Morris N. Eagle - La psicoanalisi contemporanea

Laterza, Bari 1988

1.

L’excursus sulla storia della psicoanalisi ha posto in luce il problema centrale che ha impedito sinora di costruire un modello psicoanalitico sufficientemente integrato, coerente e scientificamente valido (o quantomeno proponibile). Tale problema riguarda la natura umana e verte sull’accettazione o sul rifiuto della teoria delle pulsioni freudiana.

Il libro di Eagle affronta questo problema, sulla base del presupposto per cui “gran parte del lavoro psicoanalitico, anche se non sempre è presentato in questa luce, costituisce in realtà per certi aspetti importanti una revisione radicale della teoria psicanalitica tradizionale “ (p. 3), impostandolo in maniera esemplare nel primo capitolo.

Secondo Freud, il corredo pulsionale umano riconosce come sua unica legge il principio del piacere, vale a dire la tendenza alla scarica dell’eccitazione. Solo urtando contro la frustrazione opposta dalla realtà fisica e da quella sociale, l’uomo è costretto a superare quello che Freud chiama l’odio primario per gli oggetti e ad andare alla loro ricerca per ottenerne una gratificazione delle pulsioni. La pulsione dunque è il nocciolo primario, biologico della personalità, mentre ciò che è interpersonale e sociale è considerato un aspetto secondario, derivato e successivo della personalità. La relazione con il mondo esterno è una costrizione cui l’uomo deve piegarsi, fermo restando che l’interesse per gli oggetti e il nostro rapporto con essi continuano ad essere direttamente o indirettamente collegati al loro impiego e alla loro importanza per la gratificazione delle pulsioni.

Ciò significa, né più né meno, che la natura umana ha un carattere “animalesco”, in sé e per sé asociale e amorale, che solo l’urto contro la realtà esterna, vale a dire la frustrazione, canalizza coercitivamente operando il passaggio dal principio del piacere al principio di realtà. La civilizzazione, dunque, si sovrappone al bagaglio pulsionale, con il quale però deve fare i conti vita natural durante.

Freud insiste, in tutte le sue opere, a ribadire che la teoria delle pulsioni è comprovata inconfutabilmente dall’esperienza analitica, quando essa raggiunge un certo livello di profondità. Egli commette un errore metodologico di fondo: quello di dare per scontato che una struttura di personalità adulta, qual era quella dei suoi pazienti, contenesse nel suo intimo gli indizi della natura umana.

Eagle rileva che gli studi etologici e quelli sulle prime fasi di sviluppo neonatale invalidano la teoria delle pulsioni. Gli studi di Harlow sulle scimmie, infatti, hanno posto in luce l’importanza di un bisogno di contatto che non è riducibile all’istinto alimentare. Essi suggeriscono “che il neonato è geneticamente predisposto ad attaccarsi a un’entità con determinate caratteristiche, la principale delle quali è la capacità di fornire “benessere da contatto”. E’ probabile che questo bisogno precoce di benessere da contatto e questa predisposizione ad attaccarsi a chi è in grado di fornirlo costituisca la base, e sia precorritore di un successivo contatto e di un bisogno di relazioni oggettuali che divengono di natura sempre più psicologica… In breve, esiste una base genetica autonoma dello sviluppo dell’attaccamento e delle relazioni oggettuali” (p. 11). Che questo bisogno di contatto, relativamente indipendente dalle pulsioni della fame, del sesso e dell’aggressività, esista anche nel neonato umano, è comprovato da una serie di studi e di ricerche culminate nell’opera monumentale di Bowlby sull’attaccamento e sulla separazione dalla madre. Al di là del bisogno di contatto, è inoltre ormai comunemente accettato che “il neonato è un organismo alla ricerca di stimoli, e che la sua preferenza selettiva per talune configurazioni di stimoli è una tendenza autonoma, innata, naturale, che compare alla nascita o subito dopo la nascita” (p. 15).

L’opposizione tra teoria pulsionale e teoria oggettuale è dunque netta. La psicoanalisi contemporanea, nella ricostruzione che ne dà Eagle, si sviluppa a partire  da questo problema, secondo uno spettro che va dal tentativo di conservare la teoria tradizionale integrandola con il riconoscimento dell’importanza delle relazioni oggettuali all’estremo di costruire una psicologia psicoanalitica dell’Io del tutto affrancata dal riferimento alle pulsioni.

Per illustrare questo spettro, Eagle analizza criticamente il pensiero di Margaret Mahler, Modell, Kohut, Fairbairn G. S. Klein e del gruppo del Mt. Zion di S. Francisco (Weiss, Sampson e collaboratori). Non è possibile qui ripercorrere le tracce di queste analisi se non per sommi capi.

2.

M. Mahler muove dal presupposto che “la nascita biologica del bambino e la nascita psicologica dell’individuo non coincidono nel tempo” (p. 21). La nascita biologica separa l’organismo neonatale da quello materno, mentre psicologicamente inaugura una fase di autismo normale e di fusione simbiotica con la madre destinata a risolversi in virtù di un processo di separazione-individuazione che, intorno al terzo anno, attraverso quattro sottofasi (differenziazione, sperimentazione, riavvicinamento e consolidamento dell’identità individuale) dà luogo alla definizione di un’identità individuale.  Se il processo di separazione-individuazione è la dimensione principale dello sviluppo psicologico, il ruolo primario del sistema di attaccamento e il ruolo secondario delle pulsioni sessuali e aggressive diventano ovvi, nonostante la Mahler operi un tentativo di far rientrare a forza le relazioni oggettuali e il Sé nella teoria delle pulsioni. Ma questo  tentativo “spesso sfocia in una patente goffaggine e talvolta – va detto – in un gergo quasi incoerente” (p. 27). Nonostante questo, secondo Eagle, le formulazioni della Mahler “rappresentano un contributo reale alla teoria psicoanalitica della psicopatologia e dello sviluppo della personalità” (p. 28).

Modell opera un tentativo di integrare la teoria delle pulsioni e la teoria delle relazioni oggettuali ipotizzando che esistano due diverse classi di pulsioni. Per quanto riguarda le pulsioni delle relazioni oggettuali, che sono pulsioni dell’Io associate alle relazioni oggettuali stesse, Esse “differiscono dalle pulsioni dell’Es freudiano in quanto sono più tranquille, non possono essere facilmente attribuite ad una fonte fisiologica, e il modo migliore per caratterizzarle è tramite processo e interazione piuttosto che tramite scarica; inoltre sono gratificate da stimoli che non nascono dall’interno dell’orhganismo ma derivano dall’ambiente, nel quale una presentazione di risposte specifiche da parte delle altre persone costituisce la gratificazione” (p. 31). Il modello bifattoriale di Modell non appare però coerente: “La logica centrale del modello Io-Es si basa sull’opposizione tra pulsioni biologiche da una parte, e strutture di verifica della realtà e di controllo dall’altra. E certo le cosiddette pulsioni delle relazioni oggettuali non sono meno biologiche delle tradizionali pulsioni dell’Es. Come si può affermare di attenersi al modello fondamentale Es-Io quando si parla di pulsioni connesse all’Io?” (p. 32).

Il pensiero di Kohut, che si può ritenere “la più grossa sfida di recente posta al modello psicoanalitico tradizionale dell’Es-Io” (p. 37),  riconosce due diverse fasi. Nella prima, bifattoriale, Kohut cerca di completare la teoria tradizionale con una psicologia del Sé, nella seconda una psicologia del Sé onnicomprensiva sostituisce di fatto il modello psicoanalitico dell’Es-Io. Si tratta di uno sviluppo logico tenendo conto che “il principale punto di distacco teorico di Kohut dalla teoria tradizionale è dato dalla sua affermazione di una linea di sviluppo narcisistica autonoma, indipendente dallo sviluppo psicosessuale e dell’Io, e precedente rispetto ad esso. Kohut ha posto l’accento soprattutto sul raggiungimento e lo sviluppo di un Sé coesivo [affermando] che questo aspetto e questa dimensione della crescita psicologica, che egli chiama linea di sviluppo narcisistico, è centrale” (p. 38).

La linea di sviluppo narcisistico passa attraverso alcune fasi: la prima “è quella dell’autoerotismo, nella quale esistono solo un Sé frammentato e dei nuclei del Sé. Successivamente, “la reazione esultante della madre al bambino considerato nella sua totalità […] sostiene, nella fase appropriata, l’evoluzione dall’autoerotismo al narcisismo – dallo stadio del Sé frammentato […] allo stadio del Sé coesivo. In qualche punto lungo la linea dello sviluppo, la perfezione assoluta che si considera essere esperita dal neonato… è scossa dalle inevitabili carenze delle cure materne. Tuttavia, l’”equilibrio del narcisismo primario e del bambino è ora mantenuto grazie allo sviluppo di un Sé grandioso es esibizionista e “trasferendo la perfezione precedente ad un oggetto-Sé ammirato e onnipotente (transizionale): l’imago parentale idealizzata… Nello sviluppo normale, soprattutto attraverso il rispecchiamento empatico e la possibilità di idealizzazione genitoriale, questa grandiosità e questo esibizionismo arcaici vengono depotenziati, modulati e trasformati in un “sano narcisismo”, quale si manifesta in un Sé coesivo, in un’adeguata regolazione dell’autostima e nello sviluppo di ambizioni, valori e ideali” (p. 39).

Questi concetti sono centrali in tutta l’opera di Kohut, ma mentre nel suo primo lavoro del 1971 egli presenta “il proprio concetto di Sé come componente dell’Io, nella sua opera successiva (1977) il Sé è presentato come una struttura di ordine superiore, con pulsioni e difese come componenti di ordine inferiore. Così, secondo Kohut, né le fissazioni delle pulsioni né le carenze dell’io sono primarie. Piuttosto, “è il Sé del bambino che […] non si è stabilito in modo saldo, ed è il Sé indebolito e tendente alla frammentazione che […] si volge difensivamente a mete di piacere, attraverso la stimolazione di zone erogene; e poi secondariamente determina l’orientamento pulsionale orale e anale e l’asservimento dell’Io alle mete puslionali correlate alle zone corporee stimolate”” (p. 40).

Lo schema bifattoriale di Kohut ha delle profonde implicanze sul piano della psicopatologia: infatti, “mentre soggetti con disturbi del Sé tenderanno a lottare prevalentemente con temi quali l’autostima, le fantasie di fusione con oggetti-Sé onnipotenti, l’angoscia di disintegrazione, la grandiosità e l’esibizionismo, l’incapacità di sviluppare valori interiorizzati, il senso di isolamento e il vuoto, la pseudo-autosufficienza e la rabbia distruttiva a seguito di ferite al narcisismo, i pazienti nevrotici dovranno probabilmente lottare con temi quali i conflitti relativi a impulsi sessuali e aggressivi, il senso di colpa, l’angoscia di castrazione, un eccessivo coinvolgimento con immagini genitoriali che interferisce col conseguimento della vicinanza nei rapporti attuali, l’incapacità di raggiungere l’appagamento sessuale e la paura di imporsi e di avere successo” (p. 44).

In altri termini, per Kohut “una psicologia del Sé è intesa come applicabile ai primi periodi dello sviluppo, mentre la teoria psicoanalitica tradizionale è relegata a periodi successivi dello sviluppo stesso” (p. 44).

La bifattorialità della teoria di Kohut viene meno se si considera che egli afferma “che sono proprio i disturbi del Sé ad essere oggi diffusi per via di presyìunti cambiamenti nella struttura familiare e nell’interazione genitori-figli. Ne consegue che il paziente-tipo di oggi soffre probabilmente di una patologia del Sé e che non bisogna aspettarsi di trovare troppi pazienti i cui problemi siano capiti o meglio affrontati attraverso la teoria tradizionale. La teoria bifattoriale e lo schema di suddivisione [delle patologie] equivalgono allora… ad offrire uno schema di suddivisione nel quale a un compartimento è assegnato un valore quasi zero” (p. 46).

Due critiche demolitive, che Eagle riferisce senza remore, rivelano la scarsa solidità scientifica dell’edificio di Kohut. La prima verte sul fatto che tutte le caratterizzazioni psicoanalitiche dell’infanzia cui egli fa riferimento “-narcisismo primario, onnipotenza e… perfezione assoluta – sono “adultomorfe”, nel senso che implicano degli standard adulti. Se un adulto si comportasse come fa un neonato normale, lo si potrebbe considerare narcisista o convinto della propria onnipotenza o perfezione assoluta. Ma il neonato si comporta come si comporta perché. Stanti le sue capacità di funzionamento, non esiste altro modo possibile. Riguardo poi alle esperienze soggettive, come si può ipotizzare che il neonato esperisca un’onnipotenza o una perfezione assoluta o una grandiosità incentrata su sé? Tali attribuzioni appaiono chiaramente intrusione arbitrarie e proiezioni adulte” (p. 56).

La seconda critica muove dal fatto che “negli scritti di Kohut (ia particolare nel suo concetto di sano narcisismo) è implicito che, in qualche modo, ogni comportamento sia al servizio del mantenimento e del miglioramento del Sé” (p. 62). La conseguenza “è che, così come la teoria freudiana delle pulsioni lascia poco o nessuno spazio alle attività autonime dell’Io, allo stesso modo il sistema di Kohut lascia poco o nessuno spazio alle attività autonome dirette verso l’oggetto, relativamente indipendenti da motivazioni di mantenimento e miglioramento del Sé” (id.).

L’opera di Fairbairn è caratterizzata da un netto rifiuto della teoria freudiana delle pulsioni, che viene sostituita con una teoria esaustiva delle relazioni oggettuali. Due affermazioni fondamentali dell’autore, che Eagle cita, sono le seguenti: “il principio conclusivo da cui è derivato il complesso delle mie vedute personali può essere formulato nella proposizione generale che la libido non è primariamente una ricerca di piacere, ma una ricerca di oggetto”; “in base alla concezione che sono ora giunto ad adottare, si può dire che la psicologia si risolva in uno studio delle relazioni dell’individuo con i suoi oggetti, mentre, in termini analoghi, si può dire che la psicopatologia si risolva in uno studio delle relazioni dell’Io con i suoi oggetti interiorizzati” (p. 83). In pratica, “nella teoria di Fairbairn non vi è alcun Es dal quale l’Io sia primariamente o secondariamente autonomo. Ci sono solo strutture dell’Io con i loro obiettivi e i loro impulsi dinamici, L’autonomia dell’Io non è condizionata, ma totale. Nel sistema di Fairbairn lo sviluppo dell’Io e lo sviluppo della personalità in generale sono considerati non in termini di vicissitudini delle pulsioni o di apparati dell’Io, ma come movimento della persona da un primo stato di dipendenza infantile, basato sull’identificazione primaria con l’oggetto, a uno stato di dipendenza matura basato sulla differenziazione del Sé dall’oggetto” (p. 84). In questo processo di differenziazione il ruolo degli oggetti interiorizzati è fondamentale. Purtroppo, però, come rileva Eagle,  questo concetto in Fairbairn rimane oscuro e contraddittorio: “la letteratura analitica sui processi di interiorizzazione – che comprendono l’incorporazione, l’introiezione e l’identificazione – è ampia e, per lo più, fonte di confusione ed essa stessa confusa. Il concetto fairbairniano di oggetto interiorizzato sembra appartenere a questa tradizione” (p. 87). Il nodo fondamentale è che “ciò che Fairbairn intende con il termine di oggetto interiorizzato… è l’idea che ciò che è incamerato non è pienamente integrato nell’organizzazione del Sé” e che l’integrazione postula un processo di assimilazione che può avvenire o non avvenire. In questo secondo caso, l’oggetto interiorizzato rimane nella personalità come una sorta di corpo estraneo. Questo spunto di riflessione è suggestivo, ma implic almeno un presupposto errato: “Ipotizzando l’esistenza di un’entità quale la originaria struttura egoica unitaria, Fairbairn suggerisce che nasciamo integri, e che sono solo il rifiuto, la deprivazione e la frustrazione (e le nostre reazioni difensive) a disintegrarci. Ma qui egli non sembra distinguere tra integrità intrinseca nella mancanza di differenziaione… e integrità che emerge dalla differenziazione e l’integrazione di vari apsetti differenziati di una struttura. Può darsi che la maggior parte di noi sia nata con un potenziale di integrazione. Ma l’integrità vera  e propria è una conquista progressiva che richiede tutta la vita” (p. 92).

G. S. Klein, il cui tragitto di ricerca è stato troncato da una morte prematura, “ha essenzialmente riformulato la teoria psicoanalitica come teoria del Sé… L’elaborazione del concetto di obiettivi e il loro rapporto con il concetto di Sé costituiscono una parte importante del suo libro Psychoanalitic Theory. Secondo Klein, dal punto di vista psicoanalitico il modo più significativo di consiederare lo sviluppo e iul comportamento umano è di vederli come tentativi di una “costante risoluzione di obiettivi e tendenze incompatibili”” (p. 96). Questa idea non è certamente nuova, “ma ciò che è peculiare della concezione kleiniana è l’affermazione che la risoluzione di questa  incompatibilità è condizionata da un Sé coerente e integrato” (p. 96). In questa ottica, “il conflitto è considerato non un fenomeno che si verifica tra forze opposte, ma sempre in rapporto al concetto di Sé,,, L’io e l’Es sono definiti, rispettivamente, come esperienze e azioni proprie e collegate al Sé, e come esperienze che si verificano senza avere il Sé come centro… Fondamentale in tutte queste reintrepretazioni è l’immagine si una persona che cerca di difendere e di mantenere, nel modo migliore possibile e con qualsiasi mezzo disponibile, un Sé coerente e unitario” (p. 97).

La conseguenza psicopatologica più rilevante del sistema kleiniano consiste nel distinguere le patologie fondate sulla scissione da quelle fondate sulla rimozione: “La caratterizzazione della rimozione in termini di strutture cognitivo-affettive scisse, di dissociazione della struttura del Sé, di mancanza di comprensione e di incapacità di compiere collegamenti (piuttosto che come semplice incapacità di avere consapevolezza) aiuta a chiarire il rapporto tra rimozione e scissione. Ciò che è implicito nella rimozione è che sia presente una struttura predominante, relativamente stabile del Sé, dalla quale le strutture cognitivo-affettive possano essere scisse. E’ l’opzione aperta ad una persona che abbia un Sé relativamente coeso. All’opposto, nei fenomeni clinici descritti mediante la scissione, è presente in misura minore una struttura del Sé predominante, coesiva, dalla quale vengano scissi cognizioni e affetti. Vi è piuttosto, per così dire, un’alternanza di diverse strutture del Sé, senza che nessuna struttura costituisca un elemento determinante, decisivo e stabile dell’identità. E’ l’opzione aperta ad una persona che non ha ancora raggiunto una stabile struttura del Sé” (p. 101).

Con Klein il paradigma di fondo della teoria psicoanalitica cambia radicalmente. Esso infatti implica la possibilità di integrare una psicologia del Sé e una psicologia delle relazioni oggettuali con una psicologia del conflitto intrapsichico, eliminando del tutto il riferimento alle pulsioni. Il problema, che Eagle non rileva, è che lo sviluppo del Sé in Klein non è illustrato in maniera sufficientemente credibile da un punto di vista scientifico. L’esistenza del Sé, insomma, è un assioma.

Il gruppo del Mt. Zion “rifiuta sia implicitamente che esplicitamente la teoria freudiana degli istinti e delle pulsioni. L’immagine fondamentale che della persona emerge non è quella di un soggetto impegnato prevalentemente nella ricerca diretta e indiretta della gratificazione istintuale, ma quella di una persona che cerca di padroneggiare i conflitti, le angosce e le convinzioni distruttive che la fanno soffrire e ne limitano la soddisfazione, la produttività e la consapevolezza” (p. 111). Il rifiuto della teoria pulsionale e il rilievo del desiderio inconscio di guarire del paziente hanno un’immediata conseguenza terapeutica: “Secondo la teoria tradizionale, la terapia deve indurre il paziente “a fare ciò che non vuole fare –vale a dire abbandonare le gratificazioni infantili”. All’opposto, secondo il modello del Mt. Zion “il terapeuta può aiutare il paziente permettendogli di fare ciò che inconsciamente vuole fare –vale aidre cambiare le proprie convinzioni patogeniche e superare le sensazioni di paura, angosce e senso di colpa che ne derivano” (p. 107). L’obiettivo della terapia è dunque quello di permettere al paziente di padroneggiare i propri conflitti, vale a dire “l’eliminazione della connotazione di pericolo da ciò che l’Io ha erroneamente considerato pericoloso” (p. 111).

E’ evidente che, nell’ottica del Mt. Zion, la psicoanalisi rimuove la teoria pulsionale e integra il suo paradigma con il cognitivismo.

3.

La seconda e la terza parte del libro rappresentano una serie di considerazioni critiche di ordine teorico, metodologico e terapeutico di Eagle. Si tratta di una parte piuttosto prolissa dalla quale si possono ricavare solo tre nuclei concettuali di una qualche importanza.

Il primo riguarda la definitiva invalidazione della teoria pulsionale freudiana a favore di quella incentrata sulle relazioni oggettuali. In questa ottica, l’unica possibilità di salvaguardare il concetto di Es consiste nell’interpretarlo “come riferito a qualsiasi insieme di obiettivi e desideri non riconosciuti e pertanto resi un id impersonale” (p. 224). In altri termini, esisterebbero “alcune esigenze e tendenze universali e vitali a base biologica (il modo migliore per concepire le quali non è considerarle pulsioni istintuali) che hanno bisogno di essere rappresentate e trasformate in obiettivi e desideri personali. Queste esigenze e tendenze comprendono l’esperienza sessuale e sensuale, l’attaccamento, la ricerca dell’oggetto e il bisogno e la propensione alle relazioni oggettuali, ivi compreso il bisogno di comunione e le esperienze di integrità del Sé e di autostima. Nello sviluppo ottimale, rappresentazione e trasformazione riescono, nella patologia no” (p. 226). Una conseguenza di questo modo di vedere è che, anziché partire dall’ipotesi che solo l’irrazionale e l’infantile costituiscano il rimosso, “si deve invece considerare l’idea alternativa che ciò che è rimosso diventa e/o rimane infantile e asociale:” (p. 226).

Il secondo nucleo riguarda la crescente importanza che hanno assunto nell’analisi contemporanea i temi dell’individuazione e dell’autodifferenziazione: “Un tema saliente che emerge chiaramente nell’opera della Mahler, di Kohut e di Fairbairn è che la dimensione centrale dello sviluppo psicologico è il passaggio da uno stato di completa dipendenza e di relativa mancanza di differenziazione tra sé e l’altro a una sempre maggiore definizione del Sé e a una sempre maggiore autonomia” (p. 202). In effetti, “nell’essere umano lo sviluppo psicologico non sarebbe completo senza lo sviluppo del senso della propria identità e senza lo sviluppo della capacità di generare programmi, intenzioni, obiettivi e progetti che abbiano inizio nel Sé… In breve, il passaggio dalla dipendenza simbiotica all’individuazione e all’autonomia è, al di sopra di un certo livello filogenetico, un fattore universale” (p. 204). Ora, “se lo sviluppo dell’individuazione, dell’autonomia e del senso del Sé è un elemento universale, è legittimo interrogarsi sulle ragioni di quella che appare un’accresciuta patologia in questo campo generale” (p. 204). Il problema è che se la crescita della patologia del Sé sembra implicare l’esistenza di fattori socioculturali, “le spiegazioni psicoanalitiche tendono invece a ridurre il socio-culturale a livello delle pratiche e dell’influenza dell’educazione del bambino” (p. 204).

Il terzo nucleo concerne le motivazioni che sottendono il comportamento umano. Posto che le pulsioni (sessuale e aggressiva) non possono più essere assunte come motivazioni univoche e neppure prevalenti, il rischio legato alle teorie delle relazioni oggettuali è che l’integrità e l’unità del Sé giungano a configurarsi come una motivazione di ordine superiore onnicomprensiva, ovvero come una nuova versione rispetto a quella freudiana della realtà motivazionale di base soggiacente a una vasta gamma di comportamenti. Scrive Eagle: “Una cosa è asserire che alla base di tutte le nostre esperienze e motivazioni diverse vi sono alcuni processi di base causali (o quasi-causali), altra cosa è sostenere che alla base di tutte le nostre esperienze e motivazioni diverse vi è una motivazione di ordine superiore, verso la coesività o la realizzazione del Sé o qualsiasi altra cosa. La prima posizione lascia intatte le diverse esperienze e motivazioni. La seconda, dato che la motivazione di ordine superiore è ritenuta essere allo stesso livello di discorso delle esperienze e motivazioni concrete, sostituisce l’una alle altre, e pertanto fa violenza a – e comporta una trasformazione di – ciò che in realtà esperiamo e desideriamo” (p. 219).

4.

Nell’Introduzione alla storia della psicoanalisi, ho già scritto che, tranne per alcuni saggi che si contano sulle dita di due mani, i testi psicoanalitici sono noiosi e pretenziosi. A chi non ha una preparazione scientifica, essi, densi come sono di vissuti nei quali ogni soggetto può riconoscere qualcosa di sé, possono apparire suggestivi se non addirittura affascinanti. A chi ha viceversa una preparazione scientifica, essi sembrano semplicemente un collage di osservazioni più o meno profonde, di punti di vista, di opinioni personali, di interpretazioni arbitrarie, al limite di veri e propri pregiudizi. Se ciò vale per i Maestri, per quanto riguarda gli epigoni è ancora peggio. Ad eccezione forse della Mahler, tutti gli autori citati da Eagle sono pressoché insopportabili. Ad essi va sicuramente il merito di avere sormontato la teoria pulsionale freudiana in nome del riconoscimento del fatto che l’uomo non può non essere animato da un interesse primario per il mondo esterno, e in particolare per l’altro, il simile. Ma non si tratta di una rivoluzione copernicana perché già Darwin, ne L’origine dell’uomo, prima di Freud, aveva manifestato la sua viva sorpresa per il fatto che qualcuno negasse che l’uomo, discendente da specie animali sociali, potesse essere sprovvisto di un istinto sociale. Si tratta insomma semplicemente della correzione di un errore macroscopico di Freud, sicuramente influenzato dalla sua ideologia e dalla sua cultura.

La teoria delle relazioni oggettuali non ha prodotto però alcuna metapsicologia, alcuna teoria dello sviluppo della personalità, alcun modello psicopatologico che si possano ritenere anche minimamente attendibili. La psicologia e la patologia del Sé sono mere costruzioni concettuali, nelle quali si riflette un abbaglio: quello per cui l’individuo contemporaneo occidentale, scosso in tutte le sue certezze, si rifugia nel narcisismo (normale e patologico) per tentare di restaurare l’unità che proprio la psicoanalisi freudiana ha compromesso. Il Sé coesivo, nel quale essi vedono l’obiettivo motivazionale di ogni soggetto umano,che, se raggiunto, definisce la normalità e, se fallito, definisce la patologia, è e non può essere che un falso Sé. Un Io maturo e adulto non si dà che in nome della consapevolezza piena di essere fatto di parti diverse, in una qualche misura in contraddizione tra loro.

Certo, lo spostamento dell’attenzione dalle vicissitudini pulsionali al processo di differenziazione e individuazione, e il cogliere in questo l’aspetto centrale dello sviluppo della personalità, si può ritenere un progresso. Ma tale progresso può essere riferito solo alla storia della psicoanalisi, vale a dire al misconoscimento da parte di Freud di una qualunque motivazione autonoma sottostante il processo stesso.

Insomma, intendo dire che, nonostante la scoperta dell’inconscio, una delle più prodigiose nella storia della cultura, la psicoanalisi nel suo complesso, compresi i suoi sviluppi più recenti, è una ben misera scienza o, per dire meglio, non ha assunto uno statuto minimamente scientifico.

I motivi di questa miseria epistemologica, metodologica e teorica sono molteplici. Il più rilevante in assoluto, ben documentato nel libro di Eagle, e persistente nonostante il cambiamento paradigmatico, è l’ostinata volontà degli psicoanalisti di insistere sul significato fondamentale, ai fini dello sviluppo normale o patologico della personalità, dei primissimi anni di vita e della relazione madre-bambino. Tale tendenza si è addirittura incrementata con l’entrata in campo dei teorici delle relazioni oggettuali. Si tratta di un vicolo cieco epistemologico, che Eagle onestamente rileva “Il fatto è che disponiamo di un numero estremamente scarso di prove affidabili sugli effetti generali delle prime esperienze sullo sviluppo successivo, o che indichino che le prime esperienze hanno un ruolo determinante o irreversibile nella formazione della personalità; ancora più scarse sono le prove sugli effetti di fattori specifici come la mancanza di rispecchiamento empatico. E’ perlomeno possibile che la convinzione che le prime esperienze abbiano un ruolo particolare sia parzialmente errata. Siccome si tratta di una convinzione fortemente radicata… è probabile che i dati clinici risecchino questa credenza, piuttosto che fornirle una conferma significativa. Quando si esaminano in modo sistematico i dati, traendoli da studi ben progettati, non si riscontrano molte prove nette a sostegno di questa convinzione” (p. 169).

Ora tutti i sistemi analizzati da Eagle si fondano sulla pretesa dei teorici di sapere con estrema precisione quello che avviene nella mente del bambino dalla nascita sino a tre anni; tutti si edificano sulla base di tale pretesa. Non ci vuole molto a capire perché nessuno di essi possa essere accreditato di un grado minimo di scientificità.

La rifondazione della psicoanalisi può avvenire, a mio avviso, solo: primo, assumendo tutta la fase evolutiva, da zero anni alla fine dell’adolescenza, come ugualmente importante per la strutturazione della personalità nei suoi aspetti sia inconsci che consci, e attribuendo un’importanza massima non alle prime fasi dello sviluppo, bensì alla crisi adolescenziale; secondo, definendo i programmi di base psicobiologici che sottendono l’evoluzione e la strutturazione della personalità; terzo, definendo in maniera sufficientemente precisa l’interazione tra tali programmi e l’ambiente socioculturale; quarto, delineando una teoria del conflitto psicopatologico che abbia un rilievo strutturale, vale a dire che ponga in luce le parti costantemente, anche se variamente, in conflitto, e ne illustri il significato.

Con la teoria struttural-dialettica ho cercato, per l’appunto, di procedere in tale direzione.

Settembre 2005