire quei fenomeni che, essendo espressione di conflitti psicodinamici, possono essere spiegati in maniera abbastanza semplice posto che si parta del presupposto per cui essi vanno ricondotti sempre e comunque all'interazione, reale e interiorizzata, tra l'Io e l'Altro. Posto, dunque, che si ammetta che l'evoluzione della personalità si struttura a partire da bisogni che tengono conto rispettivamente delle ragioni dell'Altro e delle ragioni dell'io, e che si riconosca nell'appartenenza sociale e nell'individuazione le motivazioni fondamentali dell'esperienza soggettiva.
Rifiutando di attribuire all'uomo un bisogno primario di socialità, Freud, nonostante la sua genialità, si è posto in condizione di non potere capire il senso ultimo e la chiave delle esperienze psicopatologiche, e di dovere di conseguenza avanzare ipotesi interpretative che, nel corso del tempo, sono divenute sempre meno credibili. Egli aveva coscienza di questa difficoltà, e ne aveva colte anche le ragioni. A pag. 273 scrive: "C'è quasi da vergognarsi che, dopo tanto lavoro, troviamo sempre nuove difficoltà nella comprensione dei fatti fondamentali che ci stanno di fronte; ma ci siamo proposti di non semplificare e di non nascondere nulla. Se non riusciamo a vedere chiaro, vogliamo quanto meno vedere con precisione quali sono le cose non chiare. Ciò che ci ostacola qui nel nostro procedere è evidentemente una mancanza di linearità nello sviluppo della nostra teoria delle pulsioni." Convinto però che la teoria pulsionale fosse non già un'ideologia, ma il prodotto empirico dell'esperienza analitica, quindi una teoria scientifica, egli non ha potuto fare a meno di utilizzarla sino alle estreme conseguenze.
La convinzione di Freud che la psicoanalisi fosse una scienza "positiva", depurata di implicazioni filosofiche, vale a dire corrispondente ai fatti, è attestato da un altro brano: "In generale, io non sono per la fabbricazione di concezioni del mondo. Si lasci pur questo ai filosofi, i quali dichiarano di non credere che si possa intraprendere il viaggio della vita senza un simile Baedeker, che dà inforazioni su tutto. Accogliamo umilmente la commiserazione con la quale i filosofi, dall'alto delle loro superiori esigenze, guardano in basso verso di noi. Dato però che neppure noi possiamo sconfessare il nostro orgoglio narcisistico, osserveremo a nostra consolazione che tutte queste "guide di vita" invecchiano presto, che il nostro piccolo lavoro, per quanto miope e limitato, è ciò che rende necessari i loro ammodernamenti, e che tutti questi Baedeker, anche i più moderni, altro non sono che tentativi di rimpiazzare il vecchio catechismo, così confortante nella sua completezza. Sappiamo bene quanta poca luce la scienza abbia saputo proiettare sin qui sull'enigma di questo mondo, e non c'è chiacchiera di filosofi che possa cambiare questa realtà; solo proseguendo pazientemente il lavoro indefesso che tutto subordina alla ricerca della certezza, si può produrre a poco a poco un mutamento" (pp. 245 - 246).
A questa rivendicazione orgogliosa di scientificità della psicoanalisi va opposto il fatto, ormai accettato da tutti gli studiosi, che, essendo essa una scienza dell'uomo, è impossibile che possa prescindere dall'ideologia del ricercatore, vale a dire alle idee che egli ha riguardo alla natura umana. Ora, per quanto Freud ritenga di averla ricavate dalla pratica della psicoanalisi, è sorprendente che la teoria delle pulsioni restauri, in pieno '900, i presupposti propri del più antico catechismo ebraico, secondo il quale, nonostante lo spirito infuso da Dio, l'uomo rimane un impasto di pulsioni animalesche.
2.
L'intento di Freud, nello scrivere Inibizione, sintomo e angoscia, è evidentemente quello di giungere ad una spiegazione definitiva dei sintomi psicopatologici alla luce delle "scoperte" della tripartizione delle funzioni psichiche (Es, Io, Super-Io) e del conflitto, intrinseco alla natura umana, tra Eros e Thanatos. In conseguenza di tali scoperte, il ruolo dell'Io si configura come drammatico. Derivato dall'interazione dell'Es con il mondo esterno, l'Io si trova letteralmente schiacciato tra le richieste pulsionali e le esigenze del mondo esterno. Data l'incompatibilità sostanziale tra le une e le altre, esso deve trovare un punto di equilibrio peraltro sempre precario. Se il conflitto tra Es e Super-Io s'incrementa, si definisce il pericolo di un cedimento alle spinte pulsionali associato ad un'inesorabile rappresaglia sociale. E' questo fantasma che mantiene l'Io in uno stato costante di allarme e lo obbliga ad adottare delle difese.
In precedenza, Freud ha sostenuto l'ipotesi che "la rappresentanza pulsionale sia deformata, spostata, ecc. dalla rimozione, e che la libido del moto pulsionale si trasformi in angoscia" (p. 258). Ora egli è ancora convinto che "il sintomo sarebbe segno e sostituto di un soddisfacimento pulsionale che è mancato, sarebbe un risultato del processo di rimozione" (p. 241). La rimozione è però un processo di difesa dell'Io: "L'Io ritira l'investimento (preconscio) dalla rappresentanza pulsionale da rimuovere, e lo impiega per sprigionare dispiacere (angoscia)" (p. 242). Dunque, l'Io è la vera e propria sede dell'angoscia.
Da quale pericolo deve difendersi l'io nevrotico al prezzo dell'angoscia? L'analisi delle fobie, dell'isteria di conversione e della nevrosi ossessiva, pone di fronte al fatto che "in tutte e tre l'esito è la distruzione del complesso edipico, in tutte e tre noi riteniamo che la paura dell'evirazione sia ciò che muove l'Io a lottare" (p.271). La paura dell'evirazione è una paura punitiva, vale a dire una paura prodotta dal Super-Io: "ciò che l'Io considera come un pericolo e a cui risponde col segnale d'angoscia è l'ira, la punizione del Super-Io, la perdita d'amore da parte di questo. Ultima metamorfosi di tale angoscia di fronte al Super-Io mi è sembrata l'angoscia di fronte alla morte (o di fronte alla vita), l'angoscia di fronte alla proiezione del Super-Io nelle forze del destino" (p. 287).
Se questo è vero, l'angoscia non è un sintomo della nevrosi, bensì la matrice di ogni sintomo: "i sintomi vengono prodotti per sottrarre l'Io alla situazione di pericolo" (p. 292); "la formazione sintomatica ottiene dunque il risultato di sospendere la situazione di pericolo. Essa ha due asppetti: uno, che ci rimane celato, produce nell'Es il mutamento a mezzo del quale l'Io viene sottratto al pericolo; l'altro, a noi rivolto, ci mostra ciò che è stato prodotto in luogo del processo pulsionale influenzato: la formazione sostitutiva" (p. 292).
L'angoscia, in virtù della quale l'io si difende dalla paura della punizione superegoica adootando la rimozione e altri meccanismi di difesa (tra i quali "il rendere non avvenuto e l'isolare" p. 268), non è un sintomo della nevrosi bensì la matrice di tutti i sintomi la cui comparsa attesta appunto un conflitto inconscio ma del tutto attivo tra l'Es e il Super-Io, e la prevalenza dinamica del Super-Io, che non può mai giungere a debellare definitivamente le pulsioni ma, facendo incombere sull'Io il pericolo della punizione, riesce a tenerle a freno.
Le numerose aggiunte al testo, riportate nel capitolo 11, provano che Freud non è del tutto soddisfatto degli esiti cui è pervenuto.
3.
L'insoddisfazione non è priva di fondamento. L'intuizione secondo la quale l'angoscia, espressione di un conflitto psicodinamico strutturale, è la matrice di ogni forma di disagio psichico e si esprime attraverso ogni sintomo, è un'intuizione straordinaria, che basta da sola a fondare una nuova psichiatria unificata dal riconoscere nell'ambito psicopatologico la prova della drammaticità dell'esperienza soggettiva. Tale intuizione viene esaltata dal fatto che l'angoscia attesta il primato dinamico del Super-Io, vale a dire del sociale interiorizzato. Nello stesso tempo, essa viene mortificata nella misura in cui tale primato viene ricondotto ad una paura la cui intensità e il cui contenuto (l'evirazione) rivelerebbe le sue origini infantili.
L'insoddisfazione di Freud è confermata dal fatto che egli prende in considerazione la possibilità che l'angoscia riconosca, come sua matrice primaria, il trauma della nascita, un evento - ipotizzato da Otto Rank - che precede le vicissitudini pulsionali e l'interiorizzazione del Super-Io. Di fatto, l'ipotesi è insostenibile, ma essa comporta un'intuizione alla quale sarebbe difficile non dare credito.
Le grandi paure che sottendono l'angoscia sono, infatti, il morire, l'impazzire e il perdere il controllo sul comportamento. Il dato in comune tra queste paure è l'esclusione e la separazione definitiva dal contesto sociale (tomba, manicomio, carcere). Posto che l'angoscia si attiva in rapporto ad un conflitto più o meno consapevole tra l'Io e il mondo sociale, è arduo non riconoscere nel suo contenuto costante (l'esclusione sociale) un aspetto che riconduce immediatamente ad un bisogno primario di relazione con l'altro. Ricondurre questo bisogno, come fa Freud, all'originaria condizione infantile d'impotenza e di dipendenza, serve solo a negare che esso è costitutivo della natura umana, e si perpetua vita natural durante.
L'angoscia riconosce dunque la sua matrice nelle vicissitudini del rapporto interiore tra l'io e l'Altro.